Giustizia: l’intreccio da evitare, la politica, il Csm di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 21 maggio 2016 Curriculum e meriti contano, ma nella grande maggioranza dei casi da soli non bastano e ciò che fa davvero la differenza, per esempio nelle nomine deliberate dal Consiglio superiore della magistratura, è la corrente di appartenenza. Quale separazione può mai esserci tra la giustizia e la politica quando l’associazione che riunisce i magistrati è divisa al propria interno in varie correnti, ognuna con un esplicito orientamento politico che ricalca la classica distinzione Destra/Centro/Sinistra? Quando tali correnti si affrontano a scadenza fissa in competizioni elettorali su rigide basi proporzionalistiche per designare i membri del Csm? Quando sempre all’interno del Csm la loro attività più qualificante è - analogamente a quanto potrebbe fare un qualunque partito - quella di procacciare ai propri affiliati-elettori di rango questo o quel posto ritenuto utile o importante? E quale separazione può mai esserci quando all’interno del ministero di Grazia e Giustizia i massimi quadri direttivi sono ricoperti da magistrati scelti come è ovvio dai vari ministri, certamente per le loro capacità ma forse anche per la loro "vicinanza" politica? O forse dovremmo pensare che il capogabinetto di un ministro, ad esempio, o il responsabile di una Direzione generale strategica vengano nominati solo per il loro curriculum professionale? Attenzione: con quanto detto finora non voglio sostenere che curriculum e capacità professionali non contino nulla. Contano, ma nella grande maggioranza dei casi da soli non bastano. Ciò che fa la differenza, alla fine, per esempio nelle nomine deliberate dal Csm, è sempre l’orientamento politico (pur nell’ovvio e molto italiano gioco sotterraneo delle alleanze trasversali). In Italia, dunque, esistono giudici di destra, di centro e di sinistra. Non è un’insinuazione maliziosa: è la constatazione di un fenomeno che è divenuto inevitabile, mi pare, nel momento in cui si è deciso, come ha deciso la Costituzione, che la magistratura si "autogovernasse". Cioè che esprimesse al proprio interno un "governo". Il quale governo davvero non si vede come diavolo potrebbe mai formarsi, essendo designato dal basso e rispettando le regole del gioco democratico, se non sulla base di un orientamento politico delle varie candidature. Ma stando così le cose si presentano con tutta evidenza due nodi di problemi che riguardano in particolare la giustizia penale. Il primo: dal momento che in un gran numero di casi accertare la natura di un reato e le circostanze in cui è stato commesso implica una valutazione in cui entrano fortemente in ballo criteri culturali, ideali, psicologici, come fa un cittadino (un cittadino qualunque ma soprattutto un cittadino con una rilevante immagine ed attività pubbliche) ad essere ragionevolmente sicuro dell’imparzialità di un giudice le cui opinioni, lungi dall’esser protette da un "velo d’ignoranza", sono viceversa note e conclamate e magari opposte alle sue? C’è poco da fare o da discettare: non ne può essere sicuro. Ciò che, come si capisce, è particolarmente grave nel caso della magistratura inquirente (l’ufficio del pubblico ministero) titolare dell’azione penale. Il secondo nodo di problemi può essere illustrato con questa domanda: se un magistrato non è stato designato al posto cui ambiva e a cui aveva titolo perché questo è stato assegnato ad un altro suo collega, prescelto dalla maggioranza politico-correntizia di cui egli non fa parte, in che senso può dirsi che il meccanismo ha tutelato la sua "indipendenza", cioè la sua libertà d’opinione? A ogni evidenza appare esattamente il contrario: egli è stato penalizzato per avere opinioni diverse da quella della maggioranza padrona delle nomine. Da qui un quesito non proprio irrilevante, mi pare: l’autogoverno della magistratura posto a tutela della sua indipendenza dal potere politico governativo garantisce davvero anche l’indipendenza del singolo magistrato dal potere politico che regge l’organo di autogoverno? Una domanda rilevante, giacché nel caso si dovesse rispondere ad essa in maniera non decisamente affermativa allora si porrebbe un ulteriore quesito, e cioè: la sovranità popolare in nome della quale la giustizia è amministrata e dalla quale deriva l’autorità della legge e dei magistrati, trova una più ragionevole e congrua espressione nella maggioranza politicizzata di una corporazione quale è in fin dei conti la magistratura o in una maggioranza parlamentare eletta dal popolo e che esprime un governo? Ciò che peraltro vorrebbe dire, tuttavia, me ne rendo conto, consegnare i magistrati all’esecutivo: con i vantaggi di chiarezza che ne seguirebbero ma anche con gli ovvi, gravi pericoli. Sono tutte questioni, quelle fin qui elencate, circa le quali meriterebbe forse discutere con spirito di verità e senza pregiudizi, specie quando si dibatte del rapporto tra politica e giustizia. Con spirito di verità e senza pregiudizi in particolare a proposito di che cosa è veramente il Consiglio superiore della magistratura, quali sono le sue logiche interne, i suoi corti circuiti, il ruolo che vi giocano le correnti. E invece, se non m’inganno, i magistrati per primi, e innanzi tutto proprio quelli che hanno una maggiore visibilità pubblica, cercano perlopiù di evitare simili argomenti. Peccato. Peccato che anche chi in teoria dovrebbe aver fatto della limpidità e della coerenza il proprio abito di vita, nella pratica, invece, adotti l’italianissimo principio che i panni sporchi si lavano in famiglia. Intervista al Guardasigilli Orlando: "Riforma entro l’estate, l’Anm mai contenta" di Cristiana Mangani Il Messaggero, 21 maggio 2016 È di ritorno dalla visita alla camera ardente di Marco Pannella, il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Era andato a trovarlo a fine marzo, insieme con un gruppo di detenuti, e lui aveva insistito a parlare di carcere umano e di pene alternative. Argomenti sui quali il Guardasigilli si batte da tempo. Ma sono tanti gli interventi che il ministero di via Arenula ha messo in campo per tentare di far camminare più veloce la macchina della giustizia. Primo fra tutti la riforma del processo penale. Una soluzione monstre che contiene anche le questioni politicamente più spinose: prescrizione e intercettazioni. Ministro Orlando, l’Europa continua a bacchettarci sui ritardi della giustizia e sulla prescrizione, la soluzione è veramente dietro l’angolo? "L’Onu e l’Ocse hanno riconosciuto l’adeguatezza della nostra normativa. Pochi giorni fa Cameron ha indicato in un vertice internazionale anticorruzione l’Italia come riferimento per la capacità di aggressione ai patrimoni di corrotti e mafiosi. Resta il problema dei tempi. Penso che entro l’estate la riforma del processo penale potrà essere legge, ormai dopo molta fatica siamo arrivati agli emendamenti. Quindi, mi auguro che, nonostante le difficoltà politiche, l’obiettivo sia ormai a portata di mano". Ha preso visione del cosiddetto Lodo Falanga del senatore verdiniano, che prevede una via prioritaria per i processi di corruzione? "È un’ipotesi, tra l’altro ci sono diversi disegni di legge che proponevano un analogo intervento. Vediamo come si combinerà con il punto di equilibrio che stiamo ricercando sulla stesura definitiva della prescrizione". Di recente il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio ha detto che la situazione è insostenibile, che sono al collasso: è ipotizzabile, per loro, una corsia preferenziale? "Non escludo che si possano prevedere interventi urgenti che riguardino il funzionamento della Cassazione. Verificheremo se ci sono le condizioni". È impensabile spacchettare il disegno di legge sulla riforma penale per accelerare le misure più urgenti? "Prendere un pezzo e lasciarne un altro rischia di creare degli squilibri. Credo sia importante tenere insieme il grosso del disegno di legge, anche perché ha una sua organicità senza la quale si rischiano sbilanciamenti nel processo". Le è stato consegnato di recente un lavoro da lei commissionato, nel quale si invoca il principio della sinteticità degli atti giudiziari e delle sentenze. "I primi risultati del gruppo di lavoro produrranno anche alcuni emendamenti che proporremo sia al testo sul penale che al testo sul civile, e conseguenti atti di indirizzo. Perché se vogliamo processi più rapidi è necessario avere anche atti e sentenze più sintetiche. E questo poi diventa assolutamente essenziale per lo sviluppo del processo di informatizzazione che abbiamo completato nel civile e che stiamo iniziando nell’ambito del penale". Altra questione spinosa: la carenza di organici, come pensate di risolverla? "Lo scorso anno abbiamo trasferito 700 dipendenti dalle province alle cancellerie. Stiamo facendo altrettanto per ulteriori 2000 unità e punto che, una volta assorbiti gli esuberi della Pa, si arrivi a un nuovo concorso. Per quanto riguarda i magistrati stiamo procedendo alla revisione delle piante organiche. C’è però un altro problema: ho scritto all’inizio dell’anno al Csm affinché si desse come obiettivo di coprire prioritariamente gli uffici che attualmente versano in situazione di maggiore difficoltà. Devo dire che questa mia richiesta ha trovato un accoglimento solo parziale, perché è evidente che se un ufficio, già con forti arretrati, si trova per molti mesi senza una guida, la situazione è difficile che possa migliorare". Nell’elenco ci sono anche gli uffici giudiziari di Milano. È ancora lontana la nomina del procuratore capo? "Il Csm ha fissato la data per il voto al 30 maggio. La mia preoccupazione, sotto il profilo esclusivamente organizzativo, non va solo ai grandi uffici, la procura di Milano ha infatti una solidità funzionale che si è creata nel tempo. Lì hanno ritmi assolutamente europei. Ci sono uffici di provincia, invece, che se lasciati a loro stessi, magari anche lontani dai riflettori, rischiano di avere dei veri e propri crolli". Come pensa di conciliare le urgenze della giustizia con le posizioni non sempre favorevoli dell’Anm? "Il testo della riforma è il frutto di un confronto con tutti i soggetti della giurisdizione, a partire dall’Anm. Però, se ho capito bene, l’accesa dialettica che ha preceduto il loro congresso e il suo esito, nei prossimi mesi sarà difficile che Anm dica qualcosa di positivo sull’attività svolta dal Parlamento e dal Governo. Mi auguro di essere smentito. Lavoreremo per un confronto costante sul merito, devo dire che nell’incontro che abbiamo avuto ci sono stati apprezzamenti per lo sforzo che stiamo facendo, soprattutto sul fronte organizzativo. Abbiamo sempre manifestato massimo rispetto per i magistrati e massima attenzione alle valutazioni dell’Anm. A giudicare dalle prime battute credo che ci sia la possibilità che, persino su provvedimenti che sono stati promossi o proposti dall’Anm stessa, una volta approvati, non esprimano un giudizio compiutamente positivo". Davigo torna a vedere i giudici soli contro tutti. "Istituzioni colluse? Solo in Italia" di Errico Novi Il Dubbio, 21 maggio 2016 "Stato alleato dei criminali che uccisero i magistrati". Davigo ricorda "i 27 magistrati uccisi per mano della criminalità". Li ricorda a tre giorni dall’anniversario della strage di Capaci. Mette il dato a confronto con il resto del mondo progredito e nota: "Non succede in nessun Paese europeo che ci sia un numero così alto di magistrati ammazzati, anzi non ce ne sono mai. Nemmeno in Irlanda o Spagna, che hanno avuto forme di terrorismo devastanti". Tutto questo per Davigo ha una spiegazione, non l’unica ma certo importante, nel fatto che in Italia "le organizzazioni criminali hanno potuto godere persino di qualche sponda in apparati dello Stato. Mentre in altri Paesi chi delinque sa che avrebbe contro tutto lo Stato". Affermazione pesante, non necessariamente sorretta da certezze processuali ma nemmeno facile da confutare. E sono parole con cui si declina ancora una volta l’idea che il presidente dell’Anm ha del ruolo dei giudici: un ruolo di fatto isolato. I magistrati, per l’ex pm di Mani pulite, erano, sono e probabilmente resteranno soli contro tutti. Soli rispetto alla politica e al complesso dei poteri che presiedono alle articolazioni della Repubblica. È la stessa immagine che si proietta dalle frasi sui "politici ladri che hanno smesso di vergognarsi". Il leader del sindacato dei giudici parla a Trani durante l’evento conclusivo del progetto "Dalla criminalità alla legalità: il riutilizzo dei beni confiscati alle mafie", organizzato nelle scuole. Lo fa a poche ore dalla riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm, fissata per oggi. Nel "parlamentino" dell’Associazione da lui presieduta, Davigo rischia di trovarsi contro i due gruppi che si riconoscono nel cartello di Area, ossia Movimento per la giustizia e, soprattutto, Magistratura democratica. Motivo del contendere: la partecipazione di giudici e pm alla campagna referendaria. L’altro ieri Davigo ha ribadito che la libertà d’espressione del singolo giudice non può essere soffocata, ma ha anche chiarito che "altra cosa è l’adesione a comitati referendari o l’impegno di un’intera corrente". Esclude dunque non solo che l’Anm possa scendere in campo, ma anche che possa esserci un’esposizione compatta di Md nella battaglia per il no. Eppure la corrente "di sinistra" delle toghe ha rivendicato la scelta in modo esplicito, con una pur scarna nota diffusa nei giorni scorsi. La riunione di oggi si preannuncia dunque assai tesa. A Davigo l’esposizione di interi gruppi della magistratura non piace per lo stesso motivo, probabilmente, per cui ieri a Trani ha evocato la solitudine dei giudici di fronte allo Stato colluso: dal suo punto di vista le toghe sono sole sempre, e per questo non dovrebbero mischiarsi con la politica. Se sono vittima delle istituzioni deviate, con quelle istituzioni non devono confondersi neppure in un contesto "incruento" come quello referendario. Così la pensa Davigo, che oggi si troverà nel parlamentino dell’Anm a misurarsi con il fronte "interventista". Sulla sponda neutralista si vedrà in compagnia della corrente da cui si è staccato, MI, che l’altro ieri ha diffuso un comunicato nettamente contrario a un impegno diretto dell’intera Associazione. E avrà dalla sua anche buona parte dei consiglieri che fanno parte con lui della giunta. A cominciare da Francesco Minisci, vicepresidente e sostituto alla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone. Sia il capo dei pm romani che il suo sostituto sono iscritti a Unicost, a sua volta prudente sul referendum. E forte del sostegno indiretto di Pignatone, Davigo si troverà meno solo del previsto. Almeno stavolta. La ricetta anti-crimine del Pd: benefici agli ergastolani ostativi di Lodovica Bulian Il Giornale, 21 maggio 2016 Al Senato arriva la proposta di estendere i premi ai condannati che non collaborano. E intanto Dell’Utri resta in cella per un reato "fantasma". Che per l’Europa non esiste. Era ed è un’altra delle grandi battaglie portate avanti dai Radicali, quella contro la cosiddetta "pena di morte lenta" degli ergastolani ostativi, i detenuti che non collaborano con la giustizia e che per questo sono esclusi dai benefici penitenziari. Ma è anche un