Trattava i carcerati alla pari e li ascoltava uno per uno di Ornella Favero* La Repubblica, 20 maggio 2016 Pensando a Marco Pannella: cosa vuol dire saper ascoltare la sofferenza degli altri. "Ultimo giorno dell’anno del 2009, carcere di Padova, l’idea di Marco Pannella di essere qui con le persone detenute è un modo straordinario per riportare al centro dell’attenzione non il ‘problema carcerè, ma gli esseri umani che ci vivono accatastati dentro. Pannella ottiene di far aprire tutti i blindati e comincia, con Rita Bernardini, un paziente "porta a porta" di quelli veri, una notte di autentico ascolto di sofferenze piccole e grandi, solitudine, angoscia. Non sono ancora le undici dell’ultima notte dell’anno e quasi tutti stanno dormendo, nessuno qui dentro ha voglia di fare festa". Iniziavo così il racconto di una notte particolare, vissuta con Marco Pannella a "festeggiare" il Capodanno in quel carcere, nel quale entro ogni giorno come volontaria. Di quella notte ricordo che mi ha colpito una cosa rara e preziosa: la capacità di far sentire le persone ancora vive e degne di ascolto, e poi ancora la combattività, la conoscenza approfondita dei problemi del carcere, l’attenzione vera a tutti, anche a ogni agente che stava lì a testimoniare quanto sia duro lavorare in condizioni di degrado e rischio. E poi mi ha colpito l’accoglienza che le persone detenute riservavano a Pannella: niente a che fare con la curiosità con cui si guarda a un ospite inatteso, no Marco Pannella era vissuto da ogni detenuto come un suo personale amico, uno che si conosce da sempre e con cui si è fieri di avere un rapporto di vicinanza e di affetto. Oggi sogno che si possa presto dedicare a Marco Pannella una vera riforma delle pene e delle carceri, un’idea di pena che rinunci a rispondere al male fatto con altrettanto male, e che metta al centro il dialogo, il confronto, l’ascolto. Quell’ascolto paziente in cui ognuno si sente davvero al centro dell’attenzione della persona che ha davanti, come è successo quella notte di Capodanno a tante persone detenute che si sono improvvisamente ritrovate davanti Marco Pannella che gli chiedeva di parlare di sé, di raccontarsi, di dare voce alla propria sofferenza. Oggi nel carcere Due Palazzi di Padova entreranno circa 600 persone esterne per la Giornata di Studi dedicata quest’anno alla "Società del NON ascolto". La redazione di Ristretti Orizzonti - che da anni superando innumerevoli difficoltà pratiche organizza questo seminario aperto al pubblico all’interno del carcere - dedica i lavori a Marco Pannella, un uomo da cui le persone detenute si sono sempre sentite ascoltate. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Marco Pannella, santo protettore dei detenuti di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2016 Qualche anno fa mentre uscivo dal carcere di Viterbo fui colpita da urla che arrivavano da dentro le celle. I detenuti urlavano a squarciagola: "Amnistia, amnistia, Marco, Marco". Pochi giorni fa a Rebibbia, in occasione della giornata conclusiva degli Stati generali dell’esecuzione penale, quando il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ricordato Marco Pannella è partito spontaneo uno scroscio lunghissimo di applausi. A nessun altro era stato riservato analogo trattamento. Marco Pannella era considerato dai detenuti, dalle loro famiglie una sorta di santo protettore. La giustizia per cui si è battuto Pannella per tutta la sua vita è una giustizia non inquisitoria, non vendicativa, mite, dolce. Sapeva dialogare con i poliziotti. Non cercava di alimentare conflitti anche quando trascorreva intere nottate in carcere. Ha dedicato la sua vita alle libertà civili e dunque anche ai detenuti imprigionati nelle galere d’Italia. Non aveva timore di essere impopolare. Sapeva che la popolarità era ed è l’esito del circolo vizioso di potere che lega i media alla politica. È stato un combattente dei diritti umani, in nome dei quali ha mostrato coerenza e rigore morale. Quel rigore morale che oggi gli riconosce finanche Papa Francesco. Le loro parole sulla giustizia umana si assomigliano incredibilmente. Proprio in questi giorni ho rivisto un vecchio manifesto del Partito radicale in occasione del referendum da loro voluto per l’abrogazione della legge reale. Per i più giovani va ricordato che la legge reale era la legge pensata per fronteggiare con le armi della repressione i giovani che frequentavano animatamente movimenti anni 70: arresti più facili, più libertà nell’uso delle armi, meno garanzie difensive etc. etc. Pannella era sin da allora una delle poche avanguardie politiche di libertà contro l’idea malsana e pericolosa che il diritto penale dovesse rincorrere le emergenze temporanee. Oggi che Obama ha messo in soffitta la war on drugs, l’anti-proibizionista Pannella si mostra plasticamente nella sua qualità di statista. Ebbene sì Marco Pannella con le sue intuizioni e le sue lotte per le libertà ha anticipato i tempi. Immagino che nelle carceri italiane oggi si soffre, si piange, si sta peggio di ieri, si ha più paura per il futuro, ci si sente più soli. Gli avvocati e Pannella di Andrea Mascherin* Il Dubbio, 20 maggio 2016 In questi giorni saranno innumerevoli gli elogi postumi a Marco Pannella, probabilmente nessuno vorrà mancare all’appello, per convinzione o per convenzione. Molti troveranno il modo di rimpiangere, e forse usare, Marco Pannella, ma probabilmente non molti sarebbero da lui rimpianti. Epperò forse gli avvocati un posto tra i suoi ricordi l’avrebbero. In fondo Marco Pannella si è sempre impegnato in battaglie per i diritti, per le libertà, per un carcere umano, per una pena che non calpestasse la dignità del detenuto, per un processo giusto, contro la tortura, contro l’ergastolo e molto altro ancora, nulla di strano o di men che degno per gli avvocati, che spesso si sono trovati al suo fianco, comunque la pensassero politicamente. Pannella era anche un politico che sapeva usare la retorica come strumento per fini giusti, laicamente condivisibili, ora la retorica è diventata demagogia, e non è più il mezzo, ma troppo spesso il fine di chi fa politica, Pannella sapeva essere estremo ed esagerato per raggiungere il giusto punto di visibilità e di consenso intorno ad una idea nobile, ora gli estremismi servono solo ad acquisire il consenso facile. Pannella aveva, come radicale, una concezione molto lontana, da quella di noi avvocati, dei modelli organizzativi della professione, un modello il suo che si rifaceva a forme imprenditoriali e commerciali, ed in questo eravamo distanti. Dunque alle volte molto vicini, alle volte molto lontani, Pannella e avvocati una strana coppia, ma una coppia vera, destinata a durare, come sono destinate a durare le battaglie di libertà. *Presidente del Consiglio Nazionale Forense Desi Bruno: "grazie a lui più dignità per i detenuti" assemblea.emr.it, 20 maggio 2016 Una "fase nuova nella tutela dei diritti dei detenuti e nella promozione di una cultura della giustizia, che fosse sempre più attenta alla dignità delle persone, al coinvolgimento del territorio, alle alternative alla detenzione": così Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, ha descritto la direzione sempre indicata per il sistema penale italiano da Massimo Pavarini, professore ordinario di diritto penale all’Università di Bologna scomparso il 29 settembre 2015. La figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa è intervenuta, nell’ambito della sessione sul rapporto con le istituzioni e la società nel suo insieme, durante il convegno internazionale dedicato all’eclettica figura del noto studioso che si è tenuto all’Università di Bologna il 13 e il 14 maggio, promosso dall’Associazione Franco Bricola, con il patrocinio e il contributo della Scuola di Giurisprudenza e del Dipartimento di Scienze giuridiche, così come di numerosi altri enti di ricerca, di cultura e di impresa. Nel suo discorso, la Garante regionale ha ricordato come Pavarini avesse da sempre sostenuto l’affermazione nel nostro Paese, a livello locale e nazionale, di figure di garanzia, autonome e autorevoli. In questa direzione, la Garante regionale ha menzionato che il professore non aveva mai fatto mancare il suo sostegno alle attività di ricerca e di sensibilizzazione, grazie anche all’apposita convenzione stipulata tra il 2012 e il 2015 tra la Regione Emilia-Romagna e l’Università di Bologna, che aveva consentito la realizzazione della ricerca "Presa in carico dei soggetti devianti: lo stato attuale nel territorio regionale dell’Emilia-Romagna", con il seguito "Quale spazio di agibilità per le pratiche trattamentali extra-murarie?", e l’organizzazione del convegno "Povero o pericolosi? - La crisi delle misure di sicurezza personali detentive per autori di reato imputabili e pericolosi", svoltosi all’interno della casa di lavoro di Castelfranco Emilia, al quale era personalmente intervenuto e i cui atti sono stati presentati appena pochi mesi prima della scomparsa dello studioso bolognese. Alla stessa sessione in cui è intervenuta la Garante ha partecipato come relatore il Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, il professore Mauro Palma. Con il significativo titolo "Il sistema penale messo in discussione - L’opera di Massimo Pavarini tra teoria, ricerca empirica e impegno sociale", l’iniziativa è stata incentrata sulla rivisitazione dell’attività intellettuale e dell’impegno civile di un indimenticato protagonista a livello nazionale e internazionale dell’approccio critico alla penalità, all’universo penitenziario, alla sicurezza. Le sessioni dei lavori convegnistici hanno indagato Pavarini come intellettuale, quale teorico della pena e critico della questione criminale, nel rapporto con le istituzioni e con la scienza giuridica. All’interno di ciascuna sessione erano previsti dei ricordi di amici e colleghi da tutto il mondo, un’introduzione da parte di un collega bolognese, e delle relazioni di illustri interlocutori italiani e stranieri, che hanno ripreso e approfondito i problemi di fondo della giustizia penale, a lungo dibattuti nel corso della sua lunga carriera in accademia e nel sociale, ma ancora non superati né dentro il sistema penale né tra la pubblica opinione. Bruno Mellano: lutto nelle carceri piemontesi Askanews, 20 maggio 2016 "Sono certo di poter essere in questo tristissimo momento interprete del comune e forte cordoglio da parte dell’intera comunità penitenziaria piemontese per la scomparsa di Marco Pannella". Lo dichiara il radicale Bruno Mellano, Garante dei detenuti della Regione Piemonte. "Sono certo che il lutto per la sua morte in questa giornata sia unico - prosegue Mellano - e tenga abbracciati detenuti e agenti, direttori ed educatori, amministrativi e assistenti sociali, volontari e responsabili apicali dell’Amministrazione penitenziaria, sanitaria o formativa. In questi due anni da Garante dei Detenuti della Regione Piemonte non è mancata mai, in ogni visita alle 13 carceri piemontesi, qualche interlocutore recluso in forza di sentenza o di scelta lavorativa che mi abbia chiesto notizie di Marco o che a lui volesse mandare un saluto, un abbraccio". Una vita da Gandhi di Piero Sansonetti Il Dubbio, 20 maggio 2016 Ha detto "grazie". Poi ha sorriso e ha chiuso gli occhi. È morto dieci ore dopo. Ha detto grazie, mercoledì sera, ai medici che gli chiedevano se voleva essere sedato. Il dolore era forte. Ormai il cancro aveva vinto. Mica sono tanti quelli che sono riusciti a vincere con Pannella. Di solito vinceva lui. Ne sapeva qualcosa Amintore Fanfani, ne sapeva qualcosa Berlinguer, e anche Andreotti. Pannella è stato un gigante della politica italiana. Forse senza pari. Per passione, per coerenza, ma soprattutto per genialità. Più di De Gasperi, più di Togliatti. Qual era la sua forza? Quella di non accettare mai di essere subalterno. Pannella non giocava di sponda, lasciava che fossi tu ad adattarti. E tu ti adattavi. Ha guidato un partito che raramente ha superato il 3 per cento dei voti. Con quel partito lì, o anche senza, ha imposto ai grandi partiti i suoi tempi, le sue priorità, le sue riforme. Nel 1970 era un quarantenne e il suo partito non era neppure presente in Parlamento. Però fu lui a preparare una legge che introduceva in Italia il divorzio. Una rivoluzione. Lo fece grazie all’aiuto di un parlamentare socialista, che si chiamava Loris Fortuna