Nella Casa di reclusione di Padova, per imparare ad ascoltare Il Mattino di Padova, 23 maggio 2016 Un carcere aperto al mondo esterno, con persone che riescono a rendere la loro esperienza negativa, il loro "male" utili alla società: questo cerca di essere la Casa di reclusione di Padova, e il 20 maggio è stato un esempio straordinario da questo punto di vista. Una giornata in cui hanno potuto entrare più di 600 persone, operatori sociali, avvocati, magistrati, docenti, studenti, cittadini interessati a conoscere meglio la realtà del carcere, e a confrontarsi con circa 130 detenuti e le loro testimonianze. E anche con alcuni loro famigliari, presenti per portare la loro esperienza, di persone che non hanno colpe se non quella di amare un detenuto, e che invece devono affrontare ogni giorno disagi, sofferenze e a volte anche la "riprovazione sociale". Al centro della discussione "La società del NON ASCOLTO", cioè la difficoltà, oggi sempre più diffusa, ad ascoltarsi, e a non farsi sopraffare dalla paura e dal fastidio per tutto ciò che è "ALTRO" da noi, e che ci spinge a giudicare piuttosto che a capire, a respingere piuttosto che a prestare attenzione. Fianco a fianco ai detenuti, sono intervenuti alcuni fra i massimi esperti di questioni legate alle pene e al carcere: da Donatella Stasio, giornalista del Sole 24 ore, a Glauco Giostra, Ordinario di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma "La Sapienza", a Fabio Gianfilippi, magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Spoleto, a Gianluca Guida, da vent’anni direttore dell’Istituto Penale Minorile di Nisida, a Francesco Cascini, Capo del nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, a Gustavo Pietropolli Charmet, uno dei più importanti psichiatri e psicoterapeuti italiani. E poi Mario Rossetti, ex manager Fastweb, che ha sperimentato le perquisizioni di notte, il carcere, la perdita di "onorabilità" nel mondo dell’economia che conta e dell’informazione, salvo poi essere dichiarato innocente. E ancora, i protagonisti di una straordinaria esperienza raccontata ne "Il libro dell’incontro": otto lunghi anni di doloroso ascolto reciproco e dialogo, nei quali vittime, famigliari di vittime ed ex appartenenti alla lotta armata e loro famigliari si sono incontrati e hanno cercato insieme di "ricomporre la ferita lasciata aperta da quegli anni sofferti", guidati da tre grandi mediatori, di cui due, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, erano presenti a Padova alla Giornata di studi dedicata all’ascolto. Le prime riflessioni che abbiamo raccolto sono di un detenuto che ha contribuito a organizzare l’iniziativa e di una giornalista, che da anni ritiene che gli incontri nel carcere di Padova servono davvero a far crescere tutti, uomini reclusi e uomini liberi. Il giorno dopo del convegno di "Ristretti Orizzonti" Prima di arrivare nel carcere di Padova e di partecipare ai convegni organizzati da "Ristretti Orizzonti" ero diffidente su questi incontri, perché avevo l’impressione che producevano solo parole e pochi fatti concreti. E soprattutto perché in molte altre iniziative che si svolgono in Italia sul carcere e sulla giustizia parlano tutti e quasi mai i diretti interessati: i prigionieri. Parlare di carcere è una cosa, viverci è tutta un’altra cosa. Nei convegni che invece organizza la redazione di "Ristretti Orizzonti" parlano soprattutto i detenuti con le loro testimonianze. E questo, a mio parere, è molto importante, perché normalmente sulle problematiche carcerarie si parla sempre e soltanto in occasione di certi avvenimenti negativi. In questo modo le notizie che arrivano dal "dentro" al grande pubblico sono casi eccezionali per la loro straordinarietà. E non aiutano a comprendere fino in fondo certe realtà troppo spesso dimenticate o, peggio ancora, ignorate. Dovete sapere che i detenuti della redazione di "Ristretti Orizzonti" non solo parlano ma organizzano materialmente e strutturalmente l’incontro armandosi di scope e secchi per lavare la palestra, spostano attrezzature, si occupano delle luci, pitturano le pareti e sistemano tavoli e sedie. La cosa che dovrebbe far pensare è che alcuni di loro vengono spesso sanzionati e puniti per delle sciocchezze (perdendo pure lo sconto della liberazione anticipata) come per avere fumato nel corridoio una sigaretta, o avere passato tra le sbarre della loro cella un barattolo di pittura a un loro compagno, o perché qualcuno viene trovato in possesso di due paia di lenzuola personali invece di uno. Purtroppo in carcere vieni spesso punito, spesso per delle questioni insignificanti, e quasi mai premiato. Spero che per una volta la Direzione carceraria mi smentisca e dia un encomio collettivo a tutti i redattori che si sono attivati a realizzare il bellissimo incontro che c’è stato il 20 maggio. E se no pazienza, noi siamo contenti lo stesso di avere fatto sentire la nostra voce, perché la prigione è un mondo ignoto per tutti coloro che sono liberi. Credo che non possiamo decidere sulla nostra condizione, ma possiamo raccontarla ed è quello che abbiamo fatto. Queste sono alcune mie riflessioni: Mi capita spesso di non rimpiangere il passato. Cerco di guardare avanti, ma proprio non ci riesco a guardare fino all’anno 9.999 come ho scritto nel mio certificato di detenzione. Quando vedo giovani detenuti penso che la prima volta che sono entrato in carcere avevo quindici anni, ero entrato come un ribelle sociale e sono uscito come un criminale, spero che non capiti anche a loro. L’altro giorno ho visto che un compagno che ha problemi di tossicodipendenza s’è tagliato le vene con una lametta. Ho pensato che per molti il carcere è difficile da sopportare e i più deboli non reggono. L’amore della mia compagna e dei miei due figli mi hanno aiutato a sopravvivere, ma in un certo modo mi hanno anche condannato a non togliermi la vita obbligandomi a vivere in questo terribile mondo di sbarre e cemento. Le ferite più dure che mi ha inflitto l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamano i detenuti) sono state quelle che ho subito nelle sale colloqui quando non potevo abbracciare, carezzare i miei figli perché separati da un vetro divisorio. Spero che qualcuno in questa importate Giornata dedicata all’ascolto ci abbia sentiti e soprattutto ascoltati. Carmelo Musumeci Uomini che si raccontano Più di 600 persone hanno partecipato alla giornata di studi "La società del NON ASCOLTO". Ristretti per qualche ora. E dalla parte dei ristretti per sempre. L’ospite-visitatore che entra nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova, infatti, non può non diventare, se non lo è già, coinvolto in modo permanente e irreversibile sul tema del carcere. Ho usato il termine ospite non a caso. Infatti nelle giornate di studio nazionali che si svolgono annualmente in questo carcere si può sperimentare cultura a tutto campo e in primis proprio il senso dell’accoglienza. Il programma di alto profilo culturale vede l’introduzione di ogni singola sezione a cura dei ristretti della redazione della rivista Ristretti Orizzonti. Sono anche fotografi, redattori e giornalisti che realizzano il reportage completo di ogni giornata di studi. Ma sono soprattutto uomini che si raccontano. Uomini che raccontano il dolore e la perdita di sé, di familiari, di pezzi di vita e della libertà, quando si è persa la strada. E di quando, spesso in una frazione infinitesimale di tempo e di spazio, si commette un reato dagli effetti devastanti e irreversibili. Mi riferisco a chi è condannato al carcere a vita: all’ergastolo ostativo. Il cui certificato di detenzione riporta il timbro con fine pena 31/12/9999. Erano 1174 nel 2015 i condannati al carcere a vita: senza fine, senza benefici o misure alternative. Sono tutti uomini che hanno sbagliato e che raccontano la loro ricostruzione in un carcere come quello di Padova, dove molti studiano, riprendono a studiare e anche a lavorare nel processo rieducativo.. Con autocritica ma guardando avanti, per chi non è ovviamente "senza scampo" ovvero un ergastolano ostativo. In carcere per imparare: potrebbe essere lo slogan che unisce i ristretti e noi ospiti. Quest’anno il titolo della giornata di studi è La societa` del NON ASCOLTO Ristretti Orizzonti è una rivista. Per la diminuzione dei contributi pubblici e degli abbonamenti rischia di chiudere. Sosteniamo tutti l’esperienza e la rivista. IO SOSTENGO RISTRETTI ORIZZONTI. Silvia Berruto, fotoreporter e giornalista La società del non ascolto: un invito dal carcere ad allenarsi all’ascolto dell’altro di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2016 Il convegno di quest’anno, La società del non ascolto, verrà sicuramente ricordato negli anni a venire per la tristezza che ci ha accompagnato per la morte di Marco Pannella. Il leader radicale è stato non solo un amico affettuoso, ma una guida e un compagno di lotta per i diritti di chi non ha più diritti, per i tutti detenuti, anche per quelli emarginati dalla stessa istituzione carcere come i condannati a morire in carcere, ma soprattutto per i figli che fanno la fila al portone di un carcere per un’ora di colloquio. Abbiamo lavorato insieme per dare voce a chi non aveva voce, a chi non era ascoltato. L’ascolto è stato anche la parola d’ordine della nostra Giornata di Studi annuale, che ha visto entrare nella Casa di reclusione di Padova più di 600 persone, giornalisti, insegnanti, studenti. avvocati, magistrati, operatori sociali, volontari. L’obiettivo pienamente raggiunto è stato quello di creare una giornata di riflessione sulla perdita collettiva della capacità di ascoltare: non sanno ascoltare spesso i detenuti nei confronti della propria coscienza, i giornalisti quando lanciano gli articoli di cronaca nera sul web senza pensare che quel racconto inchioderà le persone al loro passato per il resto della loro vita, non sanno ascoltare certi giudici nei confronti del destino degli ergastolani senza scampo, e non vengono ascoltati i minori che poi trovano nell’illegalità una scorciatoia attraente. Riunita nella palestra del carcere, la platea ha ascoltato con attenzione le riflessioni delle persone detenute e gli approfondimenti degli esperti. Le emozioni dei detenuti imbarazzati a parlare in pubblico hanno trovato forza negli applausi incoraggianti di un pubblico, che ha potuto seguire anche alcuni uomini delle istituzioni che quotidianamente cercano di portare avanti una idea di giustizia e di gestione della pena diversa rispetto alle logiche della pena che assomiglia a una vendetta istituzionale. Una giornata di lavori per invitare tutti ad allenarsi all’ascolto dell’altro. Se la nostra società non è più abituata ad ascoltare - soprattutto il disagio e la sofferenza - il carcere rischia di diventare per definizione il luogo-del-non-ascolto. Per questa ragione quest’anno si è deciso di usare il convegno annuale di Ristretti Orizzonti per creare un piccolo laboratorio dell’ascolto e quindi dell’incontro. Vittime e autori di reato, genitori, figli e compagne devastati dalla separazione dai loro cari, persone che quotidianamente lottano con i muri dell’indifferenza hanno provato a dialogare per far vedere che ascoltare non solo è possibile, ma rende un po’ più interessante la vita di tutti noi, e specialmente ci aiuta a farci meno male gli uni con gli altri. Far ascoltare chi non ha voce e chi non ha diritti non è una cosa semplice. È un obiettivo che richiede una trasformazione culturale della società, o meglio una trasformazione radicale. Come le lotte di Marco Pannella, che per costringere la classe politica e la società ad ascoltare le urla dei detenuti stipati in condizioni di sovraffollamento, sacrificava la sua salute rifiutando di mangiare e di bere. Si faceva del male perché lo ascoltassero, e perché le persone imparassero ad essere attente anche verso gli altri, quelli considerati diversi. E noi di Ristretti abbiamo imparato dalle lotte radicali che si può avere ascolto anche sulle questioni più difficili. Ed è per questo motivo che i detenuti di Ristretti credono ad una informazione diversa, e continuano a lavorare con umiltà in questo impegno di fare cultura da dentro una galera e dialogare con una società che forse sta imparando ad ascoltarli. Tribunali e carceri, tempo di riforme di Valentina Procopio Il Messaggero, 23 maggio 2016 Si è aperta con un minuto di silenzio dedicato a Marco Pannella l’inaugurazione del Laboratorio Giustizia Teramo, il primo in Italia, nato dalla sinergia tra Università, Procura di Teramo, Scuola superiore della magistratura e Ordine degli avvocati. "Insieme": questa la parola-chiave pronunciata più volte dal procuratore Antonio Guerriero, che ha moderato la tavola rotonda nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza. Hanno partecipato anche il sottosegretario Federica Chiavaroli, i presidenti della Corte di appello dell’Aquila Fabrizia Francabandera, del Tribunale di Teramo Giovanni Spinosa, dell’ordine degli avvocati Guerino Ambrosini, il sostituto procuratore di Teramo Laura Colica e molti altri