Un ddl costituzionale che modifica la maggioranza richiesta per amnistia e indulto di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2016 È intitolato a Marco Pannella, il leader radicale scomparso nei giorni scorsi, il ddl costituzionale che vuole modificare l’articolo 79 della Costituzione con l’obiettivo di abbassare il tetto necessario a far approvare dalle Camere l’amnistia e l’indulto, attualmente fissato nella maggioranza dei due terzi del Parlamento. Il testo, presentato dal senatore Luigi Manconi (Pd), ha già raccolto consensi trasversali, da membri della maggioranza e delle opposizioni. Il testo, nelle intenzioni del senatore Manconi, vuole essere un omaggio al leader radicale, scomparso nei giorni scorsi che è stato ricordato nel corso dell’incontro, e alla sua battaglia in favore delle carceri. "Presentiamo un ddl costituzionale di riforma dell’articolo 79 della Carta, già modificato, in piena Tangentopoli per elevare il quorum necessario a far passare amnistia e indulto - ha spiegato il senatore Manconi - per ripristinare la maggioranza assoluta. Allora si voleva rendere questo strumento di clemenza più difficilmente approvabile. Lo scopo è stato raggiunto perché a oggi è passato solo l’indulto del 2006". E questo, ha spiegato il senatore del Pd, ricordando la situazione di emergenza delle carceri, è un fatto "assolutamente negativo perché ha sottratto questi provvedimenti alla loro principale destinazione: essere strumento di politica di diritto destinato a ridurre in modo significativo la presenza nelle carceri e l’accumulo delle cause pendenti". Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 30 aprile 2016, nelle carceri italiane in totale ci sono 53.725 detenuti, di cui 2.213 donne. Gli stranieri presenti sono 18.074. In semilibertà ci sono 763 detenuti, di cui 76 stranieri. L’ppello di Rita Bernardini: l’amnistia serve allo Stato. Il testo, fra gli altri, è stato sottoscritto da Altero Matteoli (Fi), Luigi Compagna (Cor), Riccardo Mazzoni (Ala), Peppe De Cristofaro (Si), Sergio Lo Giudice (Pd). Tra i dirigenti radicali presenti, Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Riccardo Magi. Rita Bernardini ha lanciato un appello affinché non ci si fermi a questa proposta di legge, perché Pannella "non si è mai soffermato sulla questione del quorum". L’importante, ha specificato che sia "hic et nunc", come il leader radicale amava ripetere. "Non deve rimanere - ha detto Bernardini - un atto depositato alla memoria: l’amnistia serve alla Repubblica per rientrare nella legalità". Nuovo indulto, il ddl Pannella unisce i partiti Anna Maria Greco Il Giornale, 25 maggio 2016 Sono passati dieci anni dall’ultimo indulto e in parlamento emerge un’alleanza trasversale per abbassare la maggioranza dei due terzi del parlamento, necessaria a far approvare dalle Camere i provvedimenti di clemenza. È nel nome del leader radicale appena scomparso Marco Pannella che il disegno di legge costituzionale per tornare alla maggioranza assoluta viene presentato al Senato dal dem Luigi Manconi. L’hanno sottoscritto anche Luigi Compagna di Cor, Riccardo Mazzoni di Ala, Peppe De Cristofaro di Si, Sergio Lo Giudice, del Pd e Altero Matteoli di Fi. Ma ora sarà inviato a tutti i senatori per raccogliere quanti più consensi possibile. FdI si è già schierato contro. L’idea è quella di cancellare dall’articolo 79 della Costituzione la soglia introdotta nel 1992, in piena Tangentopoli, per rendere amnistie e indulti più difficili. Scelta allora comprensibile ma oggi "criticabile", per Manconi, che propone di riportare alla "normalità" queste due misure, importanti per diminuire l’accumulo delle cause e l’affollamento delle carceri. "Amnistia e indulto - spiega il senatore del Pd - sono senz’altro strumenti d’eccezione, ma io e i miei colleghi sottoscrittori del ddl riteniamo siano necessarie e preliminari alle altrettanto imprescindibili riforme". Quella per rivendicare i diritti dei detenuti legati a migliori condizioni negli istituti di pena è stata per molti anni e fino all’ultimo una delle battaglie di Pannella e alla presentazione del ddl che ha già preso il suo nome partecipano i dirigenti radicali Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Riccardo Magi. Anche gli avvocati penalisti entrano nel dibattito e il presidente Beniamino Migliucci dichiara che l’Ucpi è pronta a "riproporre e rilanciare" la richiesta di un’amnistia. Aggiunge, però, che si tratta di "un tema negletto, a cui la politica è sorda perché vive di consenso; tanto che neanche i richiami del Papa sono bastati". Nei prossimi giorni vedremo se il nome di Pannella riuscirà davvero a compiere il miracolo. Il ddl, sottolineano i sottoscrittori, è un modo per verificare se l’omaggio al leader radicale era solo ipocrisia. Manconi sfida il Pd: l’amnistia si può fare di Giulia Merlo Il Dubbio, 25 maggio 2016 La proposta di un disegno di legge costituzionale per abbassare il quorum. "Amnistia e indulto non sono figli di un dio minore di cui vergognarsi, ma strumenti previsti dalla Costituzione". Il senatore Luigi Manconi ha promosso un disegno di legge costituzionale per abbassare il quorum di approvazione dei provvedimenti di clemenza, "che devono essere legati a una maggioranza politica, che si assuma la responsabilità di approvarli e inserirli in un quadro di riforme più ampio. Il quorum dei due terzi, invece, li rende una sorta di misura apocalittica che richiede un compromesso generale". Amnistia e indulto, infatti, sono provvedimenti eccezionali che servono ad abbassare la febbre di un sistema giustizia sempre più in emergenza, per poi intervenire con gli strumenti ordinari e incidere sulle cause profonde del sovraffollamento carcerario. Il ddl è dedicato a Marco Pannella, che ha fatto dell’amnistia una sua battaglia politica. "La considero una messa alla prova del Parlamento: perchè le parole di stima pronunciate negli ultimi giorni si traducano in concreto appoggio a un disegno di legge che tocca temi a lui cari", ha detto Manconi. Amnistia e indulto non sono mezzi figli di un dio minore di cui vergognarsi, ma a tutti gli effetti strumenti offerti dalla Costituzione e fondamentali per il nostro ordinamento". Non usa mezze misure, il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, primo firmatario di un disegno di legge costituzionale simbolicamente dedicato a Marco Pannella per la modifica del quorum di approvazione di amnistia e indulto. Il ddl ha raccolto le firme bipartisan dei senatori Luigi Compagna (Ncd), Riccardo Mazzoni (Ala), Peppe De Cristofaro (Sel), Altiero Matteoli (Fi) e Sergio Lo Giudice (Pd) e modifica l’articolo 79 della Costituzione, riformandolo nella parte in cui prevede la maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera per l’approvazione, introducendo la maggioranza assoluta dei componenti. "Il testo attuale è il frutto di una riforma del 1992, prodotta sulla scia di Tangentopoli e con l’obiettivo di rendere i provvedimenti di clemenza più difficilmente approvabili, vista l’ampia maggioranza richiesta. Questo progetto ha funzionato, visto che, da allora, è stato approvato solo l’indulto del 2006. Una scelta nondimeno criticabile, perché ha sottratto le misure alla loro finalità d’essere strumento di politica criminale". Invece lei propone che indulto e amnistia ritornino ad avere valore politico. Io credo che un provvedimento di amnistia o indulto si debba legare a una maggioranza, perché si tratta di una scelta di politica del diritto. La maggioranza al governo lo adotta nella misura in cui lo ritiene utile, inserendolo in un quadro di riforme più ampio. Il quorum dei due terzi, invece, lo rende una sorta di misura apocalittica, ammantandolo di un valore di unità nazionale e che richiede il compromesso generale e il consenso di tutte le forze. Questa esigenza di far convergere tutte le parti politiche si dimostra negativa: si pensi al 2006, quando qualcuno denunciò che alcuni consensi derivavano dall’interesse di alcuni partiti a vedere indultati i reati commessi da alcuni loro appartenenti. Eppure, indulto e amnistia hanno carattere di provvedimenti eccezionali. Possono davvero essere la soluzione al sovraffollamento carcerario? Premetto che come sociologo ho promosso una ricerca scientifica sugli esiti dell’indulto del 2006: la recidiva tra i beneficiari fu del 34,1%. Elevata, certo, ma pur sempre la metà rispetto alla recidiva ordinaria di chi sconta per intero la pena, che si aggira attorno al 68%. Quell’indulto, che pure è stato vilipeso e disconosciuto dagli stessi parlamentari che lo hanno approvato, ha avuto un esito positivo, perché ha diminuito il sovraffollamento carcerario. Ovviamente l’effetto è durato per un periodo ridotto, che poi è il limite stesso della misura, e sono mancati stati interventi strutturali successivi, adeguati a consolidare la situazione. Quindi, misure singole di clemenza si dimostrano nei fatti addirittura utili a riaffermare la legalità, perché ripristinano condizioni umane di vivibilità alle nostre carceri e offrono al condannato una chance di ravvedimento. Insomma, amnistia e indulto non vanno considerati degli espedienti di cui vergognarsi ma strumenti costituzionalmente previsti. Il compito della politica è decidere con quale frequenza ricorrervi e come inserirli in riforme strutturali, che incidano sulle cause profonde del sovraffollamento. Ieri è iniziata la tre giorni di sciopero degli avvocati penalisti, che protestano proprio contro una riforma del sistema penale che considerano insufficiente e disorganica. È ovvio che la disorganizzazione del sistema giudiziario sia una delle cause delle condizioni disumane in cui versa il sistema penitenziario del nostro Paese. Penso all’alto numero dei detenuti nelle carceri perché sottoposti a custodia cautelare, alla lentezza esasperante dei processi e ai meccanismi di informatizzazione ancora insufficienti. Gli avvocati sono sicuramente i soggetti più sensibili al problema carcerario e percepiscono come la riforma del sistema penitenziario sia un campo ancora tutto da affrontare, nonostante quelle che io considero delle buone iniziative, promosse dal ministro Andrea Orlando e da chi lo ha preceduto, la ministra Annamaria Cancellieri. Il tema della giustizia torna sempre più insistentemente nelle aule del Parlamento. Come si inserisce questo disegno di legge costituzionale dedicato a Marco Pannella? Io lo considero una messa alla prova del Parlamento stesso, rispetto alle parole di stima unanimi, spese proprio in questi giorni per Pannella. Io spero che i miei colleghi vogliano ora manifestare concretamente questa stima, accogliendo e portando avanti quello che è stato il primo obiettivo della politica del leader radicale negli ultimi anni. Ma esiste negli orizzonti del Partito Democratico l’interesse a promuovere una legge di amnistia o indulto? Io sono solo un senatore e la decisione non spetta a me, ma certamente mi batterò perché la posizione del mio partito si avvicini alla mia personale. Considero l’indulto e l’amnistia dei mezzi eccezionali e necessari per ridurre la febbre del sistema, al fine di ripristinare la normalità e intervenire attraverso mezzi ordinari, con riforme di lungo periodo. Si tratta, però, di una posizione condivisa all’interno del Pd e, come me, molti miei colleghi ritengono che un provvedimento di clemenza sia importante, necessario e indifferibile. Dopo trent’anni sarà l’ora dell’amore? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2016 È in commissione Giustizia del Senato il ddl che istituisce gli "spazi per la cura degli affetti". Entro la prossima estate anche l’Italia si appresterà a rendere legale l’affettività in carcere. La burocrazia le chiama "spazi per la cura degli affetti", nella sostanza sono le "love rooms", ovvero le "stanze dell’amore". Saranno luoghi in cui il detenuto, uomo o donna, potrà riservarsi un po’ di intimità con il partner. La novità è contenuta in un ddl che affida al governo il compito di modificare il "codice penale e il codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché l’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena". La pratica per ora è in discussione in commissione Giustizia del Senato, ma sarà presto licenziata considerando che la legge è attesa da almeno trent’anni e l’Italia al momento è uno dei 16 Paesi su 47 dell’Ue a non essersi ancora espressa nel merito. La sessualità è un ciclo organico, un impulso fisiologicamente insopprimibile, un bisogno di vita; trattare di affetti in carcere e, molto di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. La sessualità costituisce l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti a non essere normativizzato, quasi che l’afflizione della privazione sessuale debba necessariamente accompagnare lo stato di detenzione. Carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili, perché se c’è qualcosa che nega la confidenza, la libertà di espressione dei sentimenti, questo è proprio il carcere. La questione poi, viene sollevata spesso con una domanda: è giusto concedere momenti di piacere a chi, con le sue azioni, ha causato dolore ad altri? A ciò si aggiunga la situazione reale delle carceri nel nostro Paese, caratterizzata dal cronico problema dell’edilizia carceraria, dal sovraffollamento, nonché dalla carenza di personale penitenziario. La moderna criminologia ha però dimostrato come incontri frequenti e intimi con le persone con le quali vi è un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel difficile percorso di recupero del reo. Diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative per garantire l’esercizio - in ambito carcerario - del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei. In particolare, in Canton Ticino, ad esempio, l’affettività può esprimersi attraverso una serie articolata di colloqui e incontri intimi per i detenuti, con la possibilità di trascorrere momenti d’intimità con i propri familiari o amici per sei ore consecutive in una casetta situata nella zona agricola del carcere: una zona immersa nel verde, non lontana dall’Istituto e protetta da una recinzione. In Italia mancano simili spazi e le proposte avanzate sono recepite con non poca resistenza, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di "stanze dell’affettività" in carcere, le hanno subito battezzate "stanze del sesso", "celle a luci rosse". Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un "diritto all’affettività" avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria. Il carcere, con il sesso negato, il tormento sessuale può essere "ammorbidito" approfittando della legge Gozzini e in particolare dei permessi per alcune categorie dei detenuti: chi può andar fuori rinvia la vita intera a quei giorni; altri li aspettano, fra tre o dieci anni. Basti pensare che la gran maggioranza dei detenuti è fatta di ragazzi, tossicodipendenti o stranieri. La corrispondenza amorosa dei carcerati (spesso fra detenuti e detenute) è il caso più commovente e malinconico di questo rincaro. "La miglior ragione per chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari - come disse Adriano Sofri in un suo vecchio articolo - è che nelle galere normali tutti i detenuti diventano pazzi". Nel frattempo non mancano le voci contrarie al disegno di legge per l’istituzione delle love rooms. "Non vogliamo passare per guardoni di Stato!", urla Daniele Capece, segretario generale del Sappe. E promette barricate. Pino Roveredo: "vi spiego perché oggi il carcere è un’istituzione illegale" di Anna Dazzan Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2016 Lo scrittore e operatore sociale, con un passato di alcolismo e disagio, ora vigila sui diritti delle persone private della libertà personale nella regione. "Avevo chiesto cose che sono ben lontane dal concretizzarsi e infatti ho minacciato le dimissioni due volte. Insegnare a chi è dentro un mestiere utile è l’unico modo per ridurre la recidiva, ma i politici sono indifferenti". Si dice "garante per le persone private della libertà personale". S’intende chi entra nelle carceri per capire, parlando con i detenuti, cosa si può fare per migliorarne le condizioni. E no, non è uno di quei compiti da svolgersi al riparo di una scrivania e dietro lo schermo di un pc. E nemmeno un ruolo per cui è sufficiente il pelo sullo stomaco. Ecco perché, quando si pensa alla scelta del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia di affidare questo incarico a Pino Roveredo, operatore sociale e scrittore che ha vinto del Premio Campiello con Mandami a dire, accanto all’aggettivo "coraggiosa" bisogna necessariamente anche mettere l’aggettivo "giusta". Una decisione azzeccata perché Roveredo è l’unico garante italiano ad essere anche un ex detenuto. Ma il coraggio non è abbastanza. "Io devo sicuramente bussare qualche volta in meno, per farmi aprire le porte della confidenza dei reclusi… ma non vuol dire che per me sia facile". Non sono trascorsi nemmeno due dei cinque anni di incarico e il primo bilancio del garante per i diritti dei detenuti del Fvg non è positivo. "Nel mio programma avevo chiesto cose che sono ben lontane dal concretizzarsi e infatti ho minacciato le dimissioni già due volte, anche se più per provocazione". Se gli si chiede di fare un elenco il più breve possibile sulle cose che non funzionano, Roveredo costruisce un podio dove il sovraffollamento da una parte e il sottodimensionamento di personale dall’altra (che causano un gran numero di suicidi sia tra reclusi che tra agenti penitenziari), seguono a ruota il limbo dell’attesa. "Il 40% delle persone che sono in prigione sono in attesa di giudizio, il che significa che possono anche passare 6, 7 o 8 anni prima di sapere se si sarà giudicati colpevoli o innocenti ed eventualmente conoscere la propria pena". Anni in cui cresce l’inedia a pari passo del rancore. "Riempire quel vuoto significa prima di tutto dare un senso alle giornate dei detenuti". E fa l’esempio delle attività di formazione nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, dove la maggior parte dei reclusi sconta una pena di ergastolo. Lui che "dall’altra parte" ci è stato e ha vissuto sulla sua pelle tutte le falle del sistema italiano, ha ben chiaro da dove bisognerebbe partire. E non solo per rendere più dignitoso il periodo di detenzione, ma anche e soprattutto per limitare il rischio di recidiva e per livellare il disagio sociale (leggasi alcolismo, tossicodipendenza e depressione) in cui cade chi esce dal carcere. Il punto di partenza, ammette con cognizione di causa Roveredo, finito in carcere la prima volta per tentato furto d’auto, è riempire il niente da fare, "il nemico numero uno di tutti i detenuti". Bisogna quindi "dare la chance a quelli che escono di essere reinseriti nella società, anche se il carcere non ti si cancella mai di dosso". Li chiama "mestieri utili", Roveredo. Quelli che ti permettono, una volta fuori, di avere un biglietto da visita che la società accetta senza storcere il naso. Come il laboratorio di pasticceria attivo dal 2005 nella casa di reclusione di Padova, che offre formazione e lavoro retribuito a più di 100 detenuti, e abbatte in modo clamoroso le percentuali di recidiva: dalle punte del 90% dei casi fino a un miracoloso 0,01%. La domanda più ovvia, perché non istituzionalizzare questo tipo di attività in ogni istituto italiano, ha una risposta altrettanto scontata. "Siamo in Italia, qui è tutto difficile". Roveredo, che è nato nel 1954 a Trieste, ha cominciato proprio dalla sua città a cambiare le cose, insistendo per la riapertura della macchina per la panificazione che era stata chiusa per le proteste di alcuni commercianti. "E pensare che in molti vendevano pane che veniva dall’estero… eppure quello del carcere gli dava fastidio". E se questo episodio dà la misura del pregiudizio dei cittadini, per Roveredo l’ostacolo più grande è l’indifferenza dei politici. "Una riforma c’è, ma non ci sono né i mezzi né l’interesse di attuarla: il carcere è un’istituzione illegale, il luogo più impopolare per i politici, che si limitano a fare un indulto ogni tanto che ha il solo scopo di svuotare celle che tornano a riempirsi subito dopo". E se il disinteresse delle istituzioni viene in parte colmato dall’intervento delle associazioni, la considerazione finale di Roveredo non lascia scampo all’irresponsabilità dello Stato nei confronti dei detenuti. "Abbiamo dato loro attimi di riflessione. Ma non li abbiamo salvati". Quella trasparenza tradita da tutti di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 25 maggio 2016 Nessun candidato alle prossime elezioni si è impegnato a fare chiarezza su curriculum e possibili conflitti di interesse. Cade nel vuoto la proposta di cittadini e consumatori che chiedono uno scatto morale per chi vuole ricoprire ruoli politici o di interesse pubblico. Il silenzio è semplicemente assordante. Tanto da lasciare basito uno come Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Corte costituzionale: "Eppure dovrebbe essere ovvio. Così ovvio che lo slogan "conosci il tuo cliente" l’abbiamo perfino usato nelle banche per combattere il riciclaggio del denaro sporco. Possibile che l’elettore non possa conoscere a chi dà il voto o amministra un ente pubblico?". Il silenzio è quello che continua a circondare le sollecitazioni avanzate il 30 aprile scorso in vista delle prossime amministrative del 5 giugno da una decina di associazioni, fra cui Transparency International, Riparte il futuro e Cittadinanzattiva, sotto l’egida di Pubblici cittadini di Gustavo Ghidini, storico fondatore del Movimento consumatori. La prima richiesta (ufficiale e per lettera) a tutti i partiti politici più rappresentati in Parlamento e nelle amministrazioni locali era di stabilire per legge l’obbligo di pubblicare via Internet il curriculum con le competenze professionali, lo status penale e i possibili conflitti d’interesse di ciascun candidato. Soprattutto di pubblicarlo prima, e non dopo le elezioni. La seconda richiesta era di impegnarsi a garantire la medesima trasparenza preventiva anche in occasione di tutte le nomine ai vertici di società, enti, autorità e altri organismi pubblici. Proposte nemmeno troppo complicate: metterci nelle condizioni di sapere in anticipo chi votiamo e chi viene incaricato di amministrare le cosa pubblica, evitando anche sgradevoli sorprese postume, sarebbe appena il minimo sindacale. Trascorso quasi un mese, però, le uniche risposte arrivate a quelle associazioni si possono sintetizzare così. Una email di solidarietà dal Movimento 5 Stelle, impegnativa quanto una email. E una telefonata di circostanza dal Pd: "Buona idea". Click. "Ma nessuno, dicasi nessuno, disposto a impegnarsi in un’impresa evidentemente tanto impopolare", conferma Ghidini. Facendo capire che forse, pur sperando in un esito diverso, un po’ se l’aspettava: "Non soltanto nei programmi dei vari aspiranti sindaco non ho visto alcun accenno alla trasparenza delle candidature, se non in qualche caso generici riferimenti alla pulizia delle liste. Ma neppure nelle loro interviste e dichiarazioni pubbliche si è potuto scorgere un segno in questa direzione. Niente di niente". Prova provata che le vecchie logiche continuano allegramente a sopravvivere. Già è stato duro far passare il principio della trasparenza a posteriori, che vera trasparenza poi non è. Basta ricordare le resistenze ad applicare la legge del 1982 che ha prescritto la pubblicazione dello stato patrimoniale degli eletti nelle amministrazioni locali entro 90 giorni dalla proclamazione: una norma recepita dalla Regione Calabria soltanto nel 2010, ben 28 anni dopo; e rispettata a corrente alternata come denunciarono i radicali, addirittura nel Comune di Roma. Figuriamoci quante sensibilità sia in grado di generare l’idea della trasparenza a priori, capace di mettere in crisi, soprattutto in alcune zone d’Italia, i ras del consenso clientelare. Flick, che insieme a Romano Prodi, Giuliano Amato e Valerio Onida ha sostenuto le proposte di cui stiamo parlando, ne fa una questione di etica che va anche oltre la politica: "Tutto questo rientra nella logica secondo cui va tutto bene se non è passato il triplo grado di giudizio. Ciò spiega anche la generale allergia all’introduzione di codici etici che colpiscano conflitti d’interesse o comportamenti non necessariamente di rilievo penale: con l’idea che tutto debba essere regolato dai formalismi della legge. Perché fatta la legge, si può sempre trovare l’inganno". E cambiare registro, per l’ex presidente della Consulta, è possibile solo a patto di saltare la barriera del giudizio della Cassazione come unico limite etico, per sposare "la cultura della reputazione e della vergogna, che poi non è niente altro che la cultura dell’articolo 54 della Costituzione, secondo cui i funzionari pubblici debbono esercitare il proprio compito con disciplina e onore". Basterebbe questo, il rispetto della Carta costituzionale. Riforma del processo penale, nessun rinvio ma tutto fermo fino al voto per le Comunali di Liana Milella La Repubblica, 25 maggio 2016 Sì alla presentazione degli emendamenti, ma per la discussione e l’approvazione se ne parla dopo il 5 giugno. Con Ncd che torna ad attaccare sulla prescrizione. Il rinvio sembrava già cosa fatta. Ma è saltato all’ultimo momento non per la "sostanza", ma solo per "l’apparenza". Si vota per i Comuni e nessun partito, Pd in testa, vuole dare l’idea che si rinvia sulla riforma del processo penale, il ddl monstre in attesa al Senato da oltre un anno, che contiene al suo interno i capitoli della prescrizione e delle intercettazioni. Solo per questo oggi, mercoledì, verrà confermata la scadenza per la presentazione degli emendamenti prevista per domani, giovedì, entro le 18. Entro lunedì invece potranno essere depositate altre richieste di modifica agli emendamenti proposti dai due relatori, entrambi del Pd, Felice Casson e Giuseppe Cucca, che ci stanno lavorando in queste ore. Ma dove sta il confine tra l’ammuina politica e la realtà? Nel fatto che gli emendamenti, comunque presentati, resteranno lì, "in sonno", perché i due rami del Parlamento comunque vanno in vacanza per la tornata delle amministrative. Quindi le novità su prescrizione e intercettazioni - ma anche sui tempi di scadenza delle indagini, sulla stretta ai ricorsi in appello e in Cassazione, sull’ordinamento carcerario, sulle pene più dure per scippi, furti e rapini - resteranno chiuse nei cassetti della commissione Giustizia del Senato. Se ne riparlerà soltanto a sindaci eletti, il 7-8 giugno. In compenso i partiti eviteranno l’accusa di aver perso altro tempo. Certo è che non perde tempo il partito di Alfano, l’Ncd, che non molla sulla prescrizione e stoppa quella "lunga" per la corruzione - il doppio di quella attuale - proposta dalla Pd Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera che con un blitz è riuscita a farla approvare a Montecitorio. Ncd ha molte frecce al suo arco. Contiamole. Innanzitutto una solida liaison con l’Unione delle Camere penali che proprio sulla prescrizione sta facendo tre giorni di sciopero, ieri, oggi, domani. Ben tre esponenti di Ncd - il ministro della Famiglia ed ex vice della Giustizia Enrico Costa, l’attuale sottosegretaria in via Arenula Federica Chiavaroli, il presidente della commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola, due su tre avvocati - saranno oggi a piazza Cavour, al palazzaccio, dove l’Ucpi espone tutte le sue preoccupazioni sul ddl del Guardasigilli Andrea Orlando che riforma il processo penale. A bilanciare la presenza e le arringhe il responsabile Giustizia del Pd David Ermini. Ma Ncd ha una potente arma, quella dei numeri, perché al Senato la maggioranza va in crisi senza i suoi voti. Per questo gli alfaniani sono intenzionati a fare la voce grossa. Rispetto al testo della prescrizione proposto da Orlando in consiglio dei ministri ed emendato da Ferranti - stop con il primo grado, 2 anni in più per l’appello, uno per la Cassazione, tempi raddoppiati per la corruzione - Ncd mette tre paletti. Il primo: invertire gli anni tra Appello e Cassazione, quindi solo un anno in più per l’Appello e due per la Cassazione, dove non servono perché i processi non scadono in quanto la programmazione è rigorosa e i processi a rischio prescrizione vengono fatti prima degli altri. Secondo: via il testo Ferranti. Terzo: sì all’emendamento di Ciro Falanga, il senatore di Ala che "vende" come accelerazione una cosa che già esiste. Laddove il codice di procedura penale (132-bis delle norme di attuazione) dice che si possono fare processi urgenti per alcune categorie di reati, lui inserisce la corruzione, ma toglie il riferimento ai delitti con pene superiori nel massimo a 4 anni, che quindi già contengono la corruzione. Venendo da Napoli, evidentemente Falanga fa il gioco delle tre carte (questa vince...questa perde...), ma i processi di corruzione non muoveranno un passo già da dove sono. E Ncd gli dà man forte. A questo punto al Pd, almeno prima delle elezioni, non resta che sostenere il testo attuale. Che però potrebbe passare solo