Giornata di Studi di Ristretti Orizzonti: "La società del non ascolto" di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2016 L’altra notte ho parlato per ore con la mia ombra. Poi lei s’è addormentata ed io sono rimasto sveglio. A parlare da solo, come i pazzi. (da "Ergastolani senza scampo" di Andrea Pugiotto e Carmelo Musumeci). L’altro giorno ho confidato a un mio compagno che se anche buona parte della società ci odia, e non ci perdonerà mai del male che abbiamo fatto, non per questo dobbiamo smettere di tentare lo stesso di dimostrare che possiamo diventare persone migliori. E una volta durante il progetto "Scuola Carcere" a una domanda di una ragazza, che si lamentava che "fuori" arrivano poche notizie dal "dentro" ho risposto che forse il motivo è perché là fuori non abbiamo nessuno che ci ascolta o forse perché le parole in carcere non hanno colore. Purtroppo la maggioranza dei detenuti nelle carceri italiane vive distaccata ed estraniata dal mondo di fuori in un universo di solitudine. Da noi arriva solo l’eco della vita che c’è al di là dal muro di cinta. E spesso non possiamo che aggrapparci solo ai ricordi per attenuare la nostra solitudine. Il 20 maggio 2016 nella casa di Reclusione di Padova ci sarà la Giornata di Studi che la redazione di "Ristretti Orizzonti" organizza tutti gli anni, dal titolo "La società del non ascolto". Parlerò davanti a settecento persone circa e mi sto già emozionando solo a pensarci. E questa notte mi è venuto in mente le molte volte che ho parlato da solo a voce alta fra le mura della mia cella senza nessuno che mi ascoltava a parte il mio cuore. Invece domani parlerò a persone in carne e ossa e sto pensando di dire che la società condanna il male, ma sono poche le persone che hanno voglia di ascoltare l’origine di quel male, probabilmente perché non gli interessa. Dirò che Le relazioni e gli incontri sono quelli che ci fanno crescere e sono convinto che i cattivi possono migliorare se li si educa alla tenerezza, all’amore e alla speranza, ma purtroppo il carcere, così com’è in Italia, rischia di insegnarci solo a diventare ancora più cattivi. Dirò che non ci dovrebbe essere migliore "vendetta" per la società che educare le persone, perché solo se cambi ti rendi conto del male che hai fatto, solo allora ti viene fuori il senso di colpa. E il senso di colpa è la più terribile delle pene, peggiore del carcere e dell’ergastolo, per fortuna (o sfortuna) molti non lo sanno e preferiscono solo tenerci in carcere e buttare via le chiavi. Dirò che negli occhi di un ergastolano non c’è speranza perché anche il nulla ti può tenere compagnia, ma spesso in carcere non c’è neppure quello. E che i detenuti possono cambiare e migliorarsi soltanto con l’amore sociale. Dirò che la cosa più brutta del carcere è che non si vive, ma si sopravvive, perché hai fin troppo tempo, peccato che sia tempo senza vita. E che il carcere che funziona è quello che produce amore sociale e non vendetta. Speriamo che qualcuna delle molte persone che saranno presenti ci senta e soprattutto speriamo che ci ascolteranno e che porteranno fuori la nostra voce. Suicidi in carcere, circa 3 al mese. Il Ministero prova a porre un argine di Oriana Sipala Quotidiano di Sicilia, 19 maggio 2016 Osservatorio Ristretti Orizzonti: da inizio anno si sono tolti la vita 13 detenuti, uno a Siracusa. Direttiva di Orlando: osservazione differenziata e spazi adeguati per i soggetti a rischio. C’è forse di base, nell’opinione comune e non solo, un’errata considerazione di cosa sia veramente il carcere, che poi si traduce di fatto in una palese negazione dei diritti del detenuto. Un non luogo, dove l’esistenza è cancellata, respinta ai margini della società, e dove qualsiasi tentativo di riabilitazione del soggetto è perso in partenza. Ed è forse proprio per questo che molti reclusi, circondati da sbarre e da mura indifferenti che lasciano poco spazio alla forza di credere in prospettive migliori, decidono di farla finita. Secondo il Dossier "Morire di carcere", realizzato da Ristretti Orizzonti e aggiornato al 10 maggio, nei primi