rappresentanti del mondo della giustizia e di quello universitario, dal rettore Luciano D’Amico alla preside di Giurisprudenza Floriana Cursi. Una parola che è stata anche al centro della tavola rotonda dal titolo "Innoviamo insieme la Giustizia: scienza dell’organizzazione, dirigenza, prassi virtuose, carichi sostenibili, informatizzazione". L’incontro, a cui ha preso parte, tra gli altri, il governatore Luciano D’Alfonso, è servito a mettere in luce, anche gli aspetti più paradossali della giustizia, come quello evidenziato dal presidente del Tribunale, Spinosa. "Il Tribunale che dovrebbe essere destinatario di risorse da parte dello Stato ne diviene, viceversa, un erogatore". Un paradosso che emerge dal bilancio sociale presentato da Spinosa, da cui si evince che il Tribunale di Teramo eroga più di un milione e 100 mila euro l’anno all’erario. C’è poi un altro dato singolare: numeri alla mano, risulta che la temutissima Equitalia, in realtà, sia meno efficiente del caro vecchio cancelliere che si occupava del recupero crediti: in sostanza, dopo il passaggio a Equitalia dell’intera procedura, si è registrato un crollo delle percentuali di riscossione, passate dal 17,37% del periodo 2004-2008 al 10,06% del periodo 2011-2015. Il procuratore Guerriero, nel rimarcare che tra le principali criticità del Tribunale teramano c’è quella relativa alla carenza di personale (il 30% in meno rispetto al necessario), ha anche annunciato che Teramo sarà un laboratorio sperimentale anche per un nuovo progetto di respiro distrettuale, grazie anche alla collaborazione con l’Università che metterà a disposizione dottorandi e laureati. Il sottosegretario Chiavaroli ha ricordato il ruolo di Marco Pannella nella battaglia per l’esecuzione della pena in carcere e fuori da esso. "Abbiamo lavorato molto sulle condizioni delle carceri abruzzesi ed italiane - ha puntualizzato Chiavaroli - ad oggi ci sono 52 mila persone che scontano la loro pena in carcere e 32 mila che possono farlo al di fuori". Il sottosegretario ha annunciato l’arrivo di personale della Provincia a sostegno del Tribunale. Legnini ha posto l’accento sull’importanza dei nuovi modelli organizzativi per i Tribunali e sulla riforma della Giustizia in atto. Anche da parte sua la citazione di una frase di Pannella: "La giustizia è il polmone della democrazia". Il sottosegretario Ferri: anche chi fugge non perde il diritto ai permessi premio di Ilaria Bonuccelli Il Tirreno, 23 maggio 2016 "Le nostre carceri sono le più sicure d’Europa. I casi di evasione sono rarissimi". Lontani dall’1%. Come le revoche delle misure alternative alla detenzione per "irreperibilità" del condannato. Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, non pretende di avere a che fare con un sistema carcerario perfetto. Però, difende il sistema italiano che punta "a rieducare", anche attraverso misure alternative al carcere e permessi premio. Sottosegretario Ferri, lei difende la bontà del sistema carcerario basato sulla premialità della buona condotta. Ma non è difficile da sostenere davanti a un omicida fuggito grazie a un permesso premio? "La legge è chiara. Fa rientrare l’omicidio fra quei reati gravissimi, come il terrorismo, la violenza sessuale o l’associazione a delinquere di stampo mafioso, per i quali sono previste molte restrizioni alla concessione di permessi premio". A De Cristofaro, però, i permessi premio sono stati concessi senza tanti problemi. "A chi è condannato per omicidio, di solito non si concedono prima di aver scontato almeno 10 anni di pena. Inoltre, si arriva a concedere una misura del genere in modo graduale: quando, in precedenza, si siano concessi altri benefici che sono stati utilizzati in modo corretto". Scusi, ma qui siamo di fronte a un fuggitivo recidivo. Perché concedergli un secondo permesso premio a Portoferrario, dopo la fuga dal carcere di Milano? "Lo prevede la legge. In caso di evasione, i benefici sono sospesi per tre anni. Poi si acquisisce di nuovo il diritto a usufruirne. Ad esempio, una persona condannata all’ergastolo ha diritto a 45 giorni di permesso l’anno, fino a 15 giorni consecutivi. È ovvio che la prima volta otterrà 1 giorno, poi 2 e così via. La gradualità è fondamentale nel sistema. Nel caso specifico, il detenuto era scappato da Milano nel 2007 e poi è fuggito di nuovo dall’Elba nel 2014, 7 anni dopo. Il magistrato di sorveglianza che ha valutato il caso ha agito nella legalità". Ma chi valuta le richieste di permessi premio? "Le richieste possono essere presentate dal detenuto e, in quel caso, il direttore del carcere esprime un parere o le avanza il consiglio di disciplina, composto dagli educatori del carcere. A decidere, comunque, è sempre il magistrato di sorveglianza". Ma perché concedere i permessi premio? "Perché l’ordinamento penitenziario moderno punta al reinserimento nella società, al recupero del detenuto. Opportunità come il lavoro penitenziario, il rafforzamento delle misure alternative al carcere, il recupero di diritti come quello all’affettività familiare, per non rescindere i rapporti fra genitori e figli, sono fondamentali. Il governo sfrutterà al massimo la delega che ha su questa materia per cercare di migliorare ancora la situazione". Lei mette in evidenza l’aspetto rieducativo del carcere, però è difficile da comprendere in situazioni come quella degli evasori recidivi. "Lo ripeto: casi come questi sono rarissimi. Anche in Toscana le misure revocate nel 2015 per irreperibilità dei detenuti non arrivano all’1%. I casi di evasione hanno percentuali infinitesimali". Però è inevitabile domandarsi come riesca un detenuto a fuggire durante un permesso premio. Non è sorvegliato? "Certo. Ma non è guardato a vista". Come è sorvegliato, scusi? "Il magistrato di sorveglianza decide una serie di prescrizioni alle quali il detenuto deve attenersi. Ad esempio, nel caso di una persona condannata per omicidio, spesso si vieta di frequentare locali pubblici, di uscire dai confini del comune dove è diretto, di uscire la sera. In più si avvertono le forze dell’ordine locali che sul loro territorio c’è un ergastolano in permesso premio. Le forze dell’ordine possono organizzare controlli al domicilio e sulla persona come e quando vogliono, a sorpresa e anche ogni 30 minuti". Ma ogni tanto non basta. Sentenze in ritardo, giudice punito ma promosso al Consiglio di Stato di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 23 maggio 2016 L’ex "ideologo" di Raffaele Lombardo nominato a Roma dal governo. Tra i dieci nomi indicati dal governo come giudici del Consiglio di Stato, massimo organo della giustizia amministrativa, ce n’è uno che crea parecchi imbarazzi. Si tratta di Giuseppe Mineo, attualmente giudice del Consiglio di giustizia amministrativa siciliana, sanzionato per aver depositato in ritardo le sentenze. E nonostante ciò promosso a Roma dallo stesso premier che da mesi invita i giudici a essere più rapidi ed efficienti. A differenza degli altri nomi indicati dal governo (ex magistrati e politici, militari, alti burocrati), quello di Mineo ha destato subito curiosità per la sua estraneità all’ambiente romano. La sua biografia è tutta siciliana. Così la ricostruiscono diverse persone che lo conoscono, sia nell’ambito accademico che in quello politico-giudiziario. Pupillo di Pietro Barcellona, insigne giurista e filosofo nonché deputato comunista, Mineo è professore associato di diritto privato all’università di Catania. Pur non distinguendosi per prolificità scientifica, nel 2010 fa il grande salto. Diventa giudice del Consiglio di giustizia amministrativa siciliana, l’organo che nell’isola - retaggio autonomista - svolge le stesse funzioni del Consiglio di Stato: rappresenta la massima istanza nei processi amministrativi. Per legge metà dei giudici del Consiglio siciliano è di nomina politica. Infatti la nomina di Mineo arriva direttamente dall’allora governatore Raffaele Lombardo. I due si conoscono da tempo: nel 2005 ad Acireale Mineo è tra gli oratori alle Assise interregionali per la Costituente del Movimento per l’Autonomia, il partito fondato da Lombardo uscendo dall’Udc del rivale Cuffaro (entrambi sono poi finiti nei guai giudiziari, condannati per reati di mafia: Totò in via definitiva, Raffaele in primo grado). Mineo viene considerato uno degli "ideologi" del partito di Lombardo, il quale, eletto presidente della Regione, lo nomina tra i supremi giudici amministrativi mentre molla Berlusconi e si allea con il Pd. E siamo nel corpo vivo della politica. Perché nel frattempo la stella di Lombardo è tramontata e negli ambienti politici si dà per certo che Mineo sia tornato a casa, nell’orbita del Pd. Che in Sicilia vuol dire soprattutto Davide Faraone, renzianissimo sottosegretario e in pole position per le prossime elezioni regionali, e Anna Finocchiaro, che non nasce renziana ma fiancheggiando in Senato Maria Elena Boschi sulle riforme costituzionali ha guadagnato parecchi punti. In questo territorio Mineo potrebbe aver trovato gli sponsor giusti per il secondo grande salto. Questa volta a Roma. Ma l’imprimatur di Palazzo Chigi deve fare i conti con il parere che la legge affida al Consiglio di presidenza dei magistrati amministrativi, l’organo di autogoverno equivalente al Csm di quelli ordinari. Il Consiglio ha acquisito il curriculum di Mineo. All’anomalia della doppia nomina politica (prima da Lombardo, poi da Renzi), si aggiunge un intoppo disciplinare. Mineo, come giudice amministrativo in Sicilia, è stato sanzionato per aver depositato in ritardo (anche di un anno) alcune sentenze. Come mai il governo vuole "promuoverlo"? I giudici se lo chiedono e prendono tempo. Ma devono esprimersi. Se danno parere positivo creano un precedente imbarazzante, proprio mentre si rafforzano gli scrutini di professionalità sulle toghe. Se lo danno negativo creano un conflitto con il governo. In tal caso, essendo il parere non vincolante, il governo potrebbe ignorarlo, insistendo con la nomina. Ma compirebbe una forzatura istituzionale, tanto più in una fase in cui i rapporti con il Consiglio di Stato sono migliorati. E poi: come potrebbe Renzi giustificare la nomina di un giudice ritardatario, proprio lui che sprona i giudici a essere più rapidi e produttivi? Strage di Capaci, di quella lezione restano solo i riti di Evelina Santangelo Il Messaggero, 23 maggio 2016 "Ieri dicevi antimafia e pensavi: riscatto, orgoglio, proposte, denuncia. Oggi dici antimafia e pensi: vuota ritualità, protagonismo, sensazionalismo, corsa ai finanziamenti, bugie". In questi termini duri, spietati fino all’autoironia, il giornalista e scrittore Giacomo Di Girolamo in Contro l’antimafia fa i conti con i sogni di un’intera generazione che, all’indomani della strage di Capaci, impietrita dinanzi ai quei mille chili di tritolo esplosi, sentì l’urgenza di "fare qualcosa". Per dar seguito davvero alle parole di Falcone quando, in un istante di euforia, aveva detto: "La gente fa il tifo per noi", e anche perché quel primo botto sull’autostrada Palermo Mazara del Vallo rese a tutti manifesto, nel modo più eclatante e spaventoso, che la mafia poteva arrivare ovunque, colpire chiunque, e non bastava più tenersi alla larga o starsene in silenzio a farsi gli affari propri. Fu allora che i fermenti già serpeggianti in un pezzo della società siciliana si trasformarono in un’antimafia militante in cui io stessa mi riconobbi. Era il tempo in cui bisognava dire forte e chiaro ciò che non eravamo e non volevamo essere! Ora, Di Girolamo è uno di quei giornalisti siciliani che allora erano dei ragazzini e che, da quel fatidico 1992, si sono fatti adulti macinando denunce, inchieste su connivenze e affari in un territorio dove da decenni aleggia l’ombra (e la longa manus) di quel Messina Denaro latitante dal 1993. La sua storia d’impegno antimafia e di amara disillusione non è un fatto personale, è emblematica piuttosto della parabola di questi vent’anni e passa di comitati, reti civiche, cortei, petizioni per dare al Paese la più innovativa legge sulla confisca dei beni mafiosi, associazioni antiracket, prese di posizione degli industriali, dei commercianti, seminari nelle scuole sulla legalità, marce, e libri, tantissimi libri che indagavano, spiegavano, raccontavano, al punto che, se si era siciliani, secondo i più ortodossi, non ci si poteva permettere di scrivere d’altro che di mafia… finché, come spiega Di Girolamo, "si è dimenticata la sostanza delle cose e ci siamo appiattiti sull’esteriorità dei riti", cioè, su quanto di meglio possa legittimare gigantesche o meschine imposture, con tutto il discredito e l’amarezza che ne consegue. Ecco, non si può non tener conto di questa parabola, dell’odierno svilimento in cui versa la parola "antimafia", nel rievocare quel sabato pomeriggio, il carico di disperazione di quei giorni, le stragi che seguirono, e il desiderio di riscatto, le speranze... Ora, quel che "scoprimmo" quel pomeriggio di maggio in verità lo sapevamo già, o avremmo dovuto saperlo, se avessimo pensato alla mafia in termini non sensazionalistici, se