terreno scivoloso, capace di aprire fratture ideologiche e politiche, quello in cui sta per addentrarsi la commissione Giustizia del Senato, con l’esame del pacchetto monstre che accanto alla riforma della prescrizione trova il ddl delega di modifica al codice penale e all’ordinamento penitenziario. Giovedì scadono i termini per la presentazione degli emendamenti. Se passasse indenne, l’articolo 31, già approvato alla Camera, sarebbe destinato a far cadere i paletti che oggi impediscono ai detenuti soggetti al 4bis dell’ordinamento penitenziario, il regime restrittivo previsto per i condannati all’ergastolo che non vogliono collaborare con i magistrati, di accedere a benefici finora preclusi. Così, paradossalmente, accanto a casi come quello di Marcello Dell’Utri, che sta scontando in gravissime condizioni di salute sette anni per il discusso reato del concorso esterno in associazione mafiosa, si materializzerebbero quelli di chi all’ergastolo non collabora ma può godere ugualmente di misure premio. Una novità assoluta, quanto controversa, che entra nel merito della distinzione nata per combattere la mafia, tra chi sceglie di aiutare i magistrati nelle indagini e chi si rifiuta. Tanto che la proposta di legge firmata dalla deputata del Pd membro della commissione Antimafia Enza Bruno Bossio, partita a Montecitorio e assorbita nel ddl delega approdato a Palazzo Madama, aveva sollevato contemporaneamente indignazione e plauso. Da una parte un pezzo dell’antimafia e un simbolo della lotta alla criminalità organizzata come il pm Nino Di Matteo, che si era detto preoccupato di fronte al profilarsi uno smantellamento di preclusioni volute da Giovanni Falcone. E la presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli, che aveva invece gridato alla "vergogna" paventando il rischio di ammorbidire le pene "ai Provenzano, Riina, Bagarella". Il plauso invece arrivava dalle dichiarazioni dai radicali, in campo per la tutela dei diritti, ma anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che critico sull’ergastolo ostativo, così come il Guardasigilli Andrea Orlando, anche per il richiamo della Corte europea dei diritti dell’uomo. Una categoria, quella degli ostativi, che conta oltre un migliaio di detenuti in Italia, che potrebbero presto accedere ai percorsi preclusi. Va detto la previsione del ddl non comprende "i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale". Mentre per tutti gli altri mira "alla revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo" e alla "eliminazione di automatismi" che "impediscono l’individualizzazione del trattamento rieducativo". C’è chi, come l’ex sottosegretario alla Giustizia ed ex deputato e oggi garante dei detenuti in Toscana Franco Corleone, fa notare come non tutti gli ostativi lo siano "per loro volontà, ma spesso non sono nelle condizioni di collaborare. La lotta alla mafia - aggiunge - si fa sul territorio non in cella". La partita comincerà giovedì a Palazzo Madama, con la presentazione delle modifiche al corpaccione normativo. "Abbiamo lasciato il testo tale e quale è stato approvato dalla Camera - spiega il relatore Felice Casson (Pd) - per lasciare a tutti la possibilità di presentare emendamenti". "Chiedo un’amnistia in nome di Marco" di Rocco Vazzana Il Dubbio, 21 maggio 2016 Intervista a Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari Sociali della Camera. "Visto che quasi tutte le forze politiche manifestano oggi grande apprezzamento dell’operato di Marco Pannella, il modo più serio per ricordarlo è una stabilire una tregua parlamentare per convergere su un provvedimento di amnistia. Invece di fare solo una celebrazione postuma e per certi aspetti surreale, chiediamo una tregua in nome di Marco". Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari Sociali della Camera, in quota Democrazia solidale, chiede a tutte le forze politiche di passare dalle parole di cordoglio ai fatti per onorare il leader radicale appena scomparso. Onorevole Marazziti, perché secondo lei l’amnistia sarebbe il modo migliore di ricordare Pannella? Perché è una battaglia che ho condiviso personalmente con Marco. Il sistema carcerario italiano viene da un periodo di grande illegalità, sanzionato in Europa. In questa legislatura abbiamo provato a sanare la situazione con una serie di provvedimenti che hanno abbassato il tasso di sovraffollamento e rimesso in circolazione risorse ed energie. All’inizio, anche a causa della crisi economica, non eravamo più in grado nemmeno di sostenere i costi per accompagnare i detenuti a farsi curare fuori dal carcere. Scendere da 67 mila detenuti a un po’ più di 50 mila significa che le stesse risorse possono essere in parte destinate per i percorsi di riabilitazione. E con il ricorso alle misure alternative, la recidiva è molto più bassa. Per che tipi di reato propone l’amnistia? Per quelli che prevedono una pena inferiore a 4 anni e in generale per reati non socialmente pericolosi. Per un provvedimento del genere serve una maggioranza molto ampia. Crede che sarà mai possibile trovare una convergenza in Parlamento su questi temi? Una volta chiarito che la sicurezza non è in questione, perché non verrebbe liberato nessun mafioso, e perché alcuni reati corruttivi contro la cosa pubblica potrebbero rimanere esclusi dall’amnistia, credo che a questo punto anche il mondo giustizialista potrebbe aderire a questa richiesta. Prima era quasi una prassi concedere l’amnistia in occasione dell’elezione di un Presidente della Repubblica. Questo percorso si è interrotto con Mani pulite. Lei però ha chiesto anche di riaprire una discussione sull’ergastolo ostativo, cioè la condanna legata a reati associativi per cui non è previsto l’accesso al sistema dei benefici. Non le sembra una proposta un po’ troppo audace? No. Da due anni ho presentato un disegno di legge per rivedere l’ergastolo ostativo, per cancellare il "fine pena mai". Spieghiamoci meglio. In Italia tutti sanno che c’è l’ergastolo, ma forse in pochi sanno che si tratta di una condanna che non supera mai i 30 anni di carcere, poi si accede a una serie di benefici. Per i reati associativi, invece, non è previsto alcuno sconto, a meno che non ci sia un percorso di collaborazione. Ecco, io non metto in discussione il fatto che debba esserci un carcere certo e anche duro per determinati reati, propongo la possibilità di studiare un riesame personalizzato durante l’esecuzione della pena. E propongo l’introduzione di tempi certi per tutti. Cioè? Pensiamo ai 1.200 detenuti che attualmente si trovano in una posizione di "fine pena mai". Tra loro c’è sicuramente chi ha commesso reati - anche di mafia - da ragazzo, magari a 25 anni. Secondo me per loro la legge deve prevedere almeno una possibilità di riabilitazione. E poi pensiamo all’errore giudiziario, fosse anche solo l’un per mille. In quei casi il detenuto non può accedere ai benefici perché non collabora con la giustizia. Ma in realtà non può collaborare, perché innocente. Secondo me sarebbe bene, magari a metà della pena, riesaminare i casi singoli. Che non vuol dire cambiare una sentenza di condanna, ma ragionare sul tipo di esecuzione della pena. Che preveda una fine. Marco Pannella e le carceri, i numeri della sua battaglia incompiuta di Massimo Del Papa lettera43.it, 21 maggio 2016 Pannella lottava coi detenuti. Vergogna italiana per numeri e condizioni di vita. Oggi l’affollamento è al 108%. In 3.950 senza un posto regolare. I dati di Antigone. Si può discutere Marco Pannella, anzi discuterlo è forse l’unico modo per rendere il dovuto omaggio a un personaggio geneticamente controverso, narcisista che pensava ad altri, altruista che pensava a sé, capace - lui "abortista" e "divorziatore" - di conquistarsi la stima e l’affetto di papa Giovanni Paolo II e di papa Francesco, in grado di campare a modo suo per 86 anni senza invecchiare davvero. Si può avere un’idea caleidoscopica dell’uomo, la cui libertà ondivaga diventava spesso alibi di spregiudicatezza, l’irregolare liberale-libertario-libertino di grande e fine cultura del quale Indro Montanelli diceva "è lo spara-fucile insopportabile, ma è anche lo sceriffo che va, disarmato, a stanare nella tana il bandito". Ma non si può dubitare di un fatto: se ne va un protagonista-outsider che si porta via l’ultimo refolo di una Prima Repubblica truce, fosca, lugubre, crudele a volte, ma dove affioravano slanci, gesti anche irripetibili. Pannella se ne va e pare svanire sull’aria de "La sera dei miracoli" di Lucio Dalla: quei vicoli, quelle piazze romane meravigliose dove si tessevano intrighi e imbrogli inconfessabili, che lui conosceva bene e infilzava senza tregua. Pannella se ne va e lascia in eredità mille battaglie, vinte, perdute, sfuggite di mano, da completare in eterno. La madre di tutte queste battaglie era, resta quella sulle carceri, vergogna italiana non solo e non tanto per i numeri, ma per le condizioni di vita tra le pieghe dei numeri, reclusori spesso a livelli messicani o turchi, indegni di un Paese che si pretende civile. I dati aggiornati del ministero della Giustizia testimoniano di una situazione in miglioramento, anche se ancora critica, rispetto ai picchi di pochi anni fa, quando si era oltre 65 mila detenuti stipati negli istituti di pena: a oggi risultano 53.725 a fronte di una capienza totale di 49 mila; 2.013 le donne, 18.074 gli stranieri. A essere più "farcite" sono sempre le galere più famigerate: Roma Regina Coeli ne contiene 911 e dovrebbe averne al massimo 624, Rebibbia 1.363 su 1.203, Napoli Poggioreale 2.035 su 1.640, Milano San Vittore 991 su 750, Milano Opera 1.278 su 905 e così via. Numeri che lasciano solo intuire, vagamente, il disagio di chi li incarna, e che comunque vanno incrociati con gli altri forniti di recente dall’Associazione Antigone, che proprio il 20 maggio 2016 ricorda Pannella a Montecitorio, con l’ultimo rapporto aggiornato: "Dalla fine del 2015 al 31 marzo 2016", scrive Antigone, "ci sono 1.331 detenuti in più. Il tasso di affollamento è attualmente al 108% e 3.950 persone sono prive di un posto regolamentare. Il tasso di detenzione è invece nella media europea. L’Italia ha circa 90 detenuti ogni 100 mila abitanti. Ancora troppi invece gli imputati. I detenuti in attesa di sentenza definitiva sono il 34,6% del totale (la media europea è del 20,4%). I detenuti stranieri sono meno in percentuale rispetto al 2009. Oggi rappresentano il 33,45% della popolazione detenuta. La media europea è del 21% circa. Sono in percentuale ben più alta rispetto agli italiani in custodia cautelare". L’anomalia: il 34,6% di chi è rinchiuso aspetta ancora un giudizio. Il dato critico, per non dire traumatico, è proprio quel 34,6% di detenuti in attesa di giudizio, formula sinistra, che richiama il grottesco film con Alberto Sordi del 1971: 45 anni dopo, tutto è cambiato ma tutto è uguale, e l’Italia arranca sia in quella barbarie che troppo spesso è la custodia cautelare, sia nel modo di smaltirla, giungendo a una sentenza in tempi inaccettabili. Nel frattempo, dentro può succedere di tutto. E Pannella, davvero fino all’ultimo, non ha smesso di ricordarsene, rinfocolando ogni volta i suoi appelli in nuvole di fumo sulla soglia di qualche istituto di pena, Natale o Ferragosto che fosse: finché ha potuto, lui le festività preferiva trascorrerle così. È probabile che quella della galera che recupera e che salva resterà sempre un’utopia, di quelle delle quali Kant avrebbe detto "inseguirle come se potessero avverarsi"; d’altra parte non si può accettare la certezza di una galera che rovina, che perde irrevocabilmente l’individuo. Ogni individuo è scaricato in un inferno che va oltre la sua condanna. Oggi è ancora come quando Enzo Tortora denunciava, dal profondo del suo abisso, la incredibile condizione scoperta, vissuta insieme a tanti suoi compagni di reclusione - giusta o sbagliata diventava secondario. Trenta anni fa. Tortora, colui che da Pannella fu creduto nello scetticismo - per non dire cinismo - generale, e fu salvato al termine di una battaglia impossibile, eppure vinta, contro camorristi infami e giudici - riconosciamolo - felloni. E quando il conduttore, già malato, segnato, già un altro uomo rispetto al giornalista brillante e polemico di prima ("Ero liberale perché avevo studiato; sono Radicale perché ho capito"), colse il suo amaro trionfo, la assoluzione pienissima e definitiva, le prime lacrime, generose e sulfuree, furono proprio quelle di Pannella. Resta viva la loro battaglia più estrema, il testamento comune non certo per l’impunità, certissimamente per l’umanità. Un giorno, sulla tomba di Tortora, in una fessura della "colonna spezzata" qualcuno ha lasciato un biglietto: "Da uno che ti chiede scusa". Ha scritto invece, una volta, un detenuto di Rebibbia: "Qui dentro non si fa mai niente, il tempo non esiste. Siamo abbandonati a noi stessi. Abbiamo sbagliato, è giusto pagare; ma la pena più atroce è quella che non si vede". E adesso, senza di lui, chi difenderà lo Stato di Diritto? di Angiolo Bandinelli Il Dubbio, 21 maggio 2016 "Non si può comprendere la reale posta in gioco nella proroga di tre mesi dello stato di emergenza in Francia, se non la si situa nel contesto di una trasformazione radicale del modello statale cui siamo avvezzi. Occorre innanzitutto smentire le affermazioni di politici irresponsabili, secondo i quali lo stato d’eccezione sarebbe un baluardo per la democrazia. Gli storici sanno perfettamente che è vero il contrario. Lo stato di eccezione è il dispositivo attraverso il quale i regimi autoritari si sono insediati in Europa. Negli anni che hanno preceduto l’ascesa al potere di Hitler, i governi socialdemocratici di Weimar si erano avvalsi così spesso dello stato di eccezione che si può affermare che la Germania aveva già smesso d’essere una democrazia parlamentare ancor prima del 1933". "Tutto ciò è ancor più vero in quanto lo stato d’eccezione s’iscrive oggi nel processo che sta trasformando le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare "Stato di sicurezza". "benché questa nuova forma di governo non possa più essere spiegata nei termini del moderno Stato di diritto, un’analisi della sua struttura è tuttora mancante". Questo scriveva Giorgio Agamben su Le Monde, il 27.12.2015. Ma se si può avere qualche riserva sulla direzione dell’analisi dell’ideologo italiano ben diverso, sicuramente positivo, credito si dovrà dare a quei politologi, saggisti, politici, giornalisti e intellettuali che variamente e da tempo, sui giornali italiani, denunciano lo stato di profonda crisi in cui versano le democrazie, anche quelle occidentali di più collaudata tradizione democratico/parlamentare. Il tema della restaurazione o della re-invenzione della democrazia è - o dovrebbe essere, dunque - centrale nella riflessione e nell’iniziativa politica globale (globalizzata) dei nostri giorni. Non è, invece, così. Mentre gli osservatori distaccati, i politologi più avvertiti, gettano grida di allarme, le classi politiche fanno orecchio da mercante. Quelle che un tempo potevano meritare la definizione di "élites" perché interpretavano e - anche negli errori - esprimevano la "volontà generale", oggi appaiono incerte, paurose, sempre più autoreferenziali, incapaci di comprendere quel che bolle nelle viscere di cittadini che si