mesi del 2016 si contano già 13 suicidi consumatisi all’interno dei penitenziari italiani, quasi un terzo del totale dei morti in carcere nello stesso periodo, che si attestano a 32 e tra i quali rientrano soggetti deceduti anche per altre cause. L’ultimo in ordine di tempo è stato un 45enne italiano che qualche giorno fa ha deciso di togliersi la vita nel penitenziario di Belluno: era in carcere solo da poche ore. Tra i suicidi del 2016 se ne conta uno anche in Sicilia, avvenuto nel carcere di Siracusa, dove un giovane di 25 anni ha deciso di farla finita. A questo si sommano quelli degli anni passati, cinque nel 2015, due nel 2014, quattro nel 2013, ma si potrebbe andare ancora a ritroso nel tempo. Tra quelli menzionati, cinque sono gli individui che si sono tolti la vita al Pagliarelli di Palermo, due nella prigione di Caltanissetta, uno all’interno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, mentre gli altri tre si trovavano rispettivamente nel carcere Bicocca di Catania, in quello di Sciacca e in quello di Noto. Tutti uomini, tra cui un paio di stranieri, con un’età media di 45 anni. Il più anziano ne aveva 64, il più giovane 40 in meno. Anni, questi, che non si tradurranno mai in vita vissuta. Consapevole della gravità del fenomeno, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, lo scorso 4 maggio, ha infatti indirizzato al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo una direttiva, al fine di attuare delle misure volte ad arginare il problema. "Si tratta di un fenomeno inquietante e intollerabile", ha denunciato il Guardasigilli nella direttiva, "rispetto al quale è necessario innalzare il livello di attenzione". In che modo? Sempre nella direttiva si legge che "verranno sviluppate opportune misure di osservazione del detenuto, differenziate a seconda della fase trattamentale e con particolare attenzione ai soggetti tossico-alcool dipendenti; saranno adeguati gli spazi detentivi destinati all’accoglienza dei soggetti a rischio, secondo criteri moderni e rispettosi della dignità della persona; saranno organizzati programmi formativi specifici per tutti gli operatori, favorendo l’interazione anche con coloro che da esterni operano nell’Istituto". Disposizioni, queste, che tengono conto di alcuni fattori di rischio, evidenziati dallo stesso ministro, come l’ambiente detentivo indifferenziato, l’isolamento, il disagio psicologico e mentale troppo spesso sottovalutato. Ma di questo ce ne parla ancor meglio Antigone. L’associazione che da anni lotta per i diritti dei detenuti ha da poco reso noti i risultati del XII Rapporto "Galere d’Italia", da cui emerge un quadro tutt’altro che confortante delle nostre prigioni. Il sovraffollamento, che certamente concorre a rendere precarie le condizioni dei ristretti in carcere, è ancora a livelli allarmanti, nonostante le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. Al 31 marzo 2016, infatti, il tasso di sovraffollamento nel nostro Paese (ovvero il numero dei detenuti rispetto alla capienza regolamentare) è pari al 108%, contro l’81,8% della Germania e l’85,2% della Spagna. Quasi 4 mila sono le persone prive di un posto letto regolamentare, mentre ben 9 mila sono i detenuti che vivono in meno di 4 mq, cioè al di sotto dei minimi standard stabiliti dalla Corte di Strasburgo. La Sicilia, però, almeno per quanto riguarda il problema del sovraffollamento, è una di quelle regioni in cui l’emergenza sembra rientrata. Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 30 aprile scorso, i detenuti nelle galere siciliane sono 5.789, su un numero totale 5.900 posti. La maglia nera invece spetta alla Lombardia, dove ci sono ben 2.000 carcerati in più rispetto alla capienza regolamentare, seguita da Puglia, Lazio e Campania, dove le eccedenze oscillano tra i 600 e gli 800 detenuti in più. Secondo Antigone, poi, solo il 30% dei ristretti è impegnato in attività lavorative. La maggior parte di essi è coinvolta in mansioni legate all’amministrazione penitenziaria, come quelle domestiche. Poco più di 17 mila erano invece gli iscritti ai corsi scolastici