avessimo avuto almeno il senso del paradossale di un Johnny Stecchino, e capito ad esempio che "il traffico", quello stesso modo delirante di percorrere la nostra città cresciuta nell’arbitrio di quegli interessi affaristico-mafiosi che resero possibile il "sacco di Palermo" era la manifestazione ordinaria di quel potere mafioso capace di condizionare in modo millimetrico e quotidiano le nostre vite, così come lo era, manifestazione ordinaria, quella collina di Pizzo Sella sconciata da un abuso edilizio legalizzato che s’imponeva quotidianamente al nostro sguardo come un monito, un memento dello strapotere di certe connivenze politico-mafiose-imprenditoriali (locali e nazionali). Giusto per citare due esempi eclatanti e onnipresenti. Non si trattava solo d’illegalità, ma di abuso, prevaricazione, arbitrio che si erano fatti paesaggio, quotidianità, scansione delle vite, normalità… al punto che avemmo bisogno di un cratere in mezzo a un’autostrada per rendercene davvero conto come collettività. Forse sarebbe il caso allora di tornare a leggere Sciascia per onorare la memoria di uomini di legge come Falcone e Borsellino, e provare a capire cosa, alla fine, non ha funzionato. Così lo scrittore di Racalmuto nel Giorno della civetta definisce la legge cui si ispira il capitano Bellodi: "Legge che nasce dalla ragione ed è ragione", "legge scritta e uguale per tutti", "legge scaturita dall’idea di giustizia" contro l’arbitrio, la prevaricazione, che è legge del più forte, negazione dello stato di diritto. In questi anni la mafia ha cambiato pelle, certo, si è fatta politica, impresa, finanza, mimetizzandosi nel "sistema", sfruttando il "sistema" (visto che oggi "il principale strumento delle mafie sono tutti quei poteri legali che agiscono in modo illegale" o al limite della legalità). È riuscita a speculare e ingrassare persino sulle derive retoriche e i camuffamenti dell’antimafia. Perché la mafia ha una capacità straordinaria di fagocitare e capitalizzare tutto (anche le narrazioni sulla mafia, per dire, come Il Padrino). Le uniche cose di cui la mafia non potrà mai nutrirsi, l’unico veleno, sono lo stato di diritto e una legge fondata sull’idea di giustizia. Ed è dunque su questo terreno che, a mio avviso, qualcosa non ha funzionato, complice la vuota ritualità, certo, ma complice anche l’equivoco secondo cui per contrastare la sottocultura mafiosa bastava concentrarsi sulla "legalità" (seminari, marce, giornate della "legalità"). Quando, in verità, ciò che la mafia teme davvero sono i cittadini, non solo onesti, ma anche consapevoli dei propri diritti e doveri di cittadinanza, i cittadini capaci di riconoscere e opporsi ad arbitrii e abusi. Non è un caso che questo fu uno dei terreni su cui più diede fastidio padre Puglisi, reclamando per gli abitanti di Brancaccio diritti, cercando di coinvolgere la gente del quartiere in percorsi di cittadinanza attiva, collettivi e condivisi. Il che comporta la messa in discussione di un altro aspetto dell’antimafia: e cioè la trasformazione di quell’iniziale rifiuto in un marchio di identità. Ora, c’è qualcosa di paradossale in questo ostinato definirsi al ribasso per ciò che non si è e non si vuole essere, come se la mafia fosse l’unità di misura su cui costruire - in antitesi - un’identità, quando invece, oggi più che mai (dinanzi a una mafia dai contorni sfumati che si muove su confini incerti tra legalità e illegalità nelle maglie della vita pubblica e dell’economia del Paese), ci si dovrebbe definire piuttosto per aspirazione, si dovrebbero fare seminari nelle scuole su: "ciò che vogliamo essere" come cittadini che esigono di vivere in un Paese moderno fondato su uno stato di diritto, quello stato di diritto che giudici come Falcone hanno incarnato, dando credibilità alle istituzioni che rappresentavano, infondendo fiducia: quel genere di cose che da sempre tolgono terreno alla mafia. Il lungo addio a Pannella nel jazz della bella piazza di Andrea Colombo Il Manifesto, 23 maggio 2016 I funerali a Roma. Una maratona laica saluta in un caldissimo pomeriggio il leader radicale. Bonino contro gli "omaggi postumi ipocriti". Sul palco tra musica e ricordi gli interventi dei molti ex. È quando la Jazz Band di Carletto Loffredo attacca Hello Dolly e prosegue con Volare fino all’immancabile When the Saints Go Marching In che avverti la differenza tra la cerimonia laica, ma pur sempre di partito, che da piazza Navona saluta Marco Pannella e qualsiasi altra manifestazione partitica ci sia o ci possa essere. Perché, caso più unico che raro, qui la musica non suona stonata, fuori posto. Ormai il suo pezzo rock non se lo nega nessuno, persino Renzi violenta People Have the Power come jingle per la sua riforma. Il risultato è sempre desolante. Stavolta no. Stavolta i suoni che nella classica second line del corteo funebre accompagnavano il feretro a New Orleans ci stanno tutti. Perché possono essere simpatici o risultare insopportabili, ma è un fatto che i radicali sono e sono sempre stati diversi da qualsiasi partito. Possono permettersi gli ottoni trionfali della Crescent City senza apparire ridicoli. Un po’ stona, invece, il discorso con cui Emma Bonino apre la celebrazione, sotto la grande foto di Pannella sorridente dietro la scritta "A subito", dopo il Requiem di Mozart e i filmati d’epoca che riassumono una vita instancabile. Quelli che commuovono più di ogni discorso chi quella voce se la ricorda, in questa stessa piazza, in un maggio di 42 anni fa, la sera della vittoria nel referendum sul divorzio. Emma Bonino invita a votare radicale, e non è elegantissimo. Non lo fa, neppure alla lontana, Roberto Giachetti il candidato, e la cosa torna a suo merito. L’ex ministra degli esteri si scaglia contro "alcuni omaggi postumi" che "puzzano d’ipocrisia lontano un miglio". Un po’ ha ragione, figurarsi, anzi un bel po’, ma tra la sua stessa gente c’è chi mormora "Però lei non lo è andato a trovare nemmeno una volta". Non è il momento migliore del lungo pomeriggio dell’addio, però passa subito e non lascia tracce. Perché il clima, pur nella tristezza e per molti nel dolore, qualcosa di festoso ce l’ha davvero. Forse per la percezione, mai chiara come nel momento della scomparsa, che Marco Pannella se va da vincitore assoluto, col merito di aver contribuito come pochissimi a cambiare non questa o quella legge, ma la mentalità, la cultura diffusa, il modo di guardare il mondo, le diversità e i diritti nel suo Paese. Gli stessi radicali, si direbbe, sono stati colti di sorpresa, stupiti per primi da un riconoscimento corale che rivela all’improvviso quanto profonda, e feconda, sia stata l’azione politica del loro leader. La definizione più incisiva e precisa del suo ruolo la dispensa un ex radicale che in tutta evidenza non si sente "ex", Francesco Rutelli, citando Hannah Arendt: "Fare politica significa iniziare qualcosa. Marco ha iniziato e poi continuato". Non c’è il retropalco, in questo "funerale laico", quell’area recintata, affollata di vip e giornalisti in caccia di dichiarazioni, che riesce a fare nomenklatura anche nelle manifestazioni che dovrebbero essere più popolari, ed è un altro segno distintivo della diversità dei radicali. I politici e le facce note sono davvero mischiate con tutti quelli arrivati per salutare Pannella. Qualcuno sale sul palco per dire due parole, moltissimi evitano. Qualche presenza inattesa c’è: Maurizio Gasparri, per esempio, che di battaglie con Pannella non deve averne condivisa neanche una, ma è arrivato per omaggio e rispetto, non per ipocrisia e Marianna Madia, che pure di campagne radicali deve averne apprezzate pochine. Lei non sale sul palco. Il collega guardasigilli Orlando sì, e ammette francamente: "Vengo da una cultura politica che guardava i radicali con diffidenza perché non capivamo il senso delle loro provocazioni. Ma non so se le cose che abbiamo fatto sul carcere le avremmo mai fatte senza due persone: Marco e il papa". Perso nella folla è anche Clemente Mimum, che negli ultimi giorni di vita di Pannella si era incaricato di scovare per il malato cibi tanto appetitosi da vincere la sua crescente inappetenza. Non parla, non ce la fa, però fa leggere un suo comunicato che è quasi l’omaggio più commosso. Quasi. Quella palma spetta a Gianfranco Spadaccia, 63 anni di militanza in comune con Giacinto, e anche di litigi, tanto che persino adesso, sul palco, quasi ingaggia un confronto ribollente con la buonanima, sui temi che avevano animato l’ultimo Pannella, soprattutto la campagna mai davvero decollata sul "diritto alla conoscenza". Poi piange, si interrompe, riparte, s’infervora ancora. Anche questo è uno spaccato sulla realtà del Partito radicale, che non è mai stato e non sarà un’associazione celestiale di educande, e anche se ha sempre avuto un padre padrone è stato e sarà anche una famiglia, politica e non solo, dove si è litigato di brutto. Però mai per le questioni che lacerano tutte le altre formazioni politiche nessuna esclusa, mai per faccende di poltrone o di clientela. Dal palco Rita Bernardini e Sergio D’Elia annunciano la fila di interventi, incluso quello di un detenuto di Rebibbia che ha ottenuto un permesso apposta per venire a salutare e ringraziare a nome di tutti i carcerati, per i quali Pannella si è speso per decenni. L’amnistia però non è riuscito a ottenerla e non ci riuscirà, per ora, neppure da morto, perché una cosa è rendere omaggio, anche sinceramente, tutt’altra trovare il coraggio di sfidare la peggior opinione pubblica. Anche se proprio quello, a volte, dovrebbe essere il compito di chi decide di fare politica nella vita. I funerali di Marco Pannella si concludono così, nella sua piazza. La tumulazione invece arriverà nella sua città Teramo, Abruzzo, dove sarà sepolto oggi pomeriggio. Perché Pannella, come ricorda Benedetto Della Vedova, un altro radicale che non sarà mai "ex" era anche questo: un mulo abruzzese. L’ultimo sorriso tra le sbarre a Marco Pannella di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2016 La notizia della scomparsa di Marco si è sparsa all’improvviso da una cella e da una finestra all’altra e in tutte le sezioni del carcere di Padova. Molti detenuti hanno abbassato gli occhi e il tono della voce. Qualcuno ha scrollato la testa. Altri ancora si sono ammutoliti. Tutti si sono sentiti come abbandonati a se stessi. Qualcuno ha urlato dalle sbarre della sua finestra: "E adesso quale sarà quel politico che ci darà voce e lotterà per i diritti dei carcerati o avrà il coraggio di proporre un’amnistia?". Andrea gli ha risposto: "Nessuno". Roberto ha aggiunto: "La stragrande maggioranza dei politici è d’accordo solo su una cosa: riempire le carceri come delle scatole di sardine e usare l’emergenza criminalità per continuare a prendere voti e continuare a rubare." Antonio s’ intromette nella discussione: "Non bisogna generalizzare, ci sono anche i politici onesti". Raffaele si incazza: "Sei proprio scemo, non lo sai che in Italia essere garantisti e abrogazionisti della pena dell’ergastolo fa perdere i voti e consenso elettorale?". Lorenzo lo appoggia: "Guarda che fine hanno fatto quei pochi politici che si sono sempre impegnati per la legalità in carcere, sono scomparsi dal Parlamento. Gli altri politici lo sanno che il carcere in Italia non è altro che lo specchio di fuori, dell’ingiustizia, della sofferenza, dell’emarginazione e la discarica degli avanzi della società perbene e disumana, eppure non alzano un dito, perché non hanno il coraggio e il cuore che aveva Marco Pannella". Interviene Sandro: "Io penso che il carcere così com’è non dà risposte, il carcere è una non risposta, il carcere è il male assoluto. Non si può educare una persona tenendola all’inferno. La si può solo punire, farla soffrire, distruggerla, e dopo di questo anche il peggiore assassino si sentirà innocente. Solo un carcere aperto e rispettoso della legalità può restituire alla società dei cittadini migliori". Ascolto dalle sbarre della mia finestra i discorsi dei miei compagni, ma non intervengo perché penso che adesso sia il momento del silenzio e di trasmettere tutta la nostra solidarietà ai familiari, ai radicali, (in particolar modo a Sergio D’Elia e a Rita Bernardini) e a tutti quelli che volevano bene a Marco. Ciao Marco, eri il mio eroe e mi sei stato da esempio, ora mi sento un po’ orfano. Spero che nel posto dove sei ora non ci siano prigionieri, né carceri, ma sono sicuro che dovunque tu sia adesso, continuerai a lottare contro il Dio di turno per migliorare i diritti degli angeli o dei diavoli. Un ultimo affettuoso sorriso fra le sbarre. Orlando: grazie a Panella e al Papa carceri diverse Agi, 23 maggio 2016 "Non so se le cose, poche o tante, mai fatte sulle carceri" le avremmo fatte senza due persone: "Una è qui, ciao Marco, l’altro è il Papa". È il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a parlare in piazza Navona, rendendo omaggio al leader radicale. E a quanti potrebbero dire "ma che c’entrano queste due persone" così diverse fra di loro, immediatamente risponde: "Quello che le