sentono sempre più respinti nella condizione di gleba, da governare col bastone più che con la carota (e figuriamoci se con la democrazia). Ma le élites sono in difficoltà perché in crisi sono innanzitutto le istituzioni, quelle degli Stati Nazionali in primo luogo. È questa crisi che Pannella ha denunciato, fino all’ultimo giorno della sua vita. Ovviamente, inascoltato. Ma il suo Partito Radicale Nonviolento Transpartito e Transnazionale e le organizzazioni non governative "Nessuno tocchi Caino" e "Non c’è Pace senza Giustizia" stanno tenacemente lottando per la "transizione dalla ragion di stato allo stato di Diritto" e la codificazione del diritto umano alla conoscenza, in ogni sede possibile ma principalmente presso le Nazioni Unite. Recentemente l’ambasciatore in Italia del Marocco Hassan Abouyoub ha dichiarato: "La vera sfida è far emergere delle forme di governo diverse, in parte democratiche e non corrotte, aperte al rispetto dei diritti umani sia individuali che collettivi, che possano offrire un livello minimo di governance migliore di quella che offre oggi l’Isis". Urge insomma a livello transnazionale, anche a seguito del lavoro dei radicali, la necessità dell’affermazione dello stato di diritto in contrasto sia all’emergere globale di visioni securitarie e emergenziali che al diffondersi del terrorismo. Un processo disgregativo che sta attanagliando anche l’Europa e la visione europeista. Come arginare tale fenomeno? È la domanda, direi anche il lascito, che Marco Pannella lascia a tutti noi. Ci sarà tempo per raccogliere e ordinare il tumulto dei pensieri, dei problemi, delle domande che ora passano disordinatamente nella mia testa. Ho appena appreso la notizia della morte di Marco Pannella. E ancora non posso capacitarmi che sia vera. Marco l’ho frequentato per oltre sessanta anni, accompagnandolo fin dai primi passi della sua vicenda politica, almeno quella che riguarda l’esperienza radicale. La sua scomparsa mi sgomenta. L’ho conosciuto che aveva già un ricco bagaglio politico, avviato fin dagli anni del liceo quando ogni giorno acquistava più copie di "Risorgimento Liberale", il giornale diretto da Mario Pannunzio, e le distribuiva tra i compagni di scuola. Erano poi seguiti gli anni dell’Università, che videro la sua partecipazione, già autorevole, ai dibattiti e alle lotte tra le varie forze ideali e politiche in cui si dividevano gli studenti di allora. Io lo incontrai le prime volte, a metà degli anni cinquanta, nella sede del Movimento Federalista Europeo, una piccola fucina di giovani che si erano sottratti al fascino egemone dei grandi partiti di massa per inseguire quello che sembrava, allora, un sogno, e sogno non era perché leader del movimento era una personalità carismatica, Altiero Spinelli. Marco era, ed è stato sempre, un liberale, sentiva profondamente l’insegnamento di Benedetto Croce, cui è restato sempre fedele, o di Ernesto Rossi, che considerava il più lucido uomo politico degli ambienti liberali o socialisti di allora. Sul pensiero di Rossi aveva plasmato il suo anticlericalismo, ma con una integrazione sostanziale, venutagli da Croce, appunto: quel sentimento della "religione della libertà", di una "religiosità laica" cui informò tutte le sue iniziative. Voleva leggi "che vietassero di vietare", l’uomo libero è solamente l’uomo responsabile di sé e delle sue azioni. Avvertiva invece attorno a sé e al paese la rete, il reticolo di restrizioni, di comandamenti, di ingiunzioni provenienti non solo dagli ambienti clericali o vaticani, ma da una massa di consuetudini, di comportamenti storicamente stratificati, che fiorivano o infestavano la società del tempo (e forse, in altro modo, la società di oggi). Ammoniva che l’Italia aveva avuto la Controriforma, ma non la Riforma (e non pensava solo alla Riforma protestante). Per questo affinò per tutta la vita la comprensione del diritto, della legge; del diritto - in particolare - alla conoscenza, secondo il detto einaudiano "conoscere per deliberare". Questa ferma convinzione - quasi un comandamento etico - lo ha guidato negli ultimi anni sui sentieri disagevoli della campagna per il "diritto universale alla conoscenza", per lo "Stato di Diritto" contro lo Stato di Emergenza" di cui oggi parlano Agamben e un quantità di studiosi. L’iniziativa ha lo stesso senso, la stessa apparenza utopica di tante delle sue battaglie, e invece è di una concretezza e modernità stupefacente. Credo di poter e di dover dire purtroppo, con qualche amarezza, che anche dentro il suo partito molti non lo hanno seguito su questa strada, ritenendola impraticabile. Fedele alla sua divorante passione politica, non esitò mai a mettere in gioco la sua persona, con le sue iniziative non-violente, i digiuni, ma anche con gesti che apparvero troppo fantasiosi o giullareschi ma erano sempre dettati dalla sua profonda conoscenza dell’uomo e delle sue passioni, come anche della società con le sue istituzioni e i suoi meccanismi di (dis) informazione. Credo si possa dire che con Pannella il "corpo" è divenuto soggetto dell’iniziativa politica. Questa sua intuizione è l’aggiunta originale e ancora non perfettamente compresa, al verbo o alla cultura e alla politica liberale. Fu liberale, dunque, ma in primo luogo, "radicale" nella intransigenza rigorosa del pensiero e dell’azione. Uranio impoverito. Morto di leucemia a 23 anni, condanna per il ministero della Difesa di Costantino Cossu Il Manifesto, 21 maggio 2016 "È una sentenza storica - commenta Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare che da sempre segue la questione - perché conferma l’effettiva sussistenza del pericolo a cui andavano incontro i soldati in missione in quelle zone, e sono sicuro che giovedì prossimo, in audizione alla commissione che indaga sulle morti da uranio impoverito, il ministro della Difesa Roberta Pinotti terrà conto di questa importante decisione dei giudici romani". È stato impiegato in Bosnia per centocinquanta giorni. Congedato, il caporalmaggiore Salvatore Vacca, di Nuxis (in provincia di Cagliari), è morto il 9 settembre 1999 a 23 anni di leucemia, contratta dopo l’esposizione a munizioni e a materiali tossici durante la missione nei Balcani. E il ministero della Difesa è responsabile di condotta omissiva per non aver protetto adeguatamente il militare. Lo stabilisce la sentenza emessa ieri dalla Corte d’appello di Roma, che ha confermato la condanna in primo grado del ministero a risarcire la famiglia del soldato per oltre un milione e mezzo di euro. "È una sentenza storica - commenta Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare che da sempre segue la questione - perché conferma l’effettiva sussistenza del pericolo a cui andavano incontro i soldati in missione in quelle zone, e sono sicuro che giovedì prossimo, in audizione alla commissione che indaga sulle morti da uranio impoverito, il ministro della Difesa Roberta Pinotti terrà conto di questa importante decisione dei giudici romani". Salvatore Vacca ha prestato servizio per centocinquanta giorni in Bosnia come pilota di mezzi cingolati e blindati nella Brigata Sassari. Nella sua attività il caporalmaggiore sardo ha trasportato materiale che, scrivono i magistrati, si sarebbe dovuto considerare "come ad alto rischio di inquinamento da sostanze tossiche sprigionate dall’esplosione dei proiettili". Rischio che, dicono i magistrati alla luce delle risultanze processuali, "si deve reputare come totalmente non valutato dal comando militare". Questa condotta omissiva, secondo i giudici, "configura una violazione di natura colposa delle prescrizioni imposte non solo dalle legge e dai regolamenti, ma anche dalle regole di comune prudenza". Salvatore Vacca è morto di leucemia linfoblastica acuta e c’è, secondo la sentenza delle Corte d’appello di Roma, un evidente nesso causale tra la malattia e l’esposizione ad agenti tossici nel corso del servizio in Bosnia. Nell’organismo del militare, infatti, sono state rintracciate svariate particelle di metalli pesanti non presenti normalmente nell’uomo e ciò è "la conferma definitiva - scrivono i magistrati - del reale assorbimento nel sistema linfatico di metalli derivanti dall’ inalazione o dall’ingestione da parte del militare nella zona operativa". "La sentenza è importante non solo perché stabilisce la colpa della Difesa e il nesso causale tra uso di armi e materiali usati in Bosnia e malattia mortale, ma anche perché - spiega ancora Leggiero - sancisce un’importante distinzione tra indennizzo e risarcimento. La madre di Vacca, infatti, aveva già avuto un indennizzo per danno patrimoniale. Ora invece i giudici affermano che da parte delle autorità militari e della Difesa c’è stato un danno causato dall’inadempienza di misure di sicurezza dovute. È una sentenza unica nel suo genere. E se si parla di omicidio colposo di un militare morto e le vittime dell’uranio impoverito sono, come attestato, più di trecento, esattamente 333 e i malati oltre 3.600, allora che cos’è: una strage?". Da notare che ancora nel marzo di quest’anno il generale Carlo Magrassi, segretario generale della Difesa, davanti alla commissione parlamentare sull’uranio impoverito aveva dichiarato: "Non mi risulta che siano mai stati acquistati per le forze armate italiane armamenti contenenti uranio impoverito. La tutela della salute e della sicurezza del nostro personale rappresenta per noi una priorità". Una recente inchiesta del settimanale l’Espresso ha rivelato che al ministero della Difesa sono arrivate sinora 532 domande di risarcimento da parte di militari che denunciano danni gravissimi alla salute per esposizione a materiali pericolosi. Esiste un fondo di 10 milioni l’anno che il ministero ha a disposizione per i risarcimenti, istituito nel 2010 insieme con un "Gruppo progetto uranio impoverito" che ha il compito di studiare il fenomeno. Delle 532 domande presentate, ha raccontato l’Espresso nella sua inchiesta, tutte esaminate da un’apposita commissione medica, ne sono state accolte appena il 25%. Molti degli esclusi hanno però fatto ricorso, tanto che a tutt’oggi si possono contare una trentina di giudizi di condanna da parte della magistratura civile e della Corte dei Conti. La sentenza di ieri cambia completamente il quadro. "Le sentenze online violano la privacy" Il Dubbio, 21 maggio 2016 "È illecita la diffusione di dati personali attraverso una sentenza, pubblicata anche sul web, nella quale vengono riportate informazioni sullo stato di salute di un cittadino". Lo si evince da una sentenza con cui la prima sezione civile della Cassazione ha accolto il ricorso di un uomo che chiedeva un risarcimento danni per l’"illegittima divulgazione di dati attinenti alla sua salute". Il ricorrente aveva presentato un ricorso in materia pensionistica alla Corte dei Conti per la Regione Siciliana, sezione giurisdizionale di Palermo: la relativa sentenza, che trattava dati personali riguardo alla sua salute e alle sue invalidità, era stata pubblicata sul sito internet della Corte, liberamente accessibile. Il tribunale di Palermo aveva rigettato l’istanza di risarcimento, rilevando che è possibile chiedere "per motivi legittimi, con domanda depositata in cancelleria, prima che sia definito il grado di giudizio", in caso di riproduzione in qualsiasi forma del provvedimento per finalità di informazione giuridica, l’oscuramento delle generalità e di altri dati identificativi in una sentenza. La Suprema Corte ha invece accolto il ricorso dell’uomo, rinviando gli atti al giudice siciliano. La Cassazione ricorda che il codice della privacy "afferma il principio generale per cui i dati sensibilissimi, e specificamente quelli idonei a rivelare lo stato di salute, non possono essere diffusi: tale indicazione, che non pare ammettere eccezioni, supera il punto di equilibrio" con riferimento ai provvedimenti giurisdizionali "tra gli interessi della persona alla privacy, di sicura rilevanza costituzionale, e quelli, altrettanto rilevanti, all’integrale pubblicazione dei provvedimenti giurisdizionali, a scopo di informativa giuridica". In tale quadro, osservano i giudici di piazza Cavour citando le linee guida pubblicate nel 2010 dal Garante della privacy, "relativamente ai dati idonei a rivelare lo stato di salute esiste uno specifico divieto di diffusione anche per i soggetti pubblici", si legge nella sentenza depositata ieri, e la "salvaguardia dei diritti degli interessati attraverso un oscuramento delle loro generalità non pregiudica la finalità di informazione giuridica, ma può risultare necessaria - conclude la Corte - nella prospettiva di un bilanciamento dei diversi interessi per tutelare la sfera di riservatezza dei soggetti coinvolti". Carceri, superare la dicotomia interno/esterno per una pena rieducativa di Vanna Iori (Deputato Pd) Dire, 21 maggio 2016 Le sbarre. Le porte del settore penitenziario. Quelle più spesse e blindate che danno sull’esterno. Come il meccanismo delle scatole cinesi, la distanza che oggi esiste tra chi è detenuto in un carcere e chi è in libertà è stratificata. Chiusura su chiusura. Interno contro esterno. È in questa dicotomia, tutta da superare, che risiede uno dei passi decisivi per superare la visione meramente punitiva e riuscire ad affermare un’effettiva funzione rieducativa della pena. Il carcere conserva le caratteristiche di un’istituzione totale, chiusa e separata tramite un isolamento fisico e simbolico dal contesto della società esterna. È appena il caso di ricordare che molti edifici penitenziari sono collocati ai margini delle aree urbane o addirittura sulle isole, a simboleggiare che chi lo abita si trova in situazione di emarginazione. Questa separazione interno-esterno colloca chi sta "dentro, "detenuto", "ristretto" in una struttura impermeabile all’esterno, a chi sta "fuori", "in libertà", "in sicurezza" poiché gli autori delle azioni "malvage" e portatrici di disordine stanno, appunto, "rinchiuse", dietro le sbarre, le mura, i fili spinati, presidiate delle garitte e dalle guardie. Questo isolamento nei confronti del mondo esterno rende il carcere una "città nella città" dove si vive un sovraffollamento interno, dove le condizioni non sono quelle dell’abitare che caratterizza l’esterno: "là", oltre le sbarre e i portoni metallici, dove le persone sono libere di muoversi, scegliere e vivere. L’interno non può protendersi verso l’esterno, allo stesso modo non giunge all’interno la voce del mondo esterno e il mondo esterno non accoglie e ascolta le voci dell’interno. Nemmeno le vuole conoscere. E l’interno? Per di più un clima di violenza diffusa e di noia che si trasforma in rabbia connota l’esperienza carceraria nella quotidianità, fatta i rapporti di stretta convivenza tra estranei, senza un riconoscimento diferenziante di "spazio proprio". Non solo per le condizioni materiali di sovraffollamento che, ancorché attenuato dopo il cosiddetto "svuota carceri", rimane un problema, ma anche per i vissuti di degrado umano e di annullamento della persona a detenuto, espropriato della capacità di autodeterminazione e di privacy, schiacciato dall’omologazione degli spazi, dei tempi, del cibo. Queste condizioni non si conciliano certamente con la funzione rieducativa. Anche se al detenuto sono riconosciuti diritti fondamentali e inviolabili alla salute, al