attivati all’interno delle carceri nell’anno 2014/2015, di cui solo 7 mila promossi. Nemmeno la metà. Tra le proposte di Antigone, c’è infatti quella di un ripensamento degli spazi per lo studio, il lavoro e la socializzazione, nonché una maggiore attenzione alla "formazione professionale dei detenuti in funzione di una loro partecipazione diretta ai lavori di manutenzione ordinaria". Tutti aspetti da tenere in seria considerazione, se è vero che la finalità delle carceri italiane non è rieducativa soltanto a parole. Sesso in carcere per i detenuti, in arrivo le love rooms di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016 Gli "spazi per la cura degli affetti" sono introdotti nel ddl di riforma del processo penale in discussione alla Commissione Giustizia del Senato. Secondo il relatore del testo, l’ex pm Felice Casson, l’approvazione arriverà entro l’estate. Sappe contrario. Antigone: "La carcerazione non deve costringere una moglie all’astinenza, né deve diventare un invito al tradimento e all’adulterio". Nelle carceri italiane potrebbero presto arrivare le "love rooms", tecnicamente spazi per la cura degli affetti, che metterebbero fine alla "pena accessoria di fatto" consistente nella negazione della sessualità ai detenuti. La novità è introdotta nel ddl di riforma del processo penale in discussione alla Commissione Giustizia del Senato. Diverse le proposte andate a vuoto negli ultimi 30 anni, ma questa potrebbe essere la volta giusta. Ne è convinto l’ex magistrato Felice Casson, relatore del testo, secondo il quale il ddl potrebbe essere approvato in aula prima dell’estate. In generale il provvedimento delega il governo a effettuare modifiche al codice penale e al codice di procedura penale "per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi" e, nello specifico, all’ordinamento penitenziario "per l’effettività rieducativa della pena". E se il Sappe, sindacato di polizia penitenziaria, ha già annunciato l’opposizione al provvedimento, l’associazione Antigone accoglie in modo positivo la novità. "Sono anni che spingiamo perché questo accada - ha spiegato a ilfattoquotidiano.it il presidente Patrizio Gonnella - non solo per garantire il diritto del detenuto, ma anche quello dei suoi cari". L’articolo 31 del ddl in esame - La possibilità di prevedere le "love rooms" è contenuta nell’articolo 31 del provvedimento: lo spirito è quello di favorire norme che considerino i diritti e i bisogni sociali, culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi dei detenuti. "Si tratta di un campo, come molti altri, sul quale siamo molto arretrati rispetto al resto dell’Europa" ha dichiarato all’Adnkronos Felice Casson, che nella sua lunga esperienza di inquirente aveva già avuto modo, negli anni ‘80, di visitare le carceri spagnole di massima sicurezza. "E lì venni a conoscenza - ha ricordato - di luoghi dedicati ai rapporti affettivi dei detenuti". Di fatto in altri Paesi quello alla sessualità è un diritto garantito già da molti anni nell’ambito della pena come rieducazione. Il confronto con gli altri Paesi - Su 47 Stati del Consiglio d’Europa, sono attualmente 31 quelli che autorizzano con differenti modalità e strumenti le visite affettive ai detenuti. Tra questi Olanda, Germania, Danimarca, Spagna e Portogallo. Come ricorda Mauro Palma, presidente del collegio del Garante del detenuto (ed ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura), l’intimità negata dalle condizioni carcerarie viene autorizzata "sotto varie forme che a volte cambiano anche all’interno dello stesso Paese". In alcuni sono previsti anche spazi per bambini e la possibilità di passare un intero week end all’interno del carcere. Di fatto ‘visite affettivè sono previste anche in diversi Paesi dell’Est, anche se spesso le condizioni delle strutture in questione lasciano a desiderare. L’associazione Antigone e il Sappe - "Si tratta di assicurare riservatezza nell’affettività, un diritto sacrosanto che nei paesi laici, non ossessionati dal tabù del sesso, viene garantito serenamente" ha spiegato a ilfattoquotidiano.it Gonnella. Secondo