e di un liberale che si chiamava Antonio Baslini. Sfidò la Dc, che era pronta alle barricate per evitare il divorzio. E sfidò il Pci, al quale quella legge piaceva poco, e meno ancora piaceva di dover andare allo scontro con la Dc e col Vaticano per un "capriccio borghese". Sfidò il cardinal Villot, potentissimo segretario di Stato, abituato a dettare i suoi voleri. Pci e Dc, insieme, avevano tra Camera e Senato poco meno di 700 parlamentari. Marco non ne aveva nessuno. Vinse lui. E poi vinse il referendum che confermò il divorzio, travolgendo il povero Fanfani, che era un padre della patria, e costringendo due mostri sacri come Berlinguer e Bufalini a passare dalla sua parte. Ci sono quattro parole che riassumono la politica di quest’uomo: coerenza, nonviolenza, diritto e diritti. Lì c’è tutto. Ci sono le sue battaglie sempre anticonformiste, e sempre all’avanguardia. C’è il motivo per il quale, magari a turno, un po’ tutti l’abbiamo odiato. E c’è la ragione dei suoi successi, il motivo per il quale alla fine si faceva amare, ti convinceva, ti acchiappava il cuore. È stato un pilastro della Repubblica. Si, sì, proprio un pilastro. La Repubblica italiana nata dalla Resistenza era solida, aveva i partiti di massa, i sindacati, aveva la moralità cattolica, l’uguaglianza comunista, la solidarietà, l’antifascismo, lo spirito di sacrificio della classe operaia. Però portava in se un germe: il germe dell’illiberalità. O se volete - chiamiamolo più dolcemente - della ragion di stato, dell’assoluta sacralità della ragion di stato (o di classe, o di partito, o di religione, o di chiesa: guardate bene che alla fine è la stessa cosa) ed era un germe che era sempre vivo. In agguato. Per combattere quel germe non bastava la pulsione libertaria che fioriva - seppure con qualche cautela - tra i socialisti, o i repubblicani, o i liberali - occorreva la sferza dell’anticonformismo, del sapere andare controcorrente e sfidare il senso comune, talvolta persino l’evidenza. L’antifascismo ti serve a poco se diventa un rito, retorica, celebrazione, strumento per emarginare e confinare e definire i limiti della democrazia. Così è l’antifascismo italiano. Non è molto liberale, è retorico. Pannella lo sfidava, se ne faceva beffe. Perciò rischiava anche il linciaggio. E rischiava il linciaggio quando liberava Tony Negri dal carcere. Perché? Perché Tony Negri era l’estremismo di sinistra, forse la lotta armata, perciò era il male. E rischiava il linciaggio quando liberava Enzo Tortora. Perché? Perché Enzo Tortora era la mollezza borghese, l’ipocrisia, la lussuria, la prova della decadenza. E andava punito. E rischiava il linciaggio quando proponeva di trattare con le Brigate Rosse, per esempio, che tenevano prigioniero un magistrato e minacciavano di ucciderlo, e chiedevano che i giornali pubblicassero i loro proclami. Pannella gridò: "Trattate, per dio! Trattate e salvate la vita a D’Urso". Gli risposero i democristiani, e i comunisti e i liberali, e Scalfari: "Mai, prima lo Stato". Però anche quella volta vinse lui. Figuratevi che Pannella fece scandalo, e anche a sinistra, persino quando propose una grande campagna contro la fame nel mondo. Disse: è un ecatombe, è un olocausto. Gli risposero che era meglio parlare della lotta di classe nel nostro paese. Un po’ come fa adesso la Lega, per esempio, quando qualcuno propone di salvare i migranti che affogano nel Mediterraneo. Qual era il suo segreto? Uno solo: semplice semplice. Marco, a differenza di tutti gli altri leader politici, piccoli o grandi, se ne è sempre infischiato del potere. Lui pensava che si potesse fare politica, grande politica, senza avere il potere e senza aspirare al potere. Marco Pannella è stato un gigante non per la sua fragorosa e devastante opera di testimonianza. Come Capitini, o Dolci o don Milani. Persone fantastiche. Pannella ha fatto molto di più. Altro che testimonianza: ha costretto tutto il mondo politico, e il potere, a fare i conti con lui. Non ha assistito alla vita e allo sviluppo della Repubblica: li ha condizionati. Pannella è stato uno statista. Volete paragonarlo a qualcuno? A Gandhi, a Luther King. Addio a Pannella, eroe dei diritti civili e delle libertà di Gianluca Luzi La Repubblica, 20 maggio 2016 La sintesi del suo pensiero politico: "Non credo nelle ideologie. L’ideologia te la fai tu con quello che ti capita, a caso". Ma a lui gli italiani devono le più importanti conquiste civili del dopoguerra: dal divorzio al diritto di abortire fuori dalla clandestinità. Se ne è andato dopo una lunga malattia. Appena un giorno dopo il suo ricovero in una clinica. E con lui, con Marco Pannella, scompare un pezzo di storia della politica italiana. Nel gennaio del 1975 Pannella affidò alla rivista Playboy Italia il succo del suo pensiero politico: "Io non credo nelle ideologie. L’ideologia te la fai tu con quello che ti capita, anche a caso". L’intervista fece scandalo, come tutto ciò che faceva Pannella. In quegli anni in Italia, a parte quella del Vaticano, esistevano due Chiese politiche: quella democristiana e quella comunista. Entrambe fortemente ideologizzate, soprattutto la seconda. Dichiarare la totale assenza di ideologie era né più né meno che una bestemmia politica. Alla fine della sua vita Pannella ha ricevuto a casa sua la visita del premier Matteo Renzi, la telefonata del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perfino il messaggio del Dalai Lama. Ma per tutta la vita Pannella è stato un eretico, un libertino, un guastatore della politica italiana. Uno dei politici più longevi, deputato dal 1976 al 1992, fondatore del Partito radicale, Pannella è l’uomo a cui gli italiani devono due delle più importanti conquiste civili del dopoguerra: il divorzio e il diritto delle donne ad abortire fuori dalla clandestinità. I sit in, i digiuni della fame e della sete, la non violenza, le scelte come quella di candidare Toni Negri e altri esponenti degli anni di piombo, le migliaia di ore passate a litigare davanti al microfono di Radio Radicale o imbavagliato in uno studio Rai per protestare contro la censura, i due pacchetti di Gitanes al giorno, la bisessualità dichiarata, fanno di Pannella un politico unico e un uomo irripetibile. Per capire la dimensione della sua personalità nella scena italiana conviene cominciare dal principio, da quando all’università conquistò la guida della gioventù studentesca, da cui qualche anno dopo scalzò Bettino Craxi. Pannella era nato nel 1930 a Teramo, laureato nel 1955 in Giurisprudenza con un voto non brillantissimo all’Università di Urbino, l’anno dopo è tra i fondatori del Partito radicale con il gruppo del Mondo: Rossi, Valiani, Scalfari, Pannunzio. Subito prima delle elezioni politiche del ‘58 propone l’alleanza con i repubblicani che riesce a guadagnare sei seggi in Parlamento. Un anno dopo, dalle colonne del quotidiano di sinistra Paese sera, propose per la prima volta l’unità delle sinistre per combattere "il regime democristiano". Proposta che per quell’epoca aveva un sapore quasi provocatorio a sinistra, tanto più perché si accompagnava all’invito ai comunisti di rivolgersi ai laburisti inglesi e ai socialdemocratici tedeschi piuttosto che ai gruppetti dell’estrema sinistra europea. Pannella a quel punto è già un protagonista della scena politica, ma emigra in Belgio dove lavora in una fabbrica di scarpe. Poi va a Parigi dove viene assunto come corrispondente dal quotidiano Il Giorno. Arriva il 1968 e Pannella si fa imprigionare a Sofia per aver protestato contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Due anni prima il leader radicale aveva cominciato la battaglia che lo avrebbe reso famoso e avrebbe cambiato la faccia del paese. La "battaglia per il divorzio". La Lid, lega Italiana per il divorzio, era lo strumento con cui Pannella incalzava un riluttante Partito comunista a battersi per il divorzio. Finalmente nel 1970 la legge "Fortuna-Baslini" dal nome dei due promotori, fu approvata con i voti di comunisti, socialisti e liberali. Quattro anni dopo il leader radicale contribuisce in maniera determinante alla vittoria del No al referendum contro il divorzio promosso dalle forze cattoliche. Il clima attorno alla battaglia per il divorzio era infuocato. Fanfani tuonava contro la "dissoluzione della famiglia italiana". Per la Dc fu una sconfitta tremenda. Per Pannella la definitiva consacrazione. Jean Paul Sartre e Eugene Jonesco si dichiaravano affascinati dal leader radicale. Pier Paolo Pasolini scrisse una lettera piena di ammirazione e di incoraggiamento al Congresso radicale del ‘75. L’anno dopo Pannella entrò in Parlamento anche sull’onda di un’altra grande battaglia radicale: quella per la depenalizzazione delle droghe. Nella ingessata classe politica dell’epoca Pannella era avanti di almeno due decenni sugli altri. conosceva perfettamente i meccanismi dello spettacolo e dell’informazione e li sapeva padroneggiare, come quando si fece arrestare per aver fumato uno spinello in pubblico a Roma. Era il periodo più duro degli anni di piombo. Pannella comincia la battaglia contro le leggi di emergenza. Cossiga era ministro dell’Interno, ogni sabato a Roma, Milano, e nelle altre grandi città gli extraparlamentari scendevano in piazza e gli scontri tra autonomi e polizia erano violentissimi. Il 12 maggio del ‘77 sul ponte di Trastevere viene uccisa da un proiettile Giorgiana Masi in un sit in indetto da radicali e sinistra extraparlamentare. Lo scontro fra Pannella e Cossiga è durissimo. L’anno dopo Aldo Moro viene rapito dalle Br. Pannella si schiera contro la linea della fermezza che escludeva trattative con i brigatisti. Nello stesso anno il Parlamento approva la legge che depenalizza l’interruzione di gravidanza. Per Pannella non è abbastanza liberale, mentre i cattolici sono di parere opposto è promuovono un referendum che si terrà tre anni dopo. Pannella ne promuove un altro per la completa liberalizzazione dell’aborto. Perdono tutti e due e la legge rimane quella approvata in Parlamento. Gli anni Ottanta sono quelli della lotta alla fame nel mondo, la campagna per la Giustizia, il Partito transnazionale, la legge elettorale maggioritaria che vede Pannella allearsi con Mario Segni. La campagna per Enzo Tortora, le candidature controverse come quelle di Toni Negri, di Domenico Modugno e della pornostar Ilona Staller, Cicciolina. Al Partito radicale si iscrivono il mafioso Piromalli e l’ex Prima linea D’Elia con il gruppo dirigente dell’organizzazione terroristica, tutti in carcere. Al Partito radicale vanno a lavorare i terroristi neri Mambro e Fioravanti in un programma di recupero. All’inizio del nuovo Millennio comincia il declino politico di Pannella. Non viene eletto nel 1994, successivamente tenta un avvicinamento politico a Silvio Berlusconi, la Lista radicale e la Rosa nel pugno non ripetono i successi dei radicali degli anni 70 e 80. Le grandi battaglie ora si rivolgono alla fame nel mondo, ai carcerati, all’eutanasia, alla non violenza nello spirito di Gandhi. Ma non al pacifismo tout court, a cui Pannella non ha mai aderito. La carica ideale che ha sempre mosso Pannella e i radicali non era venuta meno, ma le battaglie per i diritti civili in Italia erano già state combattute due decenni prima. L’Italia grazie anche a Marco Pannella era diventata una nazione più civile. E gli italiani non possono fare altro che ringraziare questo grande combattente e augurargli di riposare in pace. Il ministro della Giustizia Orlando: "Pannella, lo scomodo necessario" di Daniela Preziosi Il Manifesto, 20 maggio 2016 Sembrava una provocazione e invece la sua intransigenza è stata sempre utile a non accontentarsi prima dell’obiettivo. Per i detenuti è stato un idolo: perché in questi anni, insieme a Papa Francesco, è stato l’unico a tenere accesi i riflettori su un mondo su cui la società preferisce spegnerli. Perché le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere: un’altra delle cose che ci ha insegnato. L’ultima volta che si sono visti è stato lo scorso 26 marzo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando era andato a trovare Marco Pannella da giorni "ristretto" per la malattia nella sua casa-studio di Roma. Era d’accordo con chi lo accudiva, ma all’insaputa del leone malato. La sorpresa, oltre alla visita del Guardasigilli, era la compagnia: Orlando era accompagnato da quattro detenuti del