lavoro, all’istruzione e alla formazione, alla difesa, alle relazioni e all’affettività, sono purtroppo numerose le morti per suicidio, non infrequenti anche nel personale di custodia. Il gesto estremo e inquietante che è la più palese e drammatica espressione del contesto carcerario inumano. Il questo clima emotivamente "ferito", favorire il contatto tra l’interno e l’esterno è quindi decisivo. E può essere realizzato innanzitutto attraverso la territorializzazione della pena, un passo fondamentale, perché recidere il collegamento col territorio, la realtà locale, le famiglie, gli amici, acuisce la separatezza e i vissuti di abbandono entro il mondo spesante, violento e disumano dell’esperienza detentiva. Certo non è facile rispondere al disagio della detenzione, ma una via per cercare di uscire dalle ombre della depressione e della perdita di speranza di chi si sente oppresso dal passato e si vede privo di futuro è innanzitutto quella che si basa sul recupero degli affetti famigliari, dove è ancora possibile non disperderli. Altrettanto decisiva è la funzione del lavoro, capace di dare dignità e senso alle giornate vuote. Gli strumenti ci sono. Aprire le porte del carcere, anche se solo metaforicamente, è possibile. La "misericordia" oltre le sbarre di Mons. Nunzio Galantino (Segretario generale Cei) Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2016 Vi sono confini che diventano centro e testimonianze che hanno tutto il sapore della restituzione. "Centro" mi sono parse due realtà visitate da me in questi ultimi giorni e "restituzione" è quella che faccio in queste righe. Confini che diventano centro sono stati per me il Centro di Giustizia Minorile "Malaspina" di Palermo e il "Don Guanella" di Roma. Standoci, mi sono confermato in una delle acquisizioni che mi porto dentro soprattutto dai trentasei anni di vita vissuti alla guida di una parrocchia: gli innumerevoli incontri con persone di diversa estrazione, di diverso profilo, con istanze ed esigenze diverse continuano a dirmi che chiunque si incontra e ovunque si vada si ha da imparare e da crescere. Importante è avere voglia di mettersi in gioco, lasciando da parte il "personaggio" che ciascuno di noi si porta cucito addosso. E questo esercizio di spoliazione l’ho fatto andando a Palermo per incontrare 31 ragazzi, minorenni, detenuti presso il Malaspina. Ho raccolto l’invito dell’associazione culturale Dialoghi e Profezia, impegnata a seguire la crescita umana, culturale e spirituale dei minori in stato di detenzione. Vi sono andato per celebrare con loro il Giubileo della misericordia. Stando con loro e guardandoli negli occhi cercavo di capire cosa si muovesse dentro il loro cuore e dentro la loro testa. Devo confessarlo: forse ho capito poco del tumulto di sentimenti che certamente si portava dentro ognuno di quei ragazzi. Mentre però proseguiva il mio dialogo con loro, mi tornavano in mente le parole pronunciate da papa Francesco alla chiusura del Sinodo sulla famiglia, nell’ottobre 2015: "Il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne o anatemi, ma è quello di proclamare la misericordia di Dio, di chiamare alla conversione e di condurre tutti gli uomini alla salvezza del Signore". Mi sono emozionato quando F. mi ha chiesto, con spontaneità e curiosità, da quale chiesa provenissi. Nella sua ingenua domanda ho percepito attenzione nei miei confronti, la sua voglia di conoscere qualcosa di più di me e della mia vita. Ho fatto un po’ fatica a far capire che la "mia" chiesa, ora, era anche il Malaspina come per tanti anni lo è stata la Parrocchia di san Francesco in Cerignola; e che la sua vita, ora, mi stava a cuore come mi sono state a cuore le vite di Marco, di Franco, di Tonino, di Anna, di Peppino e di tanti altri nel passato. È così tutte le volte che, al di là del ruolo, ci si mette il cuore! E prendendo spunto dalle attese di F. e degli altri ragazzi ho parlato con loro della misericordia di Dio, mettendomi in sintonia con l’etimo del termine "misericordia" che prevede un cuore che si fa coinvolgere dalla miseria. Dalla propria, prima di tutto. E sì! Perché è sempre faticoso prendersi e tenersi in mano, prima di prendere e tenere in mano le fragilità altrui. Ho preso spunto dalla parabola conosciuta come "Parabola del figliol prodigo". Mi ha colpito il silenzio, quasi la sorpresa dei ragazzi di fronte alla mia scelta di fermarmi a considerare più i verbi/gesti di tenerezza del Padre misericordioso ("lo vide", "si commosse", "gli corse incontro", "gli si gettò al collo" e "lo baciò") che la scelta del figlio minore di andare via dalla casa del Padre sbattendo la porta e combinando schifezze a non finire. Evidentemente gli errori commessi da questi ragazzi pesano tanto da non rendere facile per loro pensare che vi possa essere Qualcuno/qualcuno che continua a credere in loro e ad aspettarsi qualcosa di buono da loro. Me ne sono convinto quando A. ha voluto fare il suo commento alla parabola, ignorando quanto io avevo detto e puntando sugli errori commessi dal fratello minore e sul risentimento del fratello maggiore della parabola evangelica. La mia insistenza sulla gioia del Padre per il figlio che torna a casa e il mio puntare sulla sua voglia di fare festa per quel figlio lontano che tanto dolore gli aveva procurato è stata una scoperta per i ragazzi. Almeno questa è stata la mia sensazione. Ho parlato con loro della gioia della festa partendo da quella che certamente si prepara per il loro ritorno a casa dopo il periodo di detenzione. Nel dialogo con i ragazzi, B. ha invocato la presenza di una Chiesa capace di far sentire la presenza del Signore accanto a loro. Le sue parole mi hanno fatto riflettere sulla necessità di accompagnare questi ragazzi e di non deluderli con un linguaggio lontano dalle loro attese e con scelte poco credibili ai loro occhi. Ho apprezzato tanto il lavoro degli operatori impegnati ad aiutare i ragazzi nell’uso consapevole del tempo che ora trascorrono nella condizione di detenuti; un tempo che serve per riflettere, per preparare una festa che duri; quella che comincerà allo scadere della loro condanna. Un passo importante da fare, ho detto loro, è certamente quello di prendere atto della storia interrotta dalle proprie azioni, è pensare al male che si è fatto, è pensare alle sofferenze provocate. La misericordia che il Signore è sempre pronto a elargirci chiede in cambio la consapevolezza delle conseguenze dei gesti commessi, domanda di essere sinceri fino in fondo, prima di tutto con se stessi; e significa cercare il perdono e accoglierlo come segno di amore e di rispetto, a cominciare dalle persone e dalle situazioni che sono state danneggiate dai gesti che hanno procurato la condanna. Non meno intenso si è rivelato il mio ritorno al "Don Guanella" di Roma. C’ero già stato per partecipare a una Via Crucis vivente animata dagli ospiti del Centro, per lo più persone con disagio fisico e/o psichico. Un momento intenso di preghiera e di condivisione, vissuto quella volta da me anche con un po’ di curiosità. Non avevo infatti mai visto tante persone con disagio esprimersi con la spontaneità tipica di chi è "preso dalla parte" che interpreta, ma anche con la voglia di comunicare la ricchezza e il disagio che, in alcune circostanze, si fa davvero fatica a tenere a bada. Sono tornato al "Don Guanella" per partecipare alla Conferenza stampa di presentazione di un film ("Ho amici in paradiso"), che vede la coproduzione di Rai Cinema e che ha come protagonisti, accanto ad attori professionisti, gli ospiti dello stesso Centro. Un atto di coraggio da parte di chi ha deciso di investire per contribuire a superare la "cultura dello scarto" che caratterizza ancora gran parte della nostra società. Sono abbastanza avanti negli anni per ricordare con quali atteggiamenti venivano trattate le persone con disabilità intellettiva. Questa era considerata alla stregua della pornografia. Andava occultata. E il condizionamento socio-culturale era così forte che, chi isolava i disabili non riteneva, questo, un comportamento abnorme. In questa forma di …cultura si è inserita con pervicacia la presenza di uomini e donne - per lo più religiosi - che hanno cominciato a riconoscere e a far riconoscere piena dignità a queste persone. Col film "Ho amici in paradiso" si fa un passo avanti: le periferie diventano centro e da questo centro vengono tanti insegnamenti. Uno per tutti: la necessità di ridefinire i confini interiori con la consapevolezza che spesso quella che riteniamo "normalità" è solo la patologia più diffusa e che, solo per questo, viene ritenuta un modello. Carcere preventivo a Torino, un appello di Mamme in piazza per il dissenso e Livio Pepino Il Manifesto, 21 maggio 2016 Siamo le mamme delle ragazze e dei ragazzi di Torino sottoposti da diversi mesi a pesanti misure cautelari per aver partecipato a manifestazioni e iniziative antirazziste, antifasciste e in difesa del territorio. Ci siamo riunite in gruppo "Mamme in piazza per il dissenso" per sostenere i nostri figli e le nostre figlie e denunciare la situazione di evidente ingiustizia che stanno vivendo. Vi preghiamo di leggere, diffondere e firmare il nostro appello. Nella città di Torino, 28 ragazzi e ragazze sono, da molti mesi, sottoposti a misure cautelari preventive molto dure. Non hanno rubato soldi pubblici, non hanno corrotto e non sono stati corrotti, non hanno cercato di trarre illeciti profitti personali, non hanno avvelenato l’aria con la polvere di amianto. Hanno manifestato contro quel treno ad alta velocità Torino-Lione che saccheggia le risorse pubbliche per costruire un’opera utile solo ai suoi costruttori; hanno difeso le aule dell’università che frequentano dalla lugubre e incostituzionale presenza di fascisti torinesi, estranei - tra l’altro - a quelle aule; hanno tentato di sfilare in corteo per ricordare che una città medaglia d’oro alla Resistenza non può assistere in silenzio alla presenza arrogante di un partito xenofobo e razzista; hanno tentato di difendere il diritto all’abitare di famiglie travolte dalla crisi. Non erano soli, a farlo. Nelle strade della Val di Susa come in quelle torinesi, nei quartieri popolari come nelle aule universitarie si è espresso un movimento vasto, multiforme e articolato, partecipato da migliaia di cittadini, che ha utilizzato, nell’espressione del dissenso, gli strumenti propri dei movimenti sociali: cortei, presidi, comunicazione (…). Ebbene, questi ragazzi e queste ragazze sono stati sottoposti a misure molto dure: c’è chi non può più vivere a Torino, sua città di residenza, e chi non può uscire da Torino, neanche per andare a trovare i genitori; c’è chi deve recarsi quotidianamente a firmare in caserma e chi deve restare chiuso in casa dalla sera all’alba; infine ci sono gli "incarcerati in casa", in stretto isolamento, costretti quindi alla perdita del lavoro, allontanati dalla frequentazione dei corsi universitari e impediti nel vivere i loro affetti. Tutti privati, o fortemente limitati, nella loro libertà. A questi ragazzi e a queste ragazze viene negato il diritto a studiare, il diritto a lavorare, il diritto a vivere una vita dignitosa insieme alle persone che amano, il diritto alla libertà personale: e tutto questo senza essere ancora stati sottoposti a giudizio. Puniti duramente, a dispetto della presunzione di innocenza, per intimorire loro e tutti quelli che potrebbero pensarla come loro. Puniti duramente per aver praticato il diritto a dissentire. Come genitori, amici, cittadini ci chiediamo se non si sia creato, nella città di Torino, un corto circuito pericoloso volto, di fatto, a limitare libertà fondamentali dei cittadini, quali il diritto costituzionalmente garantito a manifestare (…). Un corto circuito che si nutre della "apparente" decontestualizzazione degli eventi per ridurre le tensioni e le rivendicazioni sociali a fattispecie criminali da perseguire: "apparente" perché non può non sorgere il dubbio che la volontà di vessare e punire sia correlata proprio alle ragioni politiche e sociali che motivano l’agire di questi ragazzi e ragazze. Da cui la scelta di forzare le norme e attuare la massima possibile punizione preventiva: ci troviamo davanti al paradosso di detenzioni preventive che equivalgono o superano le abituali condanne, laddove ci fossero, normalmente comminate per quel tipo di reati. Come genitori, amici, cittadini riteniamo che il ritiro delle misure cautelari preventive per tutte e tutti sia il primo, indispensabile passo per interrompere questo corto circuito e ristabilire il diritto al dissenso. La risposta di Livio Pepino Care madri, il vostro non è solo un appello accorato di chi vede figli e figlie privati di alcuni diritti fondamentali. È, anche, la denuncia forte di una deriva pericolosa della giurisdizione di fronte a manifestazioni tipiche del conflitto sociale. Accade, infatti, in maniera sempre più diffusa, nel paese e a Torino in particolare, che pubblici ministeri e giudici della cautela si accollino un ruolo improprio di diretta tutela dell’ordine pubblico, accantonando la funzione di garanzia che è loro propria. I sintomi sono quelli che voi denunciate e altri ancora: la dilatazione a dismisura delle ipotesi di concorso di persone nel reato, il ricorso massiccio alla custodia cautelare in carcere anche nei confronti di incensurati, l’uso a pioggia e per lunghi periodi di misure cautelari non detentive per fatti modesti, la costruzione dell’antagonista come "tipo di autore" dotato di particolare pericolosità, la contestazione di fattispecie di reato sproporzionate o abnormi, la predisposizione di corsie privilegiate per i procedimenti in tema di conflitto sociale e via elencando. Ciò - superfluo dirlo - non ha nulla a che fare con l’invocata obbligatorietà dell’azione penale, ma è frutto di precise (e controvertibili) scelte di politica giudiziaria. La speranza è che il vostro appello faccia uscire dal torpore una sinistra assente o, quantomeno, distratta. Toscana: il Garante "il vero pericolo non sono le fughe, sono i tentati suicidi" di Ilaria Bonuccelli Il Tirreno, 21 maggio 2016 Corleone, Garante dei detenuti in Toscana, parla dei limiti del sistema penitenziario. Franco Corleone da tre anni è garante dei detenuti in Toscana. Prima, per anni lo è stato a Firenze, al carcere di Sollicciano. Ha accumulato un’esperienza sufficiente per valutare il sistema carcerario. Senza troppi giri di parole, dice che non sono le evasioni a preoccuparlo. Anche se casi come quello del killer del catamarano fanno notizia. Piuttosto, lo preoccupa lo stato di disagio dei detenuti in carcere. I 302 tentati suicidi in Italia nel primo quadrimestre ne sono una conferma. E la Toscana non è un’isola felice perché circa il 10% si sono verificati proprio qui. Solo fra Firenze (18 casi) e Pisa (11). I casi di autolesionismo sono ancora più frequenti: 2778 in Italia in un quadrimestre; 110 di questi a Firenze, altri 75 a Pisa, 14 a Livorno, 8 a Porto Azzurro. Proprio il carcere dal quale nel 2014 fugge Filippo Antonio De Cristofaro, il killer del catamarano, il "rambo dei mari". Ma anche il re delle evasioni: nel 2007 riesce a scappare dal carcere di Opera a Milano e sette anni dopo, di nuovo, scappa dall’Elba, durante un permesso premio. Lasciando il ministero di Giustizia e