con il voto di M5S. Gli avvocati in sciopero per fermare Davigo di Errico Novi Il Dubbio, 25 maggio 2016 Da ieri i tre giorni di astensione dei penalisti, oggi il dibattito in Cassazione. L’anno scorso c’erano andati vicino, stavolta i penalisti si sono fermati sul serio: tre giorni di astensione dalle udienze, iniziati ieri. Una protesta ferma di fronte a un piano delle riforme in materia di giustizia che si fa sempre più inclinato. Soprattutto da quando Piercamillo Davigo è diventato presidente dell’Anm. Sarà un caso ma più o meno in coincidenza con la sua elezione il dibattito sulla riforma penale ha preso una piega assai meno garantista. In particolare su un tema centrale, quello della prescrizione, che l’Unione Camere penali segnala non a caso come "l’aspetto sul quale è più necessario fare finalmente corretta informazione". A promuovere la tre giorni di stop dell’attività forense è appunto l’Ucpi, che riunisce tutti gli avvocati penalisti del Paese. "I riscontri che ci arrivano dalle sedi giudiziarie riferiscono di un’adesione pressoché generalizzata", spiega Francesco Petrelli, che dell’Unione Camere penali è segretario. È lui a illustrare l’iniziativa con il presidente Beniamino Migliucci: oggi il tempo eccezionalmente sottratto alle udienze verrà dedicato al grande evento sulla giustizia penale organizzato in Cassazione, nella sala consiliare del Palazzaccio, con l’Ordine degli avvocati di Roma. Interverranno molti protagonisti del confronto politico: dai sottosegretari Federica Chiavaroli e Gennaro Migliore ai responsabili Giustizia dei due partiti che hanno in mano la riforma del processo, Pd e Nuovo centrodestra. "Noi non protestiamo contro il governo, contro il Parlamento o la magistratura: vogliamo invitare a riflettere sui numeri. Li ha forniti nei giorni scorsi proprio il ministro della Giustizia", dice Petrelli. Migliucci fa notare: "Si conferma la massima incidenza di reati prescritti tra la fase delle indagini e il primo grado: è lì che viene pronunciato l’80% delle sentenze di prescrizione. Vuol dire che le indagini sono troppo lunghe, e questo incide anche sulla natura del processo: a furia di concentrare tutta l’attività al di fuori del contraddittorio tra le parti c’è un lento ma sostanziale ritorno al modello inquisitorio". Allo stato il disegno di legge che riforma il processo penale custodisce al proprio interno il testo sulla prescrizione uscito dalla Camera. Un intervento che così com’è scritto allunga a 21 anni e 9 mesi la durata massima di un processo per corruzione propria. "È una truffa sostenere che per assicurare la ragionevole durata dei procedimenti", nota Petrelli, "si deve portare il limite della prescrizione a soglie così elevate". In teoria la maggioranza, cioè dem e alfaniani, dovrebbe trovare un accordo su questi aspetti nel corso dell’esame in commissione Giustizia. Ma quell’intesa non è a portata di mano. E a metterla in pericolo è anche l’irrompere di Davigo sulla scena. Migliucci non usa mezzi termini: "La strategia dell’Anm è chiara: accreditarsi davanti all’opinione pubblica a discapito della politica. E per ottenere il risultato, Davigo ha pensato bene di far passare un’equazione semplice semplice: se il governo, il Parlamento non adottano le misure che suggeriamo noi magistrati, sono senz’altro collusi con i criminali. In questo modo la politica viene messa in grande difficoltà". Da qui appunto la scelta delle Camere penali: far sentire una voce contraria, informare sulla base delle statistiche, di quel 40% di sentenze che viene riformato in appello, per esempio. "La politica deve ritrovare la propria autorevolezza, secondo quanto le riconosce la Costituzione. E deve decidere liberamente, senza lasciarsi sopraffare da alcuno, che si tratti di magistrati o di avvocati". Una rinascita che non si scorge a portata di mano. E che gli avvocati vogliono provare a sollecitare. Legali in sciopero "Torino maglia nera per le prescrizioni? La colpa è dei pm" di Sarah Martinenghi La Repubblica, 25 maggio 2016 "Dove i tribunali sono ben organizzati, i reati non si prescrivono. Il caso della Thyssen è un esempio positivo di come le indagini, anche più complesse, possono essere chiuse in tempi rapidi. Nonostante tutti i gradi di giudizio, due processi d’Appello e due pronunce di Cassazione, la prescrizione non c’è stata. Ma spesso a Torino gli infortuni sul lavoro hanno invece iter lunghissimi, con indagini che durano anche cinque anni senza particolari motivi". Roberto Trinchero, presidente della Camera penale del Piemonte Occidentale Vittorio Chiusano, spiega così le ragioni che hanno portato gli avvocati a disertare le aule per tre giorni, da oggi al 26 maggio. Anche a Torino si preannuncia un’adesione altissima allo sciopero indetto dall’Unione camere Penali (tra le udienze che salteranno anche quella di "rimborsopoli"). "L’opinione pubblica deve sapere che siamo assolutamente contrari alla proposta di allungare i termini della prescrizione perché questo allungherà solamente i tempi dei processi - aggiunge Trinchero. Non sono gli avvocati a mettere in atto manovre dilatorie per far scattare la prescrizione e i dati lo dimostrano". Torino indossa la maglia nera per lentezza dei procedimenti con il 39,9 per cento di prescrizioni, perciò sia la procura che il tribunale hanno imposto riforme e nuove sezioni per arginare il fenomeno. "Vedremo che risultati ci saranno: credo che i pm debbano impegnarsi di più senza caricare i giudici della responsabilità di archiviare o no" commenta Trinchero. "Per ora i dati indicano che 4 indagini su 10 si estinguono per prescrizione - spiega l’avvocato Alberto De Sanctis - Il problema è l’incidenza della prescrizione prima del dibattimento: nel distretto di Torino l’88 per cento delle prescrizioni avviene in questa fase, solo il 2 per cento in dibattimento, dove cioè intervengono gli avvocati". "Le prescrizioni dipendono da problemi organizzativi della procura e dalla volontà dei magistrati di portare avanti un processo piuttosto che un altro - spiega ancora Trinchero - capita che per malattie professionali e infortuni il fascicolo resti "parcheggiato" in fase di indagini anche 5 anni, quando il tempo della prescrizione è di 7 anni e mezzo. Mancano regole perentorie sui termini delle indagini preliminari". "Un altro punto su cui siamo contrari è il processo a distanza per gli imputati detenuti - spiega invece il vicepresidente Davide Richetta - il disegno di legge prevede di ampliare le norme che dispongono videoconferenze per imputato e testimone, nel nome di una presunta efficienza economica. Ma questo è inaccettabile: un processo penale non è efficiente se costa poco ma se è giusto, e un imputato non può stare lontano dal giudice e dal suo difensore". "È già capitato a Torino - aggiunge il legale Antonio Genovese - che un imputato non sia stato portato al suo processo perché secondo il giudice mancava una comunicazione scritta del difensore". "L’ultimo punto - conclude Trinchero - riguarda le intercettazioni e la spettacolarizzazione dei processi. Bene ha fatto Spataro a emanare una circolare, ma il fatto che si siano dovuti imporre limiti significa che un problema esiste". Magistrati di toga e di governo: quando il giudice entra in politica ma non si dimette di Paolo Fantauzzi L’Espresso, 25 maggio 2016 Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria L’affondo del presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, sui politici che "non hanno smesso di rubare ma di vergognarsi". I giudizi non proprio lusinghieri sul governo del giudice Piergiorgio Morosini, ora al Csm. Le polemiche sul diritto di schierarsi sul referendum costituzionale. E come risposta, le accuse di invasioni di campo, interventi a gamba tesa, "barbarie giudiziarie". Se i venti di tempesta ricordano i tempi dell’assalto alle presunte toghe politicizzate, già cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, nessuno pare ricordarsi del caso opposto: i "politici togati", ovvero tutti quegli esponenti di partito che, pur non avendo intenzione di rimettere piede nelle aule di giustizia da dove provengono, sono in aspettativa da tempo immemore. Così da risultare a tutti gli effetti in servizio e maturare pure l’anzianità per la progressione di carriera. Come? In base a una semplice relazione della Camera di appartenenza relativa all’attività parlamentare svolta. E quando l’avventura finisce, nessun problema: tornano nei tribunali senza colpo ferire, e pazienza per l’immagine di obiettività e imparzialità che dovrebbe accompagnarli. Ci vorrebbero dei paletti, ha ammonito a suo tempo Giorgio Napolitano e nei mesi scorsi anche il Csm. Solo che la legge, approvata all’unanimità dal Senato due anni fa, da dicembre è ferma a Montecitorio in commissione Giustizia. Presieduta, nemmeno a farlo apposta, da un magistrato fuori ruolo dal 1999 e in aspettativa dal 2008: Donatella Ferranti (Pd). In Parlamento siedono nove toghe (erano 17 la scorsa legislatura). Sei sono formalmente in attività: oltre alla Ferranti, i senatori democratici Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e il deputato montiano Stefano Dambruoso. Fra gli ex, il presidente del Senato Piero Grasso, che andò in prepensionamento quando si candidò col Pd, e come lui due forzisti: Nitto Palma, che si dimise nel 2011 a seguito della nomina a Guardasigilli (dieci anni dopo l’ingresso in politica) e l’ex sottosegretario Giacomo Caliendo. Caso a parte il verdiniano Ignazio Abrignani, in passato giudice tributario ma di fatto avvocato civilista. Emblematico il caso della Finocchiaro, magistrato per un lustro appena: pretore nell’ennese dal 1982 al 1985 (dove escluse dalle comunali il Psi, che aveva depositato la lista con 20 minuti di ritardo) più un paio d’anni da pm a Catania. Nel 1987, quando la Germania è ancora divisa e Maradona fa sognare Napoli, l’elezione alla Camera col Pci e l’aspettativa. Che dura tuttora: lo scorso 29 aprile, certifica il Csm, dalla prima delibera di autorizzazione erano trascorsi 28 anni, 3 mesi e 20 giorni. Fra le 823 toghe in servizio collocate fuori ruolo almeno una volta, ha ricostruito l’Espresso, nessuno può vantare un tale record. In questi tre decenni la Finocchiaro è stata ministro, capogruppo, candidata governatrice in Sicilia, due volte presidente di commissione, il suo nome è girato per il Quirinale ma di dimissioni nemmeno a parlarne. La lontananza dalle aule di giustizia non le ha comunque impedito di ottenere nel tempo sette valutazioni di professionalità, il massimo, e di veder confermati nel 2011 dal Consiglio giudiziario della Corte di appello di Roma "i giudizi positivi conseguiti nel corso di tutta la sua carriera". Benché trascorsa in Parlamento anziché in tribunale. In questo modo, coi contributi versati, oltre a un vitalizio superiore a 5mila euro l’esponente Pd riscuoterà anche una cospicua pensione da magistrato. Porte girevoli invece per Doris Lo Moro. Dal 1988 ha esercitato una decina d’anni appena, peraltro a intermittenza: un quinquennio da giudice a Lamezia Terme, qualche mese a Roma alla sezione Lavoro, poi otto anni da sindaco (proprio a Lamezia). A seguire, ancora un po’ di qua e un po’ di là: di nuovo giudice nella capitale per altri quattro anni e dal 2005 la politica a tempo pieno, come consigliere regionale Ds e parlamentare Pd. Adesso, dopo due legislature, la senatrice è pronta per ricominciare il giro al Consiglio di Stato, dove Matteo Renzi vorrebbe nominarla. Vita a metà per la Ferranti: 17 anni con la toga, altrettanti fuori ruolo. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino (dove diventa segretario generale) e poi, grazie anche a questi sponsor di peso, il salto in politica nel 2008: con una blindatura a capolista nel collegio Lazio 2. Se la Ferranti ha in serbo di tornare in magistratura, magari con l’ambizione di finire in Cassazione (si dice che per questo faccia grandi resistenze sul ddl che disciplina il rientro in carriera), chi non ci pensa affatto è Felice Casson. Il giudice istruttore del processo Gladio dopo un quarto di secolo da inquirente si è dato alla politica nel 2005: da allora due candidature a sindaco di Venezia, senza successo, e tre legislature. Oggi, a 63 anni, nella doppia veste di parlamentare e consigliere comunale, aspetta di poter andare in pensione. Alla prima esperienza è invece Dambruoso (Sc), esperto di terrorismo internazionale. Fra incarichi vari all’estero e ministeri la toga l’ha indossata poco ultimamente (dal 2003 solo per un anno, come pm a Milano) ma pure lui nei mesi scorsi ha ottenuto un avanzamento. L’emblema dei cortocircuiti che possono prodursi è Cosimo Ferri, sottosegretario in quota Alfano e al tempo stesso leader di Magistratura indipendente, di cui sponsorizzò i candidati via sms alle ultime elezioni per il Csm. Talmente "indifendibile", come lo definì, che Renzi dopo l’indignazione d’ufficio l’ha lasciato dov’era. Nemmeno questo figlio d’arte (il padre Enrico, ministro Psdi, è stata una toga prestata a tempo indeterminato alla politica) ha sudato particolarmente in tribunale: in tutto una decina d’anni, inframmezzati peraltro da un mandato al Consiglio superiore. Quando nel 2010 torna a fare il giudice a Massa, ha un seguito tale da risultare il più votato di sempre all’Anm ed è pronto per il salto in politica, che arriva grazie alle larghe intese in quota Forza Italia. Malgrado sia finito in pochi anni nelle intercettazioni di Calciopoli, dell’inchiesta Agcom-Annozero e della P3. Poco male: nel 2014, quando era già sottosegretario, il ministero della Giustizia ne ha certificato "equilibrio, imparzialità, serenità ed autonomia" che a gennaio gli sono valsi un nuovo scatto. Del resto, ministero che vai, sottosegretario-magistrato che trovi: al Viminale c’è Domenico Manzione, un passato da pm a Lucca, Monza e Alba prima di approdare all’esecutivo con Letta su indicazione di Renzi, di cui è intimo. A livello locale la musica non cambia, tanto che il Csm ha allo studio un’apposita delibera per stringere sulle incompatibilità con gli incarichi amministrativi. Nel 2009 Caterina Chinnici (figlia di Rocco, il giudice ucciso dalla mafia) ha accantonato la toga a Palermo per entrare nella giunta di centrodestra guidata da Raffaele Lombardo, poi è passata alla guida del dipartimento Giustizia minorile e nel 2014 è volata in Europa col Pd. Da pm antimafia, senza muoversi da Bari Michele Emiliano è diventato invece sindaco e governatore pugliese. In attesa, vai a sapere, di sfidare il segretario-premier al congresso. La nomina a segretario