penitenziario romano di Rebibbia, due ragazze e due uomini, dal vicedirettore del carcere e dalla vicedirettrice del femminile. C’è una bella foto che testimonia l’allegria di Pannella per quella visita "dei detenuti e dei detenenti, così aveva detto", ricorda Orlando, "me l’aveva proposta Rita Bernardini. Mancava poco a Pasqua, per la prima volta dopo molti anni Pannella non riusciva ad andare a visitare i detenuti durante le feste. E allora gliene abbiamo portato alcuni a casa. Lui parlava a fatica ma era stato illuminato da questa "splendida riunione", così l’aveva chiamata. Aveva parlato di speranza in quel suo modo torrenziale, e in stretto dialetto abruzzese". Ministro, chi era Pannella per lei quand’era un giovane militante della sinistra? Vengo da una famiglia di comunisti che ha vissuto gli anni 70, quelli del terrorismo, della vicenda di Toni Negri (allora leader di Autonomia operaia, condannato per complicità con le Br, poi eletto con i radicali e rifugiato in Francia grazie all’immunità, ndr), che guardava i radicali magari come compagni di strada nelle battaglie per i diritti civili, ma per tutto il resto con enorme diffidenza, conseguenza anche delle loro provocazioni. Una diffidenza che spingeva a contrapporre in modo talvolta frontale diritti civili e sociali. Ho capito fino in fondo l’insufficienza di questa lettura quando ho cominciato a occuparmi di giustizia. Non solo perché il superamento di questa contrapposizione ha segnato tuta la sinistra storica, superando retaggi ideologici, ma anche perché abbiamo capito che il tema dei diritti è un tutt’uno nella trama della società. Invece, da ministro, chi è stato per lei Pannella? Prima da responsabile giustizia del Pd e poi da ministro ho apprezzato che i radicali, e Pannella innanzitutto, si sono seduti qualche volta dalla parte del torto, altre dalla parte della ragione, ma comunque non hanno mai scelto dove sedersi per ragioni di opportunismo. Perché ritengono che la loro missione sia rivendicare uno spazio di libertà anche dove si registrano alti tassi di conformismo, soprattutto nei tornanti importanti della nostra storia. Soprattutto dove ci sono quelli più difficili da difendere, le persone oggetto dello stigma sociale. Ho capito l’importanza del loro controcanto che si basa sul riconoscimento della dignità delle persone a prescindere dalla condizione e dal loro vissuto. Da ministro ha avuto rapporti complicati con Pannella? Quello che rende difficile il rapporto con i radicali, è il fatto che Pannella ha insegnato loro di rifiutare l’idea gradualistica. Ha sempre posto le questioni con intransigenza. Per me, che concepisco la politica invece come riforme e magari anche come piccoli passi successivi, avere a che fare con loro è sempre complicato: perché è difficile tenerli in squadra. Ma ho capito che segnare la posizione estrema è un modo per ricordare la direzione di marcia, per evitare che ci si accontenti del compromesso. Che è sempre necessario, ne sono convinto, ma non può mai essere considerato un punto di arrivo. Poi però l’anno scorso lei fece un discorso inedito per un Guardasigilli, a proposito delle carceri che rischiano "di produrre crimine più che ridurlo". E lì Pannella le fece grandi complimenti... Naturalmente poi i radicali mi hanno contestato per non aver tratto tutte le conseguenze della mia affermazione. Ma per me quella è stata una medaglia, tanto quanto gli obiettivi quantitativi raggiunti e i riconoscimenti internazionali del lavoro che abbiamo fatto. Vede, io vengo descritto come un politico prudente, cauto; e invece in quell’occasione aver incrociato il suo punto di vista è stata la conferma di aver posto una verità scomoda. Cosa che poi ho verificato concretamente nei mesi successivi. Perché? Perché parlare di carcere non porta consenso, non è glam, non dà ritorni di immagine in una società, la nostra, profondamente spaventata ed esposta agli imprenditori della paura. Senza nessuna ambizione eroica ho capito che quel riconoscimento era il segno che stavo provando a fare cose giuste. Governare non può essere solo ricerca di consenso facile ma anche farsi carico di persone che non hanno voce, possibilità di incidere, né forse rilevanza politica. Subito dopo sono arrivate le critiche dei radicali, anche nel corso degli Stati generali dell’esecuzione penale... (Sorride) È l’ineluttabile condizione di chi interloquisce con i radicali. All’inizio pensavo che non si facevano carico delle compatibilità, dei punti di partenza. Ma ora penso che la loro forza è quella di non farsi imprigionare dalle condizioni date, dal senso comune, dagli elementi di inerzia del sistema. Le loro polemiche, per quanto provocatorie, non sono mai fini a se stesse. Quel po’ che siamo riusciti a fare, che per me è molto, è anche frutto del loro stimolo. Su alcuni aspetti della società italiana i radicali hanno fatto egemonia, hanno vinto anzi convinto, come diceva Pannella: su aborto, divorzio, diritti civili. Sulla giustizia invece no: oggi il dibattito pubblico è spesso segnato da un profondo giustizialismo. Quella del garantismo è una battaglia che non hanno vinto, o ancora vinto? È la battaglia più difficile in questo momento. La nostra è una società che resiste a riconoscere diritti che hanno un carattere così lontano dal senso comune. Ma il valore e la credibilità dei radicali sta proprio nel fatto che hanno saputo fare battaglie nella direzione dei tempi ma anche battaglie controvento con la stessa determinazione. Anche lei frequenta spesso le carceri. Cos’era Pannella per i detenuti? Un idolo. I quattro che gli ho portato a casa, in quella visita di marzo, erano emozionatissimi. Per venire hanno rinunciato al giorno di permesso. Ma Pannella è un idolo per tutto il mondo del carcere, la polizia penitenziaria, dottori, psicologi. Tutti, diceva lui, "condividono una comunità di destino". Ed è un idolo perché in questi anni, insieme a papa Francesco, è stato l’unico a tenere accesi i riflettori su un mondo su cui la società preferisce spegnerli. Perché le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere. Un’altra delle cose che ci ha insegnato. Marco Pannella lascia un’eredità, oppure un vuoto? Entrambe le cose, perché mentre il riconoscimento di alcuni diritti, spinti dalla trasformazione della società, è un campo arato che continuerà a dare frutti, penso alla recente legge sulle unioni civili, sui diritti più scomodi, sulle battaglie meno corrispondenti al senso comune, quelle in contrasto con ogni demagogia, non vedo molte figure in grado di colmare quel vuoto e di portare le denunce e la testimonianza sino al punto in cui ha saputo portarle Marco Pannella Toghe moderate in guerra: "Referendum, l’Anm resti fuori" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 maggio 2016 Dura nota di Magistratura indipendente contro l’eventuale discesa in campo del sindacato dei giudici. In vista della riunione del Comitato direttivo dell’Anm, fissata per domani a Roma, Magistratura Indipendente mette le mani avanti. E lo fa con un comunicato di fuoco. All’ordine del giorno è in discussione la posizione dell’Associazione nazionale magistrati sul referendum costituzionale di ottobre. Com’è noto, Md, la corrente che rappresenta l’anima progressista della magistratura, ha da tempo espresso la sua contrarietà alla riforma costituzionale, manifestando l’intenzione di aderire ai Comitati per il no. MI, invece, ha fatto la scelta di restare neutrale non schierandosi nel dibattito referendario. Visto il rischio però, che la posizione di Md diventi la posizione di tutte le toghe italiane, il gruppo della "destra" giudiziaria ha deciso di esprimere "l’assoluta contrarietà a prese di posizione dell’Anm sul referendum, che, peraltro, non rientra nel programma della Giunta unitaria da poco formata". Ogni scelta su questo tema è vista da MI come "inopportuna", con il rischio "di mettere in discussione il ruolo del magistrato e l’imparzialità della funzione giudiziaria". A maggior ragione perché il referendum costituzionale si è trasformato in un voto su Matteo Renzi. "Il significato politico-governativo, impropriamente assunto dalla consultazione di ottobre, creerebbe confusione nell’opinione pubblica, facendo ritenere che la debita discrezionalità giudiziaria, sulla quale i cittadini devono poter fare affidamento, sia contaminata da una qualche declinazione politica". Da Area, il cartello di cui fa parte Md, arriva una risposta sdrammatizzante: "L’impegno dell’Anm nella campagna referendaria è quasi certamente da escludere, proprio perché ci sono ampie divergenze interne sul tema". Domani dal Cdc dell’Anm verranno comunque sancite delle "regole di cautela". Non ci saranno divieti formali di adesione ai comitati. Ma certo lo stesso Davigo ieri li ha lasciati intravedere: "Ciascuno è libero di esprimere la propria opinione, altra cosa è agire come gruppi o aderire a comitati". Anche se, dice il presidente dell’Anm, "su questo deciderà il Comitato direttivo centrale, per ora non esprimo il il mio pensiero". È chiaro, comunque, che la spaccatura all’interno delle correnti su certi temi sia sempre più profonda. E a nulla è servito dar vita a una giunta unitaria dell’Anm che racchiudesse al suo interno tutte le anime della magistratura. Ma la gravità di queste lacerazioni è attenuata dagli affanni di Renzi. Nelle slide sulla riforma della giustizia del 2014 il premier aveva affermato che era necessario porre fine allo "strapotere delle correnti" e che bisognava intervenire sul Csm, partendo dal fatto che "chi giudica non nomina, chi nomina non giudica". Ad oggi nulla di ciò è stato fatto. Anzi, la scorsa settimana Renzi ha dichiarato che la riforma dell’organo di autogoverno non è una priorità. Ultima annotazione riguarda le dichiarazioni attribuite dal Foglio a Morosini. MI torna alla carica chiedendo che "debbano essere oggetto di doverosi accertamenti da parte degli organi competenti", cioè di una procedura disciplinare. Area parla di "polemica strumentale", giacché Morosini "ha detto chiaramente al plenum di non sentirsi rappresentato da quelle parole". Ma la guerra tra correnti sembra solo all’inizio. La congiura dei pubblici ministeri: che fesseria! però… di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 20 maggio 2016 In quest’ultimo mese il moltiplicarsi di iniziative giudiziarie nei confronti di Pubblici Amministratori ha fatto tornare di moda la tesi della esistenza di un complotto della magistratura e, in particolare, dei pubblici ministeri, nei confronti dei politici e, da ultimo, soprattutto nei confronti di Renzi e del suo esecutivo. Anche le dichiarazioni del Presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, Piercamillo Davigo, hanno contribuito ad alimentare il sospetto di un mega-complotto periodicamente portato avanti dalla magistratura italiana, ogni volta che si sia in presenza di un esecutivo che non sia adeguatamente rispettoso e timoroso nei confronti di quest’ultima. Il grido "al complotto! " risuona così sia su alcune prime pagine e sia nelle dichiarazioni e nelle interviste. Il grido è, talvolta, anche condito da analisi politiche sulla tempistica e sulle modalità dell’offensiva giudiziaria che dà esecuzione al complotto. Si tratta di una autentica fesseria! Basta avere una benché minima conoscenza della struttura e della organizzazione del potere giudiziario per sapere che esso non può fisiologicamente tollerare complotti del genere. L’educazione che hanno i magistrati, sin dal loro ingresso nell’ordine giudiziario, a considerare l’autonomia come un bene supremo (talvolta anche in chiave corporativa) e la effettività ed efficacia degli strumenti ordinamentali posti a tutela della autonomia costituiscono un anticorpo insormontabile contro qualsivoglia tentativo di organizzare i comportamenti dei vari giudici italiani in modo che siano il frutto di un disegno preordinato e unitariamente condiviso. Il potere giudiziario non solo è stato disegnato dalla Costituzione italiana, ma vive, anche nella realtà, come un potere diffuso, che nessuno è in grado di controllare. E si tratta, indubbiamente, di una garanzia irrinunciabile anche per il cittadino, il quale può certamente, in Italia, fare affidamento su di un giudice che non prende ordini da terzi. Tutte rose e fiori, allora? No. A partire dagli anni 80 si è creato un circuito nefasto tra un circolo di maitres