il sistema carcerario a interrogarsi sulla bontà delle misure alternative e dei "benefici penitenziari". Corleone nel 2014 è già garante regionale dei detenuti. E da subito non nasconde che "il problema, anche a livello teorico, esiste". Senza lanciarsi in ragionamenti accademici, Corleone spiega: "Il nostro sistema penale prevede pene molto lunghe. Non solo le prevede ma anche le applica, a differenza di quanto accade in altri Paesi. Vorrei citare l’esempio della strage dell’isola di Utoya in Norvegia: la pena massima prevista dal codice penale, malgrado i 77 morti, è di 21 anni. Noi abbiamo l’ergastolo e perfino il carcere con fine pena mai. Poi, però, il nostro sistema prevede misure per riequilibrare queste pene". Di fatto per ridimensionarle "partendo dalla valutazione del comportamento tenuto in carcere: basta pensare che possono ottenere 45 giorni di sconto sulla pena a semestre, 3 mesi l’anno, in modo da arrivare a una liberazione anticipata". Tuttavia - ammette Corleone - questo meccanismo "ideato per favorire il reinserimento sociale dei detenuti, in certe occasioni mostra anche dei limiti. Il meccanismo premiale, infatti, può portare, in certe occasioni, a far fingere il detenuto di essere diventato buono, a comportarsi bene in apparenza, senza aver davvero ripensato alla propria condotta. La logica è semplice: siccome voglio uscire prima, fingo di essere cambiato". Viceversa - aggiunge Corleone - ci sono anche detenuti che "per paura di ritorsioni e perfino di angherie a volte rinunciano a rivendicare i propri diritti, come la richiesta di permessi per buona condotta o la liberazione anticipata. Questo è un limite enorme alla logica premiale perché il sistema dovrebbe favorire un processo per il quale in carcere le persone riconquistino la capacità di autonomia". Messa così, sembrerebbe di trovarsi in una situazione di empasse. Ma Corleone evidenzia che "questo modello di apertura del carcere ha avuto anche meriti. Non solo quello di consentire di mantenere i rapporti con la famiglia, di consentire di pensare a un’occupazione per quando si esce, ma ha eliminato l’isolamento. Oggi non esistono più detenuti che quando terminano di scontare la pena ed escono non sanno nemmeno più come si prende un autobus perché per anni sono rimasti fuori da tutto". Certo, il fatto di usufruire di benefici penitenziari, dai permessi premio alla semilibertà, alla possibilità di lavorare all’esterno e così via "comporta qualche rischio - conferma Corleone - ma dobbiamo anche essere onesti: la percentuale di fughe o di evasioni è bassissima. Non arriviamo all’1%". Ormai, i casi più frequenti di evasione in senso "tecnico" si hanno soprattutto fra le persone alle quali sono già stati "concessi gli arresti domiciliari e che, magari, non rientrano all’orario prestabilito. O non rientrano affatto. Ma le fughe dal carcere con il complice che ti aspetta fuori, sono casi che si possono contare sulle dita di una mano. Poi, oltretutto, anche quelli che ci provano vengono quasi sempre ripresi nei giro di pochissimi giorni". Le eccezioni, certo, ci sono. Negarlo sarebbe ottuso, dice. Ma sono casi così straordinari che per forza fanno scalpore. Prima del killer del catamarano, viene da citare "il caso dello stupratore del Circeo che ha utilizzato un permesso premio per ripetere lo stesso reato. Questo caso ha suscitato orrore e clamore perché per ottenere un permesso premio, bisogna non solo ottenere l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza, ma anche aver tenuto a lungo un comportamento di un certo tipo in carcere. Aver convinto del proprio cambiamento il Gruppo osservazione trattamento: un educatore, uno psicologo, il direttore del carcere. Evidentemente quel soggetto è stato bravo a ingannare tutti". Un po’ come il killer del catamarano. Che anni dopo il primo tentativo di fuga ha convinto tutti di essere cambiato e ha ottenuto un altro permesso premio. Usato, di nuovo, per fuggire dall’Elba. "Questo ci riporta a un’altra riflessione, a mio avviso - sottolinea Corleone - ancora più importante. Dobbiamo migliorare il sistema di valutazione dei detenuti. E per migliorarlo, dobbiamo allontanarci dal modello di carcere passivo. Che cosa significa? Che bisogna trasformare il carcere in una comunità. Aumentare le occasioni di socializzazione". In concreto, prosegue Corleone questo significa, ad esempio, "realizzare refettori e mense, in modo da consentire ai detenuti di mangiare tutti insieme, evitando che ognuno mangi da solo nella propria cella. O, al massimo, insieme al proprio compagno di cella. Aumentando le occasioni e i momenti di socialità, chi sorveglia i detenuti ha modo di capire se una persona è aggressiva, oppure prepotente o magari prevaricatrice. E questo è fondamentale nella concessione delle misure alternative, dei benefici". A cominciare dai permessi premio. Emilia Romagna: dal Garante due iniziative per la formazione dei volontari penitenziari noodls.com, 21 maggio 2016 Preparare al meglio i volontari che lavorano con i detenuti e i loro parenti in carcere e fuori dal carcere, perché la loro presenza è fondamentale tanto all’interno degli istituti penitenziari che nel contesto dei territori. È questo l’obiettivo di due eventi formativi che l’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna ha promesso, e di cui questa settimana si sono tenuti rispettivamente il primo e l’ultimo appuntamento. Negli ultimi giorni ha infatti preso il via, per concludersi il 10 giugno, "Diritti e dignità nell’esecuzione della pena", un ciclo di tre incontri, progettati dalla Conferenza regionale volontariato giustizia, insieme con l’Ufficio della Garante regionale e con il patrocinio dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, per aggiornare i volontari sulla disciplina sull’umanizzazione della pena e rafforzare il loro ruolo nell’esecuzione. Il percorso è articolato in due primi incontri, replicati nelle diverse realtà territoriali interessate e affidati a figure di garanzia ed esperti del settore, e un incontro finale a Bologna in plenaria, con la presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, Ornella Favero. Come spiega la figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa, Desi Bruno, "gli obiettivi sono la conoscenza e l’approfondimento delle circolari dell’amministrazione penitenziaria relative all’umanizzazione della pena, scaturite in particolare dalla sentenza di condanna Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013, alla nuova organizzazione basata sui circuiti penitenziari regionali, al tema della dignità e umanità in carcere, nonché ai concetti di tutela dei diritti non solo dei detenuti ma anche dei familiari, alla luce degli importanti impegni assunti nel tempo dal volontariato". Il terzo settore, ricorda la Garante, riveste un ruolo fondamentale all’interno del sistema dell’esecuzione penale, riconosciuto dal protocollo regionale tra Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e Conferenza regionale che, richiamando il protocollo d’intesa con il ministero di Giustizia e Conferenza nazionale, riconosce il ruolo attivo del volontariato nelle sue varie forme come espressione di partecipazione, solidarietà, pluralismo della comunità e il ruolo di protagonista a pari dignità con l’amministrazione della Giustizia e con le autonomie locali, anche per la realizzazione della reintegrazione sociale delle persone in esecuzione penale e penitenziaria. Tra gli obiettivi - conclude Bruno, anche condividere le competenze e le buone prassi esistenti a livello nazionale. Non a caso, puntualizza, per il prossimo autunno è previsto un momento formativo congiunto, tra personale del volontariato e operatori della giustizia, sui temi appena illustrati. Esprime soddisfazione anche Simonetta Saliera, presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna che patrocina Diritti e dignità nell’esecuzione della pena: Il lavoro della Garante regionale si basa su una idea di carcere che nulla abbia a che vedere con le fredde celle dei sotterranei medioevali, ma sappia porre le basi della ricostruzione della persona e della sua dignità: il cammino è cominciato e cercheremo in tutti i modi di fare sì che ciò non venga interrotto. Secondo Saliera, "il volontariato è una componente sempre più fondamentale della nostra società, ed è quindi importante che chi si impegna per gli altri sia formato per poterlo fare al meglio, specialmente chi si muove in una realtà difficile come quella del carcere". Si è invece concluso il 16 maggio "La normativa in tema di immigrazione. Applicazione di misura cautelare, esecuzione di pena detentiva e permanenza sul territorio italiano", un corso in quattro momenti iniziato ad aprile. Organizzato in autonomia dall’Ufficio del Garante regionale e accreditato dagli Ordini degli avvocati e da quello degli assistenti sociali, è dedicato alla condizione giuridica del detenuto non italiano. Gli incontri, tenuti a Bologna dall’avvocato Massimo Cipolla, sono orientati a soddisfare il bisogno formativo espresso negli anni dai volontari, in merito all’approfondimento delle norme che regolano la condizione giuridica del cittadino straniero e comunitario, allo scopo di supportare l’impegno dei soggetti pubblici e privati nel far cogliere tutte le opportunità di incontro, salute, studio e ogni altra attività utile a relazionarsi positivamente con la società. Piacenza: lo torturano in cella, denunciò le violenze nel carcere di Parma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2016 Il racconto di Vittorio Ferraresi del Movimento 5Stelle, Capogruppo in Commissione Giustizia Sangue sul pavimento e il materasso, ematomi su tutto il corpo, vestiti strappati e bagno senza acqua con le feci nel water. È questo quello che ha visto il deputato cinque stelle Vittorio Ferraresi e l’avvocato Fabio Anselmo durante un’ispezione a sorpresa nel carcere di Piacenza scaturita dall’ennesima denuncia del detenuto Rachid Assarag. Il deputato voleva riprendere tutto con il telefonino, ma è stato malamente allontanato con le spinte da parte della polizia penitenziaria. La vicenda di Assarag è un continuo martirio da un carcere all’altro. Una storia che noi abbiamo denunciato da tempo. Si tratta del detenuto che aveva registrato le voci di medici e agenti che avevano ammesso le violenze all’interno del carcere di Parma. Nella registrazione la guardia carceraria si era lasciato andare: "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu". Il medico del penitenziario era stato ancora più esplicito: "Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto le ha aggredite e l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no. Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte. Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi" Rachid - durante la registrazione che aveva fatto di nascosto - non si era fatto problemi a parlare delle violenze che avrebbe subito e aveva spiegato sempre al medico penitenziario: "Io ho subito, mi hai visto che io ho subito la violenza". E il dottore gli rispose: "Certo, ho visto... Quello che voglio dire, è che lei deve imparare ad abituarsi, perché non può cambiare lei, come non lo posso cambiare io". Ma Rachid non molla. Insiste. Vuole risposte per capire come muoversi, a chi far presente cosa non funziona. Il medico si era messo a parlare anche delle "protezioni" da parte della magistratura di cui godrebbero gli agenti. E aveva citato il caso di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per droga e morto in custodia cautelare una settimana dopo, vicenda finita con l’assoluzione al processo d’appello. "Ah, il magistrato è dalla parte di loro? " aveva quindi chiesto Assarag. "Certo... in un caso di morte, in un caso di morte come quello di Cucchi, sono riusciti a salvare gli agenti e hanno inchiappettato i medici". Grazie a queste registrazioni - in seguito rese pubbliche - è stata aperta un’inchiesta da parte della procura. Il pm però ha chiesto l’archiviazione, ma l’avvocato difensore Anselmo si è opposto. Dopo quella denuncia, Assarag, vive un vero e proprio incubo. Prima di quest’ultima vicenda confermata dalla visita a sorpresa da parte del deputato cinque stelle, il detenuto avrebbe subito altri pestaggi a seguito delle registrazioni. La penultima in ordine cronologico sarebbe avvenuta nel carcere di Sollicciano. Era il giorno prima del capodanno del 2015. Avrebbe avuto un contrasto con un agente penitenziario che lo avrebbe dovuto portare in infermeria. Mentre gli apriva il blindato, avrebbe detto: "Andiamo maleducato". Assarag gli avrebbe chiesto del perché di quell’insulto e ottenendo per risposta che se non ci fossero state le telecamere, "gliele avrebbe date". Poi sarebbero arrivati altri agenti, lo avrebbero portato in isolamento e lì lo avrebbero percosso. Questo è ciò che il detenuto aveva denunciato alla moglie durante il colloquio telefonico durato dieci minuti. Dopo quest’ultimi fatti di Piacenza - confermati dal deputato del Movimento 5stelle - Emanuela D’Arcangeli, la moglie di Assarag, si domanda: "Rachid ha denunciato un sistema (non solo delle mele marce). Un sistema di omertà in cui la polizia violenta agisce; dei medici impotenti coprono e dei magistrati disinteressati non approfondiscono. E se un detenuto denuncia, non viene creduto, perché la Procura non si muove abbastanza in fretta, per poter raccogliere le prove, nel momento in cui quelle prove si possono ancora trovare?". Piacenza: Ferraresi (M5S) "detenuto picchiato in carcere, situazione al limite della tortura" di Gianmarco Aimi Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2016 "Ematomi su tutto il corpo, un ginocchio rotto e un occhio nero. Nella cella, sangue sul pavimento e sul letto". Così Vittorio Ferraresi, capogruppo del M5s in commissione Giustizia alla Camera, ha riferito di aver trovato Rachid Assarag, 41enne marocchino condannato a 9 anni per stupro. "Mi hanno impedito di scattare una foto con il mio cellulare e si è innescato un parapiglia", ha raccontato. Polizia penitenziaria: "Lesioni auto-inferte". "Ematomi su tutto il corpo, un ginocchio rotto e un occhio nero. Nella cella, sangue sul pavimento e sul letto, il materasso e le coperte completamente bagnati, la finestra chiusa da un lucchetto, nessuna acqua corrente e il wc intasato dalle feci". È la condizione fisica e ambientale in cui il parlamentare del Movimento 5 Stelle, Vittorio Ferraresi, ha riferito di aver trovato Rachid Assarag, 41enne marocchino condannato a 9 anni per stupro, dal 2009 trasferito in undici carceri diverse - Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella e oggi Piacenza - dopo le sue denunce di pestaggi subiti da agenti della polizia penitenziaria e documentati attraverso registrazioni audio. Ferraresi si è recato alla casa circondariale delle Novate per una ispezione a sorpresa, dopo l’ennesima segnalazione della moglie dello straniero, Emanuela Darcangeli, arrivata al parlamentare attraverso il suo legale, Fabio Anselmo (che già seguì il caso di Stefano Cucchi). "È una situazione ai limiti della tortura - ha esordito il capogruppo del M5s in commissione Giustizia all’uscita dalla casa circondariale - e ho potuto constatare che vive in condizioni prive di dignità e che quindi le sue segnalazioni possono avere un fondamento". Una