Ascoltando Alexandra Rosati (figlia di Adriana Faranda) mi sembrava di ascoltare me stessa di Suela, figlia di Dritan, detenuto-redattore di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2016 Venire a Padova per me è sempre una grande emozione, vedere mio padre, incontrare delle persone speciali con le quali ho legato molto è una grande gioia. Partecipare al convegno organizzato da Ristretti Orizzonti non è solo un’attività inerente ai miei studi di Giurisprudenza, un’attività alla quale devo partecipare per arricchire il mio bagaglio culturale, ma è un posto dove entro e mi sento a casa, è un posto dove ho bisogno di entrare per stare bene. Aspetto tutto l’anno con ansia di entrare in questo carcere, invece prima avevo l’ansia perché ci dovevo entrare. È straordinario tutto ciò che vi avviene all’interno, è straordinario vedere i detenuti che hanno una capacità di intrattenere e interloquire con le persone che nessuno mai crederebbe, perché le persone fuori pensano che i detenuti, dato il loro stato, non siano persone, invece non è cosi. Sentire delle persone cha hanno sbagliato tanto raccontare le loro storie con pentimento e dignità emoziona molto. Mi sono emozionata tanto e mi ha colpito molto l’intervento di Chaolin, un ragazzo giovanissimo, mio coetaneo, emozionatissimo durante l’intervento, con un modo di parlare cosi gentile, quasi da non credere che una persona come lui sia in carcere. Quest’anno la mia partecipazione al convegno è stata speciale perché ero accompagnata dalla mia migliore amica, Stefania, la quale non era mai entrata in un carcere, ma da quando gliene ho parlato con cosi tanta passione si è incuriosita a tal punto da prendere anche delle decisioni importanti nella sua vita. Alla domanda di un detenuto, Gentjan, che le ha chiesto "che effetto ti fa stare qui dentro?", Stefania ha risposto che era meravigliata da tanta normalità e che mai avrebbe pensato che all’interno di un carcere ci fosse un’attività cosi bella e che soprattutto i detenuti sono delle persone normali, a tal punto da non capire chi fossero i detenuti e chi gli ospiti. Stefania si meravigliava quando le dicevo "andiamo a salutare un amico di mio papà", perché dice, e lo diciamo tutti, che è stupendo il fatto che si instaurano dei rapporti cosi forti, da chiamarsi addirittura amici, tra le persone detenute e le rispettive famiglie, proprio perché fuori dal carcere è raro che le persone si leghino cosi tanto l’una all’altra senza che ci sia un secondo fine. Nella seconda parte del convegno, ascoltando Alexandra Rosati (figlia di Adriana Faranda) mi sembrava di ascoltare me stessa, e ho sentito un brivido dentro di me, e ho pensato a ciò che mi sarebbe potuto accadere se, quando ero piccola, i miei compagni di scuola e le loro famiglie avessero saputo la figlia di chi ero, la discriminazione che avrei subito, l’emarginazione, il senso di solitudine e di diversità che sarebbe stato ancora più accentuato. Sono stata fortunata a differenza sua perché la mia storia non la conosceva nessuno, e ora che molti la conoscono ho avuto la possibilità di essere ascoltata e raccontarla io e non farla raccontare da terzi a loro piacimento. Per me la magia più grande, o meglio il miracolo è avvenuto su mio papà, il quale grazie alla redazione di Ristretti Orizzonti, alla grande determinazione di queste persone a non mollare mai, è una persona migliore, un’altra persona, una persona con una grande voglia di vivere e migliorare, una persona con un’intelligenza straordinaria e una capacità di fare sentire gli altri a proprio agio che non tutti hanno. Non esprimo mai parole cosi importanti su di lui, ma questa volta glielo devo perché sono orgogliosa di lui e di quello che sta facendo. Non avevo mai presentato delle mie amiche a mio papà perché pensavo che non fosse pronto, invece penso che io non ero pronta, ma quest’anno l’ho voluto fare, gli ho presentato Stefania, la quale dopo mezz’ora che era con lui mi ha detto "a me sembra di parlare con te, perché tu sei come lui e non so come sia possibile visto che non sei cresciuta con lui. Gli voglio già bene perché ha qualcosa che mi ricorda mio padre". La riforma del carcere? Sequestrata al Senato di Errico Novi Il Dubbio, 24 maggio 2016 Nuove tutele per i detenuti bloccate dalla prescrizione: è tutto in un unico ddl. Arriverà davvero entro l’estate la riforma della prescrizione? E il via libera alla delega sulle intercettazioni? Impossibile dirlo. L’unica cosa certa è che le due materie sono intrappolate dentro l’unico, ampio disegno di legge sul processo penale. Con loro un’altra importantissima delega: quella sull’ordinamento penitenziario. Riforme diverse che si tengono l’un l’altra. Nel senso che le divergenze tra Pd e Ncd su uno solo dei 36 articoli del ddl tengono in ostaggio tutto il resto. La riforma del carcere è dunque sequestrata lì, in mezzo ai litigi sulla super-prescrizione. È bloccata nonostante la relativa delega entri già nello specifico delle misure da adottare. Lo fa in particolare all’articolo 31 del ddl, ordinato in 14 commi che affrontano tutte le emergenze del sistema carcere, dal decisivo allargamento delle "pene alternative", alla giustizia riparativa e all’affettività dietro le sbarre. C’è una rivoluzione copernicana già scritta per titoli, in linea con molte delle "raccomandazioni" avanzate agli Stati generali dell’esecuzione penale. A tenere il timone della riforma penitenziaria è il guardasigilli Andrea Orlando: secondo l’articolo 29 "i decreti legislativi" sul carcere "sono adottati su proposta del ministro della Giustizia". Orlando deve muoversi con passo felpato per più di un motivo. Innanzitutto accelerare su tutele e lavoro per i detenuti nel pieno della campagna sul referendum è un rischio da acrobati. Nei mesi scorsi e soprattutto durante gli Stati generali, si era ipotizzato uno stralcio della materia penitenziaria dall’immenso ddl penale. Ma è facile immaginare cosa accadrebbe, se una legge che riveda l’uso dei collegamenti video durante i processi "con modalità che garantiscano il diritto di difesa" (comma "i") fosse approvata prima di quella sulla prescrizione: il fronte del no griderebbe subito al "governo amico dei criminali". Di queste difficoltà il guardasigilli è ben consapevole. Ne ha parlato sabato nel suo intervento all’addio a Marco Pannella. "Voci come la sua valgono oro, ed è necessario che si continui ad ascoltarle". Pannella da solo costituiva una spinta straordinaria per chiunque, sul carcere, avesse voluto spingersi oltre il perimetro dell’opportunismo. "Lui e il Papa", ha detto Orlando a Piazza Navona. E andare avanti sul superamento totale (o quasi) dell’ergastolo ostativo (comma "e") sarebbe per esempio un modo straordinario di onorare la memoria del leader radicale. Ma per ora si deve attendere che l’intera riforma penale marci unita. C’è spazio appena per qualche misura di contorno. Come il protocollo d’intesa sul "Piano formativo" per i detenuti che Orlando e la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini hanno sottoscritto ieri a Palermo, in occasione del 24esimo anniversario della strage di Capaci. Si tratta di un rafforzamento delle reti tra istituti di pena, Regioni e imprese in materia di formazione scolastica e professionale. Il presupposto dunque per allargare la diffusione del lavoro nei penitenziari. Un passo avanti, che rischia però di non portare al traguardo. Finché il Senato terrà in ostaggio l’intera riforma del carcere. Il ministro Orlando: "Il carcere non basta, contro la mafia serve formazione in carcere" di Riccardo Arena Giornale di Sicilia, 24 maggio 2016 Gli occhi del mondo erano puntati su Palermo, ricorda il giudice a latere del maxiprocesso, ancora orgoglioso di quel ruolo che gli cambiò la vita. Piero Grasso parla in un’aula bunker profondamente cambiata, senza la folla di imputati e avvocati e giudici ma con tanti ragazzini che ricordano un giudice divenuto suo malgrado eroe. Parla in una città tanto diversa da quel 1986 in cui iniziò il maxiprocesso, il presidente del Senato, ma anche da quel 23 maggio 1992 in cui l’inferno scoppiò a Capaci, travolgendo Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo, e i tre uomini della scorta. Facendo aprire gli occhi ai tanti, troppi, che fino a quel momento si erano distratti. Da tempo però, anche se ieri c’era una delegazione del Fbi al bunker dell’Ucciardone, gli occhi del mondo non sono più puntati su Palermo, che sconta anche i peccati di una certa antimafia finita sotto inchiesta, quella dei casi Saguto, Montante, Maniaci, e difatti tutti cercano di evitare o al più di toccare l’argomento con molto tatto, nel giorno del ricordo, ripensando la lotta a Cosa nostra sotto altri profili. Sono infatti anche i giorni successivi all’agguato con cui un’organizzazione criminale mafiosa ha tentato l’atto eclatante tra Cesarò e San Fratello. Il sopravvissuto, Giuseppe Antoci, il presidente del Parco dei Nebrodi, è ospite del bunker: chissà se sarebbe andato, se non gli avessero sparato "il 18 maggio, il giorno del compleanno di Falcone - dice lui stesso, con la voce che gli si incrina per via dell’emozione. Io sono sicuro che ci ha messo una mano lui per salvarci". Una mano ce l’hanno messa sicuramente il vicequestore Daniele Manganare e gli altri poliziotti che hanno salvato Antoci da morte quasi certa, cosa che strappa un moto di orgoglio al nuovo capo della Polizia. E lui. Franco Gabrielli, dopo aver ricordato di essere a Palermo per un "battesimo (nella carica, ndr) che più significativo non poteva essere", ringraziai suoi uomini ("Il collega", dice di Manganaro) e ricorda che "la mafia mai ha abbandonato questa terra, con la sopraffazione del territorio e l’arroganza, anche se ora ha una dimensione nazionale e anche sovranazionale. Mai abbassare la guardia". Monito non nuovo, ma Anto ci è alla cerimonia per un nonnulla e in molti prendono spunto dal suo caso per ribadire un concetto più volte caduto nel vuoto, di anno in anno, dato che Cosa nostra, nonostante i ripetuti allarmi, non aveva mai battuto colpi (di lupara e fucili a canne mozze) come quelli della scorsa settimana. È stata la mafia di provincia a muoversi, quella dei tanti zoccoli duri difficilmente espugnabili, "è un colpo di coda - analizza il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti - e questo è un segnale di debolezza, più che di forza". A Palermo, dove negli anni 80 "c’era un clima che vidi poi in Iraq, un clima di guerra e di morte", chiosa il giornalista Attilio Bolzoni, sul palco con Grasso, la situazione è ormai diversa: "Anche se allora, al momento della requisitoria, mi tremarono le gambe per l’emozione", ricorda l’ex pm del maxi, Giuseppe Ayala. E però, spiega il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, "la forza militare non è più quella di una volta ma Cosa nostra, pur duramente colpita, continua ad essere sempre se stessa", dunque pericolosa. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, pronto a convocare gli "stati generali dell’antimafia", la vede così: "Un uomo che presiede un Parco è a rischio anche perché la mafia è contro la bellezza, è per gli scempi edilizi e ambientali". Il guardasigilli ricorda poi che "la sentenza del maxiprocesso fa parte del patrimonio culturale dell’intero Paese, perché arrivò in un momento in cui l’esistenza della mafia veniva negata dai politici, dai magistrati, dalla chiesa". Insiste, Orlando, sul "regalo più bello che potesse farci Falcone, la presenza qui delle scuole". Perché il giudice era anche "un grande intellettuale, che comprese un pezzo di società, la sua Sicilia e la dimensione economica di Cosa nostra", ma gettò le basi pure per una legislazione che, oltre ad essere presa a modello all’estero, oggi viene utilizzata per la lotta alla corruzione: "Questo - spiega il ministro - con gli sconti per chi collabora e con l’aggressione ai patrimoni dei corrotti". Poi un altro spunto: "Abbiamo un sistema penitenziario tra i più costosi d’Europa e con i tassi di recidiva tra i più alti. Per molto tempo le carceri sono state il quartier generale delle organizzazioni mafiose. Assicurare un carcere diverso e fare formazione al suo interno vuol dire tagliare l’erba sotto i piedi delle organizzazioni criminali". È per questo che Orlando presenta, con la ministra Stefania Giannini, il protocollo d’intesa tra Giustizia e ministero dell’Istruzione, che assicura percorsi di apprendistato e tirocinio in carcere e nei servizi minorili. Sì, la battaglia deve essere anche sul piano della formazione: il maxi fu una "svolta culturale" e la sentenza, le condanne, gli ergastoli, tutti divenuti definitivi, fecero capire a Grasso, poi divenuto capo della Dna, "che nulla è impossibile". Nell’aula bunker non c’è il presidente di quello storico processone, Alfonso Giordano: era invitato ("Però l’anno scorso non lo fui") ma, nonostante gli 87 anni e mezzo, avrebbe voluto dire qualcosa, "non fare da semplice spettatore, perché lì mi sento a casa mia, non un quisque de populo. Questo però non toglie nulla alla mia venerazione verso Giovanni Falcone". Torna ancora sui temi del maxi processo Maria Falcone, sorella di Giovanni e insegnante, pronta a elogiare il lavoro svolto in 24 anni dai colleghi "prof" sul piano della formazione dei giovani. Fu il fratello a firmare l’istruttoria, con Paolo Borsellino, che come lui faceva parte del pool messo su da Rocco Chinnici e poi portato avanti da Antonino Caponnetto, con altri giudici come Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, pure loro in prima fila ieri. E pure Borsellino fu assassinato da Cosa nostra, 55 giorni dopo Falcone: "Perché la sentenza del maxi - ricorda Maria Falcone - segnò anche la definitiva condanna a morte di Giovanni e Francesca. Segnò la rinascita del Paese, ma per noi significò la fine dei nostri cari". Intervista a Gherardo Colombo: "il carcere (da solo) è dannoso, non utile" di Zita Dazzi La Repubblica, 24 maggio 2016 "Chi sconta la pena in cella in due casi su tre ci torna. Chi è affidato ai servizi sociali è recidivo due volte su dieci". Gherardo Colombo, ex pm, è nel pool che ha scritto il progetto di riforma del sistema penitenziario. "Bisogna sensibilizzare l’opinione pubblica sui vantaggi che derivano alla "sicurezza", da un diverso modo di accompagnare il detenuto che sconta una pena. Chi è stato in carcere, in due casi su tre ci torna. Chi è affidato ai servizi sociali, invece, ha una recidiva due volte su dieci. La differenza è abissale". Gherardo Colombo, ex magistrato, con molti altri giudici, amministratori penitenziari e docenti universitari, è al centro Culturale di piazza San Fedele 4, per raccontare gli "Stati generali dell’esecuzione penale", progetto di riforma del sistema carcerario, promosso dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Un anno di lavoro presentato anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il convegno (promosso da Sesta Opera e dai gesuiti) è introdotto da Adolfo Ceretti, professore di Criminologia alla Bicocca, che assieme a personalità come Gustavo Zagrebelsky e Lugi Ciotti, ha coordinato 18 tavoli dove 200 esperti hanno studiato la riforma. Gherardo Colombo, qual è stato il senso di questo anno di lavoro? "Abbiamo cercato di rispondere alle domande su come devono essere il carcere e la vita delle persone recluse, quale spazio c’è per il lavoro, la cultura, l’istruzione dei detenuti. Come devono essere le celle, quante ore vi si debba stare al giorno, se ci siano alternative al carcere, per esempio, la detenzione domiciliare o l’affidamento ai servizi sociali, oppure se si può essere condannati a fare lavori di pubblica utilità". Perché la presentazione pubblica a Milano del grande ripensamento su carcere ed esecuzione penale? "Credo che sia importante chiedere alla città e alle varie istituzioni carcerarie, ma anche al Comune, alla Regione e ad Ats, di fare un percorso assieme per potere, nei limiti del possibile, realizzare le nostre proposte". Ci sono scelte che possono essere fatte anche a livello locale? "Ci sono soluzioni che non richiedono l’intervento di una autorità nazionale. Sarebbe bello per esempio se la Regione dedicasse fondi al reinserimento sociale e lavorativo di chi è uscito dal carcere". Ma perché fare lavorare chi ha commesso un reato, invece di aspettare che sconti la sua condanna in galera? "La detenzione da sola è più dannosa che utile. La Costituzione dice che la pena non può consistere in un trattamento contrario al senso di umanità. E che deve tendere alla rieducazione del condannato. Vieta qualsiasi forma di violenza su persona "ristretta". Parole che oggi spesso sono una chimera". Lo scopo finale, concreto di questa riforma? "Far sì che le persone, anche attraverso il lavoro, tornino ad essere in grado di stare con gli altri, senza fare più danni alla società. Ma occorre un percorso di reinserimento, che aiuti il recupero del condannato alla vita sociale". Ad un anno dalla "chiusura" la metà degli Opg sono ancora aperti di Alessia Guerrieri Avvenire, 24 maggio 2016 Nessuno si illudeva che il percorso sarebbe stato in discesa. Ma chiudere gli ospedali psichiatrici italiani si sta rivelando una strada lastricata di ostacoli. Vuoi per il ritardo con cui le Regioni hanno fatto fronte all’individuazione di strutture alternative all’Opg per gli internati residenti nel proprio territorio. Vuoi, soprattutto, perché il flusso continuo d’ingresso di detenuti con vizio di mente in misure di sicurezza provvisoria, vanno così a rallentare il trasferimento dei 75 internati dai tre Opg ancora aperti (Montelupo Fiorentino, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto) alle nuove Rems (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza). Quando non a creare vere e proprie liste d’attesa, ma senza alcun criterio di riferimento. Ma andiamo con ordine. A più di un anno dalla chiusura ufficiale degli opg, prevista dopo due proroghe al primo aprile 2015, e dopo il commissariamento di sei Regioni inadempienti rispetto al piano di superamento concordato con il governo (Puglia, Calabria, Abruzzo, Piemonte, Veneto e Toscana), tre ospedali psichiatrici su sei sono stati chiusi e lungo il territorio sono nate ad oggi 23 strutture per la presa in carico dei "rei folli". Altre sei verranno aperte (Puglia, Abruzzo, Sicilia, Calabria) o potenziate nel numero (Volterra in Toscana e Nogara in Veneto) entro i prossimi due mesi. Portando quasi al completo - mancherebbe la Liguria che ha individuato due ipotesi per la Rems provvisoria, in attesa che sia pronta nel 2017 quella definitiva - il piano di superamento degli Opg. E persino a chiudere i restanti tre manicomi criminali ancora attivi. In realtà, però, i problemi non mancano. E anzi rischiano di diventare allarmanti, se non si mette un freno al flusso d’ingresso di nuovi internati. Nelle Rems, infatti, adesso vivono 331 persone, più circa 180 in quella atipica di Castiglione delle Stiviere. Anche se la metà di loro - questa l’anomalia rispetto a quanto stabilito dalla legge 81 del 2014, che vede il ricovero in Rems solo come ultima ipotesi - invece sono persone in misura di sicurezza provvisoria, per cui è stata riconosciuta la pericolosità sociale. Un’etichetta che adesso si mette sul petto di troppi detenuti con problemi mentali, ricorda il portavoce del Comitato Stop Opg Stefano Cecconi, anche se "in realtà la percentuale di persone socialmente pericolose è di gran lunga sotto il 10%. La paura fa fare grandi errori". Il problema reale, per il cartello di quaranta associazioni che rappresenta, è che "adesso i giudici non hanno più remore a mandare chi ha commesso un reato e ha problemi mentali nelle Rems", luoghi certamente meno orribili degli Opg, "usandole come nuovi ospedali psichiatrici e come contenitori per le misure preventive di tutti i casi difficili". Interpretando, così, "in maniera sbagliata la legge". Sia chiaro i numeri non sono certo quelli di qualche anno fa, quando gli internati erano più di 1400. Oggi in totale non si arriva nemmeno a 750, ma il rischio è che si possa tornare indietro. In più, le molte differenze organizzative e strutturali delle residenze alternative - si passa da quelle modello di Duino Aurisina e Magnago in Friuli, con pochi posti letto all’interno di strutture psichiatriche già esistenti, porte aperte e visite libere a quelle limite di Subiaco e Palombara Sabina nel Lazio e di Castiglione in Lombardia, in cui ci sono sbarre alle finestre e la contenzione come pratica pressoché ordinaria - rischiano di riproporre la logica degli internati di prima e seconda categoria. L’ennesimo paradosso italiano, insomma. "Se si è rotta la logica manicomiale - aggiunge ancora Cecconi - certe dinamiche vanno superate, per orientarsi davvero sui programmi individuali di cura della persona, sulle misure alternative alla detenzione e sul diritto alla salute in carcere". Liste d’attesa e nodi che, per la Società italiana di psichiatria (Sip), sono in realtà solo in parte imputabili al ritardo nella costruzione delle residenze regionali. Va potenziata "l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena, affrontato il problema delle perizie psichiatriche e il concetto di pericolosità sociale - è l’opinione del presidente Claudio Mencacci - supportati adeguatamente i servizi di salute mentale e gli altri servizi coinvolti nell’assistenza territoriale". Se poi periti e magistratura, "per mancanza di risorse territoriali e di percorsi di sostegno diversi dalla reclusione", continuano a considerare le Rems "come un luogo di detenzione alternativo all’Opg - conclude l’associazione degli psichiatri - dove il paziente rimane per un periodo stabilito dalla Giustizia invece che dalla Sanità, non si realizzerà alcun percorso di cura". E così anche i mille posti disponibili nelle Rems alla fine non basteranno. Istruzione nelle carceri, protocollo d’intesa Giustizia-Miur Dire, 24 maggio 2016 Ai soggetti adulti ristretti nelle strutture penitenziarie e ai minori sottoposti a provvedimenti penali non detentivi da parte dell’autorità giudiziaria minorile dovranno essere garantite integrazione e pari opportunità di trattamento nei percorsi scolastici. E questi percorsi formativi dovranno essere finalizzati a favorire l’acquisizione e il recupero di abilità e competenze individuali e a sviluppare una politica dell’istruzione integrata con la formazione professionale, in collaborazione con le Regioni e il mondo delle imprese, anche attraverso percorsi di apprendistato e tirocinio. È quanto prevede un Protocollo d’intesa siglato oggi a Palermo, in occasione del 24mo anniversario della strage di Capaci, dai ministri della Giustizia, Andrea Orlando, e dell’Istruzione, Università e Ricerca, Stefania Giannini, per la realizzazione di un Programma speciale per l’istruzione e la formazione negli istituti penitenziari e nei servizi minorili della giustizia, da realizzarsi con il coinvolgimento di enti pubblici, fondazioni e associazioni di volontariato, categorie di imprese e confederazioni. Fra le azioni che nasceranno dalla collaborazione dei due dicasteri, la definizione di un Patto Formativo individuale nell’ambito delle attività di accoglienza e orientamento; l’integrazione dell’istruzione con la formazione professionale, da realizzarsi in collaborazione con le Regioni; la creazione di un libretto formativo con le competenze acquisite, per facilitare l’entrata nel mercato del lavoro. E poi formazione in apprendistato, flessibilità e personalizzazione dei percorsi formativi, previsione di laboratori didattici e tecnici, potenziamento delle biblioteche e formazione anche per il personale dell’Amministrazione penitenziaria, della Giustizia minorile, dell’Amministrazione scolastica, nonché per i volontari e gli operatori che operano negli istituti. Un Comitato paritetico, composto da rappresentanti del ministero della Giustizia e del Miur, curerà la stesura del Programma, l’approvazione di un piano annuale delle attività e le conseguenti azioni di monitoraggio. Sabella: sì alle "love rooms" nelle carceri, il sesso fa parte della dignità Affaritaliani.it, 24 maggio 2016 Diritto all’affettività. Prevista entro l’estate l’approvazione della legge. "Il sesso è una componente della dignità dell’essere umano. Privare i detenuti di questa componente per tantissimi così è una cosa indegna di uno stato di diritto". Lo ha detto Alfonso Sabella, magistrato ed ex assessore alla legalità di Roma nell’ultima giunta Marino intervenendo ai microfoni di Radio Cusano commentando come nei carceri italiani potrebbe essere introdotta la "Love Room". Gli "spazi per la cura degli affetti" sono introdotti nel ddl di riforma del processo penale in discussione alla Commissione Giustizia del Senato. Secondo il relatore del testo, l’ex pm Felice Casson, l’approvazione arriverà entro l’estate e nelle carceri arriveranno stanze dove il detenuto potrebbe consumare rapporti sessuali con il proprio partner ed esercitare il proprio diritto all’affettività. "Sulla modalità e sui soggetti cui estendere questa possibilità, bisogna discutere - continua Sabella. Bisogna confrontarsi sull’esecuzione materiale, parlare