cui "è solo una questione di organizzazione". Per il presidente di Antigone è un passo necessario da compiere anche nel rispetto dei diritti dei familiari dei detenuti: "La carcerazione non deve costringere una moglie all’astinenza, né deve diventare un invito al tradimento e all’adulterio". Un invito ad essere pragmatici quello di Gonnella. "D’altro canto - ha sottolineato - qualunque sessuologo o psichiatra potrebbe confermare gli effetti negativi di questo tipo di proibizione sulla salute, sulle tensioni e, di conseguenza, sull’aumento di episodi di violenza nelle carceri". Contrario, invece, Daniele Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria. "Ci opporremo in tutti i modi perché questo provvedimento diventi realtà" ha dichiarato a Il Tempo. "Esistono i permessi premio - ha detto - durante i quali è possibile vivere la propria affettività". E poi c’è anche l’aspetto della sicurezza: "Il detenuto si chiude lì dentro da un minimo di 12 a un massimo di 24 ore e non c’è nessuno che possa verificare cosa accada realmente tra quelle mura". L’analisi del garante - L’argomento è stato al centro di un acceso dibattito anche nel corso dei recenti Stati generali dell’esecuzione penale, convocati dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È stata affrontata anche la questione legata alla necessità di modifiche normative per introdurre un nuovo istituto giuridico della visita (diverso dal colloquio, già garantito dal legislatore), incontri privi del controllo visivo e auditivo da parte del personale di sorveglianza. "Quando nel 2000 si tentò di inserire nel regolamento queste visite - ha ricordato Mauro Palma - il Consiglio di Stato disse no, chiedendo però delle modifiche alla normativa vigente". Solo una legge può modificarne un’altra, non un regolamento. Se l’opposizione al principio delle visite parte dal principio secondo il quale si potrebbero potenziare i permessi, per il garante questa logica non considera la vita sessuale come parte integrante dell’esistenza umana, né il fatto che si renderebbe "meno esplosiva la vita del carcere". E comporta tre contraddizioni. "I permessi sono dei premi mentre non si possono considerare le funzioni fisiologiche come dei premi; i permessi possono essere dati solo a chi sconta condanne definitive, ne verrebbero privati i detenuti in custodia cautelare; per alcuni reati, infine, è prevista il divieto di concedere permessi". "Antigone", un anniversario nel conflitto tra dignità umana e diritto di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) Il Manifesto, 19 maggio 2016 Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, ha venticinque anni di vita. Nata dentro e attorno al manifesto, con un impegno immutato. Antigone ha venticinque anni di vita. Abbiamo l’onere e l’onore di portare un nome pesante e ne sentiamo pienamente la responsabilità. Nella tragedia di Antigone il tema che ritorna più spesso è quello del conflitto. Sia nella versione di Sofocle che in quella di Jean Anouilh, tutto si dipana intorno ai conflitti. Il conflitto tra Antigone e Creonte è sia reale che simbolico. È il conflitto tra il corpo della donna e la legge, tra la condizione femminile e quella di uomo, tra due antropologie. È anche un conflitto tra due opposte visioni etiche ma allo stesso tempo tra due opposte visioni politiche. È il conflitto tra il governo degli uomini e il governo delle leggi, tra la nonviolenza e la violenza, tra la responsabilità sociale e l’egoismo individuale, tra l’immedesimazione e l’identità. Il conflitto tra Antigone e Creonte è una somma eterogena di conflitti. Se dovessimo trovare un contenitore più ampio di conflitti che li riassume tutti, con la propria scelta di disobbedire Antigone solleva il grande conflitto tra la dignità umana e il diritto. È questo un conflitto che sta tutto dentro la legge positiva e non deve essere collocato fuori da essa. La dignità umana non è qualcosa che sfugge al diritto essendo ben all’interno del sistema giuridico. Nonostante la sua origine sia non giuridica, la sua finalizzazione è nel diritto svelandone le lacune e