scena tanto grave, quella che Ferraresi si è trovato ad assistere, che avrebbe provato a documentarla. Ma scatenando così le ire della vicedirettrice Anna Maria Albano che, insieme agli agenti, lo avevano scortato: "Mi hanno impedito di scattare una foto con il mio cellulare e si è innescato un parapiglia: la vicedirettrice mi ha minacciato di denunciarmi alla Procura e offeso più volte, la mia visita si è interrotta e sono stato accompagnato forzatamente all’uscita". Contattato successivamente, Ferraresi ha confermato di aver presentato un esposto su quanto avvenuto e di aver scritto una lettera al Ministro della giustizia Andrea Orlando "perché prenda immediati provvedimenti a tutela dell’incolumità del detenuto Rachid Assarag. In merito - si legge nella missiva - ho constatato di persona quanto le violenze subite a seguito delle sue denunce per le condizioni carcerarie corrispondano a verità. Qualsiasi cosa dovesse succedere da adesso in poi al detenuto, Lei sarà ritenuto responsabile". Particolare preoccupazione, davanti ai cancelli delle Novate, è stata espressa anche dall’avvocato Anselmo (al quale sarebbe stato impedito di visitare il suo assistito), che ha aggiunto un particolare inquietante: "Pensate che lo hanno costretto a sottoscrivere una lettera per rivelare propositi suicidi. Ma in realtà la lettera che aveva dettato aveva tutt’altro senso, visto che lo posso affermare con certezza: Rachid Assarag non ha nessun intento autolesivo". Ha invece cercato di smentire lo scenario descritto da Ferraresi e dall’avvocato, il segretario regionale del sindacato Osapp di Polizia penitenziaria, l’ispettore Giovanni Marro, in servizio proprio alle Novate: "Un attacco inaccettabile, messo in atto solo per ottenere visibilità, abusando della carica di parlamentare, mentendo a dei poliziotti penitenziari ai quali Ferraresi ha dichiarato di aver lasciato il cellulare nell’apposito cassetto prima di entrare in istituto e introducendone invece un altro in maniera fraudolenta, arrivando addirittura a mettere le mani addosso a un ispettore di polizia che tentava di far rispettare il regolamento facendosi consegnare il telefonino"". E sulle condizioni del detenuto ha concluso: "La cella in cui si trovava era provvisoria, visto che giusto lunedì scorso lo stesso Assarag aveva distrutto la sua e gli ematomi sono per lesioni auto-inferte, come più volte è stato accertato dal personale sanitario". Firenze: figli di genitori in carcere, un percorso da costruire notizie.tiscali.it, 21 maggio 2016 A Palazzo Panciatichi il seminario "Tutela di bambini e adolescenti nella visita in carcere". "Sono occasioni, queste, che le Istituzioni fanno bene a promuovere. Le Istituzioni devono vivere in modo sinergico, sussidiario, il rapporto con le autorità così come con gli organismi e le associazioni che si occupano di reclusi. Interloquire con chi si occupa di carceri e di carcerati, ma anche di minori in relazione all’esperienza del carcere vissuta da un genitore, è importante. In casi come quelli al centro dell’incontro odierno, bisogna valorizzare la dimensione dell’incontro e ridimensionare il trauma, nei bambini che in carcere vanno ad incontrare la mamma o il papà". Così si è espresso il presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, intervenendo al seminario sulla tutela dell’affettività nelle carceri toscane che si è svolto nell’Auditorium di Palazzo Panciatichi, dove è stata presentata la ricerca "Tutela di bambini ed adolescenti nella visita in carcere" promossa dall’Ufficio del Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Toscana in collaborazione con il Garante regionale dei diritti dei detenuti e con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria in Toscana. Scopo dell’indagine svolta dalle ricercatrici Raffaella Pregliasco, Elisa Vagnoli e Antonietta Varricchio era mettere al centro "i minori in visita nelle carceri" e in particolare "le garanzie di tutela dei bambini e degli adolescenti figli di detenuti che si recano in visita negli istituti penitenziari della Toscana". Ne è uscito la "fotografia" della tutela delle relazioni affettive e dell’accoglienza dei minori in alcuni istituti penitenziari toscani. La ricerca, effettuata in carceri con caratteristiche diverse tra loro, ha evidenziato gli aspetti normativi a quelli fenomenologici, ma anche le modalità di accoglienza dei minori che spesso sono "ancora da costruire" o da "migliorare sensibilmente". Dopo i saluti istituzionali del presidente Giani, ci sono stati quelli del garante toscano dei detenuti, Franco Corleone, che ha rimarcato "i molti punti deboli ancora esistenti nel sistema" e ha auspicato la necessità di "creare percorsi di presa in carico del minore, nel momento in cui varca la soglia di un carcere, affinché la visita non si trasformi in un trauma". Al convegno, coordinato dalla presidente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, Alessandra Maggi, che ha ribadito "l’importanza degli istituti di garanzia dei soggetti più deboli", ha preso parte anche la ricercatrice Pregliasco, del medesimo Istituto, che ha presentato i risultati del lavoro, incentrato sul fatto che i momenti di incontro tra detenuti e figli "devono essere adeguati alle esigenze dei minori". Con loro hanno partecipato al seminario Giuseppe Martone in qualità di provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Lia Sacerdote dell’associazione Bambini senza sbarre, lo psicologo e psicoterapeuta Ezio Benelli, il consigliere regionale e pediatra Paolo Sarti, mentre Sylke Stegemann, Michela Salvetti e Sara Pagani, attive nelle carceri toscane, hanno messo a confronto le esperienze di Sollicciano a Firenze, San Gimignano e Pontremoli, quest’ultimo istituto minorile e femminile. Le conclusioni sono state tratte da Stefano Scaramelli, presidente della commissione Sanità e sociale. Il consigliere Sarti, dopo essersi soffermato sulla necessità di "avere cura dei bambini che si recano in visita in un carcere", ha spostato l’attenzione su quelle madri che non possono usufruire degli arresti domiciliari o del differimento della pena ma hanno la possibilità di tenere i figli in cella fino a tre o sei anni. "Il problema è che i carceri sono ambienti terribili, incompatibili con i bambini e con il loro sviluppo psico-fisico", ha affermato Sarti. Il quale ha poi sottolineato che "nel tempo si sono comunque studiate delle soluzioni" e che "la pena è imprescindibile ma deve essere considerata secondaria rispetto ai diritti del minori". Una possibile soluzione, ha spiegato Sarti, è costituita dall’Icam, acronimo di Istituto a custodia attenuata per madri detenute, avviato nel 2006 che però è presente, in Italia, solo a Milano ed a Venezia. L’altra è invece la casa-famiglia protetta, avviata nel 2011, che consiste nel mettere a disposizione dei veri appartamenti per donne che scontano pene per le quali non vi è la necessità assoluta del carcere. Essa è stata sperimentata a Milano, in Toscana è assente. "Noi avevamo la possibilità di realizzare un Icam a Firenze, ma nonostante il Comune abbia preso l’impegno di consegnarla entro il 2016, ancora tutto è in alto mare", ha affermato Sarti. "Eppure intervenire in questo senso è fondamentale perché i danni che si fanno nella psiche di un bambino nei primi tre anni, rischiano di devastare tutta la vita". Il presidente Scaramelli, nelle conclusioni, ha sottolineato che "quando si parla di minori e del rapporto che essi possono avere con le realtà carcerarie bisogna farlo con molta attenzione perché per un bambino, specie se piccolo, può essere devastante sapere che il babbo o la mamma è in carcere". Scaramelli ha auspicato interventi mirati, elaborati, pensati "dalla parte del bambino". In questo senso Scaramelli ha ricordato l’attenzione che il piano sanitario regionale mette alle necessità e ai bisogni dei più piccoli. E in quest’ottica, al fine di assumere informazioni utili, ha ricordato che la commissione da lui presieduta andrà nelle prossime settimane in visita nelle carceri toscane. "Abbiamo di recente ospitato il garante dei detenuti in commissione - ha detto Scaramelli. Con lui abbiamo convenuto che è inviolabile per chiunque il diritto alla salute e a condizioni di vita dignitose. Fondamentale dunque è il diritto dei bambini a ricevere un trattamento adeguato, studiato affinché non sia per loro nocivo e controproducente, nel momento in cui vanno a recare visita a un genitore recluso in un istituto di pena". Bologna: detenuti in sciopero della fame per ricordare Pannella La Repubblica, 21 maggio 2016 Oggi l’iniziativa al carcere Dozza: "Il nostro ultimo saluto a un amico di tutta l’umanità". I detenuti del carcere della Dozza di Bologna oggi in sciopero della fame non per protesta ma per ricordare Marco Pannella. In particolare i detenuti del reparto penale hanno presentato un’istanza con in calce un centinaio di firme alla direzione dell’istituto e al tribunale di sorveglianza perché si attivino a consegnare alla cerimonia funebre una corona di fiori. Per questo omaggio si sono autotassati con un esborso minimo di tre euro a testa. "Marco Pannella - scrivono i detenuti della Dozza - è stato tra i massimi esponenti della politica italiana e della lotta per i diritti civili. Si è sempre battuto per una vera giustizia del diritto nonché per i diritti di coloro che come noi soffrono per violazione del diritto stesso. Riteniamo questo piccolo contributo semplicemente doveroso e un ultimo saluto a un caro amico, un amico di tutta l’umanità". "Ci legano a Marco Pannella le passioni comuni per i diritti civili e la giustizia, la battaglia sul referendum contro la legge Reale, contro la cultura dell’emergenza, sulla abolizione dell’ergastolo, sulla legalità nelle carceri. La sua è stata non una lotta fine a sé stessa, ma una lotta per una proposta. Sarebbe contento se piuttosto che ricordarlo con un minuto di silenzio lo ricordassimo con un applauso per le battaglie vinte". Così Patrizio Gonnella, presidente l’associazione per i diritti nelle carceri Antigone, ha aperto con un "commosso e gioioso ricordo" del leader radicale morto ieri il convegno internazionale su "Dignità e diritti umano nei luoghi di privazione della libertà" alla Camera. Padova: Consorzio Sociale Giotto. Dal ministero della Giustizia per incontrare i detenuti Il Mattino di Padova, 21 maggio 2016 Circa 100 detenuti assunti e altri 26 in formazione. Sono i risultati che ha presentato il Consorzio sociale Giotto al sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli, in visita martedì mattina alla Casa di reclusione Due Palazzi. La delegazione era nutrita, con Paola Giannarelli, del ministero della Giustizia, più altri componenti della segreteria del viceministro Gennaro Migliore, accompagnati dal provveditore alle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia e dal direttore della casa di reclusione Ottavio Casarano. La casa di reclusione ospita diverse attività lavorative: il call center, la pasticceria, e l’assemblaggio di biciclette e valigie. "Le abbiamo sottoposto i frutti di oltre 25 anni di presenza nella casa di reclusione", racconta il presidente del consorzio Nicola Boscoletto, "e ci fa piacere che il sottosegretario abbia affermato che questa esperienza, così come tante altre cooperative in carcere, è un’eccellenza che va preservata e diffusa". Per l’occasione, 40 detenuti hanno raccontato le loro esperienze di cambiamento personale attraverso il lavoro. Per quanto riguarda il call center i detenuti assunti sono 44 più tre che operano all’esterno. Nel laboratorio della pasticceria sono 19 i detenuti al lavoro e 3 nel campo della ristorazione; 25 i detenuti nelle attività di assemblaggio. Altri 10 lavorano all’esterno in varie attività. Padova: oggi gli avvocati in piazza per dare consulenze gratuite ai cittadini di Giulia Merlo Il Dubbio, 21 maggio 2016 Fuori dagli studi e dalle aule di tribunale, per incontrare la cittadinanza direttamente in piazza. Gli avvocati di Padova si danno appuntamento, oggi, davanti allo storico Palazzo della Ragione per rispondere alle domande, ai dubbi e forse anche alla frustrazione dei cittadini, che percepiscono la giustizia non come un servizio ma come un universo incomprensibile e distante. L’antica sede duecentesca dei tribunali cittadini diventa così il luogo simbolico in cui l’avvocatura torna ad appropriarsi della sua funzione sociale di garante dei diritti del cittadino. Proprio davanti al palazzo dove un tempo si amministrava la giustizia, infatti, i professionisti padovani si mettono a disposizione per fornire non solo indicazioni sulla professione forense, ma anche un servizio di consulenza gratuita. "Siamo in tutto settanta professionisti. Ci saranno i colleghi più giovani ma anche gli avvocati più anziani e alcuni professori del nostro Ateneo, oltre a tutti noi membri del Consiglio dell’Ordine. Un mix di età e professionalità diverse, per dare la misura di come si tratti davvero del tentativo della nostra categoria di mettersi al servizio di Padova. Offriremo per tutto il giorno consulenza gratuita a chiunque ne abbia bisogno o sia anche solo curioso di confrontarsi con noi", ha spiegato il presidente dell’Ordine, l’avvocato Francesco Rossi. Tante le materie in cui si offre orientamento: dai settori più classici del diritto penale, amministrativo, familiare, amministrativo, tributario, diritti reali, contrattualistica, lavoro e previdenza, responsabilità civile, locazioni, procedure esecutive, diritto societario e bancario, fino alle materie più nuove, come la tutela del consumatore, la privacy e il diritto della rete. Massiccio il coinvolgimento e tanto l’entusiasmo per gli avvocati, che si trovano per la prima volta a lavorare in una sede quantomeno insolita. L’evento, intitolato "L’avvocatura incontra la città", è un unicum nel panorama nazionale e ha l’obiettivo di avvicinare la categoria alla città, rivendicando i suo ruolo di garante degli interessi dei cittadini, a partire dai più deboli. Non solo consulenza, però: al gazebo dell’Ordine vengono anche presentati tutti i servizi che sono già a disposizione e che, spesso, rimangono poco noti ai cittadini che pure avrebbero diritto a usufruirne. Gli avvocati spiegheranno come accedere al gratuito patrocinio, il funzionamento della mediazione e il servizio dello sportello per il cittadino, previsto dalla legge Professionale e attivato presso il consiglio dell’Ordine. E, ovviamente, i tanti studenti di giurisprudenza che affollano le aule dell’ateneo di Padova potranno avvicinarsi alla professione forense, incontrando i futuri colleghi e prendendo informazioni sulla pratica e sul percorso formativo necessario per diventare avvocati. "Il senso di questa iniziativa è quello di far riappropriare l’avvocato del suo più profondo ruolo sociale. Le ultime statistiche hanno rilevato la disaffezione del cittadino rispetto alla giustizia: il 64% si è detto insoddisfatto e addirittura il 50% ha sostenuto di aver rinunciato a far valere un suo diritto. Noi avvocati siamo il primo tramite per chi si avvicina al sistema giudiziario e dobbiamo farci carico di restituirgli fiducia", ha commentato il presidente Rossi. E, allora, i professionisti padovani scendono in piazza, con l’obiettivo di guidare chiunque abbia bisogno di un orientamento