di quali tipi di reato, con quali garanzie, con la dignità umana da rispettare. Non possiamo portare le prostitute in carcere, tanto per parlare chiaro. Occorrono delle misure rigidissime, ma i tempi sono maturi perché si possa cominciare a lavorare in questa direzione. Il sesso è una componente importante per l’essere umano, non è giusto sacrificarla insieme al diritto della libertà". Il magistrato ha ricordato anche l’anniversario del 23 maggio 1992 quando nell’attentato di Capaci la Mafia uccise Giovanni Falcone: "Se ripenso a quel 23 maggio non ho un ricordo preciso, mi viene in mente solo l’orrore - commenta Sabella. Tra l’altro mi capitò anche una disgrazia, perché la sera prima dell’attentato sono passato sulla bomba, ero andato a prendere mia moglie che arrivava da Milano. Se Falcone fosse arrivato quel giorno, come previsto, anche io avrei rischiato di essere coinvolto nell’attentato. Io avevo 30 anni, ero un ragazzino. Toccavo per la prima volta da vicino il dolore della perdita di un modello, di un mito. Per me l’incontro con Falcone e Borsellino in quella terra così complicata fu determinate nello scegliere di rimanere ad occuparmi di mafia. Qualche piccola soddisfazione poi me la sono consentita, quando ho arrestato vent’anni fa Giovanni Brusca, colui che ha premuto materialmente il telecomando della bomba. Il paese non deve dimenticare quanto accaduto appena venti anni fa. Era la notte della Repubblica. Il fatto che abbiamo dimostrato che tutto non era finito, che questo Paese quando vuole ce la può fare, è importantissimo da ricordare. Questo Paese non impara dai propri errori ma, cosa ancor peggiore, non impara dai propri successi". Sabella poi ha commentato quanto accaduto la scorsa settimana ad Antoci, direttore del parco dei Nebrodi: "Andrei un pochino più indietro. I mafiosi sono dei vigliacchi. Da vigliacchi non hanno mai affrontato un conflitto a fuoco. Si nascondono dietro una carica di tritolo, quindi normalmente o arrivano in 20 ad ammazzare una persona inerme oppure agiscono da lontano. Con Antoci, invece, hanno fatto qualcosa di diverso. E questo dimostra come la mafia sia più debole. Cosa Nostra ha agito in modo artigianale, rudimentale. Antoci viene considerato un eroe, e mi creda lo è certamente, ma per aver fatto il suo dovere. Semplicemente il suo dovere. Quando io in quei quattro mesi in cui sono stato a Ostia ho cercato di fare quello che gli altri non avevano fatto e cioè semplicemente il mio dovere, la mia direttrice del municipio si ritrovò la macchina danneggiata, la direttrice dell’ufficio tecnico fu minacciata da Triassi, un altra dirigente del sociale subì un tentativo di violenza sessuale, io fu inseguito e pedinato fino in municipio, a Silvia Decina veniva lanciata l’immondizia dai palazzi e l’ultima cosa, accaduta una decina di giorni fa, riguarda un avvocato che aveva lavorato con me, che si è sentito citofonare a casa alle quattro del mattino e si è trovato la macchina danneggiata, quella stessa macchina con cui era andato a Ostia. Tutto questo avviene a Roma. Stanno continuando le ritorsioni per quello che è stato il mio lavoro. È pazzesco pensare che possa essere pericoloso, nel proprio Paese, fare il proprio dovere. È assurdo". Carceri, protesta Sappe: servono assunzioni straordinarie Agenparl, 24 maggio 2016 C’erano gli aspiranti agenti idonei non vincitori dei precedenti concorsi nella Polizia Penitenziaria, costituiti in Comitato Spontaneo e scesi in piazza per chiedere l’assunzione al Ministro della Giustizia Andrea Orlando dopo la sospensione dell’ultimo concorso per 400 posti. C’erano i Funzionari dell’Associazione Anfu, i Sovrintendenti e gli Ispettori del Corpo, scesi in strada a manifestare per chiedere di cancellare le sperequazioni in atto sulle progressioni di carriera con gli omologhi delle altre Forze di Polizia. E c’erano tanti poliziotti scesi in piazza, nei pressi della sede del Ministero della Giustizia in via Arenula a Roma, per rivendicare il rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da quasi 10 anni. C’era l’Associazione Memoria, che ricorda i Caduti delle Forze di Polizia e delle Forze dell’Ordine. Tutti sotto le bandiere del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, prima organizzazione del Corpo, che ha organizzato la giornata di mobilitazione dei Baschi Azzurri. "Oggi siamo scesi in tanti in piazza, davanti al Ministero della Giustizia, per chiedere attenzione politica a endemici problemi penitenziari, che meritano una risposta politica urgente e non più rinviabile", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece, che aggiunge: "Siamo scesi in piazza per chiedere l’assunzione straordinaria di 1.000 nuovi Agenti, dopo la sospensione dell’ultimo concorso per presunte infiltrazioni camorriste. Siamo scesi in piazza per chiedere il rinnovo del contratto di lavoro, fermo da quasi 10 anni, e per una equiparazione delle carriere di tutte le Forze di Polizia, che oggi penalizza il Corpo di Polizia Penitenziaria. Le carriere di Sovrintendenti, Ispettori e Commissari sono diverse da Corpo a Corpo e questo è assurdo. E siamo scesi in piazza per chiedere almeno 1.000 assunzioni straordinarie da Agente assumendo gli aspiranti che sono risultati idonei non vincitori nei precedenti concorsi". Durante il presidio del Sappe, a cui hanno portato la solidarietà Marco Moroni (Sapaf Corpo Forestale) e Antonio Brizzi (Conapo Vigili del Fuoco), i manifestanti hanno osservato un minuto di raccoglimento per ricordare la strage di Capaci, con l’assassinio del giudice Giovanni Falcone, della moglie e degli uomini della scorta. Una delegazione di manifestanti, guidati da Donato Capece, sono stati ricevuti al Ministero della Giustizia dai dirigenti generali dell’Amministrazione Penitenziaria Massimo de Pascalis (Vice Capo Dap) e Pietro Buffa (Direzione Generale del Personale). Argini alla prescrizione: più organizzazione per accelerare i processi di Marzia Paolucci Italia Oggi, 24 maggio 2016 Dati del ministero: istituto in calo del 40%. Ma incide ancora tanto. Su cento procedimenti penali avviati, 9 finiscono prescritti e di questi il 60% nella fase delle indagini preliminari e il 40% nel corso dei tre gradi di giudizio. Prevalentemente concentrata nel novero dei reati contro la p.a. e societari, in dieci anni l’istituto ha subito un calo del 40% ma la prescrizione incide ancora pesantemente sul processo penale nella sua interezza, ce lo dicono i numeri. Un problema da combattere non solo con le norme ma anche con l’innovazione organizzativa: l’ha ribadito il ministro Andrea Orlando nel corso della presentazione dell’analisi statistica sull’istituto in Italia divulgata il 7 maggio scorso. Nel 2004 i reati prescritti erano 213.774, nel 2014 siamo arrivati a 132.296: cala la prescrizione e quindi anche l’incidenza dei prescritti sui definiti di quasi cinque punti dal 14,69 del 2004 al 9,48 del 2014. Le prescrizioni avvengono nel 58% dei casi nella fase preliminare di giudizio a seguito di archiviazioni di procedimenti contro noti e ignoti, nel 19% dei casi in primo grado, nel 18% dei casi in corte d’appello e solo nell’1% dei casi in Cassazione e davanti al gdp. Sebbene la prescrizione si concentri massimamente nella fase predibattimentale, il suo andamento storico dal 2011 al 2014 mostra una crescita dell’incidenza nelle Corti d’appello dal 17 al 23%. Crescita ancora più significativa se si considera che le definizioni in valore assoluto sono cresciute più del 20% nello stesso periodo. L’incidenza maggiore dell’istituto sulle definizioni in Corte d’appello raggiunge livelli importanti a Venezia con quasi il 50%, c’è poi Napoli al 40% e a scalare Reggio Calabria, Salerno, Torino, Roma e Perugia tutte sopra o sotto il 30%. Nella media nazionale del 20% rientrano a scendere tutte le altre da Ancona, poco al di sopra, a Bari, L’Aquila, Firenze, Messina, Potenza, Catanzaro, Sassari, Milano, Catania, Bologna, Genova, Taranto, Cagliari, Campobasso al 10%, Trieste, Caltanissetta, Lecce e Palermo al 5% fino allo zero di Bolzano e Trento. "Le norme sono importanti, ma non bastano. È importante individuare dei modelli organizzativi che siano in grado di contrastare questo fenomeno", ha dichiarato il ministro Orlando. E mettendo l’accento proprio sulle differenze di incidenza dell’istituto nel paese, il responsabile del dicastero di Via Arenula ha detto: "A parità di riferimenti normativi, ci sono dei tribunali che hanno tassi di prescrizione molto bassa e ci sono tribunali che hanno tassi molto alti e questa differenza non riguarda né riferimenti geografici Nord-Sud né riferimenti penali alta criminalità-bassa criminalità. Questo significa che in collaborazione con gli uffici giudiziari, il ministero deve fare un lavoro di innovazione organizzativa, così come è avvenuto nel civile". Di territorio in territorio, si registrano infatti grandi differenze nell’incidenza della prescrizione nella fase predibattimentale. In testa alla classifica si passa dal 40% di Torino al 34% di Parma, Brescia e Venezia con 27 e 25 punti percentuali e Nocera Inferiore e Vicenza rispettivamente al 23% e 21%. E altrettante differenze si registrano nell’incidenza dell’istituto tra i diversi tribunali dove la classifica dei primi dieci comincia con il 51% di Tempio Pausania, il 41% di Vallo della Lucania, il 33% di Spoleto, il 24% di Reggio Calabria, il 23% di Civitavecchia e Santa Maria Capua Vetere, il 21% di Reggio Emilia e il 20% di Nocera Inferiore. Prescrizione, politica ormai schiacciata di Vincenzo Comi (Componente Direttivo Camera Penale di Roma) Il Tempo, 24 maggio 2016 Astensione nazionale degli avvocati penalisti il 24, 25, 26 maggio e manifestazione a Roma per denunciare gli "allarmanti elementi distorsivi del modello accusatorio introdotti dagli ultimi emendamenti governativi in particolare in tema di prescrizione, intercettazioni e video conferenza". Un progetto di legge del 2014 e oggi sembra al traguardo con modifiche che ne hanno pregiudicato sistematicità e modello legale. La politica ha abdicato al suo ruolo, schiacciata da istanze populiste o di categoria. Le vicende mediatico giudiziarie hanno condizionato il Legislatore finito per archiviare un progetto coerente per indulgere in decretazioni d’urgenza: l’obiettivo sono i consensi piuttosto che i diritti. Sulla prescrizione: previsione di un aumento per alcuni reati, e soprattutto introduzione di nuove ipotesi di sospensione dei termini (sentenza di condanna non definitiva di primo grado sospensione per due anni, sentenza di condanna di secondo grado sospensione per un anno). I dati statistici ufficiali dimostrano che il 70% delle prescrizioni dei reati maturino nel corso delle indagini preliminari, fase in cui il fascicolo è nella disponibilità del pubblico ministero che non ha termine perentorio per le determinazioni. L’indagato non ha certezza della durata delle indagini, il suo nome potrà rimanere iscritto nel registro delle notizie di reato per un tempo indefinito (dopo un avviso di garanzia spesso si attendono anni). E non dipende certo dal numero degli avvocati e dalle loro attività, come provocatoriamente riferito negli ultimi giorni dal presidente Anm Davigo. Prima di intervenire sulla prescrizione sarebbe doveroso eliminare i tempi morti del processo, fissando termini perentori anche per il pm nella fase delle indagini preliminari ("il processo Thyssen è arrivato alla conclusione prima della prescrizione solo per il fatto che le indagini preliminari hanno avuto una durata molto breve"; citazione del pm Guariniello). Il problema è di natura organizzativa e basterebbe un maggior investimento di risorse per ridurre le carenze e i tempi morti del procedimento. Così concepita la prescrizione viola la presunzione d’innocenza e il diritto della collettività a conoscere entro il più breve tempo possibile se un imputato sia colpevole o innocente. Ne consegue un allungamento dei tempi dell’appello, con un imputato - presunto innocente - senza decisione di secondo grado o - vista sotto altra prospettiva - un colpevole senza condanna definitiva. Si propone un modello di processo che rafforzi il momento genetico - quando gli arresti suscitano interesse mediatico - piuttosto che il dibattimento. E in questo senso non solo la prescrizione ma anche la proposta di riforma sul processo a distanza (presenza alle udienze degli imputati detenuti solo in video conferenza) rappresenta una marcia indietro sul piano dei diritti. Oggi è difficile celebrare i processi in video conferenza con i detenuti sottoposti al 41 bis per mancanza di