mette insieme è una parola a cui non dobbiamo mai rinunciare: la parola umanesimo". Marco "l’ha fatto vivere", ha detto ancora il guardasigilli che ha riconosciuto di provenire da una tradizione politica che ha guardato ai radicali anche "con diffidenza perché - ha spiegato - non si capivano le loro provocazioni". Provocazioni che "capisco da quando sono ministro". Il riferimento di Orlando è al "mettersi dalla parte più difficile. In una società spaventata "bisogna ricordarsi che qualunque cosa abbia fatto una persona resta una persona e la sua dignità va tutelata". Negli anni "dell’integralismo, del buttiamo via la chiave, credo che la voce di Pannella resterà. Me lo auguro per l’Italia, per la sinistra, per me", ha proseguito il guardasigilli ancora sul tema delle carceri. Sulla bara di Pannella i fiori dei detenuti da numerose carceri italiane di Mario Stanganelli Il Gazzettino, 23 maggio 2016 "Nox est perpetua una dormienda", un’unica perpetua notte da dormire. Così Catullo dipingeva la morte che tutti ci attende, ma Marco Pannella ha voluto che la sua prima notte ufficiale da defunto fosse sveglia, illuminata e festosa. Infatti, nel grande salone di via di Torre Argentina nella notte tra venerdì e sabato tutto si poteva pensare meno che si celebrasse una veglia funebre. La salma del leader radicale che era stata trasferita nella sede del partito dalla sala Aldo Moro della Camera era circondata da una ressa di popolo che sembrava impegnato in un happening. Parlare di una "festa col morto" è forse troppo, ma la bara, a cinquanta centimetri da terra, è stata subito coperta di fiori, pashmine buddiste, bigliettini dedicati al defunto leader, due pacchetti di sigarette, qualche cigarillo e, per non far mancare nulla al corredo funerario, una bottiglia di sambuca con, per terra, il relativo bicchierino. Restava scoperto il busto e il cereo volto che - una volta rotti gli indugi, e cominciato il rito delle carezze e dei baci, questi sì commossi - sembrava, per una certa increspatura delle labbra, sorridere. Facile immaginare la soddisfazione postuma di Pannella che, come ha riferito, dal palco di piazza Navona, la compagna di una vita, Mirella Parachini, aveva espresso "un solo auspicio: "Al mio funerale non voglio che si pianga, voglio che si rida e che ci sia musica"". Per l’amato jazz, è stato accontentato dalla band di Carletto Loffredo, ma per la veglia notturna si è invece preferito continuare con una soffusa colonna sonora del Requiem mozartiano in repertorio da sempre a Radio Radicale. Piacenza: tenta di fotografare condizioni di un detenuto, l’On Ferraresi (M5S) denunciato piacenza24.eu, 23 maggio 2016 Nuova puntata nella querelle che vede protagonista il detenuto Rachid Assarag - che documentò presunti pestaggi subiti in vari istituti di pena italiani, anche con l’ausilio di registrazioni audio, da qualche tempo trasferito al carcere di Piacenza. Dopo l’ispezione a sorpresa del deputato del Movimento 5 Stelle Vittorio Ferraresi, che definì "situazione ai limiti della tortura" il modo in cui era carcerato alle Novate il 41enne marocchino, ora la direzione della casa circondariale piacentina ha deciso di denunciare il pentastellato per resistenza a pubblico ufficiale e inosservanza di ordine dell’autorità. Questo perché Ferraresi, nella sua visita ad Assarag, avrebbe tentato di documentare "ematomi su tutto il corpo, sangue e incuria nella cella". Ma il deputato dei Cinque stelle, attraverso un comunicato afferma che la sua battaglia, non solo per un detenuto ma per tutti, non si fermerà. "Sulla vicenda di Rachid Assarag, dopo aver personalmente accertato le condizioni terribili, degradanti e indegne di uno stato democratico in cui era costretto a vivere il detenuto nel carcere di Piacenza "Le Novate", apprendo ora di essere stato denunciato dalla stessa Direzione del carcere per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e inosservanza di ordine dell’Autorità (artt. 337 e 650 c.p.). Studiare la giurisprudenza della Cedu, studiare la sentenza "Torreggiani" con la quale lo Stato Italiano è stato condannato per le condizioni delle sue carceri, è una cosa. Constatare di persona la situazione sulla pelle della persona fisica di Rachid e dei muri entro i quali era ristretto, è tutt’altra questione". Lo afferma il deputato M5S Vittorio Ferraresi, capogruppo in commissione Giustizia che aggiunge: "Come ho già denunciato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Piacenza di fronte all’atteggiamento sfacciatamente negazionista di quanto ciò che personalmente ero costretto, in quella situazione, a vedere e a sentire mi ha indotto - in quello che ritengo essere stato un vero e proprio "stato di necessità" - a tentare di documentare ciò che vedevo e sentivo in quel momento. Non saranno certo le denunce che mi indurranno a tacere, non saranno certo le minacce e le intimidazioni che mi faranno ricredere. Quel che è certo è che in nome della presunta sicurezza negli istituti di pena, viene impedito finanche ad un deputato della Repubblica Italiana di poter documentare una situazione che non solo viene negata, ma che ha dimensioni e natura difficili a credersi in uno stato europeo quale quello italiano. Il mio tentativo disperato di usare un cellulare, bloccato con la forza e la violenza, per documentare - ai soli fini di denuncia - quanto era sotto i miei occhi, è la piena prova della estrema drammaticità delle condizioni di detenzione in cui si trovava Rachid e che, devo dire, da tempo lui stesso, il suo avvocato e sua moglie invano denunciano". Ferraresi conclude: "Su di me è stata usata violenza, ma non credo che sia solo questo il problema. Il problema riguarda il rispetto della legge nelle condizioni di detenzione che deve essere garantito a tutta la popolazione carceraria, che non può essere sottoposta a trattamenti neppure assomiglianti a quelli di cui sono stato personalmente testimone. Queste denunce riguardano non solo il suo caso, ma tanti casi di detenuti anche italiani, la cui situazione è uscita grazie ad Assarag che ha documentato l’omertà e le violenze di una parte del sistema carcerario. Mi rivolgo a tutti coloro che hanno a cuore il rispetto della Costituzione italiana e dei diritti umani in Italia". Piacenza: "caso Ferraresi"; bene il rispetto delle regole, ma deve valere per tutti di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2016 L’onorevole Vittorio Ferraresi capogruppo dei 5 Stelle, in compagnia dell’avvocato Fabio Anselmo visita nei giorni scorsi il carcere di Piacenza per appurare se il detenuto Rachid Assarag sia stato picchiato da persone appartenenti alla Polizia penitenziaria. Vittorio Ferraresi viene denunciato dalla Direzione dell’Istituto per aver eluso le regole, portando all’interno della struttura un telefonino non autorizzato. Denuncia del tutto lecita: se ha infranto le regole, ne risponderà e penso francamente che sia giusto così. Ma, come cittadina, vorrei che con la stessa solerzia fosse appurato se davvero una persona affidata a una pubblica istituzione - che tra l’altro si chiama Ministero della Giustizia - è stata malmenata da dipendenti dello Stato. Anche per togliere, nel caso fosse notizia infondata, qualsiasi ombra su un Corpo di Polizia che svolge un lavoro faticoso e molto, molto delicato. Ricordo anni fa un convegno in cui un illustre penalista (credo si trattasse di Luigi Ferrajoli) parlava di "corpi sacri". E in questi giorni, nel celebrare il ricordo di Marco Pannella, i medesimi concetti li abbiamo sentiti ripetere più e più volte. E tutti sono d’accordo nel sottolineare l’impegno di una vita per la tutela dei diritti. E nessuno ma proprio nessuno ha detto che sbagliava. Piacenza: "caso Ferraresi". Lega Nord "priorità alle esigenze della Polizia penitenziaria" piacenza24.eu, 23 maggio 2016 "La Polizia penitenziaria ogni giorno è costretta ad operare in condizioni complesse e faticose, per questo una visita delle carceri da parte di un deputato dovrebbe concentrarsi in primo luogo su questo aspetto prima ancora che sulle recriminazioni di uno stupratore che per la sua problematicità ha più volte cambiato istituto di pena". Il segretario provinciale della Lega Nord, Pietro Pisani, e quello della sezione di Piacenza, Luca Zandonella, intervengono così sul blitz attuato qualche giorno fa da Vittorio Ferraresi, deputato del Movimento 5 Stelle, nella casa circondariale di via delle Novate. "La denuncia del pentastellato, che ha infranto le regole nascondendo un telefono cellulare per riprendere la cella - proseguono gli esponenti del Carroccio, ignora volutamente le difficoltà degli agenti che sotto organico si trovano spesso ad avere a che fare con la violenza di detenuti incontenibili e incapaci di accettare le più basilari regole dell’istituto di pena. Detenuti spesso di origine straniera e che quindi dovrebbero invece scontare la pena nel proprio paese. Invece di preoccuparsi del benessere di uno stupratore, Ferraresi - aggiungono Pisani e Zandonella - avrebbe dovuto prima interessarsi alle istanze della polizia penitenziaria, alla quale va la piena solidarietà della Lega Nord, tenendo bene a mente il danno che il carcerato ha arrecato alla vittima e ai suoi familiari". Reggio Calabria: riportare l’istituto di Arghillà alla sua destinazione originaria di Domenico Grillone strill.it, 23 maggio 2016 Doveva essere una Casa di reclusione, quella di Arghillà, per detenuti definitivi con lunghe pene che in provincia di Reggio non esisteva. In quanto casa di reclusione erano stati pertanto previsti al suo interno spazi per le lavorazioni e per le attività trattamentali. Inoltre, con l’utilizzo del terreno circostante si ipotizzava l’attivazione di una piccola azienda agricola e zootecnica e quindi programmi finalizzati al recupero ed all’inserimento lavorativo del detenuto. Questa destinazione iniziale nei fatti non è’ stata rispettata. L’istituto è diventato da subito casa circondariale ed ospita nella stragrande maggioranza detenuti inattesa di giudizio, molti provenienti addirittura da altre regioni. Insomma, al momento, la sua destinazione originaria non sembra sia stata rispettata. "È’ prevalsa l’esigenza della Magistratura - spiega Mario Nasone, ex direttore dell’Uepe - di avere a disposizione gli imputati e svolgere le attività di indagine e processuali previste, a scapito della funzione trattamentale che l’istituto doveva svolgere e che resta pertanto senza risposta. Soprattutto non si è data risposta al principio della territorialità della pena cioè l’opportunità per un detenuto di scontare il suo debito il più possibile vicino al proprio ambiente di origine". "I contatti con l’ambiente esterno invece - continua Nasone - sono determinanti sotto diversi aspetti. Innanzitutto garantiscono due diritti fondamentali: l’affettività e il reinserimento sociale. Un cittadino condannato in via definitiva, allontanato dal suo contesto socio-economico e culturale, perché trasferito in un’altra regione, subisce una forte limitazione di entrambi. Non a caso dunque la legge sull’ordinamento penitenziario stabilisce che i trasferimenti dei detenuti devono essere disposti favorendo "il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie", anche perché i familiari, specialmente i figli, non sono in alcun modo responsabili di eventuali reati commessi dai loro genitori. Anche loro vantano dei diritti come quello di poter avere relazioni affettive con il genitore recluso". Per l’ex direttore dell’Uepe "servirebbe pertanto riportare almeno in parte l’istituto alla sua destinazione originaria con una rimodulazione che tenga conto delle esigenze processuali ma anche del diritto dei detenuti e delle loro famiglie. Si potrebbe pertanto prevedere una sezione penale di reclusione per condannanti definitivi a lunghe pene e per reati comuni escludendo quelli associativi e di mafia e l’avvio per loro di un programma di attività’ lavorative, di istruzione e culturali in grado di contrastare la recidiva. Si dovrebbe contestualmente evitare di trasferire ad Arghillà soggetti provenienti da altre regioni e quindi quelle forme di turismo giudiziario che caratterizzano il sistema penitenziario per cui i calabresi vanno al centro nord e magari i campani ed i pugliesi arrivano in Calabria. Serve, quindi, una richiesta al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, ndr) di volere rivedere la tipologia dell’istituto con la possibilità quindi di offrire agli operatori penitenziari la possibilità’ di potere svolgere pienamente il proprio mandato istituzionale che impone un servizio finalizzato alla rieducazione ed al reinserimento lavorativo e sociale del reo". "Quando fu aperto il carcere di Arghillà - aggiunge Maria Carmela Longo, direttrice del carcere di San Pietro e dello stesso istituto di Arghillà - la scelta dell’amministrazione fu quella di destinarlo in prima battuta per i detenuti di media sicurezza e con particolari caratteristiche (persone con condanne definitive, senza problematiche di natura sanitaria, senza infrazioni disciplinari, ecc). I