nel complicato mondo della giustizia, nella speranza di farlo percepire come meno lontano dalla vita e dagli interessi di tutti i giorni. Milano: oggi presentazione dell’antologia di detenuti-poeti del carcere di Bollate di Ottavio Rossani Corriere della Sera, 21 maggio 2016 Oggi a Milano, alle ore 15, al Cam Garibaldi (corso Garibaldi 27), l’associazione La Conta presenta Una lastra d’infinito - poesie dal carcere di Bollate. Intervengono i curatori Paolo barbieri, Maddalena Capalbi e Anna Maria Crespi, che sono i coordinatori detto Laboratorio di poesia. Racconteranno la loro attività in carcere. Interverranno altresì: Lucia Castellino, Dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria; Alessandro Giungi, Presidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano; Cosima Buccoliero, Vice Direttore della II Casa di Reclusione di Bollate; Massimo Parisi, Direttore della II Casa di Reclusione di Bollate; alcuni rappresentanti delle istituzioni della Zona 1 di Milano, che parleranno dei progetti di solidarietà per avvicinare il carcere alla società civile; Carla Stroppa ed Enrico Moretti, editori della Moretti &Vitali, che hanno pubblicato l’antologia delle poesie scritte dai partecipanti al Laboratorio di Poesia del Carcere di Bollate. Concluderà l’incontro Giada Salerno "Ciatuzza" - voce e chitarra - che eseguirà alcuni dei canti più significativi dalle carceri italiane. La raccolta contiene 50 poesie dei venti detenuti che hanno partecipato al corso di poesia. Quasi tutti raccontano la vita del carcere. Una vita dura e anche triste, nessun mezzo di comunicazione, tranne il foglio di carta su cui scrivere. All’inizio, come ogni anno, sembra improbabile che persone non abituate a leggere e nemmeno a scrivere possano arrivare a comporre poesie che, sul piano formale e sul piano del contenuto, alla fine del corso trovano una loro rispettabile dignità Non c’è notizia, in questi anni, di un poeta ex detenuto divenuto rilevante. E tuttavia i testi di questo libro - come di quelli degli ultimi anni, stampati alla fine di ogni corso annuale - sono validi, di tutto rispetto. Che la poesia possa "salvare" anche un detenuto dalla noia, dalla tristezza, dalla depressione, e soprattutto possa servire a favorire il suo reinserimento nella società? Nessuno può dare una risposta consapevole, razionale, sicura. Ma potrebbe anche svolgere questa funzione. Intanto già vivere in carcere diventa più sopportabile grazie alla poesia. Ed è già un risultato valido. Poi chissà? A fondare il Laboratorio di poesia nella II casa di reclusione di Bollate è stata, 12 anni fa, Maddalena Capalbi, che per questa sua opera di volontariato è stata insignita, lo scorso anno, dell’Ambrogino d’oro, onorificenza conferita dal comune di Milano. Lecce: "Io ci provo", dai detenuti omaggio Pasolini nella sezione del carcere lecceprima.it, 21 maggio 2016 Per il quinto anno a Borgo San Nicola lo spettacolo al termine del laboratorio teatrale. Per la prima volta non si svolgerà nel teatro della struttura penitenziaria. È un omaggio a Pasolini lo spettacolo allestito quest’anno dai detenuti della casa circondariale "Borgo San Nicola" che partecipano al percorso teatrale promosso dall’associazione di promozione sociale "Io Ci Provo". Gli attori si esibiranno in PPP Passione, Prigione, Pietà e/o Porca Puttana Pasolini, dal 6 all’11 giugno per due volte al giorno. Per la prima volta non sarà il luogo del carcere il teatro della performance ma una sezione dell’istituto penitenziario. A differenza delle quattro edizioni del passato, il lavoro finale prevede un biglietto d’ingresso: "Lo spettacolo di quest’anno vuole mettere alla prova noi stessi, così come tutte le persone che seguono quotidianamente il progetto, mai come adesso c’è bisogno di un vero sostegno ad Io Ci Provo, ragion per cui lo spettacolo finale sarà a pagamento" ha spiegato Paola Leone che, con coraggio e grande generosità, è alla guida di questa avventura sin dall’inizio. Il contributo per assistere allo spettacolo sarà di minimo 10 euro, fino ad un massimo illimitato, proprio perché questo prezzo non rappresenta il costo di un semplice biglietto per assistere alla performance: "Vogliamo capire se Io Ci Provo, una compagnia che vive in carcere, può essere sostenuta dalla comunità, se può essere davvero una produzione di teatro sostenuta dalle persone che si emozionano quando vengono a vederci, abbiamo bisogno di questo. Siamo consapevoli quanto in questa Italia e nel sud ancora di più è diventato per i nostri amministratori sempre più difficile sostenere la cultura, figuriamoci sostenerla in un carcere dove il luogo comune ci invita a pensare che chi vive in un carcere non ne sia degno". Lo spettacolo sarà a numero chiuso e sarà rivolto ad un massimo di 20 persone per performance. Per assistere è necessario confermare la propria presenza con l’invio di una mail - entro il 25 maggio - all’indirizzo iociprovo.comunicazione@gmail.com o in posta privata su Facebook dalla pagina "Io ci Provo". La mail dovrà riportare nome e cognome, data e luogo di nascita, residenza attuale e numero di telefono di chiunque vorrà partecipare. Le mail che non avranno questi requisiti non verranno tenute in considerazione. Nella richiesta dovrà essere segnalata la data e l’orario (come sempre la prenotazione è una promessa di partecipazione, che va rispettata, ricordiamo che chi prenota e non viene toglierà la possibilità a qualcun altro di partecipare) di preferenza dello spettacolo. Gli orari delle repliche sono 16,30 e 18,30, fatta eccezione per sabato 11 con appuntamenti alle ore 18,30 e 20,30. La scheda di PPP. Passione Prigione Pietà e/o Porca Puttana Pasolini. "Un omaggio a Pasolini al suo essere uomo tra gli uomini". È una via crucis non ordinata, non sequenziale ma che vuole indagare sulla pietà, la prigione, la passione, indaga sui sentimenti, sui passaggi dall’adolescenza all’età adulta, indaga e spia tra l’inconsapevole e il consapevole. La pietà, quella che non si è ottenuta, quella che non si è provata. La passione quella che non ti fa vedere altro da sé, quella che rende invincibili. La prigione, quella di cui siamo vittime senza peccare, quella dove il peccato deve essere espiato. Stanze che raccontano storie che custodiscono immagini, che evocano mondi sconosciuti, ragioni sconosciute, sentimenti conosciuti. Drammaturgia e Regia di Paola Leone. Marco Pannella non c’è più, ma la marcia per i nuovi diritti è inarrestabile di Marcello Sorgi La Stampa, 21 maggio 2016 Da commenti e analisi dedicate alla morte di Marco Pannella è venuta una domanda, legata, seppure non esclusivamente, all’emozione sollevata dalla sua scomparsa. E cioè: ci sarà ancora un futuro, e quale, per i diritti civili in Italia, adesso che il paladino di quei diritti se n’è andato? Senza girarci attorno, la risposta non può che essere sì. Intanto perché in quel campo, va riconosciuto, una parte del lavoro è stato fatto. L’Italia non è più, com’era ancora all’alba degli Anni Settanta, un Paese arretrato, uno degli ultimi che continuava a imporre per legge il dogma del matrimonio indissolubile. Per merito di Pannella e dei radicali - ma anche dei laici, dei socialisti e perfino dei comunisti, che abbandonarono la loro iniziale e irrazionale resistenza, e a discapito dei democristiani che si opposero, dapprima con decisione e via via sempre meno -, il divorzio è legale da quarantasei anni, e l’aborto da trentotto. I due referendum promossi per cancellarli nel 1974 e nel 1981 si conclusero con il 59 e il 68 per cento dei voti in difesa di quei diritti (compresi moltissimi cattolici che si espressero in dissenso dalle indicazioni della Chiesa e della Dc). E da due settimane, anche stavolta, in ritardo sul resto d’Europa e del mondo, il Parlamento ha approvato la legge sulle unioni civili, che assegna per la prima volta anche agli omosessuali conviventi diritti uguali a quelli delle altre coppie di fatto e assimilabili ai coniugi uniti in matrimonio. Ciò è avvenuto per merito (o responsabilità, secondo i punti di vista) di Matteo Renzi, presidente del Consiglio appartenente a una generazione di giovani scout che d’estate, quando partecipavano alle Giornate della Gioventù, la sera, dopo aver cantato in coro con Wojtyla, si coricavano all’aperto e facevano l’amore nei sacchi a pelo, confidando nella benevolenza del Papa. E tuttavia, dal testo varato alla fine della tormentata, ma niente affatto superflua, discussione parlamentare, sono state stralciate, com’è noto, le adozioni dei figli dei partners. Si riprenderà a discuterne, forse non si farà in tempo a inserirle in un’altra legge in questa legislatura, ma è inutile nascondersi che prima delle Camere arriveranno, anzi sono già arrivate, le sentenze che hanno riconosciuto il diritto ad essere genitori per uomini e donne gay uniti stabilmente, e in grado, secondo i giudici, di dare amore sincero e buona educazione ai loro figli. Per un numero limitato di casi di questo genere di adozioni già approvate, ci sono decine, forse centinaia, di bambini in attesa dei loro diritti di figli: anche questo è bene saperlo. La legalizzazione dell’uso di droghe leggere, formalmente per uso medico, appare e scompare dai calendari delle commissioni parlamentari; il testamento biologico e l’eutanasia si affacciano all’inizio di ogni legislatura e poi immancabilmente si perdono per strada. Ma questo non vuol dire che il cammino dei diritti si sia fermato o sia condannato a fermarsi, perché la velocità del cambiamento della società civile e tale che anche i politici più ciechi non possono non vederlo. Non si tratta, in altre parole, dei casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, protagonisti delle battaglie più recenti dell’ultimo Pannella per dare ai familiari di malati senza speranza il diritto di por fine alle loro sofferenze. In molti ospedali italiani, anche questo si sa, si cerca di supplire alla mancanza di norme in questo settore adoperando pietosamente, ai limiti della legge, le risorse più avanzate della scienza medica. Ed è la generosità, alle volte sorprendente, di parenti di moribondi, a incoraggiare il salvataggio di altre vite, grazie agli espianti e ai trapianti di organi. Le carceri, non a caso motivo di un’altra predicazione laica e degli azzardati digiuni di Pannella, sono ancora il luogo di indicibili barbarie, che la civiltà giuridica non dovrebbe consentire, in quella che si vanta di essere la patria del diritto. Ma almeno, grazie all’impegno di due ministri come Paola Severino e Andrea Orlando, si e riusciti a limitare il problema del sovraffollamento delle celle, avendo il coraggio di trovare forme alternative alla carcerazione e ponendo limiti alla condizione miserabile e disumana di moltissimi detenuti. Molto resta da fare, infine, in materia di cittadinanza, e tutto o quasi sul terreno irto di ostacoli dell’immigrazione extracomunitaria, gravata da insorgenti egoismi europei e uso esasperato di convenienze elettorali interne. Anche in questo campo gli italiani sono migliori, oggi, di quel che sembra l’Italia. La marcia verso il riconoscimento dei nuovi diritti è per questo inarrestabile. Resta solo da capire perché la politica seguiti ad essere più lenta della società che dovrebbe rappresentare. Era così quaranta e più anni fa, quando il solitario Pannella si alzò a contestare il predominio consociativo di Dc e Pci: per salvare il patto sotterraneo con cui dal governo e dall’opposizione, ma in realtà in piena collaborazione, controllavano il Parlamento, i due grandi partiti di massa avevano messo da parte la questione dei diritti, destinata a dividerli. E avrebbero preferito continuare a ignorarla. Ma ora che la Dc non c’è più e i post-comunisti sono ridotti a minoranza del partito del premier, adesso che Papa Francesco ("Chi sono io per giudicare i gay?") lascia ai vescovi il compito di protestare, giusto un atto dovuto, contro le unioni civili, ma poi consente la comunione per i divorziati e apre alle donne diacono, che ragione c’è di continuare a frenare l’evoluzione della società italiana, divenuta moderna malgrado tutto? Tra Prima e Seconda Repubblica, è duro ammetterlo, non c’è stato alcun passo avanti. Anzi s’è aggravato il meccanismo sterile delle interdizioni reciproche. Nella Terza, che dovrebbe uscire dal referendum di ottobre, chissà come andrà. La vigilia è lunga, il pessimismo dell’intelligenza sovrasta l’ottimismo della volontà. Seminare trappole per avversari mai considerati degni di diventare interlocutori, non sforzandosi di far altro, rischia di rendere la politica e i politici italiani sempre più lontani dalle attese dei cittadini. E purtroppo, non solo in materia di diritti. Tra i medici sulle orme di Basaglia "Insegniamo agli stranieri a chiudere i manicomi" di Maurizio Crosetti La Repubblica, 21 maggio 2016 Il Dipartimento di salute mentale chiamato a portare in Slovenia la rivoluzione dello psichiatra. Primo cancello, secondo, terzo, quarto cancello. Il parco. A sinistra gli uomini, due palazzine, a destra le donne. In fondo, i cronici e gli agitati. Il mondo cominciava a finire dopo i quattro pilastri e il terrazzo d’ingresso, sotto la scritta rossa Ospedale Psichiatrico Provinciale. Ma 38 anni fa, il 13 maggio 1978, le prime figure lente e dondolanti, le prime persone opache e fragili, i matti senza più lacci ai polsi né fili elettrici in testa uscivano per sempre da qui. Il loro liberatore, il professor Franco Basaglia, sarebbe sopravvissuto appena due anni. Ma le sue idee, la battaglia perché un malato fosse soltanto un malato e non la sua malattia, restano vive e fresche come il primo giorno. Talmente vive che la Slovenia, dove ancora esistono sei manicomi, adesso ci chiede aiuto per diventare come noi e aprire le porte della reclusione sociale e del dolore indicibile. "È un progetto da dieci milioni di euro e l’Italia ne sarà il modello. Per una volta, sono gli altri a copiare noi". Franco Perazza è uno psicologo. È alto, lungo, magro. Dirige il Dipartimento di salute mentale goriziano ed è orgoglioso che proprio qui, dove nel 1962 tutto iniziò con Basaglia, molto ancora continui. "Gli sloveni ci hanno chiesto di aiutarli a creare sul territorio un’assistenza sociale simile alla nostra, e di formare il personale. In Friuli-Venezia Giulia la legge 180 ha trovato piena realizzazione, abbiamo quattro centri di salute mentale per 4 mila persone in cura da Gorizia a Latisana. Non si ospedalizzano neppure i trattamenti sanitari obbligatori, ma si viene seguiti in emergenza e poi a domicilio. Non tutti sanno che l’Italia è stata la prima nazione a chiudere i manicomi". Dov’era la cappella mortuaria, oggi c’è un laboratorio musicale gestito da una cooperativa che dà lavoro agli ex malati. E nelle stanze degli agitati hanno sistemato gli uffici. Nel parco Basaglia, un monumento di pietra ricorda un abbraccio o forse un ventre di donna. "Abbiamo anche piantato dieci ulivi insieme ai ragazzi delle scuole, qui gli alberi ormai cadevano e basta". Gianni Cavallini è il direttore sanitario dell’Aas 2. Non porta il camice bianco. "Andiamo, che vi offro un caffè con brioche in Slovenia, sono quattro passi". Le due Gorizie, quella "di qua" e quella "di là". Il muro del vecchio manicomio correva lungo il confine, "qui i ricoverati