idonei apparati tecnici. Anche sulle intercettazioni vanno denunciate le norme proposte sulla riservatezza dei terzi e la procedura di distruzione delle conversazioni irrilevanti. Siamo di fronte a riforme importanti che finiscono per disegnare un nuovo processo penale; per questo è essenziale rivendicare con forza il rispetto dei principi costituzionali. Come più volte affermato, l’obiettivo degli avvocati penalisti delle Camere Penali è far circolare la cultura del rispetto dei diritti fondamentali e delle garanzie del giusto processo, diversamente da chi considera l’accusato colpevole prima del processo, o fa i processi in televisione invece che nei tribunali o ritiene la difesa un intralcio a una rapida condanna e il difensore il complice dell’imputato, o infine la sentenza assolutoria come una sconfitta per la giustizia. Gli avvocati al Fmi: "Giustizia, si acceleri ma attenti ai diritti" di Errico Novi Il Dubbio, 24 maggio 2016 Alla fine dell’incontro con l’avvocatura, i delegati del Fondo monetario internazionale hanno ascoltato una precisazione non del tutto scontata: "Il sistema giudiziario deve garantire efficienza, ma l’obiettivo va raggiunto non solo in ossequio alle necessità delle imprese ma anche alle aspettative di giustizia dei cittadini". Una variabile utile a far comprendere che i percorsi per potenziare la crescita, anche in un cammino accidentato come quello dell’Italia, hanno un limite insuperabile. Il Consiglio nazionale forense ha discusso di questo e delle altre riforme di sistema nell’incontro di venerdì con i rappresentanti dell’Fmi, la cui missione a Roma si è conclusa ieri. Da una parte i consiglieri Andrea Pasqualin e Vito Vannucci per l’organismo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura, dall’altra l’"unità di missione" della Fmi guidata da Josè Garrido. Gli inviati di Washington hanno ascoltato come sempre anche la voce del mondo forense, per mettere a punto il loro giudizio sullo stato di salute dell’Italia. Valutazione di cui ieri i tecnici del Fondo hanno proposto una sintesi in un incontro con la stampa. "La crescita del Paese potrebbe essere troppo debole per risolvere stabilmente le fragilità finanziarie", hanno spiegato. Le stime sul Pil sono state aggiornate a +1,1% nel 2016, che arriverà a "circa +1,25% nel 2017-18". Passi avanti talmente timidi che "un ritorno ai livelli pre-crisi potrà verificarsi solo verso la metà degli anni 2020". E ad appesantire la marcia dell’Italia rispetto a gran parte del resto d’Europa, secondo l’Fmi, è anche "l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari". Aspetto che pesa soprattutto per gli istituti di credito. Ma proprio rispetto al decreto banche, il Cnf ha segnalato ai rappresentanti del fondo la necessità di "approfondimenti", soprattutto sul cosiddetto "patto marciano", anche riguardo "alle garanzie per il debitore e al raccordo con le procedure concorsuali". Non tutte le semplificazioni sono possibili senza correre il rischio di pregiudicare i diritti, ha ricordato l’avvocatura italiana. Che ha fatto notare l’importanza "dei sistemi alternativi alla giurisdizione affidati agli avvocati, per alleggerire il carico sui tribunali e recuperarne l’indispensabile efficienza". Sistemi per i quali il Consiglio forense ha rappresentato il proprio impegno a "promuovere i nuovi istituti anche attraverso i Consigli degli Ordini". Impegno che d’altronde "dovrà essere necessariamente accompagnato da un recupero di efficienza organizzativa all’interno degli uffici giudiziari e da investimenti di risorse adeguati". Michele Ferrulli morì dopo l’arresto, assolti i quattro poliziotti Il Dubbio, 24 maggio 2016 Confermata in appello la sentenza di primo grado. "È una sentenza vergognosa, mio padre deve avere giustizia, non ci fermeremo e andremo in Cassazione". Esprime così tutta la sua rabbia Domenica Ferulli alla lettura della sentenza della Corte d’assise d’appello di Milano che ha confermato l’assoluzione per i quattro poliziotti imputati in relazione alla morte di del padre Michele Ferrulli. L’uomo di 51 anni morì il 30 giugno 2011 a Milano per un arresto cardiaco mentre gli agenti delle volanti lo stavano ammanettando a terra. La Procura generale aveva chiesto di condannare i poliziotti a pene comprese tra i 16 mesi e i 7 anni ed 8 mesi distinguendo le responsabilità e le accuse di omicidio preterintenzionale e colposo. Soddisfatti, invece, i legali dei quattro agenti, gli avvocati Massimo Pellicciotta e Paolo Siniscalchi, "la verità trionfa sempre e questo era un processo in cui il fatto era prevalente su tutto". Presenti in aula anche alcuni colleghi degli imputati che hanno esultato alla lettura del verdetto. In particolare, l’accusa originaria di omicidio preterintenzionale, secondo il pg, andava mantenuta solo nei confronti di due poliziotti, Francesco Ercoli e Michele Lucchetti, quelli che intervennero per primi. I giudici hanno accolto le tesi degli avvocati difensori. I familiari di Ferrulli a cominciare dalla figlia Domenica, aveva sperato che il processo si riaprisse dopo che la Corte aveva accolto la loro richiesta di una perizia medico - legale. Cristina Riva, il medico che ha svolto gli accertamenti, pur affermando che è impossibile stabilire con certezza la causa delle lesioni, aveva sostenuto che queste fossero dovute a un impatto del corpo con la strada e non a colpi di manganello. E, in ogni caso, le lesioni erano troppo lievi per provocare la morte. Nella requisitoria il pg Tiziano Masini aveva affermato che i quattro avrebbero effettuato "un arresto illegale e arbitrario" e ciò anche perché ad un "oltraggio a pubblico ufficiale, per cui non è previsto il provvedimento, non possono seguire addirittura violenze da parte delle forze dell’ordine". Omicidio stradale anche per chi parcheggia l’auto in divieto di sosta Il Dubbio, 24 maggio 2016 Rischia grosso il proprietario di una vettura lasciata in divieto di sosta nei pressi del luogo dell’incidente nel quale, la scorsa settimana ha perso la vita un’anziana donna a Firenze. Il reato potrebbe essere quello di omicidio stradale, come previsto dalla nuova norma in caso di sinistri stradali gravi o mortali. I tre indagati sono i conducenti delle due auto che si sono scontrate carambolando sul marciapiede, e il proprietario di una vettura lasciata in divieto di sosta nei pressi del luogo dell’incidente. Secondo una prima ricostruzione della polizia municipale, l’anziana sarebbe morta colpita da un semaforo, abbattuto da una delle due vetture carambolante sul marciapiede dopo essersi scontrate, per cause in corso di accertamento, mentre procedevano nella stessa direzione lungo viale Matteotti. Il pm Filippo Focardi, titolare delle indagini, affiderà oggi l’incarico al perito che dovrà ricostruire l’esatta dinamica dell’incidente. Non va riconosciuta la condanna in Svizzera se l’auto-riciclaggio è più vecchio del 2015 di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2016 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 23 maggio 2016 n. 21348. Massima cautela sull’auto-riciclaggio. Non va incoraggiata un’applicazione retroattiva del nuovo reato introdotto nel nostro ordinamento dall’anno scorso che porti al riconoscimento di una sentenza di condanna emessa in Svizzera. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 21348 depositata ieri, scritta da Ersilia Calvanese, ex direttore dell’ufficio Affari europei e internazionali del ministero della Giustizia. La pronuncia ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa (ma per l’annullamento con rinvio si era pronunciato anche il sostituto procuratore generale Eugenio Selvaggi, ex capo del dipartimento Affari di giustizia di via Arenula). La Corte d’appello di Venezia, invece, aveva riconosciuto la sentenza del tribunale federale di Bellinzona (Svizzera) con una condanna a 4 anni e 11 mesi di detenzione a carico di uomo accusato per reati in materia di stupefacenti, falsità in certificati e riciclaggio di denaro. Alla sanzione detentiva si aggiungevano quelle accessorie - delle quali veniva contestata l’applicazione in Italia - dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per 5 anni, del ritiro della patente e del divieto di espatrio per un anno. La difesa aveva sostenuto, tra i motivi di ricorso, che la decisione dei giudici della Corte d’appello aveva applicato in maniera erronea l’articolo 733 comma 1 lettera e) del Codice di procedura penale, disposizione che disciplina i presupposti del riconoscimento, perché l’ordinamento italiano non puniva, all’epoca della commissione dei fatti, tra il marzo 2003 e l’ottobre 2009), l’ipotesi dell’auto-riciclaggio per la quale l’imputato era stato condannato in Svizzera. La Cassazione, nell’esaminare il caso, mette preliminarmente in evidenza come condizione generale per il riconoscimento è che il fatto per il quale l’imputato è stato punito all’estero costituisce reato, secondo la legge italiana del tempo in cui fu commesso. Inoltre, va ricordato che il riconoscimento della sentenza svizzera, nel caso in esame, non è stato pronunciato per realizzare esigenze di cooperazione giudiziaria oppure per permettere l’esecuzione di misure penali in essa contenute, ma piuttosto per farne discendere effetti penali che, secondo la legge italiana, deriverebbero dalla condanna se questa fosse stata pronunciata in Italia. Da una parte, allora, è vero che al tempo della commissione dei fatti sanzionati in Svizzera l’autoriciclaggio non era previsto dalla legge italiana come reato (oggi è l’articolo 648 ter-1 del Codice penale, in vigore dal 1°gennaio 2015) e questo impedisce il riconoscimento della condanna del tribunale di Bellinzona; tuttavia dalla Cassazione arriva una conclusione di annullamento con rinvio e non di annullamento tout court. La Corte, infatti, avverte che una diversa sezione della Corte d’appello di Venezia dovrà valutare se, pur in assenza di una norma specifica, la condotta oggetto della condanna estera non può costituire comunque reato sulla base della lettura data dalle Sezioni unite nel 2014 con la sentenza n. 25191. Interpretazione che considera soggetto attivo del reato anche chi ha commesso o concorso a realizzare il reato presupposto, "qualora abbia predisposto una situazione di apparenza giuridica e formale difforme dalla realtà circa la titolarità o disponibilità dei beni di provenienza delittuosa al fine di agevolare la commissione dei delitti di riciclaggio o reimpiego". Misure cautelari: non basta che il manager svolga lo stesso ruolo in altra società di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 23 maggio 2016 n. 21350. Il giudice non può negare la revoca degli arresti domiciliari o disporre misure interdittive nei confronti di manager accusati di aver commesso reati all’interno delle società, basandosi solo sul loro curriculum. Per essere in linea con le nuove norme sulle misure cautelari personali (legge 47/2015), occorre che il pericolo di "recidiva" sia concreto ed attuale, non solo ipotetico o astratto. La Cassazione, con due sentenze di ieri, accoglie il ricorso di due manager. Nel primo caso (sentenza 21350) contro l’ordinanza che confermava i domiciliari a un dirigente di una società attiva nelle gestione dei rifiuti. Per i giudici la modifica della misura, inflitta per turbativa d’asta, non era possibile perché ora il dirigente era impiegato in un’azienda che operava nella stesso settore. Circostanza che aumentava il rischio di reiterazione da parte di un soggetto accusato di reati che denotavano un modus operandi consolidato nella gestione aziendale. Più o meno lo stesso discorso vale per l’amministratore delegato di una società accusato di bancarotta fraudolenta (sentenza 21418), cui era stata confermata la misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare imprese e uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. La ragione era sempre nel pericolo di reiterazione insito nell’assegnazione di incarichi analoghi. Per la Cassazione, le sole cariche ricoperte attualmente non bastano. Nulla dicono sulla concretezza del rischio che l’ex amministratore possa sfruttarle per commettere reati ai danni di creditori ed azionisti. Per questo è necessario conoscere in quali ambiti le società operino e se la loro gestione sia stata negli anni esente da censure. Manette e civiltà di Ugo Ruffolo Il Giorno, 24 maggio 2016 Il tintinnare di manette da carcerazione preventiva, quando non davvero giustificata da indizi gravi, precisi e concordanti, suona da campana a morto per lo stato di diritto. Fondato sulla presunzione di innocenza, che