regionale dem gli è costata però un procedimento disciplinare: fare politica sì, militare a tutti gli effetti in un partito no. Questione di forma. Per quanto impalpabile possa essere il confine. Chiudere i "piccoli" tribunali è un suicidio per la giustizia e per la nostra democrazia di Domenico Benedetti Valentini Il Dubbio, 25 maggio 2016 Nel Sole 24 Ore di domenica 15 maggio 2016 ho letto un intervento di Gaetano Balice dall’apodittico titolo "Per fare giustizia occorre cancellare i piccoli uffici". È una tesi antica e conformisticamente ripetuta, ma raramente l’avevo sentita enunciare in modo così sommario. In tanti anni di attiva presenza nelle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, con le risorse di una analitica conoscenza della geografia giudiziaria italiana, di una concreta frequentazione degli uffici come coscienzioso avvocato e di una sensibilità politica per il "diritto alla vita" dei territori, ho cercato di dimostrare che la cancellazione dei poli erogatori di giustizia è solo l’extrema ratio, dovendosi privilegiare il "riequilibrio territoriale, demografico e funzionale tra uffici confinanti caratterizzati da rilevanti differenze di dimensioni". Che fu, testualmente, la virtuosa formula su cui, nella legge-delega di revisione delle circoscrizioni del 2011, fummo praticamente unanimi i fautori dei progressivi accentramenti e noi sostenitori di una giustizia più diffusa e prossimale alle comunità da servire. Purtroppo quella linea, che il legislatore definiva "prioritaria", è stata applicata solo in pochi distretti e in pochi casi, mentre avrebbe dovuto esserlo in varie altre situazioni. L’autore del citato intervento sembra dimenticare che in quell’occasione sono già stati soppressi 31 Tribunali e altrettante Procure, tutte e 220 le Sezioni distaccate di Tribunale - alcune anche molto importanti - e centinaia di Uffici di quel Giudice di Pace di cui oggi peraltro si stanno grandemente ampliando le competenze! Sembra ignorare che ormai i Tribunali di davvero minime dimensioni si contano sulle dita di una mano. Stupisce soprattutto l’indocumentatezza di certi luoghi comuni professati come assolutezze. I dati, non gli slogans, rivelano che migliori e peggiori performance si ripartiscono equamente tra "maggiori" e "minori" Tribunali perché ben altri sono i fattori causali; e che nessun reale risparmio di spesa è stato oggettivato in esito ai processi di accentramento spinto che si vorrebbero, anzi ne sono derivati molti e costosissimi dispendi logistici aggiuntivi. A livello di Corti d’Appello, per esempio, un recente studio analitico di una primaria Università per il Cnf ha confermato che le Corti più grandi hanno difficoltà e tempi uniformemente più pesanti delle Corti più piccole nell’evasione dei procedimenti. Ma è la pratica - che aprirebbe gli occhi a molti teorici - a dire l’ultima parola. Oggi gli avvocati, consulenti e cittadini operanti in territori che, riequilibrando competenza e dunque carico, sono stati scorporati da Tribunali grandi e ingolfati e aggregati a circondari limitrofi più piccoli, espletano in una mattina incombenze quante e quali nella sede grande o distrettuale non riuscivano a concludere in una settimana (previe prenotazioni e/o appuntamenti con gli uffici!), oltre tutto con costi e problemi di accessibilità neanche paragonabili. E ciò continua a valere anche dopo l’avvento dell’informatizzazione. Ma di queste cose, si sa, ai riformisti innamorati delle mega dimensioni non importa niente. Così come non importa che interi territori e molte città vengano destrutturati e desertificati di poli istituzionali e di servizi, dando luogo a quel progressivo "metropolismo", produttore di tutti i degradi e le inagibilità che poi verbalmente si denunciano nelle rubriche televisive. In nome delle presunte "economie di scala" si stanno scaricando sui cittadini costi economici e sociali incalcolabili, con un modello di insediamento antropico congestionato e invivibile a fronte di una marginalizzazione di due terzi del territorio che non esito a definire incivile e suicida. Ma, per tornare allo specifico, i mega uffici giudiziari, oltre a fornire spesso un servizio inavvicinabile e scadente, sono - com’è noto - ingovernabili e in molti casi "bolge" in cui nessuno risponde delle proprie (male individuabili) inefficienze. Perfino la sicurezza, di cui tanto si discute, è compromessa o difficilmente e onerosamente difendibile. Gli unici argomenti che sembrano legittimare lo sfavore per gli uffici più piccoli sono gli episodi di incompatibilità e l’esigenza delle specializzazioni. Ma, posto che la tendenziale specializzazione è certo un valore mentre la iperspecializzazione generalizzata è complessivamente un pregiudizio, sia a questa moderna esigenza sia ai casi di incompatibilità o eccezionalità si può rimediare anche con una altrettanto moderna logica di circuitazione dei magistrati su più sedi messe a sistema, schema ormai ben elaborato da tecnici di riconosciuta competenza e implicito in strumenti come le "tabelle infradistrettuali" o i "magistrati distrettuali" o altre "task force" che la stessa Commissione ministeriale sta progettando. In conclusione, la filosofia organizzativa ottimale per la giustizia, penale e civile, è quella del "riequilibrio", in cui razionalizzazione non è sinonimo di soppressione, ma di corretta redistribuzione, tra troppo disuguali Tribunali e Corti, di territorio e popolazione e quindi di mole dei procedimenti. Tesi portata avanti anche da gran parte delle associazioni forensi e consonante con le prese di posizione del Cnf, che si pronuncia contro una nuova stagione di soppressioni e a favore della redistribuzione dei carichi di lavoro con contestuale revisione e copertura degli organici magistratuali e amministrativi. Come dire che occorre potenziare coerentemente quelle realtà in cui la riforma del 2011-2013 ha attuato questo principio e applicarlo ora anche a quegli altri circondari e distretti in cui è oggettivamente praticabile. Superando, in questi casi sì, resistenze egoistiche, nelle quali eccellono i grandi centri quanto e più dei piccoli. Il "campanilismo" è un peccato di tutti, se mai più giustificabile nelle comunità che continuano a presidiare i territori anche a vantaggio dei "capoluoghi". E forse è il caso di scomodare anche la Costituzione, perché lo Stato deve assicurare a tutti i residenti senza disparità accesso e fruizione delle strutture giudiziarie. E giacchè parliamo di diritti costituzionalmente riconosciuti, la dico ancora più chiara. Determinati "poteri forti" hanno un preciso modello di "giustizia" in testa. Da un lato, pochissimi ed enormi Tribunali, il meno accessibili possibile e fatti solo di Sezioni specializzate, affinché, specie nelle materie economiche commerciali e finanziarie la giurisprudenza sia in poche oligarchiche mani facilmente interloquibili. Dall’altro lato, al servizio di clienti apicali, pochi e grandi studi associati, popolati da proletari della professione, con socio di capitale egemone. Addio mitica sacralità della giustizia e della libertà forense! Stiamo parlando, se qualcuno finge di non accorgersene, di libertà e di Stato di diritto, non certo solo di Vattelappesca che legittimamente difende il suo Tribunale, cioè il servizio primario che ne fa ancora una città con il suo corpo sociale. E mi sembrano francamente collaterali le arguzie sui magistrati che vogliono mantenere posti direttivi o avvocati che vogliono avere cariche forensi. Sarebbe come ricordare che i magistrati vogliono le sedi grandi per la comodità delle loro famiglie o che gli studi legali dei capoluoghi vogliono accaparrare il lavoro? Ecco alcune prime considerazioni sulle quali invito l’avv. Balice o qualunque altro studioso a pubblico confronto con un conduttore culturalmente "neutrale". Non mi sembra giusto influenzare da testate autorevoli i nostri riformatori con slogan tanto semplicistici e fuorvianti, di fronte agli enormi e complessi problemi della giustizia: affermare che se l’insieme dell’apparato non funziona è perché opera un poco meglio di altri il Tribunale di Vattelappesca o che quando si trovano in drammi funzionali i venti Tribunali e Corti più grandi d’Italia "per fare giustizia occorre cancellare" dieci Tribunali da 100.000 o poco più abitanti o quattro-cinque Corti aventi il "torto" di non essere metropolitane, è cosa che appartiene, più che all’insensibilità, al grottesco. Coppia dell’acido, la perizia: "Martina e Alexander non possono fare i genitori" di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci Corriere della Sera, 25 maggio 2016 Secondo indiscrezioni la perizia indicherebbe che entrambi non sono in grado di crescere e accudire il loro bambino. Parere negativo anche sui nonni. Una corposa relazione di 90 pagine, netta e molto severa nell’indicare la soluzione più adeguata per il futuro del bambino nato 9 mesi fa da Martina Levato e Alexander Boettcher, i due ex amanti già condannati in primo e secondo grado per una catena di aggressioni con l’acido a fine 2014: non l’affidamento ai genitori, né alla sola madre, né tanto meno ai nonni del bambino. L’ipotesi preferibile è l’adozione da parte di una famiglia estranea. Non lasciano molti appigli a soluzioni alternative le due perite incaricate dal Tribunale per i minorenni, la neuropsichiatra infantile Cecilia Ragaini e la psichiatra psicoanalista Simona Taccani, che ieri hanno inviato le loro conclusioni ai consulenti di parte, Gustavo Pietropolli Charmet per i Levato e Francesco Somajni con Massimo Camiolo per la parte Boettcher. Per quattro mesi, da dicembre ad aprile, le perite hanno incontrato in colloquio i genitori detenuti (una sola volta insieme), i nonni materni e la nonna paterna, osservandoli anche con il bambino. E hanno concluso che nessuno di loro è "adeguato" a seguire la crescita del minore ponendosi come sua figura di riferimento affettivo, comportamentale e normativo. Per il suo bene, il piccolo dovrebbe essere invece allontanato in via definitiva dall’intera cerchia familiare, sostengono le esperte. Gli esiti del lungo approfondimento si allineano con le considerazioni che il pm minorile Annamaria Fiorillo fece poco dopo la nascita. Il magistrato chiese che il neonato venisse dichiarato da subito in stato di abbandono per "totale e irreversibile inadeguatezza del padre e della madre a svolgere funzioni genitoriali". I legali (Laura Cossar per Martina e i nonni materni, Valeria Barbanti per Alexander e nonna paterna) si opposero, e alla fine il tribunale decise di aprire la lunga istruttoria, il cui passaggio fondamentale è proprio la perizia appena conclusa. La relazione spiega che, ora che c’è il bambino, sarebbe comunque impossibile tenere separati tra loro i parenti, anche se la coppia, dopo la violenta rottura, non esiste più. La difesa di Martina puntava sulla possibilità di un affido esclusivo. Le perite suggeriscono invece di escludere questa ipotesi, per varie ragioni. Martina, condannata a 28 anni (12 in appello per aver sfigurato con l’acido Pietro Barbini, più altri 16 in primo grado per altre aggressioni), rimane del tutto centrata su di sé, strutturalmente connotata da forti "elementi disfunzionali" e da dinamiche psicologiche che mal si conciliano, al momento, con il ruolo materno. Dinamiche che, ritengono le perite, non sono cambiate nella sostanza, neanche negli ultimi mesi. L’amore nei confronti del neonato accudito per poche ore la settimana risponderebbe più all’urgenza di un suo personale riscatto, che non alla reale disponibilità a prendersi "empaticamente" in carico i bisogni di una persona che cresce, "altra da lei". Alexander, condannato a 37 anni (14 in appello per Barbini e altri 23 per ulteriori agguati), dal canto suo ha continuato a professarsi innocente, negando le sue condotte aberranti e la parte malata e sadica della sua personalità, scrivono. Infine, non è percorribile l’ipotesi di un affido ai nonni che "resterebbero legati ai figli prima che al nipote": il minore, rimanendo nell’ambiente familiare, si troverebbe a dover gestire il pregiudizio causato dal fatto stesso di avere quei genitori. Quello di ieri è comunque un passaggio interlocutorio: fino al 7 giugno i consulenti di parte avranno tempo per replicare e le perite depositeranno al Tribunale per i minorenni la relazione finale (eventualmente integrata) solo il 14 giugno. A quel punto potrebbe aprirsi una nuova fase di ascolto. Magari con udienze. E in ogni caso contro ogni sentenza di primo grado gli avvocati potrebbero fare ricorso. Il bambino venne concepito tra l’agguato contro Stefano Savi, sfigurato la notte del 2 novembre 2014, e quello del 28 dicembre, contro Barbini. Ricettazione anche senza profitto ingiusto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 21596. Per far scattare il reato di ricettazione non è necessario che il profitto perseguito sia ingiusto. La Cassazione ha depositato ieri le motivazioni (sentenza 21596)con le quali ha annullato l’assoluzione decisa dalla Corte d’appello nei confronti del presidente di Pirelli ed ex numero uno di Telecom, Marco Tronchetti Provera. L’accusa era di aver autorizzato, nel 2004, la ricettazione di documenti sottratti dai sistemi informatici dell’agenzia di 007 privati Kroll, comprovanti in Brasile lo spionaggio di Kroll ai danni di Tronchetti per conto dei rivali sudamericani Cicop e Santas, nell’ambito della guerra per il controllo di Brasil Telecom. Accusa che nel 2013 era costata in primo grado una condanna a 20 mesi, verdetto poi capovolto in secondo grado. Nell’ordinare un nuovo processo d’appello senza prescrizione, alla quale Tronchetti Provera ha rinunciato nel 2015, la Cassazione ha bocciato l’assoluzione con la quale i giudici di seconda istanza avevano attribuito al ricorrente "un intento esclusivamente difensivo, la volontà di denunciare seguita da effettiva denuncia", escludendo così il dolo specifico del profitto. La Cassazione accoglie i rilievi del procuratore generale tesi a dimostrare la sussistenza dell’elemento del dolo del profitto e l’illegittimità dell’acquisizione in udienza di dichiarazioni extradibattimentali, frutto di indagini difensive che avevano pesato sull’assoluzione. La Suprema corte respinge invece il ricorso di Tronchetti, che chiedeva di cambiare la formula da "perché il fatto non costituisce reato" a "perché il fatto non sussiste". Secondo la difesa, mancherebbe, infatti, anche l’elemento della materializzazione costitutivo del reato. Nel corso della riunione nella quale Tronchetti si sarebbe