scappavano in Jugo e poi li riportavano indietro". Scavalcavano la rete e fuggivano sotto i tigli dove finisce Gorizia e comincia Sempeter. La pietra bianca che segna la frontiera porta inciso da un lato "R. d’Italia 1947" e dall’altro "R. Slovenija". Appena più avanti c’è il Sent, il centro riabilitativo psichiatrico con i lavoretti dei pazienti appesi ai vetri e un calciobalilla contro il muro. Di fronte, il baretto è pieno di slavi che alle nove e mezza di mattina già ci danno dentro con bianco e pivo, la birra che qui costa niente. Ma l’atmosfera antica svanisce dopo un paio di curve, e Nova Gorica si trasforma in una piccola Las Vegas punteggiata dai casinò illuminati a giorno, tra i palazzoni del socialismo reale: banche e outlet ne hanno cancellato il senso, non le architetture. Qui ci sono i soldi e si vede. La dottoressa Petra Kokovarev ci aspetta nel suo ufficio alla Zdravsteni Dom, cioè la Casa della Salute che dirige da pochi mesi. Ha solo 40 anni. Quando Basaglia liberava i matti, lei andava all’asilo. "Il modello italiano è molto importante, molto interessante per noi. In questo momento una trentina di malati di Nova Gorica sono ricoverati al manicomio di Idria, nella Slovenia occidentale. Ancora non siamo pronti, purtroppo, ad utilizzare una rete di servizi sul territorio ma ci arriveremo. Serve unità. Dobbiamo dirlo, mentre l’Europa alza nuovamente assurdi muri contro l’integrazione. Un giorno, un malato sloveno potrà curarsi in Italia e viceversa". Qui si era tentato di far nascere i bimbi italiani dopo la chiusura del reparto maternità di Gorizia. L’esperimento non ha funzionato perché le partorienti, in media appena una al giorno, hanno preferito Monfalcone, Palmanova e Trieste. "Ma con la malattia mentale sarà diverso", assicura Petra. Quando la dottoressa Kokovarev aveva due anni, Norberto Bobbio definì la chiusura dei manicomi "l’unica vera legge di riforma del nostro Paese". Nel 1978, Basaglia l’avevano fatto scappare da Gorizia, già lavorava a Trieste. "È stata tutta una rimozione, e il senso di colpa ancora non è svanito". Il dottor Perazza ci accompagna in quello che fu lo studio del padre dell’antipsichiatria: in apparenza rimane, di quel tempo battagliero e prezioso, una semplice libreria in legno, però i muri sono pieni di manifesti colorati e dalle finestre entra il canto mattutino degli uccelli. Impossibile percorrere stanze e viali senza pensare allo strazio che contennero, alle mostruosità da campo di concentramento. "Ma la sottrazione di ogni diritto è diventata possibilità di una vita diversa, è diventata dignità, non dimentichiamolo mai". Curare e non più segregare. Non soltanto sedare. Tra qualche mese comincerà la gestione comune tra Italia e Slovenia per un bacino di quasi 80 mila abitanti, una piccola rivoluzione che non finisce mai. "Vedrete che tra un paio di generazioni Gorizia, Nova Gorica e Sempeter saranno per tutti una città sola". Ne è sicuro il direttore Cavallini mentre ci accompagna ai giardini di corso Verdi, dove alla Casa della Cultura hanno allestito la mostra "Le memoria restituita". Alle finestre, uno striscione cubitale: "La libertà è terapeutica". A metà mattina passa pure il sindaco Ettore Romoli, giunta di centrodestra. Un poco scherza, "ehi, siamo forse tornati al ‘68?" e un poco no. Il recupero del vecchio archivio del manicomio è una miniera di storie, spunti, documenti. Entrando, si sbatte contro un manichino con addosso la camicia di forza. Ci sono le lettere dei malati, un libro della biblioteca dell’ospedale che avrà forse alleviato qualche pena. Sulla parete scorre il documentario di Sergio Zavoli, "I giardini di Abele", anno 1968, modernissimo esempio di giornalismo. Parla Basaglia, camminando nervosamente avanti e indietro ("la definirei una denuncia civile prima che una proposta psichiatrica"), si vedono scarpe e vestiti ammucchiati come ad Auschwitz, poi un malato che suona lo xilofono, chiavistelli, infermieri che si difendono ("Non è vero che li picchiamo, dobbiamo solo proteggere gli altri ricoverati!"), ombre dolenti che barcollano nei viali e si tengono la testa tra le mani, muti. Si vedono i cancelli che cadono e, forse, l’inizio di una vita diversa. Quella di prima è qui nella stanza, appoggiata su una mensola: si chiama Convulsor. È una cuffia per l’elettroshock con morsetti e fili elettrici, grossi e attorcigliati come serpenti. Sui libro dei visitatori, una mano ha scritto mai più. La società francese Gepsa, colosso delle carceri, per la gestione del Cara di Gradisca di Luigi Murciano Il Piccolo, 21 maggio 2016 Le sono affidati tutti i penitenziari del suo Paese e il Cie di Milano. Da tutta Italia e pure da oltreconfine per la gestione del Cara/Cda di Gradisca d’Isonzo. Sono state tutte ammesse alla seconda fase della gara d’appalto - quella relativa all’analisi delle offerte tecniche ed economiche - le cinque aziende che avevano manifestato interesse a gestire il centro immigrati per richiedenti asilo e prima accoglienza dell’Isontino. E finalmente si conoscono i loro nomi: la principale curiosità è che ci riprova il consorzio temporaneo d’impresa fra il colosso francese Gepsa (oltralpe gestisce i penitenziari, in Italia il Cie di via Corelli a Milano) e l’azienda Acquarinto di Agrigento: nel 2011 vinsero la gara d’appalto, salvo vedersi revocare l’affidamento dopo una battaglia di carte bollate con la coop siciliana Connecting People. Ma c’è interesse per la gestione del Cara anche dalla Basilicata (con il consorzio temporaneo d’impresa guidato da una coop di Potenza), dalla Campania (il consorzio Matrix di Gragnano, Napoli), e dal Veneto, con la veneziana Nova Marghera che a Treviso già gestisce un centro di accoglienza. E ai nastri di partenza c’è anche il gestore attuale, l’azienda goriziana Minerva di Savogna d’Isonzo. La gara indetta dalla Prefettura di Gorizia, che nelle prossime settimane entrerà nel merito delle offerte economiche e tecniche presentate, prevede una durata della gestione di appena un anno. Appetibile comunque la "torta": oltre 2 milioni e mezzo di euro. Il bando è redatto sulla base di una ricettività teorica all’ex caserma Polonio di 202 ospiti e un costo al giorno per ospite - o come si dice, pro die e pro capite - di 35 euro. La durata della gestione non è più pluriennale, come in passato, quasi a lasciare una "scappatoia" alla Prefettura, in caso di gravi problemi gestionali come quelli che ai tempi della conduzione della coop trapanese "Connecting People" avevano portato all’apertura di ben due inchieste per falso ideologico, truffa ai danni dello Stato e false fatturazioni. La capienza, va specificato, si riferisce al solo Cara: i 138 posti di quest’ultimo vengono portati a 202 ma nel bando non c’è traccia dei 200 posti attualmente garantiti anche dall’ex Cie - già centro di detenzione ed espulsione - visto che proprio grazie al riutilizzo di quegli spazi a Gradisca oggi sono accolti ancora ben 350 richiedenti asilo. Tenuto fuori dalla gara, l’ex centro di detenzione amministrativa rimarrà "solo" una struttura d’emergenza in caso di necessità, come peraltro è ormai da oltre un anno? "I posti disponibili per l’accoglienza al Cara di Gradisca sono stabiliti a livello governativo, non dalla Prefettura - spiega il viceprefetto vicario Antonino Gulletta - nel numero di 138 e sono stati incrementati del 10% in conformità a quanto disposto dal capitolato ministeriale per un totale di 152 posti. L’Autorità greca sui rifugiati fa tremare l’accordo Ue: "Turchia paese non sicuro" di Teodoro Andreadis Synghellakis Il Manifesto, 21 maggio 2016 Accolto il ricorso di un profugo siriano trasferito in Turchia. La decisione potrebbe rimettere in discussione l’accordo con Ankara e aprire nuove vertenze. Si tratta di una decisione dal forte significato simbolico e pratico: la commissione d’appello responsabile per l’esame dei ricorsi di migranti e profughi, ha accolto la richiesta di un profugo siriano, giunto a Lesbo dopo il 19 marzo scorso, che si era opposto al suo ritorno obbligatorio in Turchia. Il ricorso è stato presentato da un cittadino siriano al quale inizialmente era stato negato il diritto di asilo e che è stato, nel frattempo, costretto a fare ritorno in terra turca. La cosa più interessante da sottolineare è che la commissione d’appello dice chiaramente che la Turchia non si possa considerare un "paese terzo sicuro", e che quindi la richiesta in questione dovrà essere esaminata nuovamente, con molti più dati e dettagli. Una procedura che richiederà certamente del tempo, ma la questione potrà avere ricadute ben più vaste. Considerare la Turchia un paese "non sicuro", potrebbe portare a rimettere in discussione - almeno in linea di principio - l’accordo dell’Unione europea con Ankara, nella sua totalità, tenendo conto che i diritti e le condizioni di vita dei profughi devono rappresentare una priorità assoluta. A Lesbo, nel frattempo, il servizio preposto alla concessione dell’asilo ha esaminato cento settantaquattro domande di profughi e migranti siriani, cento delle quali sono state accolte. Si tratta di cittadini vittime di persecuzioni politiche e che fuggono dalla guerra, che si potranno stabilire, ora, nella Grecia continentale. Come sottolinea la stampa greca, i restanti settantaquattro a cui l’asilo non è stato concesso, nel loro appello faranno ora chiaro riferimento alla decisione in questione, e alla Turchia come paese non sicuro, quanto a diritti umani, religiosi e delle minoranze. Ed è da considerare abbastanza probabile che la stessa logica, riguardo allo "status" della Turchia, venga applicata nuovamente, a più riprese, dalla commissione di appello competente. Secondo gli ultimi dati ufficiali, in Grecia ci sono 54.230 profughi, e per ora, nella stragrande maggioranza, le espulsioni riguardano cittadini che sono arrivati in Grecia dopo l’inizio dell’applicazione dell’accordo Turchia-Ue e che non hanno presentato domanda di asilo. Nel campo di Idomeni, tuttavia, ci sono ancora più di novemila persone. Il responsabile del governo greco per la gestione di questo delicato dossier, Jorgos Kyritsis, ha fatto sapere che entro due settimane dovrebbero poter essere tutti trasferiti in altre località, sempre nel Nord della Grecia, con nuove strutture ricettive. Quanto alle condizioni di vita dei profughi, la Commissione Europea ha deciso ieri di concedere alla Grecia un sostegno di cinquantasei milioni di euro (ben poca cosa rispetto ai sei miliardi della Turchia) per velocizzare le pratiche di identificazione, ricezione delle domande di asilo e per migliorare le strutture ricettive. Complessivamente, dall’inizio del 2015, Atene ha ricevuto duecento trentasette milioni di euro come aiuti urgenti per l’emergenza migranti e per l’assistenza ai profughi. In questo contesto, ieri mattina si è conclusa anche la procedura di "rimpatrio volontario" di ventidue migranti e profughi dalle isole dell’Egeo settentrionale in Turchia. Il dato numerico mostra chiaramente come la volontà della stragrande maggioranza delle persone che si sono lasciate alle spalle guerre e persecuzioni è di poter rimanere in Europa, nella speranza di potersi costruire un futuro libero e dignitoso. Lunedì, infine, Alexis Tsipras incontra a Istanbul il presidente turco Erdogan, ed è ovvio che al centro del colloquio ci sarà la questione dei profughi e l’attuazione dell’accordo tra l’Unione europea e Ankara. Atene è in qualche modo obbligata a tenere aperta la via del dialogo, dal momento che è ben chiaro come la Turchia stia usando la carta dei profughi per ottenere sempre maggiori concessioni dall’Europa, e che il primo paese a pagare le conseguenze di nuovi flussi, incentivati dai turchi, sarebbe, ovviamente, la Grecia. Dall’altra parte, tuttavia, secondo fonti governative greche, c’è anche una palpabile preoccupazione per le future mosse del "neo-sultano" di Ankara, specie dopo l’allontanamento dell’ex primo ministro Davutoglu - in carica solo per gli affari correnti - il quale sembrava provare a controbilanciare le sempre più forti pulsioni antieuropeiste del suo paese. La Francia sempre più nel mirino del terrore di Massimo Nava Correrie della Sera, 21 maggio 2016 Allo scenario "interno" si sovrappone lo scenario "esterno": Parigi puntella regimi amici, fornisce armamenti, persegue politiche non sempre condivise con i partner europei. Al di là della minaccia globale contro l’Occidente, l’Europa e l’Islam moderato, molti episodi di terrorismo coinvolgono direttamente o indirettamente la Francia. "È il Paese più minacciato". Parole di Patrick Calvar, il capo dei servizi di sicurezza, pronunciate prima della conferma che la tragedia dell’Airbus Parigi-Il Cairo sia terrorismo. Come si arriva a questa considerazione, senza dimenticare i tanti episodi che hanno colpito altri Paesi? Gli attentati a Charlie Hebdo e del 13 novembre hanno scoperchiato una realtà minimizzata sul piano culturale e non affrontata con incisività dai servizi di sicurezza. Si tratta di fenomeni di proselitismo religioso, arruolamento nel Califfato, propaganda nelle carceri, infiltrazione nei servizi pubblici, marginalità di quartieri periferici in cui non valgono le leggi della Repubblica, ma si impongono usi e costumi dell’Islam radicale. Basti ricordare - a proposito delle maglie di sicurezza negli aeroporti - che nei mesi scorsi furono ritirati decine di "badge" d’ingresso alle aeree riservate, rilasciati a dipendenti considerati collusi con ambienti dell’estremismo religioso. Vengono al pettine nodi irrisolti dell’immigrazione alla "francese", tentativi fallimentari di integrazione che si sono risolti nell’esatto contrario : antagonismo culturale, ideologico e religioso alla società francese elitaria e laica. A questo scenario - che trova conferma nella biografia di molti terroristi - si salda - per contiguità territoriale, culturale e linguistica - la retrovia belga, come dimostrano l’organizzazione degli attentati di Parigi, il pendolarismo indisturbato degli attentatori e il recente attacco all’aeroporto di Bruxelles. Una retrovia del terrorismo oltretutto agevolata dalle gravi insufficienze e disfunzioni delle strutture amministrative e di polizia dello Stato belga. L’immediato futuro é da codice rosso. Non soltanto per l’inizio a metà giugno degli europei di calcio che attireranno milioni di tifosi e provocheranno affollamento di luoghi pubblici. Ma anche per il momento politico particolarmente caldo del Paese, in conseguenza dello scontro sulla legge di riforma del mercato del lavoro. La tensione è altissima e gli episodi di violenza e attacco alle forze dell’ordine si ripetono. È un clima di antagonismo sociale di varia estrazione che potrebbe innescare tensioni intercomunitarie, etniche, xenofobe. In altri termini, per quanto non collegabili, atti di terrorismo e violenza di piazza rafforzano un clima d’insicurezza e paura e mettono a dura prova gli apparati di polizia. Allo scenario "interno" si sovrappone lo scenario "esterno", cioè la sovraesposizione della Francia sul piano diplomatico e militare su più fronti, dal Medio Oriente alla regione subsahariana. La Francia puntella regimi amici, fornisce armamenti, persegue politiche non sempre condivise con i partner europei. E non sempre la generosità interessata è ricompensata dalla stessa moneta.