resta troppo spesso vittima di censurabile giustizialismo. Inorridirebbe Pannella per i venti giorni di custodia cautelare all’infermiera presunta killer, come per i venti anni, di fango e gogna, sul generate Mori ora assolto ma torturato per lustri dal teorema Stato-Mafia. Non sappiamo se quella infermiera è colpevole. Ma sia noi che i giudici dobbiamo presumerla innocente fino a quando un giusto processo la riterrà omicida "oltre ogni, ragionevole dubbio". Certo, basta, il ragionevole sospetto per tenerla lontano dai pazienti a rischio. Ma ci sono modi discreti per farlo, anche senza incarcerarla; e così. sbatterla in prima pagina (non so qui; ma talora non sono i cronisti a scoperchiare indagini, riservate, è la montagna che va da Maometto). I giudici del riesame hanno disinnescato gli indizi, constatando che una presunta vittima era ancora viva e vegeta. dopo l’iniezione sospetta,- che altri casi, sono dubbi; che le intercettazioni "testimoniano un senso di impotenza e di. accerchiamento", non altro. È censurabile, allora, che chi ha disposto l’arresto in aeroporto (manco fosse Provenzano!) non se ne sia reso conto. I magistrati non sono giuridicamente responsabili. Come è giusto. Ma tale immunità dovrebbe potenziare il personale senso di responsabilità. Sul quale, almeno, il CSM potrebbe (dovrebbe) vigilare. Non scomodiamo Tortora; ma l’averlo crocifisso a torto non pare abbia alterato carriera alcuna. Se la libertà è sacra, l’haheas corpus prima della condanna deve essere l’eccezione. Soprattutto quando si pretendono prescrizioni chilometriche. Ci indigna la pluriennale prigionia dei marò in India prima del processo; indigniamoci anche delle carcerazioni preventive ingiustificate, anche brevi, nella civile Italia. Magari, l’infermiera è davvero killer. Ma non è questo il punto. Se è meglio avere dieci colpevoli liberi, piuttosto che un innocente in galera, la carcerazione preventiva va amministrata con le mani della festa, non con la sinistra. Quando la presunzione di innocenza non sta bene, il garantismo è morto. La lezione di Falcone sulla cultura del sospetto di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 maggio 2016 Quello che i giornali dimenticheranno di dirvi sul giudice ucciso 24 anni fa. Sono passati ventiquattro anni dal giorno della strage di Capaci che si portò via Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, i tre agenti della scorta. Ventiquattro anni dopo, come ogni anno, i grandi azionisti del circo mediatico giudiziario continuano a ricordare Giovanni Falcone raccontando però in modo generico che da lui e dal suo senso di sacrificio "c’è molto da imparare" stando bene attenti, giustamente, a non soffermarsi sul contenuto delle lezioni di Falcone, sulle sue parole, sulle sue sfide, sulle sue provocazioni. Diciamo giustamente perché, nonostante ci sia qualcuno che tenti di trasformarlo ogni giorno nel grande ispiratore di tutti i processi in stile trattativa stato mafia, è stato un grande fustigatore del processo mediatico e della cultura del sospetto e in più occasioni ha ricordato che: (a) "l’informazione di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato"; (b) "per fare un processo ci vuole altro che sospetti e bisogna distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie"; (c) "la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità: la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo"; (d) è "profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario; (e) la legge La Torre, che ha introdotto la tipologia di reato in associazione mafiosa, "non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia, anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta"; (f) "Io posso anche sbagliare, ma sono del parere che nei fatti, nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole… o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro paese". No processo mediatico. No cultura del sospetto. No politicizzazione della giustizia. No processi senza prove. No khomeinismo giudiziario. Se sui giornali di oggi vi ritroverete commenti molto impegnati di professionisti dell’antimafia che vi ricordano che da Falcone c’è molto da imparare senza capire cosa c’è da imparare ora sapete perché. "Violenti e nonviolenti sono fratelli". Così Marco mi ha cambiato la vita di Sergio D’Elia* Il Dubbio, 24 maggio 2016 Marco è stato l’uomo che ha salvato la mia vita, mi ha fatto rinascere. Dopo la mia prima vita segnata dalla violenza, mi ha accolto come un padre e si è curato della mia seconda vita, dedicata alla nonviolenza. Convinto com’era che non è possibile dire di una persona "tu non cambierai mai", mi ha aiutato a cambiare - almeno un po’ - con la nonviolenza quel che avevo rotto con la violenza. Nella mia prima vita ho ascoltato e fatte mie parole come "la violenza è levatrice della storia", "il fine giustifica i mezzi". Marco mi ha aiutato a capire che non è vero che i fini giustificano i mezzi, che è vero semmai il contrario: che i fini più nobili, le idee giuste possono essere pregiudicati e distrutti da mezzi sbagliati usati per conseguirli, e uccidere le proprie idee è il delitto peggiore che si possa commettere. "Violenti e nonviolenti sono fratelli", diceva Marco negli anni bui del terrorismo. Queste sue parole, che mi hanno fatto arrabbiare quando le ho ascoltate la prima volta, sono risuonate in maniera diversa tempo dopo, all’inizio della mia seconda vita, quella della liberazione dalle parole sbagliate concatenate a fatti sbagliati, una liberazione iniziata non quando sono uscito dal carcere, ma già quando vi sono entrato. Il carcere può essere un luogo e un tempo in cui ci si può perdere per sempre, ma può essere anche un luogo e un tempo in cui è possibile salvarsi, rinascere a nuova vita. Per me è stato così. Quanti giovani Marco ha educato alla nonviolenza e quanti ne ha convertiti dalla violenza! Violenti e nonviolenti - diceva Marco - non sono nemici, i veri nemici sono i rassegnati, gli indifferenti, gli inerti. Sono rivoluzionari gli uni e gli altri, solo che - aggiungeva Marco - i violenti sono rivoluzionari per odio, i nonviolenti lo sono per amore. Ecco, l’amore è stata la cifra della sua vita. Come ha scritto Mariateresa Di Lascia nel suo capolavoro letterario, Passaggio in ombra, l’unico coraggio che bisogna avere nella vita è quello di amare. Coraggioso non è chi osa sfidare il nemico potente con mezzi violenti, coraggioso è chi la vita la dedica all’amore, alla tolleranza, alla compassione e al dialogo anche dei confronti del potere ingiusto e assassino - e, quindi, impotente - per cercare di mutarlo. Con l’acqua sempre fresca, limpida e cristallina sgorgata dalla sua fonte inesauribile ha dato da bere agli assetati di tutto il mondo, agli assetati di giustizia e libertà, nelle carceri e non solo. Con il pane caldo dell’amore sfornato senza sosta dal suo forno sempre aperto, Marco - che, guarda caso, abitava in via della Panetteria - ha dato da mangiare agli affamati di tutto il mondo, gli affamati di verità, informazione e conoscenza. L’eredità che lascia Marco non è il suo patrimonio materiale di roba, averi che in vita ha sempre messo in gioco per l’essere. La sua eredità è immateriale, è una visione, un metodo, un modo di pensare, di sentire e di agire, in poche parole, un modo d’essere, "religioso", nel senso letterale del termine: i legare, tenere insieme persone e cose. I connotati essenziali della sua vita sono gli stessi che lui ha voluto fossero quelli del Partito Radicale: nonviolento, transnazionale, transpartito. Ora Marco è lassù, nel "regno dei cieli" che - se tradotto dall’aramaico antico in cui è stato detto - significa il mondo delle infinite possibilità. La sua visione può essere per noi fonte di ispirazione, può essere anche nostra, ma non per possesso o controllo, solo per invocazione. Non so se ce la faremo, se saremo all’altezza. Potremmo tentare di farcela se riusciremo a essere coerenti con lui, con il suo pensiero, la sua visione e azione politica? essendo la coerenza non quella di chi non muta mai - opinioni, abitudini, modi d’essere - bensì quella di chi usa mezzi e metodi di lotta coerenti con gli obiettivi della lotta stessa. C’ho messo mezza vita a capirlo, ma quando l’ho capito, sono rinato. * Segretario di Nessuno tocchi Caino Umbria: nelle carceri torna lo spettro sovraffollamento, già oltre il limite Terni e Spoleto di Daniele Bovi umbria24.it, 24 maggio 2016 Il nuovo garante dei detenuti Anastasia e Antigone Umbria hanno presentato il rapporto "Galere d’Italia": "Popolazione cresce, si rischia di perdere tutto il lavoro fatto". Dopo un periodo in cui era scomparso dall’orizzonte, dalle celle dei penitenziari umbri torna a intravvedersi il problema del sovraffollamento: "Uno dei problemi che abbiamo in questo periodo è che la popolazione carceraria sta tornando a crescere". Le parole sono di Stefano Anastasia, da qualche settimana nuovo garante regionale dei detenuti che lunedì pomeriggio, nella sala Fiume di palazzo Donini, ha fatto il punto sulla situazione delle carceri regionali e presentato, insieme a Stefania Materia, presidente di Antigone Umbria, la dodicesima edizione del rapporto "Galere d’Italia", edito dall’associazione. Se negli scorsi mesi, come hanno spiegato Materia e Anastasia, il problema sovraffollamento si è andato ridimensionando, ora il ritmo sta tornano a crescere: "Circa 300-400 detenuti al mese in Italia - ha detto il garante - ed è un fenomeno abbastanza preoccupante, perché significa che l’impegno per evitare il carcere, che deve essere una extrema ratio, è venuto meno. Si tende a usarlo più del passato e più dello stretto necessario". I motivi sono più di uno: "Dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani, la campagna elettorale in corso e una sicurezza intesa solo come mettere gente in galera, la tensione e l’attenzione sul tema sono scese. E si rischia di perdere tutto il lavoro fatto fino a ora". I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornati al 30 aprile, dicono questo per quanto riguarda l’Umbria: 1.304 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 1.336; 36 le donne, tutte nella sezione femminile di Capanne, e 398 gli stranieri mentre le persone in semilibertà sono otto. Complessivamente 1.019 hanno sulle spalle una condanna definitiva, 123 sono ancora in attesa di una prima sentenza e 161 non hanno invece una condanna definitiva. Guardando ai diversi istituti, la situazione è già oltre il limite a Spoleto (475 detenuti per una capienza di 458) e a Terni (440 per 411 posti). A Perugia invece ci sono 320 carcerati su 364 posti disponibili e a Orvieto 69 (qui la capienza è di 103). Proprio nella mattinata di lunedì Anastasia ha visitato Capanne, parlando con la direttrice, i detenuti e gli agenti della penitenziaria: "Qui nelle ultime settimane - ha spiegato - sono stati registrati frequenti trasferimenti in ingresso, provenienti perlopiù dalle aree del provveditorato, cioè da Toscana e Umbria, ma non solo". L’Umbria da sola non è certo in grado di generare sovraffollamento e infatti "la maggior parte dei detenuti - osserva il garante - è importata, e si sta cominciando a soffrire". A Spoleto ad esempio, dove un’area ristrutturata avrebbe dovuto ospitare celle singole per detenuti con una lunga pena da scontare, "è stata già destinata ad accogliere 40 detenuti in arrivo da Napoli Secondigliano". Insomma, "se cala l’attenzione il sovraffollamento è dietro l’angolo, e il rischio che i numeri salgano in tempi rapidi c’è". Ma i problemi delle carceri, dei detenuti e di chi ci lavora, non si fermano certo qui. Materia nel suo intervento, in cui ha illustrato i punti salienti del rapporto in cui si fa il sunto delle visite fatte nelle carceri della regione, ha sottolineato quello della scarsità di finanziamenti destinati a progetti di reinserimento lavorativo a favore dei detenuti. Reinserimento che diventa difficile senza risorse ma che va letto nell’ambito di un quadro fatto di detenuti ai quali viene concesso più tempo, grazie alla "sorveglianza dinamica", fuori dalla cella. Spazi esterni però dove servono programmi e attività, "altrimenti una volta fuori che si fa se non c’è l’accompagnamento verso il mondo del lavoro?". Orvieto sta invece sempre più andando verso un modello a "carcerazione attenuata", dove c’è l’alternanza scuola-lavoro (ma, anche qui, servono fondi e progetti), mentre per Spoleto il futuro sembra essere sempre più quello che porta verso un carcere specializzato in alta sicurezza. Una struttura, quest’ultima, "sulla quale c’è il timore