detenuti, però arrivarono da tutta la regione perché inizialmente furono aperte due sezioni. Nello stesso periodo nelle carceri di San Pietro si registrava un affollamento spaventoso, inaccettabile, oltre alla circostanza che la struttura carceraria di via san Pietro non aveva la possibilità di recepire, accogliere gli arrestati. Quindi - sottolinea la direttrice - per tutte le operazioni delle forze dell’Ordine che riguardavano più di 5 soggetti, uno restava a San Pietro mentre gli altri venivano distribuiti nelle carceri della provincia con un evidente spreco di risorse. E quindi l’amministrazione, a cavallo tra il 2013 e il 2014, ha aggiustato il tiro con alcune decisioni: San Pietro ospita solo detenuti di alta sicurezza (416 bis ecc.), mentre Arghillà viene destinato come istituto di media sicurezza con una sezione che rimane per i detenuti già condannati a pene definitive, per la maggior parte del reggino; l’altra sezione diventa casa circondariale media sicurezza e quindi riceve gli arrestati o chi è impegnato in udienza a Reggio Calabria". "Ci sono regioni in Italia che registrano uno stato di sovraffollamento (Sicilia, Campania e Puglia), a fronte di altre definite dal ministro virtuose, come la Calabria, nel senso che si sono aperti carceri e sezioni, cosa che non hanno fatto le altre regioni. Ed a fronte di un incremento di detenuti ecco gli istituti calabresi, compreso quello di Arghillà diventano facilmente luoghi in cui collocare i detenuti per i quali si ravvisa una certa difficoltà di collocazione: a febbraio il terzo piano era tutto occupato con detenuti alta sicurezza, cambiando destinazione: prima era media adesso è anche alta sicurezza. Altri detenuti di alta sicurezza provenienti da Sicilia Campania e Puglia con condanna definitiva per reati di riprovazione sociale sono stati mandati recentemente ad Arghillà ad occupare la sezione di 50 posti. A fronte dell’emergenza sovraffollamento, e per garantire quindi le misure standard europee dei metri quadri pro-capite per ogni singolo detenuto, si sono adottati provvedimenti che di fatto determinano scelte pressoché forzate e lontane dall’obiettivo originario, quello di ricevere ad Arghillà detenuti di media sicurezza della provincia di Reggio Calabria". Reggio Calabria: la direttrice Longo "nelle carceri reggine meno sovraffollamento" di Domenico Grillone strill.it Alto tasso di sovraffollamento, presenza massiccia di tossico-dipendenti, mancanza di spazi minimi di vivibilità previsto dalla legge ed un trattamento rieducativo spesso carente. Sono solo alcune delle tante criticità che affliggono le carceri italiane. Ma leggendo i dati di qualche settimana addietro, estrapolati dal XII rapporto dal titolo "Galere d’Italia" ed elaborato dall’Osservatorio di Antigone, l’associazione politico-culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale, si evince che i mali peggiori delle carceri italiane denunciati dal rapporto toccano solo marginalmente, ed in alcuni casi per nulla, gli istituti penitenziari calabresi ed in particolare le carceri reggine. Le strutture carcerarie calabresi, infatti, (al 31 marzo 2016 il numero dei detenuti ammontava a 2.405 per 2661 posti), assieme a quelle del Trentino Alto Adige e dell’Umbria, appaiono quelle più idonee in Italia a garantire ai detenuti gli spazi minimi di vivibilità. Pochi anche i tossicodipendenti che nel resto d’Italia, invece, rappresentano un problema di non poco conto. Fenomeno nuovo, invece, e questa volta si, tutto reggino, è la figura dello scafista: una nuova tipologia di detenuto, figlia dei tanti sbarchi avvenuti in città, la cui presenza comincia a farsi notare nel carcere di Arghillà Ma a confermare la situazione "ottimale" delle carceri reggine, almeno per quanto riguarda i punti di maggiore criticità denunciati dal rapporto di Antigone, è la stessa direttrice, la dottoressa Maria Carmela Longo. A lei, infatti, abbiamo posto una serie di interrogativi sulla situazione della casa circondariale G. Panzera di via San Pietro e quella di Arghillà. In una regione italiana su due, secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia e relativi alla situazione carceraria al 31 dicembre 2015, le carceri italiane continuano a non garantire ai detenuti lo spazio minimo di vivibilità previsto dalla legge. Com’è la situazione nelle carceri di Arghillà e G. Panzera? "Rispetto alle altre regioni italiane, la situazione dei due istituti penitenziari reggini può definirsi ottimale. Basti pensare che ad oggi le carceri di via San Pietro registrano una presenza di circa 180 detenuti a fronte di una capienza di quasi 300 posti, calcolati sulla base dello standard minimo pro capite previsto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Anche per quanto riguarda Arghillà il sovraffollamento non rappresenta un problema rispetto alle altre carceri italiane". Quanto incide il tasso di sovraffollamento sull’effettiva rieducazione del detenuto? "È vero che i grandi numeri, a fronte di un uguale mantenimento del livello di personale in servizio, rallenta l’attività rieducativa. Ma tutto questo non va ad incidere sulla sostanza perché si tratta solo di un rallentamento. Personalmente ritengo che il sovraffollamento non ha mai costituito un impedimento al percorso di rieducazione laddove il primo requisito è l’adesione del detenuto allo stesso percorso. La rieducazione prescinde dallo spazio fisico, si tratta di una scelta ideologica, di stile di vita. È chiaro che, se a fronte del sovraffollamento il personale rimane lo stesso o le risorse diminuiscono è evidente che il processo viene rallentato". L’anomalia tutta italiana di un sistema penitenziario in cui più del 40% delle persone in carcere sono detenuti in attesa di giudizio si evince anche nella situazione delle carceri reggine? "Anche per quanto riguarda questo aspetto, le carceri reggine non rientrano nei parametri nazionali: San Pietro, proprio perché collegato con l’aula bunker, ospita quasi esclusivamente detenuti imputati, impegnati per ragioni di giustizia. È evidente che si tratta di detenuti imputati che dopo il processo vanno via, in altri istituti. In un territorio come quello reggino, caratterizzato da numerose operazioni di polizia, il primo obiettivo rimane la celebrazione dei processi. Obiettivo che può essere garantito proprio grazie alla presenza del collegamento interno con l’aula bunker che consente di risparmiare uomini, mezzi e risorse. San Pietro, quindi, è destinato quasi esclusivamente a ricevere gli arrestati e garantire la presenza dei detenuti in udienza. Qui esiste un turn over continuo che, tra l’altro, non consente di programmare attività a lungo termine". E le carceri di Arghillà... Si tratta di casa circondariale del circuito media sicurezza: riceve gli arrestati e chi deve partecipare ai processi. Una sola sezione è destinata ai detenuti con sentenza definitiva. Ma c’è una ragione della misura ridotta dei detenuti con sentenza definitiva ed è riconducibile ai benefici delle misure alternative previste dalla nostra legislazione. Molte persone già condannate in via definitiva non entrano neanche in carcere perché accedono ai benefici direttamente dal loro stato di libertà. In che misura sono presenti opportunità di lavoro e formazione che, per legge, dovrebbero essere obbligatorie per tutti i detenuti condannati come elemento fondamentale per costruire il reinserimento sociale alla fine della pena? Tutta la struttura penitenziaria va avanti con il lavoro prestato dai detenuti: dai servizi di pulizia, lavanderia, alla cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato e, in casi particolari, anche per la manutenzione straordinaria. Basti pensare che buona parte della ristrutturazione del carcere di Via San Pietro è stata realizzata attraverso lo strumento del lavoro dei detenuti. Un lavoro retribuito con i due terzi della paga sindacale e con tutti i benefici di legge. Diverso il discorso per la formazione, proprio perché il Pansera, essendo un istituto che ospita quasi esclusivamente detenuti impegnati in attività processuali non consente una programmazione di qualunque attività a lungo termine. Per Arghillà, invece, la situazione è differente: sono state avviate numerose attività e recentemente sono stati approvati, e stanno quindi per partire, due corsi professionali finanziati dalla Provincia. Quanto incide nelle carceri reggine la presenza di persone con problemi di consumo o abuso di sostanze stupefacenti o per violazione della normativa sulle droghe, dal momento che, secondo dati recenti del Consiglio d’Europa, il 38,4 per cento della popolazione detenuta in Italia è in carcere per questo motivo, mentre in Francia, Germania o Inghilterra questa percentuale è di circa il 15 per cento? Anche questo è un problema che sfiora appena le strutture carcerarie reggine: al Panzera ci sono 4, 5 casi di soggetti tossicodipendenti e ad Arghillà i numeri non si discostano di molto da quelli delle carceri di Via San Pietro. Il fenomeno che invece si registra, perlomeno ad Arghillà, è quello dei detenuti di nazionalità straniera: si tratta per la maggior parte dei cosiddetti scafisti, gente coinvolta negli sbarchi dei migranti ed arrestati dalle forze dell’ordine. Circa un quarto delle persone detenute in Italia manifesta gravi forme di disturbo psichico. Com’è la situazione a livello locale? In questi casi i livelli di intervento sono diversi: esiste quello da parte dell’amministrazione, dotata di proprio personale, psicologi ed educatori, per fronteggiare queste situazioni. Ad occuparsi invece dell’assistenza specialistica in senso stretto è l’azienda sanitaria, perché il servizio sanitario penitenziario è transitato in quello nazionale. E se per il Panzera la dotazione di personale può definirsi ottimale, stesso discorso non può essere fatto per le carceri di Arghillà. L’azienda sanitaria infatti, nonostante l’istituto sia aperto da circa tre anni, non garantisce ancora l’assistenza specialistica, nonostante siano state richieste alla giunta regionale le ore di assistenza. Si ovvia a questa lacuna con modalità sicuramente efficaci ma lunghe e farraginose. Diritto all’affettività, al lavoro, all’integrazione rappresentano le nuove sfide del Ministero della Giustizia attraverso gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, un Comitato di esperti nominati dal Ministero della Giustizia, articolato in 18 tavoli tematici composti da operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile. Riguardo questi temi cosa fa l’amministrazione penitenziaria reggina? Su questi temi, come amministrazione penitenziaria, soprattutto a livello regionale, crediamo di aver fatto grandi passi in avanti. Intanto tutti gli istituti penitenziari della regione, ed in particolare quelli reggini, sono dotati di sale colloqui senza i muri divisori. Ad Arghillà, ed in misura ridotta anche al Pansera, esiste un’area verde dove effettuare colloqui all’aperto con bambini o anche per stare con animali domestici. Nelle carceri di via San Pietro si sono inoltre realizzate due sale d’attesa, particolarmente gradevoli e a dimensione anche di bambini, per i familiari che, tra l’altro, evitano le file con il sistema della prenotazione dei colloqui attraverso e mail o attraverso il telefono. Sul lavoro abbiamo già parlato, mentre per quanto riguarda l’integrazione si tratta di una sfida abbastanza difficile: un po’ per il contesto territoriale non proprio favorevole, e poi perché l’integrazione non può prescindere dall’adesione di un offerta trattamentale che viene fatta. In ogni caso, se è vero che il carcere stenta a rieducare, sono convinta che il periodo carcerario potrebbe costituire una occasione favorevole nella misura in cui consente alla persona ristretta di riflettere sui propri comportamenti e modi d’essere, proprio per non farlo diventare un tempo inutile e sprecato. Riduzione nell’organico degli istituti penitenziari calabresi: le carenze di personale, spiega il Sappe in una recente nota, portano ad un accumulo di congedo e di lavoro straordinario, oltre ad un pericoloso abbassamento del livello di sicurezza. Per il sindacato serve un incremento di personale di almeno trecento unità. Qual è la situazione nelle carceri reggine? Questo, invece, è un problema che riguarda anche gli istituti penitenziari reggini. Un po’ per il blocco delle assunzioni, e quelle poche che ancora si effettuano sono insufficienti per coprire le necessità, e poi perché in Calabria quel poco personale che arriva ha già prestato tanti anni di servizio fuori regione. Per carità, questo non vuol dire nulla ma difficilmente può essere impiegato in alcuni servizi, esistono dei vincoli normativi che lo impongono. Napoli: le scuole aperte e il destino di una comunità di Antonio Mattone Il Mattino, 23 maggio 2016 Scuole aperte d’estate. È quanto prevede il Piano Nazionale per prevenire la dispersione scolastica nelle periferie approntato dal ministero dell’Istruzione. Ed è la risposta del presidente del Consiglio Renzi alle richieste dei parroci e delle associazioni