a penser, di cui fanno parte alcuni magistrati, e il sistema giustizia nel suo complesso. I primi individuano quello che di volta in volta è il farabutto per eccellenza, che sta portando l’Italia alla rovina e che è alla guida di una deriva autoritaria. Spesso è anche un ladro ed un amorale. Si determina, sul piano della informazione e della sensibilità comune, un progressivo rafforzamento della convinzione della esistenza di un soggetto politico che riassume in sé tutti i mali del mondo. Il male assoluto. Prima si è trattato di Craxi, Andreotti, poi di Berlusconi, poi di Mastella, ora di Renzi, tanto per segnalare i nomi più in evidenza. Per capire come funziona il meccanismo, basta, da ultimo, considerare le dichiarazioni di Gustavo Zagrelbesky, il quale, da Presidente del Comitato per il no al referendum costituzionale ed essendo Presidente Emerito della Corte Costituzionale, chiede al Presidente della Repubblica di fermare Renzi nella sua campagna elettorale sul referendum. Una posizione del genere accanto al messaggio esplicito, ne contiene uno implicito assolutamente evidente. L’appello al Capo dello Stato in tanto è giustificato in quanto sia volto a fermare una deriva autoritaria in contraddizione con lo spirito della democrazia o, quanto meno, a fermare un abuso inammissibile. L’esempio serve per capire che attraverso l’assommarsi di valutazioni e di giudizi del genere si favorisce il formarsi, nel sentire di molta parte dell’opinione pubblica, del convincimento della esistenza di un nemico della democrazia che va abbattuto se si vuole salvare il Paese. A questo stimolo finiscono con l’essere particolarmente sensibili, comprensibilmente pure per motivi corporativi, proprio i magistrati, e in particolare quelli del pubblico ministero, che ormai da tempo si sentono gli assoluti garanti della legalità. Sentimento, a sua volta, moltiplicato dal protagonismo di alcuni. Ecco, allora, che, senza bisogno di complotti e di congiure, si apre una caccia sempre più intensa, che potrà placarsi solo con la eliminazione dell’uomo politico corrotto ed autoritario, così da salvare la democrazia. Inutile sottolineare che, in questo meccanismo perverso, gioca un ruolo centrale la vigliaccheria di quelle forze politiche che, incapaci di contrapporre efficacemente argomenti idonei a creare consenso, riescono ad aggregare il consenso solo sul disprezzo dell’avversario ed individuano nel Procuratore della Repubblica, che agisce, l’eroe che salva i valori supremi. E attraverso la sua glorificazione danno un colpo formidabile al ruolo della politica nella società. Divieto di frequentare od associarsi a pregiudicati per il sorvegliato speciale Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2016 Misure di prevenzione - Sorveglianza speciale - Divieto di frequentare od associarsi a pregiudicati - Frequentazione di persone gravate esclusivamente da procedimenti penali pendenti - Violazione del divieto - Esclusione. In tema di violazione del divieto, imposto al sorvegliato speciale, di associarsi abitualmente con persone che abbiano riportato condanne e siano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza - di cui all’articolo 8, comma quarto, D.Lgs. n. 159/2011 - la frequentazione di persone gravate esclusivamente da procedimenti penali pendenti non è idonea a configurare il reato; nel caso, invece, in cui il soggetto frequentato abbia riportato una condanna, non risultante nel certificato penale spedito a richiesta di privati, è necessario accertare in concreto la conoscenza dei pregiudizi penali della persona frequentata da parte del soggetto sottoposto alla misura di sorveglianza, desumibile da elementi fattuali attinenti al contesto socio-ambientale in cui i rapporti tra il prevenuto e la persona pregiudicata si collocano o da altri fattori sintomatici. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 9 dicembre 2015 n. 48686. Misure di prevenzione - Sorveglianza speciale - Divieto di frequentare od associarsi a pregiudicati - Necessità di un’abitualità o serialità di comportamenti - Unico fatto episodico - Violazione del divieto - Esclusione. Non è dubitabile che la prescrizione relativa al divieto di frequentare od associarsi a determinate persone implica, per il significato letterale delle espressioni usate peraltro in chiave con il tenore della Legge n. 1423 del 1956, articolo 5, comma 3, un’abitualità o serialità di comportamenti, dovendosi, conseguentemente escludere che la sua violazione sia integrata da un unico fatto episodico. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 10 aprile 2015 n. 14813. Misure di prevenzione - Sorveglianza speciale - Divieto di frequentare od associarsi a pregiudicati - Occasionale incontro con soggetto pregiudicato - Violazione del divieto - Esclusione. La prescrizione, penalmente sanzionata, che impone alla persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di non frequentare od associarsi a determinati soggetti implica un’abitualità o serialità di comportamenti, dovendosi, conseguentemente, escludere che la sua violazione sia integrata da un unico fatto episodico. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 25 ottobre 2013 n. 43858. Misure di prevenzione - Sorveglianza speciale - Contravvenzione agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale di p.s. - Prescrizione di non associarsi abitualmente a persone non pregiudicate - Nozione. La prescrizione di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne o sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza non va intesa nel senso letterale che l’espressione ha nella legislazione penale, con il richiamo a profili di comunanza di vita e di interessi, ma deve essere riferita esclusivamente alla nozione di pericolosità sociale che qualifica la materia delle misure di prevenzione. Ne consegue che, ai fini della configurabilità della citata contravvenzione, non è richiesta la costante e assidua relazione interpersonale, ben potendo la reiterata frequentazione essere assunta a sintomo univoco dell’abitualità di tale comportamento, né che si tratti di frequentazione di persone che sono contemporaneamente pregiudicate e sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, essendo invece sufficiente che le persone frequentate appartengano ad una delle predette categorie di soggetti pericolosi. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 23 aprile 2008 n. 16789. Agente penitenziario sospeso per un "Mi piace" su Facebook dopo suicidio detenuto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2016 Tar Lombardia - Sezione Terza - Ordinanza 19 maggio 2016 n. 246. Scatta la sospensione dal servizio per l’agente di polizia penitenziaria che metta "Mi piace" alla notizia pubblicata su Facebook del suicidio di un detenuto all’interno della struttura carceraria in cui lui stesso lavora perché "può comportare un danno all’immagine dell’amministrazione". Lo ha stabilito il Tar Lombardia, ordinanza 19 maggio 2016 n. 246, respingendo l’istanza cautelare dell’agente che chiedeva l’annullamento del decreto adottato dal Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria con il quale, il 29 luglio 2015, gli veniva irrogata la sanzione della sospensione dal servizio per la durata di 1 un mese, ai sensi dell’articolo 5 del Dlgs 449/1992. La norma richiamata - "Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell’art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395" - prevede infatti alla lettera "g)" la sospensione nei casi di "denigrazione dell’Amministrazione o dei superiori" (altri casi contemplati sono per esempio l’occultamento delle infrazioni alla disciplina commesse dal personale dipendente oppure uso non terapeutico di sostanze stupefacenti). La misura consiste nell’allontanamento dal servizio per un periodo da uno a sei mesi "con la privazione della retribuzione mensile, salva la concessione di un assegno alimentare di importo pari alla metà dello stipendio". La sanzione inoltre comporta "la deduzione dal computo dell’anzianità di un periodo pari a quello trascorso dal punito in sospensione dal servizio, nonché il ritardo di due anni nella promozione o nell’aumento periodico dello stipendio o nella attribuzione di una classe superiore di stipendio". Il tribunale amministrativo ha dunque ritenuto che "ad un primo sommario esame" il ricorso dell’agente non è fondato in quanto "l’aggiunta del commento "Mi piace" ad una notizia pubblicata sul sito Facebook che può comportare un danno all’immagine dell’amministrazione, assume rilevanza disciplinare". Non solo, prosegue l’ordinanza, "sebbene la notizia avesse un contenuto complesso, in quanto oltre all’informazione sul suicidio dava anche quella del pronto intervento della Polizia penitenziaria, la mancanza di un tempestivo recesso dal giudizio espresso, dopo che esso era stato seguito da altri giudizi inequivocabilmente riprovevoli, esclude che la condotta possa considerarsi irrilevante". Reati contro la Pa: turbata libertà degli incanti Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2016 Reati contro la P.A. - Turbata libertà degli incanti - Gara informale - Nozione - Condizioni per la sussistenza del reato. Il reato di turbata libertà degli incanti è configurabile in ogni situazione in cui vi è una procedura di gara, anche informale e atipica, mediante la quale la P.A. proceda all’individuazione del contraente, a condizione, tuttavia, che l’avviso informale di gara o il bando, o comunque l’atto equipollente, pongano i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie offerte, sicché deve escludersi l’esistenza di una gara allorché, a prescindere dalla legittimità del meccanismo adottato, sia prevista solo una comparazione di offerte che la P.A. è libera di valutare, in mancanza di precisi criteri di selezione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 26 febbraio 2016 n. 8044. Reati contro la P.A. - Turbata libertà degli incanti - Elemento oggettivo - Espletamento di una gara anche informale - Scelta del contraente attraverso una procedura negoziale sostitutiva - Esclusione. Il reato di turbata libertà degli incanti è configurabile solo quando l’individuazione del contraente avviene all’esito di una gara, anche informale e atipica, con la conseguenza che, se l’amministrazione, dopo aver avviato un procedimento di gara, si orienta formalmente per la conclusione di un accordo sostitutivo del provvedimento finale (previsto dalla normativa di settore e conforme ai principi generali in tema di procedimento amministrativo), l’attività volta alla preparazione ed alla conclusione di tale accordo non integra gli estremi della fattispecie di cui all’articolo 353 cod. pen. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 21 luglio 2014 n. 32237. Reati contro la P.A. - Turbata libertà degli incanti - Condotta materiale - Collusione - Nozione. In tema di turbata libertà degli incanti, per "collusione" deve intendersi ogni accordo clandestino, intercorrente tra soggetti privati in qualsiasi modo interessati alla gara o tra questi e i preposti alla gara, diretto a influire sull’esito della stessa. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 29 settembre 2014 n. 40304. Reati contro la P.A. - Turbata libertà degli incanti - Gara informale - Configurabilità del reato. Il reato di turbata libertà degli incanti è configurabile in ogni situazione nella quale la P.A. proceda all’individuazione del contraente mediante una gara, quale che sia il "nomen iuris" conferito alla procedura ed anche in assenza di formalità. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 22 luglio 2011 n. 29581. Dichiarazione fraudolenta: confisca diretta sul profitto dell’ente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 19 maggio 2016 n. 20763. Il Tribunale non può dare il via libera al sequestro preventivo per equivalente sui beni dell’amministratore della società, indagato per dichiarazione fraudolenta, se non è provata l’impossibilità di applicare la misura specifica sui beni della persona giuridica. La Cassazione, con la sentenza 20763/2016, accoglie il ricorso del manager contro la scelta di non agire prima sulle casse della società. I giudici ricordano che, anche in seguito alle modifiche introdotte dal Dlgs 158/2015, "la confisca diretta del profitto del reato è possibile anche nei confronti della persona giuridica per le violazioni fiscali commesse dal legale rappresentante o da un altro organo della persona giuridica nell’interesse della società, quando il profitto o i beni direttamente riconducibili a tale profitto siano rimasti nella disponibilità della stessa persona giuridica". La Suprema corte precisa che l’ordinamento in vigore prevede solo una responsabilità amministrativa degli enti e non una responsabilità penale: l’ente non è mai autore del reato né concorrente. Inoltre il Dlgs 231/2001 non include i reati tributari tra quelli per i quali è prevista la responsabilità della persona giuridica. La confisca per equivalente dei beni della società non si può fondare neppure sull’assunto che l’autore del reato abbia la disponibilità di tali beni in quanto questa è nell’interesse dell’ente e non della persona fisica. Detto questo, però, la Cassazione ricorda che se il prezzo o il profitto derivante dal reato è il denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto ha comunque la disponibilità deve essere considerata confisca diretta e non occorre la prova del collegamento tra il denaro e il reato. Quando il profitto o il prezzo del reato sono dei soldi, questi non solo si confondono con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perdono, per il fatto stesso di appartenere al reo, qualunque connotato di autonomia rispetto all’identificabilità fisica. Quello che importa per la Cassazione è che "le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando dunque la confisca in forma diretta del relativo importo ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo". L’eventualità di far scattare la confisca per equivalente sugli altri beni di cui dispone l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato c’è soltanto quando è impossibile la confisca del denaro. E questa è una condizione imprescindibile. Toscana: nella Regione sono 2.282 i minori con un genitore detenuto controradio.it, 20 maggio 2016 Lo ha reso noto il Garante toscano dei detenuti, Franco Corleone, in occasione di un seminario, in Consiglio regionale, su "Tutela di bambini ed adolescenti nella visita in carcere". C’è la necessità di "creare percorsi di presa in carico del minore, nel momento in cui varca la soglia di un carcere, affinché la visita non si trasformi in un trauma, spingendoli in futuro a ripercorrere la stessa strada dei loro cari" ha ribadito il garante toscano. A portare i saluti dell’Assemblea il presidente del Consiglio toscano che ha sottolineato come "sono occasioni, queste, che le Istituzioni fanno bene a promuovere. Le Istituzioni devono vivere in modo sinergico, sussidiario, il rapporto con le autorità così come con gli organismi e le associazioni che si occupano di reclusi. Interloquire con chi si occupa di carceri e di carcerati, ma anche di minori in relazione all’esperienza del carcere vissuta da un genitore, è importante. In casi come quelli al centro del seminario, bisogna valorizzare la dimensione dell’incontro e ridimensionare il trauma, nei bambini che in carcere vanno ad incontrare la mamma o il papà". Nel corso del seminario è stata presentata la ricerca "Tutela di bambini ed adolescenti nella visita in carcere" promossa dall’Ufficio del garante per l’infanzia e l’adolescenza della Toscana in collaborazione con il Garante regionale dei diritti dei detenuti e con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria in Toscana. Scopo dell’indagine, spiega una nota, svolta dalle ricercatrici Raffaella Pregliasco, Elisa Vagnoli ed Antonietta Varricchio era mettere al centro "i minori in visita nelle carceri" e in particolare "le garanzie di tutela dei bambini e degli adolescenti figli di detenuti che si recano in visita negli istituti penitenziari della Toscana". Ne è uscito la "fotografia" della tutela delle relazioni affettive e dell’accoglienza dei minori in alcuni istituti penitenziari toscani. La ricerca, effettuata in carceri con caratteristiche diverse tra loro, ha evidenziato gli aspetti normativi a quelli fenomenologici, ma anche le modalità di accoglienza dei minori che spesso sono "ancora da costruire" o da "migliorare sensibilmente". La presidente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, Alessandra Maggi, ha sottolineato "l’importanza degli istituti di garanzia dei soggetti più deboli", e i momenti di incontro tra detenuti e figli "devono essere adeguati alle esigenze dei minori". Presenti, tra gli altri, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone, Lia Sacerdote dell’associazione Bambini senza sbarre, il consigliere regionale, e pediatra, Paolo Sarti (Sì Toscana a sinistra), e il presidente della commissione sanità del Consiglio toscano Stefano Scaramelli (Pd). Campania: quattro posti letto per il ricovero dei detenuti presso l’ospedale San Paolo Il Velino, 20 maggio 2016 La Consigliera regionale Beneduce: "Polimeni ha ascoltato il mio appello per garantire il diritto alla salute". "Nel nuovo Piano Sanitario Regionale sono previsti quattro nuovi posti letto al San Paolo dedicati al ricovero dei detenuti. Un risultato importante, ottenuto grazie ad un pressing costante per garantire il diritto alla salute e alla dignità per i detenuti delle carceri campane". Così Flora Beneduce, consigliere regionale della Campania. "Già nella scorsa legislatura "- si legge nella nota componente della commissione permanente che si occupa di Sanità e Sicurezza sociale - avevo iniziato un tour nelle case circondariali, per poi denunciare le condizioni allarmanti legate al sovraffollamento, ai disagi psicologici, alla percezione di ostilità che i detenuti avvertono nei confronti del personale, alle lunghe attese per le visite specialistiche per i malati, all’assenza di figure professionali con formazione specifica. L’attenzione sul tema è sempre rimasta altissima, tanto da divenire argomento principale nel confronto avuto con il commissario ad acta Joseph Polimeni". "Già in quella sede - è scritto ancora nella nota - Polimeni aveva espresso la volontà di riattivare per la sanità penitenziaria tutti gli organismi precipui già previsti per legge e di effettuare una attenta ricognizione dello stato attuale delle criticità presenti. Ora alle parole seguono i fatti. "Ogni cittadino - conclude la Beneduce - deve potersi curare. Oggi si dà concretezza ad un principio, troppo spesso solo teorico". Veneto: l’assessore Lazzarin "il carcere della Giudecca è una realtà modello" Adnkronos, 20 maggio 2016 Laboratorio di cosmesi bio, orto biologico, lavanderia e stireria per alberghi, atelier di sartoria e relativi punti-vendita, attività teatrali e culturali: sono le attività nelle quali sono impegnate le donne recluse della casa di reclusione femminile di Venezia, attualmente una settantina, di cui quattro con figli che frequentano il nido o la scuola per l’infanzia. "La Giudecca rappresenta una realtà modello e straordinariamente moderna, nel panorama delle case di reclusione del Veneto, grazie alla forte integrazione con il volontariato e la società civile e alla presenza di numerose cooperative sociali che non solo assicurano una possibilità occupazionale nel periodo di detenzione ma anche possibilità di reinserimento sociale e lavorativo", sottolinea l’assessore al Sociale della Regione Veneto, Manuela Lanzarin oggi in visita all’ex convento delle Convertite adibito dagli Austriaci a casa di reclusione femminile. Accompagnata dalla direttrice Gabriella Straffi, l’assessore ha incontrato in carcere, detenute, agenti, volontari e i referenti delle cooperative sociali. "Il carcere deve essere luogo di rieducazione e di restituzione alla vita sociale - dichiara l’assessore - e l’istituto della Giudecca, con le celle aperte, i laboratori, l’area dedicate alle mamme con bambini, i continui interscambi tra interno-esterno e, soprattutto, il lavoro assicurato a tutte, si qualifica come una esperienza possibile e replicabile, che la regione intende sostenere e valorizzare". Il bilancio regionale 2016 riserva 300 mila euro per sostenere progetti di formazione, riabilitazione e inserimento sociale negli istituti di pena del Veneto. Con l’ultimo bando i laboratori e i progetti rieducativi della Giudecca sono stati finanziati dalla Regione con oltre 100 mila euro. "Un investimento ben fatto - conclude l’assessore - perché premia la capacita progettuale degli istituti di pena e delle cooperative e i percorsi di riscatto sociale. La maggior parte delle ex detenute a fine pena potrà avere un posto di lavoro assicurato". Cosenza: Quintieri (Radicali); sia garantito il diritto di voto ai cittadini detenuti cosenzapage.it, 20 maggio 2016 Continua la battaglia dei Radicali di Cosenza per la tutela dei diritti dei detenuti ed in particolare dell’esercizio del diritto di voto in occasione delle prossime consultazioni elettorali per l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio Comunale di Cosenza che, com’è noto, si terrà domenica 5 giugno. Per questo motivo, già lo scorso 7 maggio, all’esito di una visita ispettiva effettuata da una Delegazione dei Radicali alla Casa Circondariale "Sergio Cosmai" di Cosenza, il capo delegazione Emilio Quintieri, aveva scritto una nota ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, al Provveditorato Regionale di Catanzaro ed alla Direzione dell’Istituto Penitenziario di Cosenza, lamentando di aver riscontrato che non erano ancora state messe in atto le procedure per consentire ai cittadini detenuti di poter esercitare il diritto di voto alle prossime elezioni amministrative. Ed infatti, durante la visita, numerosi sono stati i detenuti a chiedere informazioni su come poter votare nel luogo di reclusione visto che sono sprovvisti anche della tessera elettorale. Infatti, i detenuti in custodia cautelare e quelli condannati in via definitiva per reati sentenziati come "non ostativi" sono cittadini aventi pieno diritto al voto e possono votare direttamente presso l’Istituto Penitenziario ove verrà allestito un Seggio Speciale. Chiaramente, nell’occasione, soltanto quelli residenti nel territorio del Comune di Cosenza. In questi giorni, nonostante la sollecitazione fatta dai Radicali, pare che non sia cambiato nulla; invero diversi detenuti hanno segnalato di non essere stati informati e di non aver ricevuto la modulistica per chiedere di poter votare ed ottenere la tessera elettorale o l’attestato sostitutivo come previsto dalla legge. Considerata l’imminenza delle elezioni, il radicale Quintieri, ha ritenuto opportuno segnalare la problematica al Commissario Prefettizio del Comune di Cosenza Angelo Carbone, al Responsabile dell’Ufficio Elettorale Comunale Leonardo Corina nonché al Dirigente dell’Ufficio Elettorale Provinciale, Vice Prefetto Francesca Pezone ed al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria Salvatore Acerra, invitandoli, ognuno per la parte di rispettiva competenza, ad adoperarsi con urgenza affinché venga garantito a tutti i detenuti aventi diritto di poter scegliere il proprio Sindaco ed i propri rappresentanti in Consiglio Comunale. Il diritto di voto dei detenuti, vista la complessa procedura prevista dalla normativa, rischia di rimanere tale solo sulla carta - dice Quintieri - se non tempestivamente preceduto da una campagna informativa all’interno dello stabilimento penitenziario per far sì che gli stessi detenuti, che hanno dichiarato di voler votare, siano messi al corrente di quali siano gli adempimenti necessari che loro per primi sono chiamati ad assolvere per esercitare il diritto garantitogli dalla Costituzione. La brevità dei tempi disponibili, secondo i Radicali che - tramite la candidatura di Valentina Moretti nella Lista "Per Cosenza. Oltre i colori" promossa da Giacomo Mancini - sostengono Carlo Guccione, Consigliere Regionale del Partito Democratico, come Sindaco della Città di Cosenza, richiede un intervento immediato mediante l’affissione in tutti i Reparti detentivi di appositi cartelli informativi e tramite la distribuzione alla popolazione detenuta della modulistica per manifestare l’intenzione di voto e chiedere la trasmissione dell’attestato sostitutivo della tessera elettorale per poter essere ammessi al voto. Auspico che nei prossimi giorni - conclude Emilio Quintieri, già membro del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani - si faccia tutto il possibile per garantire ai detenuti che ne abbiano titolo la possibilità di poter esercitare il diritto di voto