limitato a dare il suo assenso all’acquisizione dei dati, i files non erano ancora stati acquisiti, con conseguente difetto di materialità della cosa. Per la Cassazione è però provato che i dati erano già stati "materializzati" perché riversati in 5 Dvd. I giudici ricordano che rientrano tra le "cose mobili" tutti gli oggetti corporei, qualsiasi entità materiale, suscettibile di detenzione, sottrazione e impossessamento, che faccia parte di un patrimonio, inteso in senso ampio e non soltanto sotto il profilo strettamente economico. Una cosa è l’entità materiale su cui i beni immateriali vengono trasfusi. E dunque lo è il supporto informatico sul quale vengono trasferiti i dati carpiti con le illegittime intrusioni nel sistema informatico. Per la Suprema corte è fondato il rilievo del Pg sull’illegittima acquisizione delle nuove dichiarazioni rese al difensore dell’imputato dopo la sentenza di primo grado da soggetti già esaminati nel corso del dibattimento. È vero che il diritto del difensore di svolgere indagini difensive è esercitabile in ogni stato e grado del processo, ma non può prescindere, per trovare ingresso nel processo, dai limiti previsti dal codice di rito per la formazione della prova. Nello specifico, l’articolo 603 prevede che le dichiarazioni debbano essere assunte e condotte dal giudice, "non potendo tale sub procedimento acquisitivo essere surrogato dalla produzione e dall’acquisizione di verbali formati unilateralmente dalle parti". Anche per quanto riguarda il dolo del delitto di ricettazione segna un punto il Pg. Il profitto può avere anche natura non patrimoniale e non è necessario neppure che sia ingiusto. L’incriminazione dei fatti di ricettazione mira, infatti, a vietare la circolazione delle cose provenienti da delitto. Anche quando, come nel caso esaminato, lo scopo è l’autotutela. Confisca ampia se il reato è transnazionale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2016 No a un eccesso di disinvoltura nel dare il bollo di transnazionalità a un reato, agevolando la confisca anche nella forma per equivalente. Il monito arriva dalla Cassazione, con la sentenza n. 21670 della Prima sezione penale depositata ieri. La pronuncia, che ha tenuto conto dello schema della contestata appropriazione indebita ai danni della Cassa di previdenza dei ragionieri e periti commerciali, con indagini avviate dopo il fallimento di Sopaf, ha così accolto il ricorso dell’imputato annullando l’ordinanza del Riesame di Milano. In sintesi, per l’accusa, le somme sottratte erano poi state oggetto di complessi trasferimenti, anche estero su estero, per essere fatte rientrare in Italia, configurando il reato di trasferimento fraudolento realizzato anche con l’azione di un gruppo criminale attivo a livello internazionale. La Procura valorizzava la sottoscrizione di fondi esteri collocati nelle Bermuda e nelle Mauritius, con manager con sede nelle isole Cayman e custodian nel Regno Unito e impiegando soggetti operanti in Svizzera e Lussemburgo. La difesa aveva sottolineato che le operazioni di finanza strutturata sono una realtà ormai ordinaria in tutti i Paesi a fiscalità privilegiata e che erano operazioni di finanziamento ancora in essere con benefici all’imputato sorti in Italia. La Cassazione, però, evidenzia le carenze dell’ordinanza del Riesame ritenendo che resta non dimostrato che gli agenti stranieri abbiano costituito un gruppo criminale, "non essendo sufficiente a tal fine rilevare che gli autori del reato si sono serviti di strutture e persone operanti in più Stati per commetterlo". Per provare l’esistenza di un gruppo criminale organizzato, occorre l’esistenza di un insieme di persone riconoscibili come tali per un minimo di rapporti e legami tra loro e di un’autonoma, anche se non troppo strutturata, organizzazione. Una cooperazione a un disegno comune criminale che nel caso esaminato non emerge: i soggetti stranieri coinvolti sono almeno in parte noti istituti bancari. Va poi dimostrato, avverte ancora la Cassazione, che il gruppo criminale abbia contribuito alla consumazione del reato che si pretende transnazionale. Contributo che deve essere consapevole, dunque andava dimostrato che il gruppo avesse agito per un fraudolento trasferimento di valori. Per l’aggravamento del trattamento sanzionatorio di cui fa parte la confisca anche per equivalente serve che i soggetti coinvolti siano stati attivi a livello internazionale: è la transnazionalità, assieme alla forma collettiva dell’appoggio, a rendere ragionevole la stretta disposta dalla convenzione di Palermo. Determinante è allora l’uso da parte del gruppo criminale di fiduciarie (o finanziarie) di strutture societarie estere "in termini di sistematicità, varietà dei luoghi di allocazione delle risorse, operatività dei soggetti coinvolti e rilevanza degli importi di provenienza illecita movimentati". È diffamazione offendere per lettera l’amministratore di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2016 L’offesa all’amministratore contenuta in una missiva diretta anche ad una pluralità di destinatari, è reato di diffamazione. Inutili i tentativi dell’imputato per far dichiarare tale comportamento quale reato di ingiuria, nella speranza di potersi giovare della depenalizzazione che tale reato ha avuto, a seguito dell’entrata in vigore del Dlgs 7/2016 (quella fattispecie penale è divenuto in un illecito civile con sanzione amministrativa). Tutto inizia con la lettera con cui un tecnico (l’imputato) dava del "mentecatto" all’amministratore di una multiproprietà, seppur nell’intento di fare delle precisazioni in ordine al pagamento dei suoi onorari in risposta a una lettera della persona offesa (amministratore) che ne pretendeva la gratuità. La missiva era stata inviata all’amministratore e ad altri soggetti. I giudici di primo e di secondo grado dichiarano il tecnico colpevole del delitto di diffamazione e lo condannano al pagamento di una multa e al risarcimento dei danni causati alla parte civile. L’imputato si rivolge alla Cassazione sulla considerazione che sussisteva il reato di ingiuria aggravata in quanto lo scritto, contente l’offesa alla reputazione dell’amministratore, era stato indirizzato anche al medesimo. La Corte di cassazione respinge il ricorso ritenendo la censura priva di fondamento (sentenza n. 18919/2016): richiamando precedenti pronunce, precisa che nel caso "l’offesa sia contenuta in una missiva diretta ad una pluralità di destinatari, oltre l’offeso, non può considerarsi concretata la fattispecie dell’ingiuria aggravata dalla presenza di altre persone, proprio per la non contestualità del recepimento delle offese medesime per la conseguente maggiore diffusione delle stesse". Diffamazione in quanto la lettera era stata indirizzata ad altri due condòmini ed era stata letta anche da altre persone che facevano parte dell’amministrazione, in quanto la lettera era stata inviata impersonalmente all’amministratore di condomino (senza aver precisato riservata-personale) e, quindi, "nella piena consapevolezza che la stessa poteva essere posta a conoscenza anche di altre persone e che comunque sarebbe stata protocollata agli atti dell’amministrazione a disposizione di chiunque vi potesse accedere" (Cassazione, sentenza 18919/2016). Già in precedenza è stato condannato per diffamazione l’amministratore che, in una lettera inviata a tutto il condominio, riportava le espressioni ingiuriose pronunciate durante l’assemblea nei confronti di due condomini. (sentenza n 44387/2015). E allo stesso modo è stato ritenuto diffamante l’aver affisso nel portone del condominio i nominativi dei morosi perché "non vi è alcun interesse da parte di terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri" (sentenza 39986/2014). Incidenti stradali, la moto a fari spenti è "imprevedibile" per il guidatore dell’auto di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 21581/2016. L’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, a patto che sia in concreto prevedibile ed evitabile. A stabilirlo è la Cassazione, con la sentenza n. 21581, depositata ieri. Ecco il caso: un motociclista viene mortalmente investito da un’autovettura che, non essendosi accorta dell’arrivo della moto, effettua una svolta a sinistra senza dare la precedenza e seguendo una traiettoria con la quale non impegna la corsia di marcia nella quale intende immettersi, bensì quella opposta su cui procede la vittima. Nei giudizi di merito l’automobilista viene condannato a 1 anno di reclusione per omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale per avere omesso di procedere alla manovra di svolta con la dovuta prudenza e dando la precedenza alla moto, nonché per non avere eseguito detta manovra in prossimità del centro dell’intersezione e a sinistra di questo, e in modo da non creare pericolo per gli utenti della strada. La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di Appello invitandola a valutare con maggiore adeguatezza alcuni elementi potenzialmente decisivi per dimostrare la non prevedibilità ed evitabilità dell’incidente da parte dell’automobilista: la moto correva in orario notturno a una velocità più che doppia a quella consentita; l’illuminazione pubblica e la visibilità del luogo erano scarse; un testimone aveva riferito che la moto viaggiava - nonostante fosse notte - a fari spenti. Tutte circostanze che, rendendo imprevedibile l’avvicinamento della moto, possono escludere la responsabilità dell’automobilista per lo scontro mortale. La sentenza in commento è condivisibile, e si pone nel solco di altri precedenti della Suprema Corte, i quali hanno delineato i contorni del principio dell’ "affidamento" in materia di circolazione stradale in un’ottica giustamente attenta a non rendere il concetto di "prevedibilità" dell’altrui condotta di guida un’astratta enunciazione di principio bensì un elemento concreto da valutarsi volta per volta in base alle caratteristiche del singolo caso. Un passaggio importante della sentenza della Cassazione è anche quello relativo alla valutazione della prova: i giudici di merito, infatti, hanno disatteso le parole di un testimone - che aveva riferito che la vittima viaggiava a fari spenti - solamente in quanto tale circostanza non era stata riferita in sede di indagini, ma per la prima volta nel corso del dibattimento. Nel censurare la decisione della Corte di Appello, la Suprema Corte ha affermato che non è consentito ricavare da una valutazione "affatto presuntiva e non ineccepibile sul piano logico" l’inattendibilità di una fonte di prova potenzialmente decisiva per valutare la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’impatto da parte del motociclista. Si tratta di una considerazione apprezzabile perché dimostra la dovuta attenzione al rispetto sia al principio di colpevolezza, sia a quelli del "giusto processo", che della formazione orale della prova nel dibattimento fa il proprio perno fondamentale. Tasso usurario, no al cumulo di interessi corrispettivi e di mora di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2016 Tribunale di Ivrea - Sentenza del 26 febbraio 2016 n. 152. Il superamento del tasso antiusura non può essere calcolato sommando il tasso corrispettivo a quello di mora essendo essi "dovuti in via alternativa". L’eventuale cumulo dunque rappresenta un "non tasso" o "tasso creativo", in quanto si riferisce ad una percentuale non concretamente applicabile. Lo ha stabilito il Tribunale di Ivrea, con la sentenza del 26 febbraio 2016 n. 152, rigettando la richiesta di un correntista e chiarendo che l’eventuale natura usuraria, e dunque la nullità, del tasso di mora non travolge anche gli interessi corrispettivi che dunque rimangano dovuti. Un cliente di una banca accortosi del superamento, a suo dire, della soglia di legge aveva chiesto all’istituto di credito la restituzione di tutti gli importi pagati a titolo di interesse, oltre 30mila euro, per un mutuo contratto oltre dieci anni prima e successivamente oggetto di surroga presso altra banca. In particolare, il ricorrente sosteneva di essersi accorto che "le pattuizioni previste in contratto ammontavano nel loro insieme (interessi, penale, e spese) al 9,946%, superiore al tasso soglia usura rilevato nel trimestre di erogazione, pari al 7,350%". Per la banca però si trattava di un calcolo "assolutamente privo di base giuridica, venendo cumulati elementi di natura diversa" che di certo non potevano rappresentare "il costo del denaro per il mutuatario". Posizione condivisa dal tribunale che, senza neppure disporre una consulenza tecnica, ha bocciato la domanda. È vero, precisa la sentenza, che anche gli interessi moratori possono essere usurari - "decisivo al riguardo il riferimento dell’articolo 1 Dl 349/2000 agli interessi convenuti a qualsiasi titolo" e la decisione della Consulta n. 29/2002 che l’ha ritenuto "plausibile" -, tuttavia "la verifica dell’eventuale superamento del tasso soglia deve essere autonomamente eseguita con riferimento a ciascuna delle due categorie di interessi senza sommatoria tra loro (come invece sostenuto in altre sporadiche pronunce di merito)". Sotto altro profilo, prosegue la decisione, "l’usurarietà dei tassi di mora comporta la nullità di quella sola clausola contrattuale ad essa relativa, e non invece dell’intero contratto, non potendosi far discendere da tale nullità la gratuità del mutuo". L’usurarietà, dunque, travolge solo gli interessi moratori stessi, non anche gli interessi corrispettivi legittimamente pattuiti, "avendo essi distinta ed autonoma funzione (i primi corrispettivo del mutuo, gli altri funzione risarcitoria preventiva e forfettizzata del danno da ritardo nell’adempimento)". Con la conseguenza che gli interessi corrispettivi, ove contenuti nel tasso soglia, "continueranno ad incrementare la sorte capitale e, al verificarsi dell’inadempimento, risulterà esigibile la sorte capitale maggiorata degli interessi corrispettivi ex art. 1224 co. 1 c.c.". Peraltro, conclude il tribunale, nel caso affrontato gli interessi corrispettivi non erano neppure stati contestati e quelli moratori mai pagati, non essendoci stato alcun inadempimento come dimostra l’estinzione anticipata mediante surroga ad altra banca del mutuo. Lombardia: celle sovraffollate e suicidi, carceri lombarde al collasso di Luca Rinaldi Corriere della Sera, 25 maggio 2016 Nel 2016 torna a crescere il numero dei detenuti, metà sono stranieri. Ottomila i reclusi negli istituti della regione: 2.000 oltre la capienza. Partiva da qui, dalla Lombardia e precisamente dal carcere di Busto Arsizio, il ricorso che ha dato origine alla cosiddetta sentenza Torreggiani. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tre anni e mezzo fa definiva il sovraffollamento carcerario "un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone". Prima di quella sentenza nel carcere di Busto Arsizio si viveva in tre all’interno di celle di 9 metri quadrati senza doccia o acqua calda. I detenuti, dietro le sbarre per venti ore su ventiquattro, erano arrivati a toccare quota quattrocento in una struttura che poteva ospitarne al massimo 238. Dopo la tirata d’orecchi ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) provano a raddrizzare la situazione. I problemi però non si misurano e soprattutto non si risolvono in metri quadrati. Anche perché, se da un lato negli ultimi cinque anni il numero dei detenuti in Italia è diminuito passando dai 68 mila del 2010 ai 52.164 del dicembre 2015, la cifra è tornata a salire nella prima metà del 2016. Gli ultimi dati del ministero della Giustizia segnano più di 53 mila presenze, 8 mila di queste in Lombardia, dove il sistema carcerario è pronto ad accoglierne poco più di seimila. Il record in questo senso spetta alla casa circondariale Canton Mombello di Brescia che stando agli ultimi dati ospita più di 340 persone a fronte di una capienza regolamentare di 189 posti: un tasso di affollamento del 180% che rende la casa circondariale bresciana la struttura più affollata in Lombardia e la seconda in Italia dietro soltanto a Latina che tocca un tasso di affollamento del 189%. Non sempre le pene alternative, su cui sonnecchia in Senato un provvedimento per il loro allargamento, sono in grado di offrire un valido cuscinetto di atterraggio. In particolare per i detenuti stranieri che rappresentano il 46% della popolazione carceraria lombarda. I percorsi alternativi alla detenzione sono perlopiù pensati per i detenuti residenti e gli stranieri faticano ad avere un valido appoggio all’esterno oltre che un lavoro che possa garantire loro la sussistenza. Tralasciando per un attimo i numeri si nota come negli ultimi anni "il carcere stia diventando più che un luogo di punizione e rieducazione un collettore di marginalità e malessere oppure parte di un percorso socio-sanitario", spiega Valeria Verdolini dell’Associazione Antigone, che si occupa della condizione dei detenuti. Da qui l’importanza della presenza di educatori e psicologi in carcere, figure che però continuano a essere in numero inferiore rispetto all’organico richiesto. "Da oltre dieci anni - spiega Barbara Campagna, educatrice a San Vittore e coordinatrice regionale Cgil - non si bandiscono concorsi per assistenti sociali ed educatori. Gli psicologi operano solo sotto forma di consulenza oppure per conto dell’azienda ospedaliera per gli interventi sanitari, senza contare gli operatori costretti a coprire più sedi". Un paradosso pensando ai tavoli tecnici organizzati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che hanno messo al centro dell’attività degli istituti proprio la fase di rieducazione e reinserimento. Addirittura una parte di questa delega finisce di fatto alla Polizia Penitenziaria che a sua volta lamenta la mancanza di oltre mille unità. Carenza che determina turni logoranti e condizioni di stress che influiscono sui rapporti col detenuto. "La differenza tra me e le persone che sono detenute - spiega quasi ironicamente un agente - è che alla sera io torno a casa, loro no. Per il resto siamo tutti qui". Poi ci sono quelli che non ci sono più. I morti di carcere. Negli istituti lombardi, nel corso degli ultimi cinque anni, sono stati 33, sei nell’anno appena trascorso. L’ultimo è Paolo Leone, che si è impiccato nel carcere di Opera il 25 novembre a ventiquattro ore dall’arresto avvenuto la sera precedente dopo il tentato omicidio dell’ex complice. A lui, tra gli altri, si aggiunge anche la donna ventunenne che si è suicidata impiccandosi con un lenzuolo all’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere nel giugno del 2014. L’ex Opg, oggi Rems (Residenze regionali per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ospita 143 persone a fronte di una capienza di 104 posti e vi sono indirizzati pazienti autori di reato, giudicati incapaci di intendere e di volere. Nel panorama lombardo una eccezione è rappresentata dal carcere di Bollate, che negli ultimi tempi si è guadagnato la ribalta delle cronache grazie al progetto del ristorante InGalera, dove i detenuti cucinano e servono ai tavoli. Qui su 1.200 detenuti 200 sono ammessi al lavoro esterno. "Fin dall’inizio l’istituto - spiega Massimo Parisi, direttore del carcere di Bollate - è stato concepito per porre al centro il processo di recupero del detenuto. Devo ammettere che qui la collaborazione tra gli operatori, dalla polizia penitenziaria agli psicologi, passando per gli educatori - sottolinea Parisi - è più marcata che altrove. Fattore che permette al detenuto di avere un percorso positivo all’interno della struttura". Padova: 10 detenuti al Due Palazzi assunti da una coop di pulizie venetoeconomia.it, 25 maggio 2016 Dieci detenuti del carcere Due Palazzi di Padova saranno assunti a tempo determinato, dal primo di giugno 2016 e per quattro mesi, dalla Cooperativa Solidarietà di Padova, in regime di sostituzione di ferie. Faranno gli addetti all’igiene ambientale in alcuni cantieri. In sostanza, faranno le pulizie. Il progetto nasce all’interno dell’Icat, una sezione detentiva a custodia attenuata in un padiglione della casa circondariale, ed è in collaborazione oltre che con la direzione dell’Icat stesso anche con l’unità operativa di Sanità penitenziaria dell’Ulss 16 di Padova. La sezione ospita in buona parte persone con problemi di alcolismo e tossicodipendenze. Secondo una recente statistica diffusa dall’associazione Nessuno tocchi Caino, in Veneto il 14% dei detenuti ha opportunità lavorative, una quota considerata bassa dall’associazione vicina al Partito Radicale. Dei 10 detenuti interessati al progetto di reinserimento lavorativo, 4 hanno ottenuto nell’ottobre 2015 la qualifica di "Addetto all’igiene ambientale" dopo aver frequentato un corso di formazione sperimentale attivato dalla cooperativa in carcere. Gli altri 6 invece avranno un orso di formazione "on the job" affiancati da operatori esperti, durante i primi 15 giorni di attività in cantiere. I turni di lavoro si svolgeranno tra le 5 del mattino e le 23 di sera: tutti i giorni i detenuti saranno prelevati in carcere da due mezzi messi a disposizione dalla Cooperativa Solidarietà, condotti nei cantieri dove la Cooperativa cura i servizi di pulizie, inseriti nella squadra di lavoro cui sono stati assegnati e poi riaccompagnati all’Icat al termine del turno. "I nostri detenuti ottengono così una seconda chance e la possibilità di mettersi alla prova nella gestione del tempo, della fatica e nella responsabilità - spiega la direttrice della Casa circondariale dei Due Palazzi Antonella Reale. Il lavoro diventa l’elemento principe del trattamento penitenziario, insieme all’aspetto terapeutico. Questa è la prima esperienza in assoluto perché realizzata in un contesto quale quello dell’Icat, che è unico nel Triveneto, utilizzando strumenti riabilitativi innovativi che accompagnano e sostengono i detenuti fino ad affrontare il lavoro all’esterno. Lo Stato risparmia soldi pubblici e la percentuale di recidiva si abbassa nettamente". "Il nostro obiettivo - commenta il direttore dei Servizi sociali e tunzione territoriale dell’Ulss 16 Gino Gumirato - è di introdurre un approccio al trattamento sanitario capace di integrare prevenzione, cura e riabilitazione per ridurre la recidiva". "Una delle difficoltà - spiegano il presidente della Cooperativa Solidarietà Stefano Bolognesi e la vicepresidente Stefania Pasqualin - è che per i detenuti con pena breve non è possibile fare progetti a lungo termine. In questo caso, il carcere ci ha aiutati a selezionare detenuti che non verranno scarcerati nel periodo lavorativo. Con questo progetto abbiamo sperimentato, in collaborazione con la Direzione del Carcere e la Servizi Sanitari Penitenziari, un nuovo modo per creare occupazione per queste persone, offrendo loro la possibilità di un lavoro all’esterno dei locali di detenzione. Se questa sperimentazione si dimostra sostenibile, può essere un’opportunità da riproporre ogni anno. E ad ottobre potremmo offrire nuove opportunità lavorative. Ora stiamo lavorando alla possibilità di allestire un laboratorio di assemblaggio all’interno del carcere". Vibo Valentia: Sappe; carcere tra carenze organiche e affollamento di detenuti zoom24.it, 25 maggio 2016 Il carico di lavoro diventa via via sempre più ingestibile. Perché c’è da fare fronte a tutta una serie di stringenti necessità. Ma il personale cui si chiedono turni massacranti, con carichi pesanti di stress e responsabilità, è inferiore rispetto al dovuto. Al punto da determinare delle difficili condizioni di lavoro per i dipendenti. In più, proprio oggi, nella struttura si è verificata una riduzione della portata dell’acqua, che ha lasciato a secco i rubinetti dei detenuti, così privati dei servizi igienici. Il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria ha fotografato la situazione difficile vissuta all’interno del carcere di Vibo Valentia, in una conferenza stampa tenutasi questa mattina, alla quale hanno preso parte il segretario provinciale Francesco Ciccone, affiancato dal componente della segreteria provinciale Saverio Ditto, e i consiglieri regionali Michelangelo Mirabello e Giuseppe Mangialavori. L’organico. Dopo aver visitato la struttura penitenziaria, Ditto e Ciccone hanno rappresentato le carenze della casa circondariale, per la quale - secondo quanto previsto dal d.m. 2001 - "l’organico vibonese era stato fissato in 202 unità (nel 1997 l’istituto apriva con oltre 250 unità), ma il d.m. del 2013 ha fissato in sole 142 unità l’organico del carcere di Vibo: ben 60 unità in meno". Oggi, a coprire l’intero servizio sono 160 unità, di cui 28 distaccate in altre sedi e 2 in missione nella casa circondariale di Arghillà, per l’apertura di una nuova sezione. Ne consegue che gli agenti in servizio sono costretti a turni massacranti di 8-12 ore, con carichi di lavoro eccessivi determinati dalla mole di lavoro distribuita tra gli uffici colloqui, matricola, sala regia, magazzino e altri. "Altro aspetto negativo - hanno lamentato dal Sappe - è il servizio delle traduzioni detenuti: i mezzi sono obsoleti, con oltre 25 anni di vita, e solo 22 unità sono assegnate al servizio, contro le 50 del 1997". I detenuti. A fronte di una carenza organica di una certa importanza, si registra poi un significativo aumento della popolazione detenuta. Ad oggi, secondo quanto ha dichiarato il Sappe, nel penitenziario si trovano 375 persone: 242 in Alta sicurezza, 54 in Media sicurezza e 79 nella sezione Sex offenders. Il dato più importante, e che rappresenta il problema, è quello relativo al regime di Alta sicurezza, in cui in un anno si è passati dall’avere in detenzione 160 persone a contenerne 242: ben 82 detenuti in più. "Più detenuti ci sono - ha sottolineato il sindacato -, più operazioni si devono svolgere. In più ci sono problemi per la manutenzione dell’Istituto, i fondi assegnati nel capitolato 2016 - hanno proseguito i rappresentanti sindacali - sono già finiti e per l’acquisto di materiali per la risoluzione dei problemi c’è la necessità di chiedere la copertura finanziaria straordinaria, che non sempre arriva". Le richieste. Una situazione che ha dell’insostenibile e per la quale il sindacato ha chiesto e chiede "l’assegnazione di almeno 30 unità anche in considerazione del fatto che - hanno chiosato i sindacalisti - ci troviamo in un istituto in cui oltre 240 detenuti appartengono al circuito dell’Alta sicurezza, con il 60 per cento in attesa di giudizio di primo grado, e nel quale garantire la sicurezza non è assolutamente facile". Catania: emergenza carcere Piazza Lanza, pochi agenti per troppi detenuti blogsicilia.it, 25 maggio 2016 Protesta sospesa, per il momento. Nessun sit-in per gli agenti del carcere catanese di Piazza Lanza, ma un incontro con la direzione dopo le numerose richieste dei sindacati. "La Direzione dell’ Istituto, che conta una popolazione di 370 detenuti e un organico effettivo di 245 agenti rispetto ai 350 previsti - spiega Armando Algozzino, segretario nazionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria - ha convocato la Uil, dopo numerose richieste di confronto da parte dell’organizzazione, per la giornata di domani: pertanto, ci riserviamo di conoscere gli esiti dell’incontro prima di mettere in atto eventuali ed ulteriori azioni". "La Uil-Pa Polizia Penitenziaria, che rappresenta il 60% del personale, aveva deciso di proclamare il sit-in - chiarisce il segretario - per sensibilizzare l’opinione pubblica in merito alle problematiche irrisolte e alla mancata interlocuzione della Direzione con le sigle sindacali; tra le istanze più urgenti, la distribuzione secondo criteri di equità dei servizi e la loro corretta rotazione per gli agenti, gli ispettori e i sovrintendenti". Secondo il segretario, inoltre, i vertici dell’Istituto non avrebbero rispettato né l’anzianità del personale, violando così l’Accordo Quadro Nazionale, il Protocollo d’Intesa Regionale e l’Accordo d’Intesa Locale, né l’assegnazione del lavoro straordinario secondo quanto previsto dall’articolo 30 del Dpr 82/1999. La vertenza portata avanti dalla Uil-Pa riguarda inoltre "i carichi di lavoro eccessivi per i poliziotti penitenziari, che comportano la copertura di 2 o 3 posti di servizio". "Se la Direzione - conclude il segretario - non dovesse rispettare gli accordi a seguito dell’incontro, la Uil-Pa intraprenderà tutte le azioni possibili, sia sotto il profilo sindacale che giuridico, per tutelare i diritti dei lavoratori". Milano: il Garante nazionale dei detenuti incontra Rachid Assarag a Bollate Askanews, 25 maggio 2016 Ieri Mauro Palma ed Emilia Rossi, rispettivamente presidente e membro del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, hanno incontrato nel carcere di Bollate Rachid Assarag. Ai danni del detenuto di nazionalità marocchina erano state denunciate violenze da parte di Vittorio Ferraresi e dal suo avvocato Fabio Anselmo. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a seguito delle denunce, ne aveva disposto il trasferimento dal carcere di Ferrara a quello di Bollate dove Assarag si trova da venerdì scorso. Il Garante, nel corso della visita, si è intrattenuto con la persona detenuta per un lungo colloquio riservato e, successivamente, ha acquisito documentazione. Come noto, infatti, in base ai poteri conferiti dalla legge, il Garante Nazionale visita senza necessità di autorizzazione gli istituti penitenziari, prende visione, previo consenso anche verbale dell’interessato, degli atti contenuti nel fascicolo della persona detenuta e può avere colloqui riservati con le persone private della libertà, senza testimoni. Dopo la visita e il colloquio con Rachid Assarag, il Garante si è riservato di esprimere le sue opinioni e valutazioni su quanto appreso con una nota che sarà inviata direttamente al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. "Non solo carcere". Studio e proposte sui problemi delle case di detenzione in Italia tuttoggi.info, 25 maggio 2016 Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari, libro a cura dell’urbanista Domenico Alessandro Dè Rossi. Editore Ugo Mursia Editore, Milano 2016. Carceri sovraffollate, invivibili per detenuti e lavoratori. Il problema giace irrisolto da decenni sui tavoli della politica nonostante svariati e spesso improvvisati tentativi di soluzione. Non si può affrontare il problema carceri se non si affronta una visione sistemica che tenga conto di tutti gli aspetti normativi, architettonici, finanziari, sociologici e politici. Quest’opera, curata con severa attenzione storica e critica da Domenico Alessandro Dè Rossi - che ha diretto un’équipe altrettanto degna di menzione come i citati autori - è un eccellente strumento di studio e di proposta in questa così delicata materia. Si tratta di un’opera davvero completa, che dalla storia alle questioni di natura strutturale e architettonica, passando per una corretta disamina dei modelli di detenzione, anche a livello internazionale, ripropone una questione che nel nostro Paese deve assolutamente uscire dall’ordinarietà e talora dalla superficialità della sua trattazione e trovare uno spessore morale e una centralità politica senza condizionamenti di qualsivoglia natura. Luciano Bologna è un professore aggregato alla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Roma, La Sapienza, presso il Dipartimento di Management e Tecnologie. Bruna Brunetti, già dirigente generale del ministero della Giustizia, è stata provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria degli istituti dell’Abruzzo e del Molise, ove ha realizzato un nuovo modello di detenzione secondo le linee di indirizzo europee. Domenico Alessandro De Rossi, architetto e urbanista, è professore a contratto di Pianificazione territoriale, costiera e portuale alla facoltà di Ingegneria dell’Università del Salento. Nel 2005 è stato chiamato dal governo della Libia per la pianificazione del nuovo Programma Penitenziario conforme alle disposizioni dei Diritti umani sotto il patrocinio delle Nazioni Unite coordinando docenti universitari e professionisti per il Piano nazionale delle carceri dello Stato per oltre 6.000 detenuti. Roberto Liso, già dirigente dell’Amministrazione penitenziaria (negli ultimi anni di lavoro si è occupato della sanità nelle carceri) ed esperto di legislazione riguardante l’impiego pubblico, ha partecipato a commissioni di studio di livello nazionale. Pier Luigi Marconi, psichiatra, studioso delle applicazioni cliniche dell’intelligenza artificiale, ha svolto attività di ricerca presso la Clinica psichiatrica dell’Università di Roma, presso l’Artemis Neurosciences di Roma e presso il dipartimento di Psicologia Clinica e Dinamica dell’Università di Roma. Stefania Renzulli architetto, esperta di riqualificazione ambientale e di pianificazione territoriale nel settore dei beni culturali, lavora presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri al dipartimento di Protezione Civile. Enrico Sbriglia, specializzato in Diritto Amministrativo e Scienza dell’Amministrazione, è abilitato all’esercizio della Professione Legale. È dirigente generale, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per gli istituti del Triveneto. Per i 10mila di Idomeni si spegne la speranza di Monia Cappuccini Il Manifesto, 25 maggio 2016 Rifugiati. Evacuato il campo. Per migliaia di profughi svanisce il sogno di un’Europa senza confini. Le forze dell’ordine hanno circondato le tende e ordinato a tutti di salire sui pullman. Cala il sipario sulla tendopoli di Idomeni. Laddove era tramontato il sogno di un’Europa senza confini, all’alba di ieri per i 10mila profughi rimasti intrappolati al confine con la Macedonia si è spenta l’ultima speranza di poter proseguire il loro cammino. Si torna indietro, verso la zona industriale di Sindos e Xaloxori vicino Salonicco per ora, dove alcuni ex capannoni industriali sono stati affittati e adibiti a centri di smistamento prima di procedere con il trasferimento graduale nei campi ufficiali gestiti dal Ministero dell’Interno. La capacità al momento è di 8mila posti, ci vorranno altri dieci giorni, dicono fonti governative. Nessuna resistenza - Obiettivo primario: liberare la linea ferroviaria che collega la Grecia con il resto dell’Europa, bloccata da 66 giorni e ripristinata, verosimilmente, sabato prossimo. A tal fine, e in concomitanza con l’imminente avvio delle nuove procedure di pre-registrazione per la richiesta di asilo, già da un paio di settimane si era cominciato a persuadere i profughi affinché lasciassero volontariamente Idomeni. Opera di convincimento intrapresa sia attraverso l’ausilio di traduttori e la messa a disposizione di un servizio di pullman diretti ai campi ufficiali, sia mediante la limitazione dell’accesso a solidali e volontari che portavano beni necessari. Le operazioni di ieri sono iniziate di buon ora e sono andate avanti per tutta la giornata. Un’evacuazione vera e propria più che uno sgombero violento, come aveva anticipato appena due giorni prima il rappresentante del Governo greco sulla questione profughi, Giorgos Kyritsis. E così è stato. Alle 6 del mattino in venti minuti si è materializzato al campo di Idomeni un numero consistente di mezzi dell’esercito, assieme ad almeno 400 Mat, le squadre anti-sommossa greche. Si è cominciato dalla prima parte del campo. A mano a mano le forze dell’ordine hanno circondato gruppi di tende e ordinato a tutti di prendere le proprie cose e di salire sui pullman. Non vi è stata alcuna resistenza. I metodi sono stati spicci, né violenti né accomodanti. In tenuta antisommossa, e con indosso le maschere anti-gas sebbene non ve ne sia stata necessità alcuna, la polizia non ha lasciato molte altre possibilità di scelta. Bisogna fare in fretta, vietato persino andare in bagno. Per tutta la giornata di ieri sull’autostrada verso Idomeni è stato un via vai continuo di pullman, molti dei quali, ironia della sorte, di proprietà della compagnia privata Crazy Holidays. Ne sono giunti a decine, arrivati vuoti per poi uscire qualche ora dopo carichi di persone a bordo. Verso metà mattinata sono comparse anche le prime ruspe e qualche camion per portare via ciò che è rimasto dell’ex ultima frontiera europea: palate di terra, brandelli di tende, coperte, qualche masserizia e tutto ciò che è stato lasciato per la fretta. Eccezion fatta per i giornalisti della televisione pubblica greca Ert, che hanno trasmesso le informazioni in tempo reale dai loro canale, è stato impossibile entrare sia agli altri media sia alle Ong e ai volontari presenti nel campo negli ultimi mesi. L’uscita dell’autostrada è rimasta presidiata da un paio di macchine della polizia, dal cielo rumoreggiava un solo elicottero. La visibilità delle forze dell’ordine è stata piuttosto discreta a conferma dell’intenzione di mantenere un basso profilo, almeno esternamente. Nessun posto di blocco e giusto qualche pattuglia lungo tutto il percorso che da Salonicco conduce Idomeni. Scarni di parole, gli agenti posti allo svincolo del campo hanno invitato chi sopraggiungeva a rimanere sul ciglio dell’autostrada. A circa un chilometro e mezzo di distanza dal luogo dell’evacuazione sono stati lasciati corrispondenti e telecamere, per lo più puntate verso il vuoto. Si comunica via telefono - L’unico intrattenimento è stato offerto dai clown volontari di The Flying Seagull Project, rimasti fuori anch’essi, che hanno improvvisato performance proprio davanti ai poliziotti attoniti. A chi cercava notizie non è rimasto altro che contare il numero dei pullman in entrata e in uscita e, di qui, azzardare una stima sui trasferimenti eseguiti. A metà giornata se ne sono contati 32, per un totale di circa 1.500 persone. Le uniche notizie sull’andamento dell’evacuazione sono giunte via telefono ai pochi autorizzati ammessi, per lo più personale sanitario di Medici Senza Frontiere e di qualche Ong, e da chi era rimasto dentro sin da ieri per il timore di non poter più rientrare. A evacuazione in corso, sono sbucati dalla boscaglia due siriani, sfuggiti al controllo della polizia. Prima di mettersi alla ricerca di un taxi che li portasse a Policastro, distante appena una decina di chilometri, hanno riferito di modi bruschi ma non brutali durante l’operazione di sgombero. Il destino di chi è rimasto - Da fuori ci si interrogava intanto sul destino di chi è rimasto, su dove vengono portate le persone trasferite e di quali procedure seguiranno. Volontari e operatori di alcune Ong si sono precipitati nella zona industriale di Salonicco per verificare di persona sull’esito dei trasferimenti, sebbene l’acceso sia stato limitato per ragioni di sicurezza anche alle organizzazioni accreditate. La televisione greca confermava nel frattempo i siti di destinazione individuati e, contestualmente, di un iniziale smistamento per nazionalità. "Siamo arrivati come supporto e testimonianza alle porte di Idomeni e, successivamente, nei capannoni industriali dove sono stati portati i profughi. Siamo riusciti a entrare solo in due degli ex magazzini adibiti a centro di smistamento, uno con capienza di 400 e l’altro di 1000 persone", riferisce Alessandro Verona, coordinatore medico per Intersos, tra le organizzazioni umanitarie italiane operative in alcuni campi della Macedonia centrale. "Per quello che abbiamo potuto vedere, entrambi i siti erano preparati e organizzati ai trasferimenti. I campi sono dotati di servizi base e, almeno in uno, anche di una postazione per la ricarica dei cellulari, segno che l’evacuazione era stata organizzata e non improvvisata. Abbiamo riscontrato molta stanchezza ma, tutto sommato, un’atmosfera tranquilla. Certo, lo sgombero di Idomeni non è la soluzione, così come non lo sono i campi profughi che rischiano di cronicizzare un’emergenza alla quale va trovata una soluzione di carattere politico a livello europeo". Droghe & riforma, il Friuli pianta un seme di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 25 maggio 2016 Riparte dal Friuli Venezia Giulia la battaglia per la modifica della legislazione sulle droghe. Mentre la Fini-Giovanardi viene abbattuta, pezzo dopo pezzo, dalle sentenze della Corte Costituzionale, gli operatori, le istituzioni e i politici più sensibili si rendono conto che il Testo Unico degli stupefacenti, la cui ossatura risale al 1990, ha fatto il suo tempo e va profondamente riformato. Così proprio dalla Regione che è stata teatro di uno dei momenti più bui della Fini-Giovanardi, la caccia alle streghe tramutatasi in processo contro il Rototom Sunsplash Festival, lancia un segnale forte dall’interno delle Istituzioni per la riforma della legge sulla droga. Con una larga maggioranza, solo 6 i voti contrari, il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia ha infatti dato il via libera la settimana scorsa alla "legge voto" promossa da Silvana Cremaschi, che invita il Parlamento e il Governo a mettere all’ordine del giorno la riforma della politica sulle droghe in Italia. Il testo approvato a Trieste richiede infatti a Governo e Parlamento di affrontare "lo scottante problema di un ripensamento globale delle pene detentive in Italia e della definizione in particolare di misure alternative alla reclusione" e riprende a questo scopo il testo del progetto di legge elaborato dal gruppo di lavoro promosso dalla Società della Ragione e poi sostenuto dal Cartello di Genova che riforma la legge 309/90, con la consapevolezza che il sovraffollamento nelle carceri ha origine proprio nella legislazione antidroga. Va ricordato che il testo della proposta di legge depositata alla Camera da Filippo Fossati (C. 3413) e al Senato da Sergio Lo Giudice (S 2399) si apre con l’importante definizione della liceità del consumo personale di sostanze, e prevede - oltre all’eliminazione definitiva delle sanzioni amministrative - anche la non punibilità della coltivazione, anche associata, di piante di cannabis ad uso personale. Inoltre il testo delinea una armonizzazione delle pene previste per spaccio e traffico rispetto al sistema penale italiano e più in linea con i principi costituzionali: ad esempio si passa da un profilo di pena detentiva per spaccio (art. 73) che attualmente va dagli 8 ai 20 anni (diminuita di un terzo per le sostanze in tabella II, in particolare la cannabis), ad una più ragionevole previsione di pena da 1 a 8 anni. Anche i minimi di pena per i reati associativi sono diminuiti considerevolmente. Inoltre il testo della proposta di legge delinea una revisione dell’impianto previsto per l’esecuzione penale dei detenuti tossicodipendenti con il chiaro obiettivo di favorire l’accesso alle misure alternative alla detenzione. Viene anche istituito presso ogni tribunale un servizio pubblico per le dipendenze che dovrà segnalare al giudice l’esistenza di un programma terapeutico in corso e soprattutto dovrà eventualmente predisporre in via di urgenza, su richiesta degli interessati o di ufficio, un programma prima dell’udienza. Dal punto di vista dei servizi vanno segnalate le modifiche che allineerebbero l’Italia con i Paesi europei ed extra europei permettendo la sperimentazione sui territori dell’efficacia di misure di riduzione del danno come, tra le altre, le stanze del consumo sicuro e il pill testing. Il voto friulano va rimarcato come un fatto politico importante, non solo perché finalmente una Regione, per la prima volta da alcuni anni, esce dalle paludi securitarie e prende una posizione netta sulle politiche sulle droghe, ma anche perché il Friuli Venezia Giulia è la Regione della Presidente Debora Serracchiani, vice segretaria del Partito Democratico. Non sappiamo ancora se son rose, e se mai fioriranno. Ma di certo un seme è stato piantato. Radicalizzazione nelle