all’indomani dell’ennesimo raid di camorra alla Sanità. Quattro milioni e centotrentamila euro stanziati solo a Napoli per progetti che coinvolgeranno circa 270 plessi della provincia. Una iniziativa che, secondo alcuni, rappresenta una svolta per riportare tra i banchi quei minori che sono lontani dalla scuola e rischiano di essere attratti dall’offerta perversa della malavita. Mentre per altri sono interventi estemporanei, effetto del clamore degli ultimi omicidi in città, ma privi di azioni strutturali e di una programmazione di lungo periodo. Saranno sufficienti per fermare la devianza giovanile? Oppure sono destinati a durare fin tanto resteranno accesi i riflettori sulla violenza della criminalità organizzata? Ogni scuola avrà a disposizione fino a 15mila euro per elaborare azioni volte a contrastare il disagio sociale che caratterizza alcuni quartieri periferici, considerando che a Napoli la periferia sopravvive anche in alcune parti del suo centro. Fondi che si vanno ad aggiungere ai 12mila euro già previsti per i progetti per le "Aree a rischio", anche se nel corso degli ultimi anni le risorse per questa programmazione si sono ridotte circa del 60%. Il Piano presta molta attenzione ai contenuti dei programmi. Per attirare i ragazzi che disertano la scuola non si poteva riproporre lo stesso contenitore delle lezioni ordinarie. Ed ecco che musica, sport, laboratori di cinema e teatro sono alcuni degli argomenti sui cui verteranno le attività per coinvolgere questa infanzia problematica. I dati sulla dispersione scolastica forniti dal Comune di Napoli per l’anno 2014/2015, parlano di una percentuale dello 0,31% per la scuola primaria e del 1,30% per gli istituti secondari di primo grado. Sono numeri che si riferiscono agli scolari bocciati per inadempienza e che si concentrano soprattutto nei quartieri di Poggioreale, San Lorenzo, Scampia e Piscinola, zone dove le organizzazioni criminali sono ben radicate. Tuttavia questa statistica non comprende chi ha una frequenza saltuaria e riesce a completare l’anno scolastico solo con il generoso aiuto da parte degli insegnanti. Situazioni di disagio sociale e familiare su cui si interviene cercando di essere indulgenti e compresivi, con il risultato di raggiungere la promozione a discapito di bassi livelli di scolarizzazione. La ricerca dell’Ufficio Regionale Scolastico per la Campania relativa al quinquennio 2007-2012 su un campione del 74% delle scuole elementari e medie di Napoli, ha rilevato che nella ottava municipalità (quella che comprende Scampia) il 25% di alunni delle primarie ha fatto più di 61 assenze durante l’anno, mentre il 40% ha saltato tra i 31 e 60 giorni. Quindi solo il 35% ha avuto una frequenza regolare. Nella città di Napoli si delinea una situazione a macchia di leopardo, dove nei quartieri più problematici c’è un alto tasso di dispersione scolastica, mentre nelle zone residenziali come il Vomero, i bambini che vanno regolarmente a scuola sono il 94%. Un’altra criticità è rappresentata dall’abbandono dei ragazzi dai 14 ai 16 anni, età ancora dell’obbligo scolastico. Lo stesso studio ha constatato che nel quartiere di Scampia nell’anno 2008-2009, dei 389 iscritti alle scuole superiori solo il 57% è stato ammesso agli scrutini. Una vera e propria ecatombe. L’abbandono della scuola è la via maestra da cui tanti ragazzi passano per "emigrare" nell’illegalità. Ci arrivano dopo un processo di marginalizzazione che coinvolge il contesto urbano e familiare, e si finisce con lo smarrire la propria identità. Per ritrovare se stessi diventa più facile identificarsi nelle figure autorevoli e violente che questi ambienti degradati propongono. E così questi giovani assumono atteggiamenti e linguaggio dei piccoli boss di quartiere, come dei Ciro e i Genny di Gomorra. Frustrazione e risentimento assieme ad un vuoto culturale e valoriale sono una miscela esplosiva. E allora ben vengano attività per la conoscenza del territorio di appartenenza, per apprendere la storia, l’arte e la bellezza di Napoli. E soprattutto per farne diventare patrimonio personale e consapevolezza di un destino comune. Ma la vera sfida si giocherà con la ripresa dell’anno scolastico, quando bisognerà riportare nelle aule i ragazzi inadempienti. Sappiamo che la scuola è debole e da sola non ce l’ha può fare. Occorre l’intervento sinergico degli assistenti sociali, delle parrocchie, delle associazioni e non da ultimo delle istituzioni, per pianificare tutte quelle azioni necessarie a recuperare questa infanzia perduta. Ed è bene ricordare le parole di don Milani che diceva: "se si perdono i ragazzi più difficili, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati". Catania: Carmina Campus e le borse fatte in prigione "è business, non beneficenza" di Maria Teresa Veneziani La Repubblica, 23 maggio 2016 Usa materiali di recupero per la sua Carmina campus. Figlia di Anna Fendi, alleva pecore e produce formaggi. La borsa delle donna è un oggetto emotivo. Ma quelle "Made in Prison" del marchio Carmina Campus si guardano e si acquistano come un quadro, sulla base dell’empatia. Sulle shopping in feltro ci sono teste di donna in rilievo: le detenute hanno rappresentato se stesse, viste di spalle, con il volto simbolicamente rivolto verso la libertà. "Sono applicazioni realizzate nel carcere di Catania, con una tecnica artigiana che permette di non usare cuciture o colle. Il feltro infatti viene fatto compenetrare nel tessuto con la tecnica di lavorazione della lana cotta", spiega Ilaria Venturini Fendi, classe 1966. Figlia di Anna, una delle cinque sorelle Fendi, dopo essere stata direttrice creativa degli accessori di Fendissime, Ilaria si è sentita estranea ai ritmi frenetici della moda. Ha scelto l’agricoltura biologica dell’azienda di famiglia, I casali del Pino, dove la stilista alleva pecore e produce formaggi. "Pensavo di assomigliare a mia madre e invece ho capito che ho preso più da mio padre - dice, ma a un certo punto mi mancava la creatività". Ilaria trova la terza via: "Ho cominciato ad abbinare materiali riciclati provenienti da tutti i settori industriali, con progetti sociali". Il bilancio dei suoi primi 10 anni di riciclo? "Mi ha sorpreso il tempo impiegato dalla moda per capire che il mondo stava cambiando; che non si può più prescindere dal realizzare prodotti rispettosi della natura e delle persone", continua la designer, parlando di una sfida che sembrava difficilissima: trasformare in borse, bracciali e collane i pezzi difettosi e i ritagli gommati delle suole in carrarmato Vibram. "Non essendo riciclabili sono destinati alla discarica". La moda sostenibile è stata bloccata a lungo dai pregiudizi sull’estetica. Le borse "Made in Prison" dimostrano semmai il contrario. "Ogni pezzo non è mai uguale a un altro, essendo stato assemblato a mano. Il programma di borse coinvolge le prigioni di Bollate e San Vittore a Milano, di Santa Maria Maggiore a Venezia, e di Piazza Lanza a Catania (per il feltro). Accanto a materie prime povere ne vengono accostate altre nobili come ritagli di pelliccia o pelle recuperati dai campionari dei pellettieri". Schedata come prevede l’articolo 17 - relativo all’opera di risocializzazione dei detenuti - Ilaria ha cominciato a entrare nelle carceri: "Solo così capisci che cosa è la libertà negata". Il progetto, "che nulla ha a che fare con la beneficenza", è realizzato in collaborazione con le cooperative di Socially MadeinItaly ed è certificato dal Ministero di giustizia. "Ho portato il mio know how, acquisito con la collezione di borse Made in Africa realizzato con le Nazioni Unite dal 2009 al 2014: un progetto che poteva ormai definirsi concluso ed essere sostituito da un’idea sociale in Italia". Le borse "Made in Prison" sono realizzate con le coperte recuperate nei magazzini delle carceri, e trattate in colori accesi - rosso, blu, giallo - che assumono diverse sfumature a seconda dell’originale. Ognuna racconta una storia. Aversa (Ce): ucciso a calci e pugni nell’Opg, ministero della giustizia chiamato in causa casertace.net, 23 maggio 2016 Si è tenuta venerdì l’udienza del processo davanti al giudice Villano per l’omicidio di Seiano Cibati, ucciso durante una rissa nell’opg di Aversa consumatasi il 27 settembre 2010. Nel processo sono imputati Alessandro Basile di Napoli, Cosimo Damiano Stella di Colleferro, Fabrizio Aureli di Roma, Massimo Maiorano di Ischitella (Foggia). Durante l’udienza c’è stata la costituzione degli eredi, della tutrice e dell’educatrice, oltre alla chiamata in causa del ministero della giustizia perché nel momento della morte il personale penitenziario era assente. Cibati fu ucciso durante una rissa a calci e pugni perché fu accusato da un altro detenuto di essere un pedofilo. Reggio Calabria: Corbelli (Diritti Civili); scarcerato il detenuto cieco malato di tumore quicosenza.it, 23 maggio 2016 L’uomo era recluso nel penitenziario di Palmi nella stessa cella del nipote che provvedeva ad assisterlo. È stato scarcerato il detenuto calabrese, malato di tumore e cieco, che era in carcere a Palmi, nella stessa cella con il nipote che lo assisteva. A darne notizia è il leader del movimento Diritti civili, Franco Corbelli che aveva segnalato il caso. "Ha ottenuto gli arresti domiciliari l’uomo di 66 anni, malato di tumore, quasi del tutto cieco, non autosufficiente - afferma Corbelli - che era in cella con un nipote che lo assisteva. Quest’uomo ha visto così esaudito il suo desiderio di poter terminare la sua esistenza a casa, accanto ai suoi familiari. Mentre esprimo tutta la mia soddisfazione, la mia commozione e la mia gioia per questo risultato, che considero un atto di giustizia umana, il mio pensiero in questo momento va a chi, come e più di me, si è sempre battuto per denunciare il dramma delle carceri e difendere i diritti dei detenuti: Marco Pannella. A lui voglio dedicare questa battaglia vinta, questa bella pagina di giustizia". "La triste e drammatica storia di questo detenuto - sostiene ancora Corbelli - mi aveva profondamente colpito. Per questo ero prontamente intervenuto. Dopo i miei appelli, i giudici competenti avevano disposto per questo detenuto una nuova visita che è stata effettuata, da un perito, il 29 aprile. Nei giorni scorsi il Tribunale della Libertà ha stabilito la scarcerazione (arresti domiciliari) per quest’uomo. Questo detenuto, il mese scorso, mi aveva scritto, tramite il nipote, una seconda lettera per informarmi degli sviluppi della sua vicenda, dopo i miei interventi, e per ringraziarmi. Per questo detenuto, con un tumore al cervello, si sta valutando adesso un possibile intervento chirurgico, per cercare di alleviare la sua sofferenza". Napoli: Comunità di Sant’Egidio; settimana di incontri, di studi e di visite nelle carceri di Antonio Mattone Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2016 È stata organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio di Napoli con un gruppo di operatori penitenziari della Germania. L’iniziativa è nata da una partnership con Lotse, un organismo del Land del Nord-Reno Westfalia che si occupa di favorire l’immissione di volontari nelle carceri. Con loro direttori di istituti, agenti di polizia penitenziaria, assistenti sociali, volontari, che hanno visitato le carceri di Nisida e Poggioreale, hanno incontrato alcune realtà associative di Napoli e, in conclusione, un confronto con i volontari di Sant’Egidio per scambiare impressioni e riflessioni sull’intensa settimana. Un esperienza di cooperazione inconsueta, fatta di incontri densi di emozioni e di domande, ma anche di confronti tra le realtà carcerarie dei due Paesi, con la Germania che ha in Europa i tassi più bassi di sovraffollamento, di detenuti in attesa di giudizio, di reclusi stranieri, ma dove scarseggiano progetti rieducativi e trattamentali. Una grande efficienza e nello stesso tempo una modesta vitalità e inventiva della società esterna al mondo delle carceri. Al termine l’invito per ricambiare la visita e continuare la collaborazione e lo scambio di esperienze tra questi mondi così vicini, ma, nello stesso tempo, così diversi. Appuntamento l’anno prossimo in Germania. Terni: oggi il Giubileo della misericordia per i detenuti nel carcere di vocabolo Sabbione di Adriano Lorenzoni terninrete.it, 23 maggio 2016 Questa mattina, alle ore 10, nel carcere di Terni, a vocabolo Sabbione, sarà celebrata la messa per i detenuti che sarà presieduta dal vescovo, Mons. Giuseppe Piemontese e concelebrata dal cappellano dell’istituto, don Rino Morelli. La messa verrà celebrata nel grande spazio del campo sportivo per permettere a tutti i detenuti che lo vorranno di partecipare, unitamente a volontari e operatori penitenziari. Saranno inoltre presenti il gruppo Rinnovamento nello Spirito Santo ed alcuni fedeli della comunità diocesana che hanno espresso il desiderio di attraversare la porta santa del carcere. Animerà la funzione il coro diretto dal maestro Paolo De Santis. Nell’invito alla gioia del giubileo il Vescovo diceva che questo anno Santo della Misericordia ci educa alla