come tutti gli altri cittadini di Cosenza. Lecce: morte sospetta di un detenuto, il gip dispone nuove indagini Corriere Salentino, 20 maggio 2016 Nuove indagini nell’inchiesta per la morte di Claudio Lazzari, il detenuto leccese di 46 anni morto il 21 luglio del 2014. Il gip Vincenzo Brancato ha accolto l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dall’avvocato Ladislao Massari che assiste i familiari. Il pubblico ministero Antonio Negro aveva iscritto nel registro degli indagati i nomi di quattro medici dell’ospedale "Vito Fazzi" per poi formulare richiesta di archiviazione non ravvisando elementi di colpevolezza a carico dei professionisti. Il gip, invece, non è arrivato alle stesse conclusioni e con un’ordinanza ha disposto che vengano avviate nuove indagini parlando di "approfondimenti assolutamente necessari". Secondo i familiari, vi sarebbe stata una diretta e palese connessione fra la mancata somministrazione della dieta ipercalorica e l’aggravamento seguito dal decesso del 46enne. Al riguardo, sono state indicate una serie di persone che gli investigatori dovranno sentire. Lazzari entrò in carcere il 4 ottobre del 2011 dopo l’operazione "Augusta". Nel 1997 era stato sottoposto ad un intervento dell’intestino per combattere l’obesità. Dopo l’operazione, al paziente venne prescritta una dieta molto ricca di proteine e carboidrati che, secondo i familiari, Lazzari non ha potuto mai seguire all’intero del carcere. Già nel febbraio del 2012, il peso corporeo si era notevolmente ridotto e, nel mese di giugno, gli venne diagnosticata una forma di anemia. Secondo il legale, per oltre un anno gli esami del sangue sarebbero stati effettuati in maniera sporadica tanto da non permettere un esatto monitoraggio del quadro clinico. Nell’agosto 2013, poi, iniziarono i ricoveri d’urgenza al "Fazzi". Solo a distanza di diversi mesi gli vennero concessi gli arresti domiciliari ma secondo i parenti il quadro clinico era talmente compromesso che non c’era più nulla da fare. Ora il pubblico ministero ha a disposizione sei mesi di tempo per approfondire la vicenda. Salerno: medico assolto per la morte di un detenuto La Città di Salerno, 20 maggio 2016 Assolto il medico Immacolata Mauro per la morte di un detenuto nel reparto dedicato dell’ospedale "Ruggi". Lo ha deciso ieri il gup Emiliana Ascoli, accogliendo la richiesta del pm Roberto Penna. Carmine Tedesco, 58 anni, morì per un infarto il 5 novembre del 2012. Era detenuto per furto, aveva rubato due biciclette a Montecorvino Rovella. La moglie, Anna Sammartino, e i figli si sono battuti a lungo per la verità. Il tribunale ha assolto la dottoressa Mauro, difesa dall’avvocato Guglielmo Scarlato. Le altre posizioni erano state archiviate già dal gip Renata Sessa in un’altra udienza. È passata alla fine la tesi che a stroncare la vita del detenuto, ribattezzato il "ladro di biciclette", fu un infarto fulminante. Del suo caso si erano occupati anche i Radicali di Salerno, riuscendo a far riaprire il processo che altrimenti era già stato archiviato. La moglie di Sammartino aveva sperato di avere giustizia e di conoscere la verità su quanto accaduto quella notte. Su ordinanza del gip Sessa, l’accusa dovette procedere con l’imputazione coatta del medico del "Ruggi" mentre per gli altri cinque indagati fu disposta l’archiviazione. L’unica imputata ha scelto di essere giudicata con il rito abbreviato. All’esame del giudice sono finiti, quindi, gli atti contenuti nel fascicolo. Con gli elementi di prova raccolti, tra i quali le perizie dei consulenti medici, ha emesso la sentenza di assoluzione che coincide con la richiesta avanzata dall’accusa durante la requisitoria. Nessun responsabile, quindi, per la morte di Carmine Tedesco, che fu ucciso da un infarto. C’è ancora il ricorso al secondo grado, un appello che potrebbe chiedere la famiglia dopo che il giudice avrà depositato le motivazioni della sentenza. Piacenza: Ferraresi (M5S); Rachid Assarag vittima di violenze nel carcere parmatoday.it, 20 maggio 2016 Rachid Assarag, Ferraresi: "Nella sua cella sangue sul muro e sul materasso". Rachid Assarag, il detenuto che denunciò le presunte violenze all’interno del carcere di Parma e per le quali è in corso un processo presso il Tribunale di Parma, sarebbe stato vittima di violenza all’interno del carcere di Piacenza, dove è attualmente rinchiuso. A denunciarle, oltre all’avvocato Anselmo, difensore di Assarag, anche il deputato del Movimento 5 Stelle Vittorio Ferraresi, laureato in Giurisprudenza e capogruppo in Commissione Giustizia. L’udienza in Tribunale a Parma è stata rinviata al 28 giugno. La nota di Ferraresi - "Continuano le aggressioni e le violenze contro il detenuto Rachid Assarag che ha denunciato il clima di violenze e vessazioni nelle carceri italiane. Oggi ho potuto constatare di persona quanto sta succedendo nel carcere di Piacenza. In merito a quanto denunciato dallo stesso Assarag. Una chiazza enorme di sangue sul pavimento, sangue anche sul materasso totalmente bagnato, ematomi da violente percosse al di sotto le gambe, i pantaloni strappati, un occhio pesto. Tutto questo in una cella dalle condizioni gravi e intollerabili con finestra chiusa, senza acqua e con feci nel wc. La polizia penitenziaria e la vice direttrice hanno provato a smentire quanto era chiaramente visibile". Vittorio Ferraresi, capogruppo M5S del Movimento Cinque Stelle denuncia quanto avvenuto oggi nel carcere di Piacenza, a seguito di una sua ispezione a sorpresa accompagnato dall’avvocato difensore di Assarag, Fabio Anselmo: "Ho avvertito un pesante clima di intimidazione anche nei miei confronti che cercavo di documentare quanto era successo. Mi è stato impedito di continuare la mia ispezione con la forza, sono stato offeso dalla vicedirettrice, nell’esercizio del mio mandato ispettivo parlamentare, semplicemente perché cercavo di ribadire che le carceri non sono luoghi di tortura e di barbarie. Quanto è avvenuto è gravissimo e non ammissibile". Palermo: paternità senza sbarre all’Ucciardone; detenuto "di mia figlia mi manca tutto" di Stefania Brusca meridionews.it, 20 maggio 2016 Lo studio realizzato dall’Isp parte dal reinserimento nella società sancito dall’articolo 27 della Costituzione. "Uno dei mezzi più potenti per la riabilitazione dei detenuti - spiega il presidente Quilici - è quello di migliorare il rapporto con i figli: quanto è più stretto il legame con la famiglia tanto meno c’è il rischio di recidiva e di casi di violenza in carcere". Sono 22 mila, sono detenuti e sono padri. Migliaia i genitori in carcere che spesso hanno difficoltà a rapportarsi con i figli. È quanto emerge dalla ricerca Paternità senza sbarre realizzata dall’ Isp - Istituto di studi sulla Paternità - sottoponendo a circa 200 detenuti un questionario di trenta domande fra ottobre 2013 e novembre 2014. L’indagine è stata condotta in sette carceri italiane: Rebibbia, Velletri, Civitavecchia Nuovo Complesso, Civitavecchia Casa di Reclusione, Secondigliano, Sollicciano e Ucciardone. I padri detenuti rappresentano un terzo della popolazione carceraria maschile. Che cosa le manca di più di suo figlio? Hanno chiesto gli esperti e "una delle risposte più belle è arrivata proprio da un detenuto dell’Ucciardone - afferma il presidente dell’Isp Maurizio Quilici - che pensando alla figlia ha detto: "Mi manca tutto, il suo respiro, il suo odore, le sue coccole, i suoi capricci, vederla ballare, mi manca la luce che emana, mi manca davvero tanto". All’epoca della sua carcerazione, marzo 2014, la piccola aveva sette anni. L’uomo è stato sentito dall’Isp a settembre dello stesso anno. Nel caso dell’Ucciardone sono stati riscontrati in particolare due problemi, evidenziati dalla più alta percentuale di risposte negative dei carcerati. In particolare sui locali adibiti agli incontri con i figli e le modalità in cui avvengono "abbiamo riscontrato l’87 per cento dei giudizi negativi", spiega Maurizio Quilici presidente dell’Isp. In particolare lamentano la "mancanza di privacy, angustia dei locali poco adatti ai bambini". Gli aggettivi espressi dai detenuti in merito al luogo di incontro con i figli sono, riporta lo studio ""bruttissimo", "pietoso", "pessimo", "umido" "sporco", "cupo", "senza igiene"". Il secondo problema emerso all’Ucciardone riguarda la difficoltà di avere un contatto fisico con i figli "e la severità delle guardie carcerarie che vietano di abbracciarli, se cercano di avvicinarsi", afferma Quilici. Molti "hanno riferito in particolare il problema del muretto divisorio - dice ancora Quilici - rilevato un anno e mezzo fa. Adesso però, ci assicurano dal Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ndr), è stato eliminato. In particolare, tra le tante, è stata diffusa una circolare che "raccomanda alle direzioni di consentire il contatto fisico tra padre e figlio", riferisce il presidente dell’Isp. In teoria è una questione di sicurezza, l’abbraccio "potrebbe servire come mezzo di scambio per un biglietto o un oggetto. Ma non dimentichiamo che anche i bambini vengono perquisiti prima del colloquio", sottolinea ancora Quilici. Lo studio parte dal reinserimento nella società sancito dall’articolo 27 della Costituzione. "Uno dei mezzi più potenti per la riabilitazione dei detenuti è quello di migliorare il rapporto con i figli: quanto è più stretto il legame con la famiglia tanto meno c’è il rischio di recidiva e di casi di violenza in carcere". "Essere padre - continua il presidente dell’Isp - significa acquisire e mantenere la responsabilità di esserlo e di diventare un punto di riferimento. E il complesso di regole e restrizioni in carcere è talmente forte che, come dimostrano diversi studi, il detenuto viene ridotto a fanciullo". Molti dei detenuti poi hanno la famiglia in un’altra città. "Quando l’Ue ha sanzionato l’Italia per il sovraffollamento, i detenuti sono stati trasferiti in carceri con meno carcerati: questo ha risolto un problema e ne ha di fatto creato un altro". "Il detenuto deve espiare la pena perdendo la libertà ma non la sua identità di persona: parliamo anche ad esempio del problema della sessualità in carcere, che da noi è ancora un tabù con esiti spesso disastrosi", dice Quilici. Una cosa che è emersa condivisa da tutti gli esperti è l’eccessiva differenza di trattamento fra un carcere e l’altro come riscontrato dalla enorme difformità di risposte riportate nello studio. Aspetti positivi sono stati riscontrati ad esempio a Secondigliano e Solliciano. All’Ucciardone ad esempio è stata registrata la più alta percentuale di detenuti, l’81 per cento, che ritengono che si possa essere dei buoni padri anche in carcere. "Un ottimo segnale perché denota una speranza e una convinzione sulla quale di può lavorare per il rapporto padre figli". Oltre alle difficoltà oggettive che possono incontrare nelle carceri, una delle problematiche maggiori riguarda lo scarso interesse dell’opinione pubblica nei confronti di chi deve scontare il suo debito con la giustizia: "Non se ne parla molto perché il tema della carcerazione del detenuto è un tema scomodo, che suscita nella gente fastidio e timore - precisa Quilici - la percezione che si ha del carcere e in particolare di chi ha commesso un crimine è che se la sia cercata e che se resta in galera non viene messa a rischio la nostra sicurezza, la nostra identità. Il prossimo step è quindi porre il problema all’attenzione opinione pubblica e creare un tavolo di lavoro multidisciplinare per affrontare in modo specifico i problemi della paternità". Napoli: caso Fortuna, compagna indagato per morte della bimba tenta suicidio in carcere Corriere della Sera, 20 maggio 2016 Ha tentato di suicidarsi Marianna Fabozzi la compagna di Raimondo Caputo, l’uomo accusato di aver ucciso Fortuna Loffredo, la bimba di 6 anni scaraventata giù dalla terrazza del palazzo dove viveva a Caivano (Napoli) dopo essere stata violentata. Lo riferisce Angelo Pisani, avvocato dei nonni e del papà di Fortuna, Angelo Pisani. La donna che è detenuta nel carcere di Pozzuoli, per aver coperto gli abusi sessuali del compagno sulle sue tre figlie, ha tentato di impiccarsi nella cella. Ora è stata posta in isolamento. In carcere - All’inizio di maggio Fabozzi venne aggredita in carcere da alcune detenute, così come nel carcere di Poggioreale dove è rinchiuso è avvenuto anche a Caputo. La donna non è accusata dell’omicidio