di riempirla oltre misura. Il fantasma del sovraffollamento non è stato debellato dappertutto". Sul tasto del reinserimento ha battuto anche Anastasia: "Un carcere con celle aperte per un tempo più lungo - ha detto - si regge se c’è un programma di attività da offrire. Basti pensare che l’anno scorso a Perugia c’erano 70 detenuti inseriti nella formazione professionale mentre quest’anno neppure uno". Tutti penitenziari, non solo quello perugino, dove è stata sottolineata la necessità di progetti continui e duraturi, a partire da quelli relativi all’istruzione. "Non è possibile - è stato detto nel corso della presentazione - che se un detenuto viene trasferito da un carcere all’altro si interrompa il percorso di formazione scolastica". Umbria: il nuovo garante dei detenuti Anastasia: "investimenti e una società civile accogliente" di Daniele Bovi umbria24.it, 24 maggio 2016 Il professore durante la presentazione del rapporto di Antigone: "Oltre a sovraffollamento e progetti di reinserimento, priorità sono sanità e istruzione". Una cosa è certa, "avrò molto da fare, anche per controllare che certe tendenze non peggiorino". A parlare è il nuovo garante dei detenuti Stefano Anastasia, che lunedì ha partecipato a Perugia alla presentazione della dodicesima edizione del rapporto "Galere d’Italia", edito dall’associazione Antigone. Oltre ai temi del sovraffollamento e del reinserimento dei detenuti Anastasia, parlando di quelli che saranno nei prossimi mesi i punti centrali della sua attività, pensa anche all’assistenza sanitaria e all’istruzione. "Come appurato anche stamattina a Capanne - ha spiegato - ci sono detenuti con gravi problemi di salute. Uno ad esempio è epilettico, l’altro è molto malato e ha visto il suo percorso terapeutico interrompersi". Il garante sottolinea che poco dopo la sua elezione ha avviato il lavoro con gli uffici della Regione che si occupano di sanità, "dove ho trovato sensibilità sull’argomento". Altro dossier decisivo quello dell’istruzione "e della formazione di base. Stamattina le detenute mi dicevano che oltre a un’alfabetizzazione di base non c’è nient’altro". Anastasia promette di fare un lavoro che sarà rivolto anche verso l’esterno, con lo scopo di costruire un rapporto più solido con la società civile. "Dalla formazione alle associazioni professionali - spiega - c’è bisogno di una società civile accogliente e di investimenti per dare vita a progetti di reinserimento". Oltre a ciò occorre lavorare "sull’opinione pubblica diffusa, per evitare che si chiuda di fronte ai detenuti". Questo perché "quando monta un clima di diffidenza tutto diventa più difficile, perciò dovrò cercare di relazionarmi con l’opinione pubblica". Ad aiutare Anastasia nel suo lavoro sarà anche la rete dei garanti regionali che si va sempre più strutturando, mano a mano che le nomine vengono fatte, e il fatto che quello nazionale sia una figura ormai incardinata all’interno del Ministero: "È un fattore in più - assicura - che può aiutare". Piacenza: Ferraresi (M5S) documenta cella dell’orrore e il carcere lo denuncia estense.com, 24 maggio 2016 La direzione del carcere di Piacenza ha denunciato il deputato del M5S Vittorio Ferraresi per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e e inosservanza di ordine dell’Autorità. La denuncia nasce dall’ispezione in carcere a sorpresa compiuta da Ferraresi la mattina del 19 maggio proprio nel carcere di Piacenza per verificare le condizioni del detenuto Rachid Assarag - che tra il 2010 e il 2011 con alcune registrazioni in carcere ha documentato le presunte violenze subite nel carcere di Parma da parte degli agenti di Polizia penitenziaria -, dopo aver raccolto l’appello della moglie di Rachid su altre violenze subite, questa volte nel casa di detenzione piacentina. Ferraresi - componente della II Commissione Giustizia alla Camera - come deputato può compiere ispezioni a sorpresa nelle carceri. Ad accompagnarlo, ma non durante l’ispezione, è stato l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo, legale di Assarag, su richiesta dello stesso deputato. Secondo quanto raccontato su Facebook (anche con un video) e ai giornali da Ferraresi, la detenzione di Assarag - che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi per violenza sessuale - sarebbe ben al di sotto dei limiti di tollerabilità e civiltà. "L’ispezione - racconta il deputato M5S - ha rivelato una situazione raccapricciante, terribile, con le feci nel wc che non si poteva pulire, un odore nauseabondo, il lavandino non aveva l’acqua corrente, per terra c’era una chiazza di sangue, il sangue era anche sul materasso, completamente bagnato, e la finestra chiusa con un lucchetto. Il detenuto aveva i pantaloni strappati, due grossi ematomi sulle gambe e un occhio pesto. Ha denunciato di essere stato picchiato con la stampella e ha denunciato anche la vicedirettrice che si fosse riferita a lui, cercando di avere delle ripercussioni nei suoi confronti, per le denunce che aveva fatto nel carcere di Parma, da dove la stessa proveniva all’epoca dei fatti". Questa la situazione descritta dal parlamentare che avrebbe fatto scattare in lui l’esigenza di documentare quanto davanti ai suoi occhi: "Ho cercato di documentare perché non ce la facevo, non credevo ai miei occhi, non credevo di vedere una cella in quelle condizioni, un detenuto, che ha anche difficoltà di deambulazione, in quelle condizioni, visto che lui ha denunciato la violenza non solo verso di lui ma anche verso i suoi colleghi detenuti, sempre della stessa sezione, che avevano cercato di aiutarlo e di denunciare". Ferraresi ha cercato di usare il proprio telefono cellulare per scattare delle fotografie: "Dopo che ho cercato di documentare il fatto - prosegue il deputato - sono stato portato fuori di forza dalla cella e sono stato anche offeso. Secondo me non è un bell’atteggiamento nei confronti di un parlamentare che sta svolgendo le sue funzioni di ispezione riconosciute dalla legge. Dopo il detenuto ha denunciato le ulteriori violenze che sono accadute all’avvocato Fabio Anselmo, che è venuto con me ed entrato successivamente. La mi ispezione si è interrotta contro la mia volontà, l’ennesimo fatto grave. La vicedirettrice e il personale di polizia hanno smentito tutto ed è per questo che ho cercato di documentare, perché alla fine portare fuori dei fatti importanti dalle carceri è molto difficile, è difficile provarli, provare le violenze, le minacce. Lui c’è riuscito con le registrazioni ma molto altri non ci riescono ecco perché è un discorso di sistema di tutti i detenuti". Diversa la posizione del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, che subito dopo il racconto di Ferraresi ha rilasciato un comunicato, spiegando che la direzione del carcere avrebbe evidenziato che "all’onorevole Ferraresi, all’ingresso in istituto, è stato chiesto di consegnare il telefono cellulare, come previsto dal regolamento, ed è stato accompagnato, su sua richiesta, nella camera detentiva di Rachid Assarag. Sembrerebbe, per implicita ammissione dello stesso onorevole Ferraresi, alla stregua di quanto riportato dai giornali, che il medesimo, in palese violazione di quanto prescritto, avrebbe tentato di utilizzare altro telefonino". Questo avrebbe portato al "legittimo" intervento degli operatori "per impedire il protrarsi di tale comportamento, ma sulla vicenda la versione dell’onorevole Ferraresi diverge da quella delle altre persone presenti". Per questo il Dap ha deciso di avviare "accurate indagini" e, al contempo, denunciare Ferraresi. "Posso dire di averlo visto fortemente scosso - racconta a Estense.com l’avvocato Anselmo -. Non tanto per quello che aveva subito ma per quello che ha visto. Il tentativo di fotografare tradisce lo shock davanti a quella situazione. È stato un atto di necessità: fotografare quanto aveva davanti agli occhi, occhi qualificati di un deputato che in quel momento era anche pubblico ufficiale. Credo che non la denuncia non fermeranno la sua attività". E così sembra: "Non saranno certo le denunce che mi indurranno a tacere, non saranno certo le minacce e le intimidazioni che mi faranno ricredere - commenta il deputato pentastellato. Il mio tentativo disperato di usare un cellulare, bloccato con la forza e la violenza, per documentare - ai soli fini di denuncia - quanto era sotto i miei occhi, è la piena prova della estrema drammaticità delle condizioni di detenzione in cui si trovava Rachid e che, devo dire, da tempo lui stesso, il suo avvocato e sua moglie invano denunciano. Su di me è stata usata violenza, sono stato insultato pesantemente, ma non credo che sia solo questo il problema. Il problema riguarda il rispetto della legge nelle condizioni di detenzione che deve essere garantito a tutta la popolazione carceraria, che non può essere sottoposta a trattamenti neppure assomiglianti a quelli di cui sono stato personalmente testimone". Siracusa: la rinascita di detenuti e migranti grazie al lavoro di Marta Silvestre meridionews.it, 24 maggio 2016 L’oasi felice Arcolaio: "Alla base sempre le relazioni". I minori stranieri coltivano le erbe aromatiche che poi le donne rifugiate vittime di violenza impacchettano. Mentre nel carcere di Siracusa lavorano prodotti bio siciliani. Grazie ai progetti di una coop sociale fondata da un uomo che continua a credere che "la terra offre sempre possibilità di riscatto". Dalle paste di mandorla alle erbe aromatiche, dallo sciroppo di carrube ai pomodori secchi. Sono questi alcuni dei prodotti tipici siciliani che diventano veicolo di valori per la cooperativa l’Arcolaio, tramite l’inserimento lavorativo di detenuti e migranti. "L’idea nasce alla fine degli anni 90 - racconta a Meridionews il fondatore, Giovanni Romano - dalla presenza dentro il carcere di Siracusa di Con.Solida.S, un consorzio di cooperative sociali di cui allora ero presidente, e dalla volontà di una direttrice illuminata, Angela Gianì, di progettare insieme le attività formative da organizzare". È il 17 gennaio del 2003 quando si costituisce la cooperativa l’Arcolaio e il primo progetto lavorativo presentato all’interno del carcere di Cavadonna, rivolto al recupero dei tossicodipendenti, prevedeva la produzione del pane di casa biologico e la sua commercializzazione a livello soltanto locale, attraverso supermercati e mercatini nelle piazze. Nel 2005 viene creato il marchio Dolci Evasioni e il pane lascia il posto a paste e latte di mandorla, amaretti, meringhe, frutta candita, pesto di mandorla e altri prodotti tipici della pasticceria siciliana che iniziano a essere distribuiti su tutto il territorio nazionale, attraverso negozi specializzati di biologico, gruppi di acquisto solidale e botteghe del commercio equo. Prodotti buoni, giusti e solidali che permettono storie di riscatto sociale e individuale. Infatti, "il laboratorio dove vengono realizzati i prodotti si trova all’interno del carcere di Siracusa - racconta il fondatore de l’Arcolaio che, fino allo scorso anno gestiva anche la cucina dello stesso carcere -. Così quello diventa un luogo dove è possibile costruire percorsi reali di cambiamento e di reinserimento sociale, in particolare per gli otto detenuti che vi lavorano". E intanto, sotto il marchio comune Freedhome, l’Arcolaio, insieme ad altre nove cooperative, sta portando avanti il tentativo di unire le imprese sociali italiane che lavorano all’interno di istituti di pena. Qualità sociale, etica e ambientale vanno di pari passo da una parte nell’affermazione della funzione rieducativa del sistema penitenziario, dall’altra nell’agricoltura biologica che permette la valorizzazione delle eccellenze locali. E questo nella Sicilia sud-orientale, fra i Monti Iblei, significa anche rivalutare le erbe aromatiche. Nasce, così, lo scorso anno il progetto Frutti degli Iblei che "si sta potendo sviluppare grazie alle sinergie e al sostegno sul territorio: Fondazione di Comunità Val di Noto ci ha dato il finanziamento di base - ha detto Romano - e il terreno in contrada Pianomilo, fra Palazzolo Acreide e Canicattini Bagni, lo abbiamo avuto in comodato d’uso dalla diocesi di Siracusa". Timo, salvia, camomilla, finocchietto, origano e rosmarino vengono coltivati dai minori stranieri non accompagnati seguiti dall’associazione Accoglierete e poi vengono essiccati, sbriciolati e impacchettati in un laboratorio, a Canicattini Bagni, da alcune delle donne rifugiate vittime di violenza ospiti del centro Sprar Obioma, per essere venduti nelle botteghe del commercio equo e solidale a marchio Solidale Italiano. "L’agricoltura biologica e