carceri. Incontro dei cappellani penitenziari a Strasburgo agensir.it, 25 maggio 2016 "Radicalizzazione nelle carceri: una visione pastorale": è il tema dell’Incontro europeo dei Cappellani penitenziari che si terrà a Strasburgo, dal 30 maggio al 1° giugno. "L’accompagnamento spirituale dei detenuti è sempre stato oggetto di una particolare attenzione da parte della Chiesa, concretizzandosi - spiega una nota introduttiva - nella presenza dei cappellani penitenziari e negli sforzi di tante associazioni e di molti volontari che collaborano nell’assistere i carcerati. I loro servizi non sono rivolti soltanto ai carcerati cattolici. Infatti, l’assistenza spirituale va di pari passo con gli sforzi per garantire migliori condizioni di vita e un sostentamento morale, in uno spirito di fratellanza, e per contribuire a migliorare sostanzialmente l’atmosfera nelle carceri". L’appuntamento è promosso da Ccee in collaborazione con la Missione permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa e la Commissione internazionale della Pastorale cattolica nelle carceri, la quale sta organizzando un incontro europeo dei cappellani responsabili della pastorale penitenziaria a livello nazionale. L’incontro è organizzato sotto gli auspici del Segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland. Stati Uniti: sarà chiesta la pena di morte per l’autore della strage di Charleston La Stampa, 25 maggio 2016 Nel giugno 2015 Dylann Roof uccise nove fedeli afroamericani in una chiesa del South Carolina. La giustizia federale statunitense ha annunciato che chiederà la pena capitale per Dylann Roof, il giovane bianco accusato di aver massacrato a colpi di pistola nove fedeli neri il 17 giugno 2015 in una chiesa frequentata dalla comunità afroamericana a Charleston, in South Carolina. Si tratta della peggior strage razzista della storia recente degli Usa. "Si impone questa decisione data la natura del crimine stesso contestato e i danni conseguenti", ha spiegato il ministro della Giustizia Loretta Lynch. Su Roof, 22 anni, pendono 33 capi d’accusa, tra cui quello di "crimine d’odio razziale". "I crimini di odio sono all’origine del terrorismo interno", aveva spiegato in passato la responsabile della giustizia. I capi d’accusa ruotano anche attorno all’identità religiosa delle vittime, uccise mentre si trovavano nella chiesa di cui erano fedeli. Nei documenti dell’incriminazione si sottolinea tra le altre cose che Roof aveva creato un suo sito web (lastrhodesian.com) in cui aveva pubblicato alcune immagini in cui compare con indosso un giubbotto nero su cui sono cucite due bandierine: una è degli afrikaner del vecchio Sudafrica dell’apartheid, l’altra è della defunta Rhodesia razzista. In altre foto mostrava la sua pistola Glock calibro 45 e una bandiera confederata, da molti considerata un simbolo razzista. E proprio in seguito alla strage di Charleston, e ad un vespaio di polemiche su cui è intervenuta anche la Casa Bianca, il Senato e la Camera della South Carolina hanno votato una legge che ha consentito di rimuovere il vessillo sudista da tutti gli edifici dello Stato, e che lo scorso 10 luglio è stato infine ammainato per sempre dalla sede il governo e il parlamento statali. Iraq: in un mese giustiziati 22 detenuti Askanews, 25 maggio 2016 Le autorità irachene hanno annunciato di avere, nel mese scorso, giustiziato 22 persone condannate per "atti criminali e terroristici"; un annuncio subito denunciato da organizzazioni a per la difesa dei diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch. In occasione dell’inizio di un’operazione militare, lanciata ieri, per riprendere la città di Falluja dai jihadisti dello Stato Islamico (Isis) "si conferma (...) che il dipartimento (della Giustizia irachena) continua a infliggere la giusta punizione ai terroristi", ha detto il ministro di Giustizia Haidar al-Zamili in un comunicato diffuso lunedì sera senza fornire ulteriori dettagli. Secondo Amnesty International, più di 100 persone sono state giustiziate quest’anno in Iraq. "L’uso della pena di morte è deplorevole in ogni circostanza, ed è particolarmente terribile quando applicata al termine di processi gravemente iniqui" che si svolgono sulla base di "confessioni ottenute sotto tortura, come spesso il caso in Iraq", ha affermato Diana Eltahawy, ricercatrice dell’organizzazione nel Paese arabo. Anche l’HRW, da parte sua ha criticato il ministro della Giustizia per avere utilizzato il via all’offensiva su Falluja per giustificare ulteriori esecuzioni. "Determinare il momento di esecuzione per motivi politici viola i principi di giustizia", ha detto alla France Presse, Christoph Wilcke, dell’organizzazione umanitaria. Eritrea prigione d’Africa di Michele Farina Corriere della Sera, 25 maggio 2016 L’ex colonia italiana celebra un quarto di secolo di vita con parate e fuochi d’artificio. Ma il regime del presidente Afewerki lascia una sola speranza ai suoi giovani. La fuga. Chissà se avrà festeggiato il giorno dell’indipendenza il ragazzo con i tatuaggi sulle braccia, due scritte in inglese dipinte prima di scappare dal suo Paese-prigione: "Stato di diritto" e "Passa tutto". Aveva 24 anni l’estate scorsa, l’ha fotografato alla stazione di Milano la reporter senegalese Ricci Shryock. Uno dei 40 mila eritrei che nel 2015 hanno raggiunto l’Italia attraversando il Sahara e il Mediterraneo, scappando da un Paese che secondo l’ultimo rapporto Onu è teatro di "gravi e diffuse violazioni dei diritti umani". Forse non c’è nazione al mondo che si "svuota" così velocemente: su 4,5 milioni di abitanti, il 9% sono fuggiti all’estero negli ultimi anni. Dopo i siriani, gli eritrei sono il gruppo più numeroso in arrivo in Europa. L’anno scorso solo 475 su 40 mila hanno chiesto asilo nel nostro Paese. Gli altri puntavano oltre le Alpi: Svizzera, Germania, Olanda le mete. L’Italia no, forse perché è come se ci fossero cresciuti. Non c’è posto in Africa più italiano di Asmara, la capitale dell’ex colonia che ieri tra parate e fuochi d’artificio ha celebrato i 25 anni di vita. Le bici e il cinema Impero - Il nome Eritrea (dal greco, rossiccio) uscì nel 1890 dalla penna di Carlo Dossi, scrittore amico del presidente del Consiglio Francesco Crispi. Roma governò quello spicchio d’Africa per mezzo secolo. Asmara sfoggia ancora l’architettura modernista dei nostri anni Venti e Trenta. E poi il Cinema Impero, il Liceo Marconi, il cocktail Negroni, il culto del caffè macchiato, la bici come sport nazionale e unico mezzo di locomozione in un Paese-caserma dove il servizio militare obbligatorio (perenne dai 16 anni in su) viene pagato con 30 euro al mese. La prima bici arrivò da Roma nel 1898, nel 1946 si corse il primo Giro dell’Eritrea (comunque riservato agli italiani). Oggi gli stranieri invitati dal presidente-padrone Isaias Afewerki fanno un viaggio nel tempo sulla ferrovia da Massaua ad Asmara, capolavoro della nostra ingegneria. Le funzionanti locomotive, costruite ottant’anni fa, sono un po’ l’equivalente eritreo delle vecchie decappottabili americane circolanti a Cuba. Ciclisti e calciatori - L’America di Obama ha riallacciato i rapporti con l’isola delle vecchie Chevy e dei vetusti Castro. L’Eritrea del settantenne Afewerki rimane uno dei Paesi più chiusi e isolati del mondo. Internet è un lusso per l’1% della gente. I ciclisti eritrei corrono il Tour de France con una squadra del Sudafrica, e quando tornano sono accolti con adunate di piazza. Se tornano: l’anno scorso dieci giocatori di calcio in trasferta hanno chiesto asilo politico in Botswana. La guerra permanente - Il servizio militare permanente, nella famigerata base di Sawa, lo Stato di diritto che è soltanto un tatuaggio (rule of law) sulle braccia di chi scappa oltre i cecchini, al di là delle montagne. Chi non ha soldi per i passatori resta sul lato sbagliato del Sahara, bloccato in Sudan o nei campi profughi dell’Etiopia, il grande spauracchio del regime eritreo. Venticinque anni dopo l’indipendenza di quella che fino al 1991 era una provincia di Addis Abeba, i vicini-nemici sono sulla carta ancora in guerra. Per Asmara è un motivo sufficiente per costringere sotto le armi (di fatto ai lavori forzati) due terzi dei giovani che finiscono la scuola. E quei duemila ragazzi e ragazze che scappano ogni mese tutto sommato non dispiacciono al regime. La grande paura di Afewerki è una rivolta interna. Chi scappa non si ribella. E una volta all’estero manda soldi alle famiglie rimaste a casa. Imprese - Qualcosa sta cambiando, a sentire i diplomatici italiani che sono un po’ l’orecchio del mondo in terra eritrea. Si coglie qualche apertura nel monolite del potere, più timida di quanto si vorrebbe. Qualche impresa tricolore, dal tessile al fotovoltaico, porta lavoro (e valuta pregiata allo Stato). In un mondo di crisi umanitarie concorrenti, la fortezza Eritrea con le sue italiche facciate moderniste non fa l’effetto delle macerie dove si combattono le guerre. Ma per commuoverci forse bastano tre parole, rule of law, tatuate sul braccio di un ragazzo che fugge. Gran Bretagna: dieci km di maratona, per correre oltre il muro del carcere di Marco Patucchi La Repubblica, 25 maggio 2016 Paolo Maccagno, ricercatore italiano dell’Università di Aberdeen, ha organizzato una gara all’interno del penitenziario di Grampian, alla quale hanno partecipato molti detenuti (foto), che lui stesso ha allenato per 4 mesi: "Come il muro del maratoneta, una sfida per sentirsi liberi". La corsa come atto di libertà. Quante volte lo abbiamo pensato, lo abbiamo "sentito", magari allenandoci sotto la pioggia di una domenica pomeriggio o contro il vento di un lungomare al tramonto. Deve averlo "sentito" forte anche Paolo Maccagno, attraversando oltre trenta chilometri di spiagge e di sentieri a picco sul mare, prima di varcare il portone del carcere Grampian di Peterhead, Scozia orientale. Paolo ha voluto fare questa corsa preparatoria da casa sua al penitenziario per poi legarla come un lungo filo alla gara che dentro hanno proseguito, insieme a lui, nove detenuti, È successo tutto qualche giorno fa, sopra Peterhead il cielo era grigio, quasi non si distingueva dal muro di cinta del carcere. Ecco, immaginiamo cosa è passato per la testa di quel drappello di uomini che ha inanellato giri su giri di running nel campo da calcio della prigione e lungo un tratto delle mura. Quale delicato sapore di libertà hanno assaggiato, chiudendo gli occhi e correndo oltre le loro pene. Paolo, che è un antropologo italiano, ricercatore all’Università di Aberdeen, ha allenato ogni mercoledì degli ultimi quattro mesi quel drappello di esistenze, vincendo pudori e sospetti, ripetendo come un mantra la sua idea di esperienza del limite: "Bisogna cambiare se si vuole superare il muro e arrivare in fondo ad una maratona. Il muro del maratoneta è un’esperienza trasformativa. Soltanto un cambiamento di postura corpo-mente può permettere di andare oltre. Soltanto una pratica del limite". Quasi tutti i runner di Grampian hanno completato i dieci chilometri complessivi della gara organizzata da Paolo insieme allo staff del penitenziario, qualcuno invece si è fermato a 5 o a 7 chilometri. "A parte qualche battuta scherzosa, non c’è stata competizione tra i ragazzi - dice Maccagno -. Ognuno ha corso concentrato su se stesso, non contro gli altri". Paolo racconta le emozioni di quel mattino, dalla distribuzione dei pettorali nella palestra del carcere, agli abbracci al termine della corsa, alla cerimonia di premiazione davanti a tutti i parenti: "Anche i membri dello staff sono rimasti sorpresi: dicono che non era mai successo, qui a Grampian, di vedere tanti a abbracci tra i detenuti". Evidentemente qualcosa di buono è scattato grazie alla corsa, come dimostra la nuova lista di una decina di persone che ora vogliono partecipare ai prossimi allenamenti e alle prossime gare. Insomma, il cortile del carcere come uno stadio di atletica. Poter finalmente alzare la testa e guardare avanti per chi normalmente ha come orizzonte un muro, è il vero risultato di cui Paolo si sente orgoglioso: "Sharon, che non ha partecipato alla gara ma che corre con noi, ha interpretato da subito il running come una possibilità di rivincita. La prima domanda che mi ha fatto è stata: "Per quanto tempo starai qui?" Ha bisogno di fidarsi. Non ha alcuna esperienza di podismo alle spalle, ma non ha perso un solo allenamento: ha 48 anni e qualcuno ancora da passare in carcere. La corsa per lei è una speranza sia ora che è dentro, sia nell’immaginarsi quando sarà fuori. Un ponte tra l’interno e l’esterno". La pratica del limite, appunto, come quella che ha sperimentato Jim che aveva iniziato ad allenarsi con il gruppo, ma poi ha avuto un problema cardiaco. Però non ha mollato, ha continuato a correre e il giorno della gara ha fatto sette chilometri. "Con lui ho legato in modo particolare - dice Paolo - anche se senza parole, perché capisco pochissimo di quello che dice. Per fortuna correre è oltre le parole". Poi c’è David che non ha mai bucato un mercoledì di allenamento: ha più di cinquanta anni e alla gara ha completato dieci chilometri. Come lui anche Philip, che ha iniziato solo un mese fa, è evidentemente sovrappeso, ma non ha voluto assolutamente rinunciare a finire i dieci chilometri. "Dopo l’esperienza di qualche anno fa nel carcere di Bollate a Milano, grazie a Lia Sacerdote della Ong "Bambinisenzasbarre", ora il progetto sta prendendo forma insieme all’Ong "Familiesoutside" di Edimburgo e con la collaborazione dello staff di Grampian. Le implicazioni e le connessioni del progetto sono molte e stanno crescendo - spiega Maccagno -. Dai risultati sulla salute e sul benessere dei runner a quelli sociali, visto che grazie alla bravissima educatrice del carcere che ha partecipato all’iniziativa, chi svolge allenamenti e gare avrà una sorta di credito formativo valido anche quando sarà fuori dal penitenziario. E le prossime iniziative coordinate con JogScotland dentro e fuori dal carcere, rappresentano una sfida importante al muro come divisione, una grande opportunità perché molti di loro quando saranno fuori, quando torneranno alla vita di persone libere, si sentiranno persi". La corsa come disciplina, come preparazione all’esistenza, come scuola di resistenza alle difficoltà e alle salite del mondo: "Correre distanze sempre maggiori - racconta Paolo - sta diventando il sogno dei runner di Peterhead. Non è lo sprint, non è la velocità, ma una dimensione di libertà che solo la corsa di lunga distanza può regalare. Correre il muro del maratoneta".