di Fortuna (ne sarebbe stata a conoscenza e avrebbe taciuto), ma è coinvolta in un’inchiesta parallela sulle violenze che le sue tre figlie avrebbe subito dal suo compagno Caputo. Incidente probatorio per le figlie - Giovedì Marianna Fabozzi ha preso parte all’incidente probatorio nel corso del quale le sue tre figlie hanno testimoniato sull’omicidio di Fortuna. Nel corso delle deposizioni sono venute fuori divergenze sul ruolo della donna: l’ipotesi della famiglia Loffredo è che anche lei sia coinvolta. "Dietro questo tentativo di suicidio ci possono essere tre cause", spiega l’avvocato Pisani. "Un gesto di autolesionismo a seguito delle denunce delle figlie; oppure ha capito che stiamo arrivando alla verità e ha paura che il compagno ceda. C’è poi la terza causa: vuole confondere ancora più le acque e giocarsi la carta dell’incapacità di intendere e di volere. In tutti i casi abbiamo il dovere di andare avanti e di non fermarci a Caputo e alla sua compagna". "Una delle figlie copre la madre", accusa Mimma Guardato, la madre della piccola Fortuna, dopo l’incidente probatorio. "Speravo che accusasse anche la madre perché sono sicura che anche lei è coinvolta". Brescia: in poche ore tre detenuti di Canton Mombello tentano il suicidio bresciatoday.it, 20 maggio 2016 Gli episodi si sono registrati tra le 12 e le 19 di giovedì. Prima un 38enne e un 24enne, entrambi stranieri, ed infine un altro detenuto hanno tentato di togliersi la vita impiccandosi con il lenzuolo. Giovedì nero a Canton Mombello. Nello spazio di poche ore, tre detenuti hanno cercato di togliersi la vita utilizzando un lenzuolo. In tutti e tre i casi si è rivelata provvidenziale la tempestività d’intervento della polizia penitenziaria. Il primo allarme è scattato poco dopo le 12, quando un 38enne magrebino, al quale il magistrato di sorveglianza aveva negato la scarcerazione anticipata, ha provato ad impiccarsi con un lenzuolo. A salvare l’uomo in extremis è stato un agente in servizio nel penitenziario. Immediata la chiamata al 112: sul posto è giunta un’ambulanza che ha trasportato l’uomo al Civile di Brescia. Il 38enne è stato ricoverato, ha ricevuto le cure del caso ed ha fatto ritorno in carcere in serata. Poco dopo le 16, un altro detenuto, un 24enne straniero, ha emulato l’estremo gesto compiuto. Una forma di protesta motivata dalla negazione della sua richiesta di trasferimento in un’altra cella. Anche il 24enne è stato trasportato in ambulanza al Civile ed è stato ricoverato: le sue condizioni non destano preoccupazione. In serata, intorno alle 19, un nuovo tentato suicidio compiuto con le identiche modalità e con il medesimo esito: il carcerato, sempre un 38enne di origine straniera, è stato trasportato al Civile ed anche le sue condizioni non sarebbero critiche. La Fp Cgil, attraverso Calogero Lo Presti, da tempo denuncia la situazione insostenibile del penitenziario bresciano, in cui risse ed episodi di autolesionismo, come quelli appena verificatesi, si susseguirebbero. "Canton Mombello è da chiudere, lo ribadirò all’infinito - aveva detto lo scorso febbraio - serve una nuova struttura più sicura, per chi sconta la pena e per chi ci lavora. E bisogna rinforzare gli organici". Anche il personale del carcere denuncia una situazione potenzialmente esplosiva. La struttura detentiva è infatti sovraffollata: su un totale di 320, sono presenti 112 detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Torino: detenuto tenta il suicidio in carcere, salvato da un poliziotto penitenziario obiettivonews.it, 20 maggio 2016 Ancora una volta la professionalità e lo spiccato senso del dovere del personale del Corpo impedisce in extremis il compimento di un suicidio messo in atto da un detenuto del carcere di Torino. "Un solerte Agente di Polizia Penitenziaria, in servizio come preposto, ha con il proprio intervento evitato il suicidio a mezzo impiccamento di un detenuto con fine pena 2023. Il poliziotto, accortosi nel suo giro di ispezione che il detenuto era già con il cappio al collo e un sacchetto in testa, servendosi del lenzuolo legato ai ferri del finestrone della cella proprio nel momento che lo sventurato si lasciava andare dallo sgabello che lo sorreggeva, con fulmineo intervento il nostro Agente di Polizia Penitenziaria - con coraggio e sprezzo del pericolo - è riuscito a sorreggere il corpo già penzoloni evitando il peggio, anche con l’ausilio di altri colleghi richiamata in aiuto. Questa è l’opera oscura della Polizia Penitenziaria, dietro quelle mura carcerarie, con i suoi eroi silenziosi". Ne da notizia Vicente Santilli, segretario regionale piemontese del Sappe, che Carcere (Rid)esprime "soddisfazione per la professionalità dimostrata dal nostro poliziotto penitenziario, attento ad interpretare i segnali di criticità e prevenire i rischi di atti inconsulti". "Ogni anno", aggiunge, "l’esperienza e la scrupolosità della Polizia penitenziaria cura il mal di vivere di migliaia di persone malgrado le note problematiche del sistema ed, in particolare, della carenza d’organico". Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, evidenzia che "solo grazie alla intervento della Polizia penitenziaria si è riusciti a salvare un altra vita umana. Mi auguro che l’Amministrazione penitenziaria proponga la poliziotta che ha sventato il suicidio per una adeguata ricompensa a livello ministeriale. Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Torino - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Non si possono dunque ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti per la Polizia Penitenziaria di Torino: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri piemontesi e del Paese (oggi affollate comunque da oltre 53mila 700 detenuti) sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia, sotto organico di 7mila unità e penalizzati dalla Legge di stabilità 2016 che per altro ha bocciato l’assunzione straordinaria di 800 nuovi Agenti". Pescara: compra un libro e donalo ai detenuti di Vito de Luca Il Centro, 20 maggio 2016 Quarta edizione per la Colletta del libro a favore dei detenuti del carcere di Pescara e dei minori ospitati nelle case di accoglienza. Organizzato dal Centro sviluppo per il volontariato, dall’associazione Stella del mare, dalla casa circondariale di Pescara e dall’arcidiocesi di Pescara-Penne, l’appuntamento di domani e sabato prevede la possibilità di acquistare dei libri, in 6 librerie di Pescara, una di Montesilvano e una di Spoltore, da consegnare poi ai volontari che saranno presenti all’uscita di ciascuna libreria. L’iniziativa è stata presentata ieri nei locali del Csv, dal presidente Casto Di Bonaventura, dall’assessore regionale alle Politiche sociali Marinella Sclocco, dalla funzionaria del San Donato Ylenia Di Febo, da un ex detenuto, ora affidato ai servizi sociali, e da un detenuto del carcere di Pescara. Con una novità: quest’anno si potrà personalizzare il libro che si deciderà di donare (non si accettano libri usati), con una dedica. Una via d’uscita verso una nuova vita, quella del libro, per alcuni detenuti. Come per Paolo (nome di fantasia), ieri alla presentazione della Colletta del libro. Dieci anni da scontare in carcere (gliene sono rimasti tre), dice di essere da sempre un "grande lettore. Prima di entrare in carcere, leggevo Dostoevskij, Tolstoj, Goethe, Hugo, Cechov e altri", racconta, mentre alla domanda su come possa finire in carcere un lettore così forte, risponde che "la lettura non impedisce di fare un passo falso". Ma se da un lato, secondo il detenuto, la conoscenza dei grandi romanzi della letteratura non rappresenta uno scudo sicuro a un "passo falso", dall’altro "aiuta a rendersi conto del male commesso. Perché noi ci dobbiamo mettere sempre nei panni di chi ha subito il male". Per Marco, invece, altro nome di fantasia, 12 anni dietro alle sbarre, ora ai servizi sociali, i libri preferiti sono quelli sulla "storia del 1800. Leggere un libro in carcere", rimarca, "fa andare la mente al di là delle mura. Molto più di quanto possa fare la tv". Le librerie pescaresi che hanno aderito all’iniziativa sono Edizioni San Paolo, Mondadori, Feltrinelli, Librincentro, Primo Moroni e Rusconi. A Montesilvano On The Road e a Spoltore Giunti al Punto, all’Arca. Terni: il Giubileo della Misericordia per i detenuti del carcere di vocabolo Sabbione di Elisabetta Lomoro concaternanaoggi.it, 20 maggio 2016 Lunedì 23 maggio alle ore 10 all’interno della Casa Circondariale di vocabolo Sabbione sarà celebrata la messa per i detenuti, presieduta da padre Giuseppe Piemontese vescovo di Terni-Narni-Amelia e concelebrata dal cappellano dell’istituto padre Rino Morelli e da altri sacerdoti. La celebrazione si svolgerà nel grande spazio del campo sportivo per permettere a tutti i detenuti che lo vorranno di partecipare, unitamente a volontari e operatori penitenziari. Saranno inoltre presenti il gruppo Rinnovamento nello Spirito Santo ed alcuni fedeli della comunità diocesana che hanno espresso il desiderio di attraversare la porta santa del carcere. Animerà la funzione il coro diretto dal maestro Paolo De Santis. Nell’invito alla gioia del giubileo il nostro Vescovo diceva che questo anno Santo della Misericordia ci educa alla compassione, alla umanità, per farci sperimentare il perdono e la misericordia di Dio e dei nostri fratelli. "Il giubileo della misericordia e per tutti una "amnistia spirituale" - ricorda il vescovo Piemontese - un grande momento di uguaglianza per gli uomini che sono tutti peccatori, perché tutti sbagliano, ma che hanno la possibilità di ricominciare la loro vita perché Dio non si stanca mai di perdonare. "In questo anno santo chi vuole ha la possibilità di incontrare il Signore di avere perdonati tutti i suoi peccati e di ricomunicare da capo, di superare le debolezze e di stabilire con gli altri rapporti di misericordia che significa tornare ad avere cuore verso chi è in difficoltà e verso chi è sofferente". La Santa Messa di lunedì si inserisce nel percorso giubilare avviato all’interno della Casa Circondariale il 13 dicembre scorso con la partecipazione di una rappresentanza di persone detenute e di operatori penitenziari all’apertura della porta santa della Cattedrale; il giorno dopo era stato il Vescovo a recarsi in carcere per incontrare le persone detenute ed aprire la porta santa della Cappella del penitenziario. La messa permetterà di celebrare anche il sacramento della Riconciliazione con sacerdoti a disposizione per le confessioni. Il cammino giubilare culminerà il prossimo 6 novembre nella partecipazione a Roma in San Pietro al Giubileo dei detenuti con la Santa Messa presieduta dal Santo Padre. Lecco: a Villa Bertarelli di Galbiate arriva la mostra "I colori della libertà" resegoneonline.it, 20 maggio 2016 Opere pittoriche create dai detenuti della seconda Casa di Reclusione di Milano Bollate nell’ambito del progetto "Arteterapia in carcere", ideato e condotto dall’arteterapeuta Luisa Colombo. S’inaugura venerdì 27 maggio alle ore 18 in Villa Bertarelli a Galbiate - Via Bertarelli, 15 - la mostra "I colori della libertà" nuova tappa, dopo Villa Reale a Monza, dell’esposizione delle opere pittoriche create dai detenuti della seconda Casa di Reclusione di Milano Bollate nell’ambito del progetto "Arteterapia in carcere", ideato e condotto dall’arteterapeuta Luisa Colombo. Il programma prevede anche la presentazione del libro "I Colori della Libertà. Progetto "Arteterapia in carcere" strumento di riflessione e riabilitazione", edito dalla Camera dei Deputati e presentato a Palazzo Montecitorio lo scorso 23 Luglio 2015 alla presenza del Ministro di Giustizia On. Orlando. Questo evento, organizzato dalla Biblioteca Civica "Giuseppe Panzeri", vedrà la straordinaria e preziosa presenza del Questore della Camera dei Deputati On. Stefano Dambruoso, che ha promosso e sostenuto il progetto. Interamente finanziato dal Centro Studi Culturale Parlamento della Legalità sezione di Milano il progetto è tutt’ora in atto presso il secondo reparto della seconda Casa di Reclusione di Milano Bollate. Il laboratorio è stato un’occasione alternativa di riflessione per i partecipanti, per approfondire, riscoprire e comunicare sentimenti, emozioni e pensieri sul proprio vissuto. Le attività hanno consentito ai detenuti di acquisire consapevolezza e fiducia nelle proprie capacità e ha permesso lo sviluppo di un