sociale - ha sottolineato Romano, che della coop l’Arcolaio è stato il presidente per oltre 13 anni - è una scelta di sostenibilità ambientale che permette di creare validi percorsi di accompagnamento all’autonomia di questi migranti che ritrovano anche la piena dignità di lavoratori e cittadini, dimostrando di poter dare un contributo prezioso allo sviluppo dei territori". L’Arcolaio, arnese di gandhiana memoria utile per dipanare le matasse e per filare la seta e il cotone, è il nome scelto per la cooperativa che, come ha ribadito lo stesso Romano, "ha sempre cercato di costruire coerenze, mettendo alla base di tutto le relazioni fra le persone e coltivando speranze condivise capaci di creare cambiamenti. Il nostro motto è sempre stato "Radicali nelle scelte, miti nelle relazioni", perché la non violenza ha un impatto dirompente". Fra i progetti a breve termine della cooperativa - che in questo momento conta 24 dipendenti di cui 15 assunti con inserimento lavorativo di detenuti e persone svantaggiate e che ha un fatturato annuo di circa un milione di euro - ci sono l’organizzazione di una Scuola di seconda opportunità, in un ex orfanotrofio a Francofonte, per i ragazzi che non hanno completato gli studi, la messa a coltura di un terreno nella zona fra Augusta e Villasmundo, e la costruzione di una filiera equa e trasparente che consenta ai consumatori di seguire il percorso del prodotto e ai produttori di guadagnare il giusto. "Noi viviamo in una terra violentata e io - sottolinea Romano - questo l’ho vissuto drammaticamente essendo nato a Priolo in un periodo in cui l’industrializzazione distruggeva i luoghi dove giocavo. Il mio primo lavoro fu con la Cgil, nel 1974, con i cosiddetti braccianti sopravvissuti che sognavano di contrastare l’industrializzazione piantando alberi nelle zone ancora incontaminate. E così - ricorda - ho sviluppato i primi progetti di agricoltura sociale, nella convinzione che la terra offra sempre possibilità di riscatto. In quel periodo ascoltavo la canzone di Guccini Il vecchio e il bambino e la sentivo scritta su di me e sulla gente che non aveva saputo contrastare l’invasione industriale e la speculazione edilizia volute dalla mala politica. Ancora oggi - conclude - sono convinto che a partire dalla terra possa risorgere il territorio". Cervia (Ra): "pena di morte e giustizia nel Usa", se ne parla con l’ex-detenuto Karl Guillen cervianotizie.it, 24 maggio 2016 Sabato 28 maggio 2016 alle ore 10 nella Saletta Sede Uffici Tecnici Comunali a Cervia, in collaborazione con la Coalizione Italiana contro la Pena di Morte Onlus, la casa editrice Multimage, e col patrocinio morale del Comune di Cervia, si terrà la conferenza dal titolo "Pena di morte e giustizia nel Usa: parliamone con un protagonista". All’evento, oltre all’assessore Gianni Grandu e ad Arianna Ballotta, presidente di Coalit, parteciperà Karl Guillen, protagonista, alla fine degli anni 90 del secolo scorso, di una intricata vicenda giudiziaria che lo aveva portato vicino alla possibilità di essere condannato a morte, in Arizona, nel carcere di Florence. Sarà possibile ascoltare le sue parole ed i suoi argomenti ora che Karl vive in Italia, Paese che, forte della sua tradizione abolizionista, ha tanto sostenuto la sua causa, e dove Karl ha ora deciso di vivere. In modo un po’ rocambolesco il manoscritto del libro autobiografico che racconta la sua vicenda, il Tritacarne, è arrivato alla Multimage che lo ha trasformato in un libro-campagna che, all’inizio degli anni duemila, ha coinvolto centinaia di persone nella creazione di una rete che diffondeva e vendeva questo libro in tutta Italia, con l’obiettivo di pagare le spese legali a Karl e strapparlo dalla pena di morte. La vicenda giudiziaria si è conclusa con un patteggiamento che ha permesso a Karl di uscire di prigione, dopo vent’anni, nell’agosto del 2013. L’evento sarà presentato da Mirella Santamato, scrittrice e giornalista. Saranno presenti le sorelle Matilde e Celeste Pirazzini che allieteranno i presenti con un breve intermezzo musicale. Legalizzazione della cannabis, in Italia qualcosa sta cambiando di Francesco Bei La Stampa, 24 maggio 2016 La scomparsa di Marco Pannella dovrebbe invitarci ad approfondire gli aspetti storici ed etici delle sue iniziative politiche. Ciò non tanto per costruirgli monumenti ma per poter capire i suoi errori e renderli palesi facendo in modo che il politico moderno non cada in forme "pannelliane" di riforma che possono essere spettacolari, ma che poi provocano danni a milioni di altri individui che si trovano certe leggi, in teoria buone, ma dai mille effetti collaterali sgradevoli. Quindi, se Marco Pannella è stato certamente un difensore di diritti civili come quelli dei carcerati, dall’altra possiamo certamente affermare che è stato uno dei principali protagonisti della scristianizzazione della società italiana. Molti pensano sia un bene? Allora non si lamentino se l’Italia è conciata male. Tutti quei giovani del 1968 che caddero nel "paradiso" degli stupefacenti sono forse risorti con le leggi di Pannella? In conclusione, vada tutto il rispetto per l’uomo Pannella ma che si abbia il coraggio di dire che certe leggi non hanno salvato l’Italia, semmai l’hanno rovinata. Michele Salcito Risponde Francesco Bei Gentile Salcito, la sua lettera ha il merito di far uscire Pannella dalla cornice dorata che gli è stata costruita intorno in questi giorni e di riportarlo nel vivo della lotta politica e culturale. Cosa che, immagino, non gli sarebbe affatto dispiaciuta. Nel merito, sono in disaccordo con lei. Le leggi che Pannella ha ispirato non hanno "provocato danni a milioni di individui", al contrario hanno permesso a milioni di persone di poter lasciare il proprio partner e ricostruirsi una vita legalmente, di evitare di finire uccise sotto i ferri da calza delle mammane che fino agli Anni Settanta, specie nel nostro Meridione, erano l’unica possibilità per le ragazze che volevano abortire. Quanto alla droga, Pannella non è mai riuscito a creare una maggioranza per la legalizzazione degli stupefacenti. È sbagliato quindi attribuirgli responsabilità in questo senso. Le leggi in vigore sono quelle - proibizioniste - che ci sono sempre state. Eppure qualcosa sta cambiando. Lo scorso anno è stata la Direzione nazionale antimafia, nella relazione ufficiale al Parlamento, a mettere nero su bianco il fallimento di un approccio repressivo: "Senza alcun pregiudizio ideologico, si ha il dovere di evidenziare a chi di dovere che, oggettivamente, e nonostante il massimo sforzo profuso dal sistema nel contrasto alla diffusione dei cannabinoidi, si deve registrare il totale fallimento dell’azione repressiva". Forse se anche su questo avessero dato retta a Pannella ci sarebbe qualche consumatore in meno in galera e qualche miliardo in più nella casse dello Stato. E non della mafia. Diciamo grazie gli emigrati austriaci di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 24 maggio 2016 I migranti hanno salvato l’Austria, e almeno per un altro po’ tutti noi e l’Europa. I voti degli emigrati austriaci, ottocentomila, si sono riversati in gran maggioranza sul candidato verde alle presidenziali - e a questo punto di tutta l’Austria democratica, dei popolari e dei socialdemocratici e di chi non era andato a votare, è stata alta l’affluenza - Alexander Van der Belle. Si è così ribaltato il risultato che prima dello spoglio dei voti arrivati per posta dava il candidato della destra Norbert Hofer in vantaggio con il 51,93 percento, sconfiggendolo. È finita 50,3 percento contro 49,7, uno scarto di soli trentuno mila voti. Un soffio, un niente. L’incubo di una Kakania in camicia bruna nel cuore dell’Europa è rinviato, sospeso, speriamo cancellato. Forse è una nemesi della Storia che siano stati proprio quelli che vivono lontani dal proprio paese a decidere sul filo di lana le sorti di queste elezioni che hanno fatto della migrazione la questione centrale. Hofer aveva promesso, se eletto presidente, che li avrebbe cacciati via, che avrebbe interpretato il proprio ruolo con vigore, per ora è stato cacciato via lui. È vero, l’Austria è divisa a metà, però intanto Hofer è sconfitto. E la possibilità che si tengano immediatamente, a caldo, sotto schiaffo, nuove elezioni politiche per ora si allontana. Si era dimesso il capo del governo, il cancelliere socialdemocratico Werner Faymann che guidava una Grosse Koalition, una coalizione storica socialdemocratici e popolari, dopo che per la prima volta in settant’anni nessun candidato del Partito socialista partecipava al ballottaggio per le presidenziali, e il successo di Hofer al primo turno. Nel discorso di dimissioni, Faymann aveva rivendicato i risultati del proprio governo riguardo la tragedia dei profughi: "È una grande sfida, che lo scorso anno abbiamo gestito assieme a Germania e Svezia; centinaia di migliaia di profughi sono arrivati in Austria, il 95 percento ha proseguito altrove, e abbiamo dato asilo a oltre 90mila persone". Di là, dalle camicie brune, era arrivato il commento del portavoce del Fpoe, il partito di Hofer: "Hofer ha già fatto effetto, senza essere presidente federale". Si può immaginare l’effetto che avrebbe avuto se avesse davvero vinto, stavolta. Forse vale la pena prefigurarla per un attimo, questa contro storia, come se la Storia prendesse la porta sbagliata. "Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo col nome di "storia", la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea". È un paragrafo di Complotto contro l’America, il romanzo in cui Philip Roth, il grande scrittore americano e ebreo, immagina cosa sarebbe accaduto se Charles Lindbergh, il trasvolatore degli oceani, si fosse candidato alla presidenza e avesse battuto Franklin Delano Roosevelt. Sarebbe accaduto che l’America diventava nazista, dichiarava la pace e si disimpegnava da ogni iniziativa militare contro la Germania e il Giappone, perché Lindbergh era notoriamente antisemita e mostrava grandi simpatie per il Terzo Reich e Hitler. Il "terrore dell’imprevisto" prende oggi la faccia di Donald Trump. E il "suo" uomo delle birrerie europee si chiama Norbert Hofer. Nessuno avrebbe scommesso un dollaro sei mesi fa sul miliardario americano che riesce a scuotere la pancia dell’America profonda e fa battere il cuore dei nazisti dell’Illinois, e invece ieri l’altro, per la prima volta, un sondaggio lo dà vincente non solo per la candidatura repubblicana, cosa ormai scontata, ma nella corsa presidenziale contro Hillary Clinton. L’imprevisto si fa reale, il disastro diventa epopea. I nazisti della Carinzia - la destra vince lontano da Vienna e dalle città - hanno trovato il "loro" uomo. Vuole cacciare gli immigrati, come fossero i turchi sotto le mura di Vienna nel 1683, vuole tirare via l’Austria dall’Europa, guarda golosamente al Tirolo italiano, dicendo che è cosa loro e ieri l’altro Vienna ha annunciato che da martedì prossimo intende schierare ottanta poliziotti al confine italo-austriaco del Brennero - cosa dovremmo fare, risuonarle ai crucchi, metterci a cantare: Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il XXIV maggio, ripetergli che i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza? Se Atene piange, Sparta non ride. Se l’America ha il suo Trump, noi europei abbiamo Hofer, battuto ma pimpante, la Le Pen, l’ungherese Orban che mette chilometri di filo spinato, i fascisti fiamminghi, quelli finlandesi, e Alternative für Deutschland che inizia a minacciare la Merkel e la Germania, e poi la Brexit, il referendum - la perfida Albione deciderà se staccarsi o meno dall’Europa - su cui si vota tra un mese. Oggi però non è un giorno di paure: la Storia ha preso la porta giusta e Hofer è stato sconfitto. In zona Cesarini, ma alla fine è il risultato che conta (Prodi vinse un’elezione per ventimila voti e Berlusconi se ne lagnò a lungo, e Berlusconi non era Hofer, neanche lontanamente). I timori rimangono però. Speriamo che ci sia un effetto-domino positivo in Europa, proprio rovesciando quella ridondanza di simulazione che la vittoria di Hofer avrebbe avuto. Quanto all’America, facciamo voti perché qualcuno riesca a fermare i nazisti dell’Illinois, magari potremmo chiederlo ai Blues Brothers di candidarsi, e sarebbero credibilissimi, più credibili della Clinton, ahimè. Austria da non credere: Van der Bellen, una bella sorpresa dalla vecchia Europa di Lidia Menapace Il Manifesto, 24 maggio 2016 Sa il cielo se abbiamo bisogno di buone notizie, così tanto che quando arrivano si tende a non crederci. Invece è successo: dopo che