compassione, alla umanità, per farci sperimentare il perdono e la misericordia di Dio e dei nostri fratelli. "Il giubileo della misericordia è per tutti una "amnistia spirituale" - ha ricordato il vescovo Piemontese - un grande momento di uguaglianza per gli uomini che sono tutti peccatori, perché tutti sbagliano, ma che hanno la possibilità di ricominciare la loro vita perché Dio non si stanca mai di perdonare. "In questo anno santo chi vuole ha la possibilità di incontrare il Signore di avere perdonati tutti i suoi peccati e di ricominciare da capo, di superare le debolezze e di stabilire con gli altri rapporti di misericordia che significa tornare ad avere cuore verso chi è in difficoltà e verso chi è sofferente". La Santa Messa si inserisce nel percorso giubilare avviato all’interno della Casa Circondariale il 13 dicembre scorso con la partecipazione di una rappresentanza di persone detenute e di operatori penitenziari all’apertura della porta santa della Cattedrale; il giorno dopo era stato il Vescovo a recarsi in carcere per incontrare le persone detenute ed aprire la porta santa della Cappella del penitenziario. La messa permetterà di celebrare anche il sacramento della Riconciliazione con sacerdoti a disposizione per le confessioni. Il cammino giubilare culminerà il prossimo 6 novembre nella partecipazione a Roma in San Pietro al Giubileo dei detenuti con la Santa Messa presieduta da Papa Francesco. Le distanze sociali crescono e la Rete dà voce al rancore di Dario Di Vico Corriere della Sera, 23 maggio 2016 Non tutte le disuguaglianze sono uguali. Il dibattito sull’approfondirsi delle distanze economiche e sociali ha in questo momento il suo focus negli Stati Uniti anche perché al di là dell’Oceano, con i risultati delle primarie per la conquista della Casa Bianca, risulta più evidente il legame tra sentimenti/percezioni prevalenti nella popolazione e spostamento dei consensi politici. Non sempre il link è così immediato e quando si verifica favorisce sicuramente il compito degli analisti e dei sociologi che possono fare il percorso a ritroso e da una fenomenologia di tipo politico risalire alle motivazioni a monte e agli slittamenti prodotti in questo o in quel segmento dell’opinione pubblica. È il caso per l’appunto delle riflessioni sul doppio e sorprendente successo di Donald Trump e Bernie Sanders, visto come effetto della centralità conquistata nell’agenda degli americani dal tema della disuguaglianza. Ora, è sempre complicato dentro un sentimento di rivendicazione così ampio tentare lo spezzatino, scindere le singole componenti e differenziare la lettura indicando la prevalenza di un tema trasversale o delle istanze di uno strato sociale, ma si può dire che la parola d’ordine "1% contro 99%" lanciata da Occupy Wall Street è quella che sembra aver fatto maggiormente breccia. Una su tutte. È diventata popolare puntando il dito contro l’aprirsi di una voragine di reddito e di patrimonio tra i pochissimi e i moltissimi e indicandola come il principale riflesso della Grande Crisi. Trasferendoci di botto in Italia, oltre a registrare il pieno in libreria di saggi sulla disuguaglianza, possiamo dire che siamo in presenza di un sentimento analogo a quello americano? Da noi innanzitutto sembra mancare la prima condizione: il grande avversario. Sarà perché abbiamo poche grandi imprese, non c’è una casta sufficientemente estesa di banchieri e/o super manager usciti dalla recessione con un’impennata dei propri emolumenti e più in generale della propria ricchezza. Se c’è un soggetto che ha saputo affrontare la crisi del Pil riorganizzandosi al suo interno e incrementando le esportazioni sono le multinazionali tascabili del made in Italy, non c’è evidenza però che questi successi abbiano generato impennate milionarie sulle paghe dei manager di punta. Ad aver acceso l’attenzione della stampa sono state caso mai le generose buonuscite concesse a dirigenti che pure non hanno lasciato dietro di sé clamorosi rimpianti oppure i super-emolumenti della dirigenza della Popolare di Vicenza o di Veneto Banca carpiti grazie a uno scambio di favori di impronta localistica. Pur non avendo dunque la sperequazione salariale conquistato una sua centralità politica va comunque registrato un dato comparato Ocse, fermo al 2010, che indica un allargamento in Italia dell’indice di Gini - che misura la forbice dei redditi - in linea con Regno Unito e Francia e quindi tra i più alti d’Europa. Nel caso italiano, dunque, non è tanto la polarizzazione estrema degli introiti a generare una diffusa percezione di aumento delle disuguaglianze quanto invece l’allargarsi delle già ampie differenze territoriali tra Nord e Sud e ancor di più il drastico blocco generazionale segnalato dall’elevata disoccupazione nella fascia d’età dai 25 ai 34 anni. In una società come la nostra, che forse non ricorda nemmeno più quando si è verificato l’ultimo ciclo significativo di mobilità sociale, il mancato sbocco sul mercato del lavoro dei giovani ingessa l’intera struttura sociale. Genera quella sensazione di apartheid già individuata da tempo da Pietro Ichino proprio sulle colonne di questo giornale. Di conseguenza è ovvio che molti analisti vedano nella capacità del Movimento Cinque Stelle di occupare uno spazio pari a circa un quarto dell’elettorato un riflesso diretto della questione generazionale e del resto questa valutazione trova conferma (aritmetica) nel peso decisivo del voto giovanile nella composizione dei consensi grillini. A stabilizzare quest’egemonia in diverse tornate elettorali e nei sondaggi ha concorso l’incapacità degli avversari di Cinque Stelle di competere con efficacia sul segmento giovanile o quantomeno di tentare di fare i conti con il "mostro" della disuguaglianza. Matteo Renzi nella campagna elettorale per le europee del 2014 aveva direttamente conteso il voto fluttuante a Beppe Grillo, ma allora l’agenda politica privilegiava i temi dei costi della politica e con una strategia che è stata definita dai commentatori come "populismo dolce" il premier riuscì a contenere e ribattere l’avanzata del partito dei Casaleggio. Con la disuguaglianza non sta accadendo niente di simile: vuoi per l’infinita querelle statistica sui numeri del Jobs act vuoi per il timore di evocare un tema al quale si teme di non saper dare risposte congrue, l’aumento delle distanze sociali viene di fatto derubricato. È vero che nel lessico dei candidati sindaco del Pd - l’esempio è Beppe Sala a Milano - ricorre spesso la coppia "innovazione/inclusione": nelle intenzioni dovrebbe essere una classica risposta socialdemocratica davanti al palesarsi di fenomeni di marginalità sociale, nei fatti l’inclusione è una parola/proposta che viene compresa solo da un’audience colta e che sembra voler rassicurare soprattutto chi la pronuncia piuttosto che chi la ascolta. Di sicuro non ha effetti pratici, non sposta l’orientamento e tantomeno il consenso. Resta infatti sul campo la sensazione di molti giovani, e non solo, di essere inadeguati rispetto all’Innovazione, che finisce per presentarsi ai loro occhi munita di una minacciosa maiuscola. Arrivati a questo punto bisogna però saltare per un momento dal freddo della sociologia al caldo della comunicazione e rendersi conto di come la Rete abbia cambiato la stessa fenomenologia del disagio. Prima gli studiosi indicavano tra le evidenze della marginalità sociale anche la mancanza di "voce", la difficoltà nel farsi sentire, nel riuscire a proporre all’attenzione generale la propria condizione e le proprie rivendicazioni. Oggi grazie alle infinite possibilità fornite dai social network i problemi di accesso primario, di agorà, sono stati superati e non a caso è proprio la Rete il luogo dove si può facilmente tracciare una mappa del rancore, una continua e a volte esasperata denuncia della disuguaglianza. Chiunque ottenga un successo è sospettato di averlo conseguito grazie ad appoggi indebiti e comunque di aver alterato la competizione meritocratica. Se vogliamo si è prodotta per questa via (la Rete) una moderna forma di intermediazione sociale, molto differente dalle classiche perché non prevede la mobilitazione fisica e la formazione di un soggetto stabile di rappresentanza/lobby ma si limita alla denuncia (spesso all’ingiuria) o tutt’al più organizza qualche flash mob. La sola presenza dello sfogatoio-Rete però tende a ridefinire comunque l’azione dei sindacati che restano a presidiare la vecchia tutela degli insider - i contrattualizzati e i pensionati - con minore forza d’urto rispetto a ieri. Le confederazioni intuiscono che la mappa delle disuguaglianze attorno a loro si sta rimodulando e tentano di produrre delle sintesi-progetto che rimangono per ora ai nastri di partenza. Vale per la Carta dei diritti universali elaborata dalla Cgil o per la Coalizione sociale inventata da Maurizio Landini. Una corrente di pensiero piuttosto ampia sia tra i politici sia tra gli economisti sostiene che tutto si risolve con la crescita del Pil, che dovrebbe rappresentare quel grande passe-partout capace di risolvere tutte le contraddizioni o quantomeno di metterle in fila per poterle affrontare una dopo l’altra, comprando tempo. Purtroppo non esiste la prova della bontà di quest’argomento perché alla recessione non sta seguendo una ripresa degna di questo nome e nella quantità che avremmo sperato. Senza evocare i cicli economici di una volta, che si alternavano con una loro coerenza, avremmo comunque avuto bisogno di crescere al 2% per attutire l’impatto della disuguaglianza e invece le stime Istat ci parlano di un incremento totale dell’1,1% per il 2016 e di una cifra analoga per l’anno successivo. Poca roba rispetto alla necessità che abbiamo di "ridurre le distanze". Non sarà quindi lo strumento Pil, almeno nelle proporzioni date, quello capace di riassorbire le larghe contraddizioni prodotte da alcune distorsioni strutturali della nostra società unite agli effetti perversi della Grande Crisi. Con questi numeri l’ascensore sociale non sembra in grado di ripartire e non c’è storytelling governativo - o di qualsiasi altra agenzia politica - che tenga. La percezione della disuguaglianza crescente è destinata a restare stabile se non addirittura ad aumentare e farci i conti non vuol dire certo deviare da quel percorso di antropologia positiva al quale chi governa, o comunque fa politica con senso di responsabilità, deve necessariamente attenersi. La società italiana non ha più il baricentro del ceto medio e ne soffre in primo luogo chi amministra perché vengono a mancare tradizionali punti di riferimento e di stabilizzazione, ma ne soffre anche molto il centrodestra che in questa notte buia sembra aver perso qualsiasi bussola che lo riconduca alla reale geografia delle classi. L’estrema destra che sfida l’Europa di Franco Venturini Corriere della Sera, 23 maggio 2016 La classe dirigente è a un bivio: si può non cambiare marcia, e allora si andrà alla disgregazione, oppure si reagisce e si imprime una svolta interna ed esterna al senso dell’Unione. Quale che sia il risultato in Austria, i Paesi non possono restare a guardare. Divisa tra un candidato di estrema destra e un ambientalista diventato bandiera di tutti gli altri, l’Austria dovrà attendere l’odierno spoglio dei voti postali per conoscere il suo nuovo presidente. E altrettanto dovrà fare una Europa con i nervi a fior di pelle, incapace sin qui di affrontare l’avanzata di quei partiti anti-comunitari e anti-migranti che a Vienna, bene che vada, avranno conquistato la metà o poco meno dei voti espressi. Il rinvio del sollievo, se vincerà Van der Bellen, o quello dell’indignazione e della paura, se Hofer diventerà il primo presidente europeo espresso da un partito di estrema destra dalla fine della Seconda guerra mondiale, invitano a capire sin d’ora, prima che una circostanza tanto rara si sciolga nel risultato finale, che il sollievo sarebbe vano, e la paura suicida, in assenza di una presa di coscienza politica e culturale che all’Europa di oggi sembra drammaticamente fare difetto. Una vittoria di Hofer, certo, avrebbe carattere di eccezionale gravità. Per noi italiani, che non vogliamo il confine austriaco chiuso ai migranti. E anche per il resto dell’Europa, perché il Partito della Libertà, con questo nome scandalosamente paradossale, si segnalò sin dalla sua nascita negli anni Cinquanta per il rifugio offerto agli ex nazisti che non intendevano cambiare strada. Ma se l’Austria è capace di simili eccessi non avendo mai fatto seriamente i conti con il suo passato, a cosa servirebbe (come speriamo che accada) celebrare oggi la vittoria di misura di Alexander Van der Bellen mentre sappiamo che in Francia il partito più forte è il Front National? E che la destra anti-europeista e anti islamica governa in Polonia, In Ungheria, in Finlandia, in Slovacchia, che destre simili avanzano in Olanda, che i sondaggi premiano anche quell’Alternativa per la Germania che fa scalpitare la Csu bavarese, umilia una Spd in piena crisi e minaccia così la leadership di Angela Merkel? L’elenco