processo di crescita, confronto e di cambiamento positivo. Attraverso degli scritti descrittivi preparati dagli stessi detenuti i visitatori potranno meglio comprendere le opere realizzate e il percorso di riabilitazione. La mostra rimarrà aperta dal 28 maggio al 5 giugno. Pavia: teatro-carcere detenuti sul palco con "Libertà obbligatoria" La Provincia Pavese, 20 maggio 2016 Nuovo spettacolo teatrale della Compagnia U.s.b. Uomini senza barriere "Libertà obbligatoria", per la regia di Stefania Grossi. Lo spettacolo andrà in scena sabato 28 maggio alle ore 21 all’interno del teatro della casa circondariale Torre del Gallo di Pavia, in via Vigentina. All’interno del grande progetto Climb, che vede uniti molti partner, con il contributo della Fondazione Banca Del Monte di Lombardia, la associazione "Amici della Mongolfiera per Lu.I.S." ha proposto di continuare il lavoro cominciato nel dicembre 2014 e rendere stabile la compagnia che si è messa subito in gioco per preparare un nuovo spettacolo. Tecniche teatrali, emozioni, storie, racconti, scene corali e monologhi, si fondono insieme in grande equilibrio. Non c’è copione, è tutto autoprodotto con maestria dai ragazzi della compagnia. Chiunque fosse interessato a partecipare dovrà inviare copia di un documento di identità in corso di validità al presente indirizzo mail: u.s.b.teatrocarcere@gmail.com, entro il 20 maggio, per consentire i necessari controlli. L’invio è obbligatorio anche per coloro che avessero già inoltrato un documento in occasione di un precedente ingresso in istituto, o perché collaboratori della struttura. Catanzaro: l’AS Sersale varca le soglie della Casa Circondariale "Ugo Caridi" infooggi.it, 20 maggio 2016 Dopo il Catanzaro calcio a varcare le soglie della Casa Circondariale "Ugo Caridi" è stato il Sersale, da poco promosso in serie D. L’evento organizzato dalla struttura rientrava tra le attività trattamentali destinate ai detenuti, in questo caso del circuito di media sicurezza. Grande entusiasmo è stato registrato nella squadra del Sersale, accompagnata dai dirigenti, oltre che dal presidente e addirittura dal Sindaco, il quale ha portato il saluto da parte della comunità e che ha voluto essere presente alla disputa della partita, ritenendola un momento di crescita importante per tutti. Nel suo intervento il Sindaco ha detto che il Sersale ha scritto una delle pagine più belle nella storia calcistica calabrese e la promozione di una squadra di un piccolo paese di circa 5.000 abitanti è e deve essere un orgoglio per tutti, sportivi e non sportivi. Un successo storico per la cittadina del Catanzarese quindi che si aggiunge alla vittoria nella fase regionale della Coppa Italia quando a dicembre aveva avuto la meglio sul Sambiase, ma anche quella di oggi può essere considerata una vittoria, una vittoria importante dal punto sociale e della solidarietà verso i reclusi. Il direttore della casa circondariale, Angela Paravati, si è detta contenta di ospitare una squadra da poco promossa in categoria D e ha precisato che tutte le partite finora organizzate hanno rappresentato per i detenuti un momento di crescita e di confronto importante. La sana competizione come quella del Sersale rappresenta anche in un contesto difficile come il carcere un modello di riferimento importante e per i detenuti è il modo migliore per entrare in contatto con la società esterna, soprattutto quando ci si confronta attraverso lo sport, che chiaramente non è cosi frequente come per altre attività più facilmente realizzabili. Organizzare una partita con giocatori che arrivano dall’esterno richiede uno spiegamento maggiore di polizia penitenziaria, oltre che tanti permessi di autorizzazione, ma il risultato, in termini trattamentali ed educativi, ripaga di tutti gli sforzi richiesti per tali eventi. Durante la conferenza stampa, prima dell’inizio del match, è stata consegnata una targa ricordo al Direttore della casa circondariale, oltre 5 palloni che lo sponsor della squadra, Calcom srl, nella persona dell’Ing. Salvatore Scalzi, ha voluto donare ai detenuti del circuito di media sicurezza. La partita si è svolta in maniera assolutamente sportiva e corretta, con una vittoria schiacciante ovviamente da parte del Sersale e la conclusione ha visto, oltre allo scambio delle maglie, anche tante strette di mano calorose e saluti cordiali tra i giocatori, che almeno per un paio d’ore, ci rifermiamo ai detenuti, hanno avuto modo di sentirsi forse liberi di correre, liberi di giocare il proprio ruolo per tutta la durata della competizione. Migranti. Hotspot, illegalità e diritti negati di Carlo Lania Il Manifesto, 20 maggio 2016 Richieste di asilo esaminate in pochi minuti. Minori trattenuti illegalmente e migranti, tra i quali anche soggetti considerati vulnerabili, espulsi dal sistema di accoglienza e abbandonati al loro destino. Pensati per selezionare i migranti al loro arrivo in Italia, gli hotspot si sono trasformati velocemente in luoghi di produzione di illegalità e emarginazione. Da settembre a oggi, secondo quanto denunciato nel rapporto "Hotspot, il diritto negato" presentato ieri da Oxfam Italia, nelle sole strutture di Pozzallo e Lampedusa sarebbero state respinte più di 4.000 persone. In teoria una volta rigettata la richiesta di asilo dovrebbero lasciare l’Italia entro sette giorni, dopo aver raggiunto a proprie spese l’aeroporto romano di Fiumicino e aver acquistato un biglietto per il paese di origine. Ma senza soldi e soprattutto senza documenti validi né assistenza, rischiano di finire in mano alle organizzazioni criminali e di essere sfruttati come manodopera nei campi o, per quanto riguarda le donne, avviate alla prostituzione. "Queste persone non possono che andare a ingrossare le file degli irregolari, costrette in alloggi di fortuna e senza nessuna prospettiva", è scritto nel rapporto. La creazione degli hotspot è prevista nell’agenzia europea sulle migrazioni del 13 maggio 2015, senza però un preciso quadro legale all’interno del quale queste strutture devono operare. Sulla carta le richieste di asilo dovrebbero essere esaminate nell’arco di pochi giorni, mentre i migranti economici, considerati irregolari, dovrebbero essere rimpatriati anche con la collaborazione di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere. Stando a quanto denuncia il rapporto, però, una fase delicata come l’interrogatorio dei migranti, dal quale dipende l’accettazione o meno della richiesta di asilo e quindi il loro futuro, avvererebbe in maniera a dir poco spiccia e soprattutto senza informare adeguatamente le persone dei loro diritti. "Nessun ente di tutela è presente in questa fase, non Unhcr, non Easo, nessuno che possa garantire in modo imparziale che la volontà dei migranti venga realmente compresa e correttamente registrata", prosegue Oxfam. Nel rapporto vengono riportate anche alcune testimonianze di migranti. "Io avevo detto che ero scappato dal mio paese per gli scontri che ci sono…, c’è la guerra, volevano farmi combattere contro i miei connazionali", racconta ad esempio M., 23 anni, originario del Ghana. "Ma poi due giorni dopo mi hanno dato il foglio (il decreto di respingimento, nda) e via". Storia analoga anche quella di B., 22 anni, del Gambia. "Quando mi hanno intervistato io ho detto "Asylum! Asylum!", l’ho detto lo giuro. Ma poi mi hanno messo con gli altri, nigeriani, del Togo del Mali e ci hanno dato il foglio". "Gli avvocati non sono ammessi agli interrogatori, che avvengono solo con un interprete", spiega il direttore del programma Oxfam, Alessandro Bechini. "Sono gli stessi agenti di polizia a stabilire chi ha accesso e chi no alla protezione internazionale, una responsabilità che non spetta a loro". "La stessa distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici - aggiunge invece l’avvocato Paola Ottaviano, dell’associazione Borderline Sicilia - viene fatta in modo frettoloso e arbitrario, spesso per nazionalità". Nel tentativo di mettere un argine a questa situazione Oxfam, insieme a Borderline Sicilia e alla Diaconia Valdese, ha dato vita al progetto Open Europe che si propone di assistere quanti sono stati respinti. Dal 9 maggio un camper con a bordo un avvocato, un mediatore culturale e un operatore addetto all’accoglienza contatta i migranti aiutandoli a presentare il ricorso contro il decreto di respingimento e a preparare la richiesta di asilo, avviandoli verso le strutture di accoglienza. I soggetti più vulnerabili, come donne sole, incinte ma anche minori non accompagnati, disabili e persone con problemi psichici possono invece contare su un appartamento in provincia di Siracusa messo a disposizione dalla Diaconia Valdese. Perché il regime di al Sisi è nel mirino del terrorismo di Cecilia Tosi Il Dubbio, 20 maggio 2016 Dopo il golpe e le purghe del 2013 il Cairo è un obiettivo principe per i jihadisti. Da quando nel 2013 Abdel Fattah al Sisi ha preso il potere in Egitto ci sono state più di mille esecuzioni, con picchi di 683 condanne in un solo mese. Non ci va con la mano leggera il generale che tre anni fa ha destituito Mohamed Morsi, presidente regolarmente eletto, con la peggiore strage di massa nella storia contemporanea: 800 cittadini uccisi in poche ore solo perché avevano organizzato un sit in a favore del governo. Da quel momento, la Fratellanza Musulmana, il partito del presidente deposto, è stato messo fuori legge e i suoi militanti arrestati. Le persecuzioni non hanno fatto altro che radicalizzare gli attivisti sopravvissuti, e avvicinarli a chi non avrebbero mai voluto al loro fianco: i terroristi. Non è un caso se a gennaio di quest’anno i combattenti di Isis hanno rilasciato un video in cui invitano i Fratelli Musulmani in Egitto a "usare l’esperienza guadagnata nella ribellione contro Mubarak per deporre il regime apostata di al Sisi". In realtà, gli egiziani che hanno abbracciato Isis non sono moltissimi: principalmente i combattenti di Ansar Beit al-Maqdis, il gruppo armato del Sinai che conta solo qualche migliaio di reclute ma che occupa un’area cruciale per i commerci e i trasporti del Paese. Una spina nel fianco del regime di al Sisi, che ha cercato di isolare i combattenti svuotando circa il 90 per cento dei villaggi dell’area. Ma è dalla Libia che oggi arriva nuovo sostegno per il Califfato. Ed è sempre dalla Libia che arriva il potere negoziale del Cairo nei confronti dell’Europa. Gli egiziani sostengono infatti il generale Haftar che controlla ricche aree petrolifere della Cirenaica e che dichiara di combattere contro l’Isis libico, ottenendo in cambio lauti finanziamenti. Il generale però si rifiuta di concedere il suo appoggio al governo di unità nazionale di Serraj, fortemente voluto dall’Europa. Italia e Francia sperano che l’Egitto conduca Haftar a più miti consigli. In realtà, Il Cairo punta a rafforzare i suoi rapporti con i Paesi del Golfo, come l’Arabia Saudita, investendo i finanziamenti provenienti dalle petro-monarchie proprio nelle province del Sinai, vicino alla roccaforte delle organizzazioni terroristiche affiliate a Isis. Provocazioni che potrebbero essere dirette proprio a far esplodere la tensione e sferrare l’offensiva finale sui combattenti islamisti. Il rischio ora è che lo spettro del terrorismo internazionale venga usato ancora una volta per coprire altri tipi di delitti. Come l’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni, che il presidente al Sisi ha più volte attribuito allo Stato Islamico sostenendo che sarebbe servito a danneggiare la politica estera egiziana. Ma sulla matrice terroristica dell’incidente che ha provocato il crollo dell’aereo Egypair al largo di Cipro ci sono ancora dubbi e anche sull’origine dei presunti attentatori. All’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi stanno prendendo in considerazione tutte le ipotesi. Le operazioni di scalo si sono svolte in area sorvegliata, ma i dipendenti dell’aeroporto da mesi denunciano scarsa sicurezza nell’assegnazione dei controlli a ditte esterne. Lo stesso equipaggio di terra viene messo sotto indagine. Le Figaro riporta le parole di una guardia doganale che ha dichiarato che già in passato erano stati allontanati numerosi dipendenti dell’area di carico e scarico perché ritenuti salafiti - estremisti islamici. D’altronde a marzo un altro aereo egiziano era stato dirottato da un uomo geloso che voleva per forza rivedere sua moglie.