l’estrema destra in crescita da tempo aveva stravinto il primo turno delle politiche, sembrava che si dovesse aggiungere l’Austria al novero dei paesi che in Europa virano verso la destra estrema, sia i democratici paesi del Nord Europa sia i paesi dell’ex blocco sovietico. C’è ben poco di allegro, la situazione spinge ad abbandonare l’Europa a un destino regressivo verso le nazionalità, merce pericolosa che tende a degenerare in nazionalismo, localismo egoistico, razzismo. I politologi faranno analisi più sofisticate analizzando i flussi elettorali impazziti e le giravolte di massa avvenute in poche settimane, ma noi intanto ci freghiamo le mani, tiriamo un sospiro di sollievo: e lasciateci essere per un momento umani e umane, prima di rimetterci la corazza austera e neutrale degli osservatori "scientifici" che non ci azzeccano mai. Qualcosa deve essersi guastato negli strumenti conoscitivi dei quali ci serviamo, non ci avvisano per tempo, non ci indicano la direzione, non prevedono né sviluppi né cadute e dopo ricominciano a fare conti calcoli e sondaggi. Credo che il pasticcio politico nel quale stiamo dipenda in parte notevole dal fatto che quasi non c’è più la cultura politica, ma sondaggi e statistiche molto simili a quelle che servono ai mercati su che cosa vende e che cosa comprare. La prima conclusione è che la cultura non è una merce e non si lascia per sempre vendere e comprare. E la prima conclusione attiva è che nella vecchia Europa girano semiclandestine a voce bassa, un po’ tristi e un po’ speranzose, un po’ avvilite e un po’ rivendicative cose avanzate dalle culture che poco tempo fa ancora la governavano, la mettevano in riga, segnavano i margini delle strade. La bella sorpresa austriaca dunque ci dice che periodizzare col termine modernità giova poco e che spinge alla superficialità violenta del mercato. Non si tratta di riproporre il catechismo marxista e la rigidità del passato, però qualche ripasso contro l’ignoranza che cancella la memoria e azzera le lezioni della storia, se ce la facciamo, seno anche solo la cronaca. Ad esempi Hollande non è molto credibile come uomo di sinistra limpida e contro il suo governo le lotte riprendono e durano, la situazione in Spagna è in movimento, la Grecia ripercorre testardamente il suo momento di epifania (rivelazione) e ci avverte che privato Pericle lo chiamava idiotes, cioè idiota e che il linguaggio pesa, le parole sono pietre diceva giustamente Primo Levi. Conclusione (provvisoria): abbiamo perso, ci siamo lasciate derubare di una preziosa stagione prerivoluzionaria nel mitico ‘68. Vi pare che possiamo ripetere quella enorme sciocchezza? Sarebbe da vergognarsi. Proviamo allora, almeno proviamo. Siria: 121 morti che lasciano indifferente l’Occidente di Michele Giorgio Il Manifesto, 24 maggio 2016 Ieri l’Isis ha colpito per ben sette volte nelle città di Jableh e Tartus, sulla costa mediterranea. È stato un massacro. Ma le morti dei civili nelle cosiddette "roccaforti di Bashar Assad" non provocano sdegno in Europa e Usa. Invece Mosca condanna e ribadisce alleanza con Damasco. Per loro non esprimerà sdegno la Francia di Hollande. Per loro l’Amministrazione Obama non invocherà indagini internazionali. Per loro non scenderà in campo a protestare con forza una nota Ong che si occupa di garantire assistenza medica in giro per il mondo. Per loro gli occidentali non si affanneranno a denunciare il terrorismo jihadista come hanno fatto dopo gli attentati a Parigi e Bruxelles. Le vite umane continuano ad avere pesi diversi, dipende da dove si nasce. Sono i 121 morti dell’ondata di attentati compiuti ieri in Siria dallo Stato Islamico. Sono le vittime di sette violente esplosioni, quasi simultanee, che hanno preso di mira stazioni di autobus, ospedali e altri siti civili nelle città costiere di Jableh e Tartus. È stato un massacro, compiuto da kamikaze, forse il più sanguinoso dei tanti attentati rivendicati dallo Stato Islamico e da altre organizzazioni jihadiste dal 2011 a oggi nelle aree controllate dal governo di Damasco. E potrebbero essere i primi di una lunga serie di attacchi suicidi nel cuore di città che i media internazionali si sono affrettati a descrivere come "roccaforti di Bashar Assad", quasi a voler ridimensionare, con l’aggiunta di questo dato politico, la strage di tanti innocenti. 73 persone sono morte nei quattro attacchi a Jableh e 48 nei tre attentati a Tartus. Tanti i feriti, molti dei quali ieri sera lottavano tra la vita e la morte. Ieri si è saputo che sabato scorso c’è stato un attentato a Qamishli, la seconda città della provincia nord-orientale di Hassakè. Almeno i tre morti nel quartiere di Wusta, abitato in maggioranza da cristiani. Jableh si trova nella provincia di Latakia, Tartus è la capitale regionale del governatorato adiacente che porta lo stesso nome. Fino a ieri le due città avevano vissuto solo in minima parte gli orrori della guerra che da cinque anni devasta la Siria. "Sono scioccato, questa è la prima volta che sento boati spaventosi come questi", ha detto alle agenzie di stampa Mohsen Zayyoud, uno studente universitario. "Credevo che la guerra fosse giunta alla fine e invece siamo ancora nel cuore della battaglia", ha aggiunto. Gli attacchi sono iniziati alle ore 9.00 con tre esplosioni in una stazione di autobus di Tartus. Prima è esplosa un’autobomba all’ingresso della stazione. Quando la gente è accorsa per aiutare i feriti, due kamikaze ha azionato le loro cinture esplosive facendo un massacro. La televisione pubblica siriana ha mostrato la stazione danneggiata, mini-bus carbonizzati e altri in fiamme. Circa quindici minuti dopo altre quattro esplosioni sono avvenute a Jableh a una fermata di autobus, in un ospedale e in una stazione di benzina. Un portavoce della polizia ha detto che un kamikaze si è fatto esplodere all’interno dei locali del pronto soccorso dell’ospedale. Poco dopo lo Stato Islamico, attraverso la sua agenzia di stampa Amaq, ha rivendicato la strage affermando che i suoi "combattenti" avevano attaccato "raduni di alawiti" a Tartus e Jableh, riferendosi alla minoranza di origine sciita alla quale appartiene la famiglia del presidente Assad. Lo Stato Islamico non era noto per avere una presenza massiccia nelle province costiere della Siria, dove invece al Nusra (al Qaeda) hanno molti uomini. Il fatto che sia riuscito a compiere un attentato tanto ampio indica che ha avuto la capacità di creare basi in una regione da sempre sotto il controllo rigido delle forze governative. Gli attentati terroristici in Siria hanno "lo scopo evidente di minare il regime di cessate il fuoco in vigore dal 27 febbraio" e "in generale di minare gli sforzi per raggiungere una soluzione politica…È una sfida aperta non solo al governo e ai cittadini della repubblica araba siriana ma anche alle autorità della comunità internazionale" ha commentato la Russia in una nota del suo ministero degli esteri. Mosca ha anche riferito che il suo capo della diplomazia Serghiei Lavrov e il Segretario di stato Usa John Kerry hanno discusso della situazione e "in particolare delle proposte della Russia di condurre operazioni congiunte contro i gruppi terroristici e contro altre formazioni armate che non aderiscono al cessate il fuoco". L’Unione europea invece pensa alla "transizione politica", ossia a come costringere Bashar Assad a farsi da parte subito, come chiede l’opposizione siriana che vive negli alberghi di Istanbul e Parigi e non ha alcun peso sul terreno. La Ue ieri ha detto di puntare a un accordo entro il primo agosto che includa un organo di governo transitorio "ampio, inclusivo e non settario". Egitto: stomaci vuoti contro le sentenze di al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 maggio 2016 22 detenuti in sciopero della fame dopo il processo-farsa. Altri 25 li seguiranno. Proseguono le indagini sullo schianto dell’Airbus della EgyptAir. Con gli occhi del mondo puntati sul mare a sud di Creta c’è poco tempo per seguire gli affari interni egiziani. Eppure, nonostante l’Airbus sia il principale tema per i media nazionali, la campagna di repressione prosegue implacabile. Sabato al consulente della famiglia Regeni, Ahmed Abdallah, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, è stato allungato per la terza volta l’ordine di detenzione: altri 15 giorni in carcere. Abdallah è stato arrestato il 25 aprile con altri 1.270 egiziani con l’accusa di incitamento alle proteste. La scorsa settimana con un processo-farsa la magistratura del Cairo, in 10 minuti, ha condannato 152 di loro a pene tra i 2 e i 5 anni di detenzione. Il mai sopito spirito di piazza Tahrir ha già reagito: 22 detenuti hanno lanciato 5 giorni fa uno sciopero della fame di massa per protestare contro le sentenze. Ne seguiranno, in questi giorni, altri 25. Stomaci vuoti per avere giustizia. A sostenerli sono 11 organizzazioni egiziane che scaricano la responsabilità dello sciopero sul Ministero degli Interni, mano che muove la repressione della società civile. Le prime conseguenze si sono già registrate: tre prigionieri sono stati ricoverati in ospedale, riporta Misr Abdel-Wahed, la sorella di uno di loro. E ieri il sindacato dei medici ha chiesto al procuratore generale Sadek di ricoverarli tutti, visto il deteriorarsi delle loro condizioni di salute. Il timore è che l’attenzione sui detenuti cali con media e opinione pubblica risucchiati dalla terribile vicenda dell’Airbus della EgyptAir e dalla storica visita di papa Francesco al grande imam di al-Azhar, la più importante figura religiosa sunnita nel paese: ieri un abbraccio ha posto fine a 5 anni di rapporti congelati. Le indagini sull’aereo intanto proseguono. Mancando rivendicazioni da parte di gruppi terroristici, la pista dell’attentato viene battuta sempre meno. Di certezze non ce ne sono, seppure spuntino nuovi elementi. Domenica l’Egitto ha inviato un sottomarino alla ricerca dell’Airbus scomparso nel mar Mediterraneo giovedì scorso e della scatola nera, in acque profonde fino a 3mila metri. Ad annunciarlo è lo stesso presidente egiziano al-Sisi, che aggiunge di non avere elementi che facciano propendere per un’ipotesi o l’altra. Ma la Francia aggiunge un tassello: dall’aereo sono partiti segnali d’emergenza prima dello schianto. Secondo la Bea, agenzia francese che investiga sull’incidente, il pilota dell’Airbus avrebbe richiesto ai controllori del traffico aereo del Cairo un atterraggio di emergenza dopo l’incendio sviluppatosi all’interno del veivolo. Per questo il pilota avrebbe dovuto compiere una discesa rapida. Un’ipotesi che smentirebbe le autorità egiziane che negano di aver ricevuto Sos: a rigettare come false le dichiarazioni francesi è Mohi el-Din Azmi, presidente della National Air Navigation Services Company. "Non è vero - ha aggiunto un funzionario anonimo della EgyptAir - Il pilota non ha contattato l’Egitto prima dell’incidente". Brasile: rivolte in quattro prigioni, almeno 14 morti La Repubblica, 24 maggio 2016 La rabbia dei detenuti nello Stato di Cearà è esplosa nel fine settimana, quando uno sciopero della polizia penitenziaria ha fatto sì che venissero annullate le visite. Gravi danni alle strutture. Almeno 14 persone hanno perso la vita nelle rivolte scoppiate in quattro prigioni dello Stato brasiliano di Cearà durante il fine settimana, in coincidenza con uno sciopero delle guardie penitenziarie. L’improvvisa astensione dal lavoro degli addetti alla sorveglianza, che protestavano per la decisione dell’amministrazione di rateizzare il pagamento di spettanze arretrate, ha provocato la cancellazione delle visite e questo ha fatto esplodere la rabbia dei detenuti in almeno quattro penitenziari del piccolo Stato del Nordest. Le autorità hanno riferito di regolamenti di conti tra reclusi e di ingenti danni alle strutture. Le forze di sicurezza hanno ripreso il controllo dei penitenziari, i vigili del fuoco hanno spento i focolai di incendio appiccati dai detenuti e gli assistenti sociali sono stati chiamati ad aiutare i familiari delle vittime. La procura ha intanto definito illegittimo lo sciopero e ha annunciato che riterrà responsabile l’amministrazione carceraria dello stato per gli omicidi, i danni e tutti gli altri eventuali reati compiuti durante le rivolte. Le prigioni di Cearà, come la maggior parte di quelle degli altri Stati brasiliani, sono sovraffollate e il sindacato delle guardie carcerarie (Sindasp) chiede da anni un aumento del personale. Il presidente del Sindasp di Cearà, Valdemiro Barbosa, ha denunciato che nei penitenziari "regna un clima di disordine e instabilità".