non è completo, ma è più che sufficiente per chi vuole capire. Non di populismi generici e cangianti si tratta, bensì di una rivolta che cresce e che ha origini e caratteristiche precise. Se la classe media che prima era la trave portante dell’Europa oggi le volta in parte le spalle e si lascia sedurre da estremismi che dovrebbero esserle culturalmente estranei, è perché una tempesta di spaventosa potenza si è abbattuta su di lei. La crisi economica che non passa, beninteso. Ma anche una profonda crisi identitaria nutrita da una globalizzazione mal governata. Anche la rivincita dei nazionalismi che proteggevano meglio. Anche le paure che vengono dal terrorismo, dalle minacce esterne ma vicine (per alcuni la Libia, per altri la Russia). E naturalmente, quando la misura per alcuni era già colma, l’ondata migratoria, i riflessi etnici e religiosi, il rigetto del diverso, la consapevolezza che non si tratterà di un fenomeno di breve durata. Mentre questa massa d’urto si andava formando nelle società europee con motivazioni che sarebbe miope considerare infondate, l’Europa ha dormito o si è lacerata al suo interno. Non può consolarla il fatto che Trump porti con successo nella campagna presidenziale americana alcune delle istanze che scuotono la Ue. E Jean-Claude Juncker ha torto, quando dice che una vittoria di Hofer decretata dagli elettori escluderebbe dibattito o dialogo. Non siamo più nell’Europa del 2000 che sanzionò la ben più modesta ascesa di Haider. Oggi serve una controffensiva politica e culturale dell’Europa capace di parlare a tutti gli elettori, servono nuove iniziative che possano dare nuove speranze, serve una comunicazione efficace al posto del disastro attuale, per ricordare a tutti e in ogni Paese cosa e come saremmo senza l’Europa, senza l’euro, senza quelle insopportabili direttive di Bruxelles, senza la difesa dei nostri commerci esterni, senza i generosi aiuti per le regioni meno sviluppate, senza le sovvenzioni all’agricoltura, senza quel che è stato e non è più Schengen, senza l’Erasmus, e chi sa, forse senza la pace. L’Europa e i suoi dirigenti sono a un bivio, chiunque vinca in Austria. Possono non cambiare marcia, e allora si andrà alla disgregazione. Oppure possono reagire. Va detto, senza alcun cedimento a un ottimismo ancora ingiustificato, che qualche segnale o progetto di reazione comincia ad affacciarsi. Non in Libia, specchio per ora del disorientamento non soltanto nostro ma di tutto l’Occidente. Non in Siria. Non ancora davanti al fenomeno migratorio, perché il rifiuto opposto alla ripartizione dei rifugiati da parte di molti soci dell’Est e dell’Ovest rende indispensabile l’orrendo patto che ci espone ai ricatti di Erdogan. Ma la nuova attenzione verso l’Africa è un passo nella giusta direzione. E quando sarà passato il referendum sul Brexit, quale che ne sia l’esito, Germania e Francia promuoveranno un rilancio politico dell’Europa che dovrebbe partire da accenni di difesa comune, da diverse velocità di integrazione e di governo dell’economia, dalla presa d’atto che l’Europa, dopo troppi allargamenti, ha bisogno di rimpicciolirsi per ripartire. Tutte cose indigeste per Londra, malgrado il tifo generale per una Gran Bretagna che resti in Europa. Ma tant’è, queste saranno le nuove sfide, alle quali dovrà affiancarsi una intesa sui migranti con le buone o con le cattive, come sin qui vanamente minacciato dalla Commissione di Bruxelles. Basterà a salvare l’Europa dai suoi figli in rivolta? Forse no. Forse non saranno conclusi i compromessi necessari, forse le ideologie finanziarie e gli interessi economici continueranno a prevalere, forse non emergeranno gli statisti che servono. E i tanti Hofer d’Europa, esistenti o potenziali, avranno via libera. Ma una grande avventura come la costruzione europea merita almeno di combattere prima di morire. Se non altro perché, a dispetto delle previsioni, potrebbe vivere e vincere. Cresce il numero di profughi in Italia attraverso il Brennero, dati che smentiscono Vienna di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 maggio 2016 Dall’inizio dell’anno sono entrati nel nostro Paese, provenienti dall’Austria, 3.468 stranieri, oltre 300 in più di tutto lo scorso anno. Dall’inizio dell’anno sono entrati nel nostro Paese, provenienti dall’Austria, 3.468 stranieri, oltre 300 in più di tutto lo scorso anno. È questo il dato della polizia di frontiera che l’Italia comunicherà nelle prossime ore a Bruxelles per "dimostrare le menzogne di Vienna". E tanto basta per comprendere che il livello di tensione tra i due Stati è di nuovo altissimo. La scorsa settimana, durante il Consiglio dei ministri dell’Interno europei, Angelino Alfano e il suo collega Volfgang Sobotka avevano avuto un colloquio cordiale segnato da strette di mano e promesse di collaborazione. Poi, alla vigilia del ballottaggio, i toni si sono nuovamente alzati e ieri a urne ancora aperte il governatore del Land Tirolo, Gunther Platter ha dichiarato: "Gli ingressi incontrollati al Brennero devono essere fermati. È un bene che le mie critiche siano arrivate a Roma, come anche il messaggio che noi osserviamo con molta attenzione la situazione al Brennero e i flussi migratori. Mi sta a cuore l’efficacia dei controlli promessi dall’Italia. Il successo di questa sfida dipenderà dagli interventi a sud del Brennero". Il boom degli ingressi - Nel 2015 gli arrivi di stranieri dall’Austria all’Italia sono stati 3.143. Nei primi cinque mesi del 2016, il dato si è impennato con le 3.468 persone che hanno varcato le frontiere verso il nostro Paese. Per avere la dimensione di che cosa stia accadendo basta leggere i numeri relativi al Brennero: 839 sono gli "ingressi", 486 le "uscite". "Quindi - fa notare il sottosegretario con delega all’immigrazione, Domenico Manzione - al di là delle parole e delle accuse infondate dei leader austriaci, sono i fatti a dimostrare la situazione reale. Sinceramente si fa fatica a comprendere che cosa abbiano davvero in testa. Non posso credere che tutto questo avvenga soltanto a fini elettorali". L’Italia ha potuto effettuare soltanto 664 riammissioni "perché una quota ha chiesto asilo mentre gli altri risultano già registrati in altri Paesi europei di primo ingresso" e dunque è con quei governi che si deve trattare per il trasferimento. L’Austria ha invece rispedito da noi soltanto 300 stranieri "e anche questo dimostra che non c’è quel passaggio continuo", sottolineano al Viminale. Pachistani e afghani - Secondo gli esperti, ancor più indicativa per comprendere quali siano le "direttive" di Vienna è l’analisi dei flussi. Gli stranieri entrati sono infatti 1.389 pachistani e 720 afghani. La polizia li ha rintracciati mentre vagavano nel Nord Italia e la maggior parte ha ammesso la propria provenienza. In ogni caso si tratta di nazionalità che non rientrano nei primi dieci posti di chi giunge attraversando il Mediterraneo e già questo, dicono gli analisti, dimostra che per raggiungere l’Europa hanno percorso la "rotta balcanica". Non è l’unica anomalia. La circostanza ritenuta più grave è che si tratta di migranti non inseriti tra coloro che possono aspirare, quasi automaticamente, ad ottenere lo status di rifugiati, come avviene invece per siriani ed eritrei. E dunque il sospetto è che siano stati lasciati andare proprio perché non era possibile accoglierli, ma era necessario avviare le procedure per le espulsioni e il rimpatrio. La trattativa con l’Ue - Adesso si ricomincia a trattare in sede europea, consapevoli che il clima nei nostri confini non è sempre favorevole. Una lettera trasmessa dieci giorni fa dal commissario Dimitris Avramopoulos condivideva "parte delle preoccupazioni austriache" e minacciava sanzioni per l’Italia in materia di rimpatri e rispetto della road map. Nei prossimi giorni sarà trasmessa la risposta di Alfano su ogni punto contestato. In particolare il ministro ribadirà il "pieno funzionamento dei centri di smistamento e identificazione", i cosiddetti "hotspot" evidenziando di aver "attivato, con successo, i team mobili di esperti da inviare nelle località in cui emerge una esigenza" e di essere "pronti a rispettare l’impegno di avere a disposizione 1.500 posti nei Cie", le strutture per chi deve essere espulso. L’Austria è spaccata: il candidato verde rimonta l’ultradestra, decisivi i voti per posta di Tonia Mastrobuoni la Repubblica, 23 maggio 2016 Presidenziali, Hofer in testa col 51,9 per cento Vienna: "Agenti al Brennero? Alfano sapeva". Al Cafe Weingarten hanno diviso i tavolini sin dalla mattina: d’un lato i sostenitori di Norbert Hofer, dall’altra quelli di Alexander Van der Bellen. "Per non farli litigare", ha spiegato il proprietario, ridacchiando. Una decisione simbolica, col senno di poi. Perché alla fine di una giornata al cardiopalma, i due candidati per la presidenza della Repubblica sono finiti testa a testa nelle proiezioni, 50 a 50. L’Austria si è spaccata a metà. E fino a stasera, finché non saranno scrutinati anche gli 885mila voti postali che mancavano ieri all’appello - su circa 6,3 milioni di elettori - non si saprà chi sarà il prossimo Capo dello Stato. Senza le schede mandate per posta, Hofer risulta in testa con 51,9 per cento delle preferenze, contro il 48,1 di Van der Bellen. La differenza di 144mila voti non inganni: tradizionalmente il voto postale tende a sinistra, lo spoglio potrebbe dunque azzerare quella forbice, persino rovesciare il risultato. Basti pensare che al primo turno delle presidenziali, il 24 aprile, Van der Bellen era ampiamente in testa su Hofer, nel voto espresso per lettera; nel risultato finale è rimasto indietro di oltre dieci punti. La buona notizia, dunque, è proprio il testa a testa. Il dato politico più eclatante è la straordinaria rimonta del candidato indipendente Van der Bellen su quello della destra populista Hofer. Una dinamica che ne ricorda un’altra, quella della Francia che si ricompattò nel 2002 dietro Chirac per scongiurare la vittoria dell’ultradestra, del Front National di Le Pen. Anche l’affluenza non ha significato nulla, nella complessa interpretazione dei dati. Al primo turno il boom dei votanti (68 per cento) ha premiato Hofer, stavolta il 72 da record sembra aver aiutato la rincorsa di Van der Bellen. Per 24 ore il giudizio è sospeso, chi già parlava di inizio della "Terza repubblica" con l’ascesa di Hofer alla Hofburg, con l’approdo della destra populista sullo scranno più alto della Repubblica, dovrà pazientare. Questa sera, verso le otto, dovrebbero arrivare i risultati definitivi. E a giudicare dalle proiezioni, conterà ogni voto. In ogni caso anche la nomina di Van der Bellen sarebbe un primato: sarebbe il primo Verde presidente della Repubblica, il primo anche in Europa. I due partiti tradizionali, rimasti fuori dalla contesa finale per la prima volta dalla fine della guerra e scandalosamente tentennanti nel loro appoggio a Van der Bellen - fortunatamente uno dei pochi endorsement convinti è quello del nuovo cancelliere socialdemocratico Kern - restano alla finestra. In serata, il ministro dell’Interno, Wolfgang Sobotka ha comunicato con voce asettica i risultati definitivi, al netto di quelli postali, e si è fermato a margine per rispondere ad alcune domande sulla delicata situazione al Brennero. Ha confermato l’intenzione di mandare 80 poliziotti al confine con l’Italia, dopo che "nei cinque giorni attorno alla Pentecoste abbiamo notato un aumento dei passaggi di frontiera da parte di profughi: è inaccettabile". Sobotka ha anche detto di averne parlato con il suo omologo italiano, Alfano, e che la decisione "non ha nulla a che fare con le elezioni: toglietevelo dalla testa". Il pericolo, ha aggiunto, è "che i numeri aumentino, con l’estate". Siria: Osservatorio per i Diritti Umani "almeno 60.000 morti nelle carceri del regime" Askanews, 23 maggio 2016 Almeno 60.000 persone sono morte nelle carceri del regime siriano nei cinque anni di guerra civile. Lo afferma l’Osservatorio siriano per i diritti umani citando tra le cause, "l’assenza di medicine e cibo, maltrattamenti e torture". Il direttore dell’Osservatorio, Rami Abdel Rahman, ha precisato che la stima è stata ottenuta parlando anche con fonti del regime. In particolare i decessi si sono verificati nel carcere di Saydnaya e nei vari altri luoghi di detenzione gestiti dall’esercito, dalle forze di sicurezza e dai servizi segreti. Dall’inizio del conflitto nel 2011 secondo l’Osservatorio almeno mezzo milione di persone è stato internato in queste carceri del regime. Egitto: 20 detenuti in sciopero della fame contro "processo ingiusto" per manifestazione Ansa, 23 maggio 2016 Una ventina di detenuti egiziani, condannati per aver organizzato una manifestazione, hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro quello che definiscono "un processo ingiusto". Delle 152 persone in carcere, dieci hanno cominciato il digiuno la scorsa settimana e un’altra decina si è aggiunta sabato, ha detto la moglie di uno dei detenuti. È previsto che nei prossimi giorni altri gruppi aderiscano alla protesta.