le fallacie. Antigone disobbedisce pubblicamente al potere. Disobbedienza, nonviolenza e dignità umana sono tra loro profondamente irrelati. Se la tragedia di Antigone evoca tutto questo è evidente quanto sia oneroso il peso del nome. Significa stare dalla parte dei diritti e delle liberà fondamentali anziché dalla parte dei cultori dell’emergenzialismo. Significa sapere che bisogna difendersi dal diritto ma che nel diritto si può trovare la propria difesa. Significa optare per il dubbio contro le altrui certezze granitiche. Significa avere coscienza che il sistema penale deve essere garanzia - come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli - contro la violenza delle pene e dei delitti. Significa avere coscienza che invece esso diviene spesso strumento di giustizia (o ingiustizia) selettivo e di classe (e qui un ricordo va al nostro caro amico compianto Massimo Pavarini). Significa contrastare ogni deriva giustizialista e restituire dignità al garantismo. Significa contrastare le tendenze alla penalizzazione degli stili di vita e ad assimilare il criminale al nemico. Significa decarcerizzare il più possibile e lottare contro ogni forma di tortura, trattamento inumano o degradante. Significa ritenere che la cultura del rispetto non trova fondamento nel paradigma della proibizione. Significa occuparsi delle persone fragili rispetto all’istituzione forte. Antigone prima di essere un’associazione era una rivista veicolata dal quotidiano il manifesto. Siamo orgogliosi di questo antico legame. Un legame che non abbiamo mai fatto venire meno, anche nell’era dei social media e dell’informazione digitale. Insieme al manifesto, compagno di viaggio in questo lungo scorcio di esistenza, abbiamo fatto denunce, raccontato storie, provato a rompere il circolo vizioso dell’informazione stereotipata. Fu il manifesto che all’indomani della mattanza di Genova ci dette spazio per raccontare i Gom a Bolzaneto. È stato il manifesto a ospitare un editoriale di Stefano Anastasia che tra il sorpreso e l’indignato raccontava di quando ai tempi del ministro della giustizia Castelli (ebbene sì è capitato anche questo in Italia così come Borghezio sottosegretario con delega alle carceri) fummo dichiarati pericolosi al pari degli anarco-insurrezionalisti. È stato il manifesto a condurre insieme a noi una campagna per consentire ai giornalisti di entrare nelle carceri senza restrizioni. Nelle scorse settimane il nostro Mauro Palma è stato nominato Garante nazionale delle persone private della libertà. Era il 1997 quando a Padova per la prima volta Antigone lanciò il tema pubblico di un organismo di garanzia diverso dalla giurisdizione a cui affidare i diritti di detenuti e delle persone a qualunque titolo ristrette. Antigone e il manifesto hanno ancora molta strada insieme da fare e molte battaglie da portare avanti. Una per tutte: l’introduzione del delitto di tortura nel codice penale. Il codice etico, unico strumento contro malaffare e corruzione di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 19 maggio 2016 Una classe dirigente degna di tale nome dovrebbe essere consapevole che esistono pratiche non penalmente rilevanti ma non per questo meno moralmente disdicevoli da cui chi ha responsabilità politiche, burocratiche o imprenditoriali deve tenersi alla larga. Il dibattito sull’etica pubblica non cessa di infiammare il Paese, arrivando a investire anche aree di auto-dichiarata incontaminazione come il Movimento 5 Stelle. Ci si interroga circa il vero limite della purezza oscillando dall’avviso di garanzia alla condanna definitiva, ma senza dare risposte nelle quali non si scorga un velo di ipocrisia. La risposta è sempre quella che a seconda dei casi conviene di più. La verità è che la discussione sulle regole nasconde una generale e profonda allergia all’unico strumento efficace, tanto per i partiti e i movimenti quanto per gli enti pubblici e le imprese e le associazioni private: il codice etico. Bene ha fatto lunedì sera Piercamillo Davigo durante la trasmissione Next su Raidue a tornare sulle sue dichiarazioni al Corriere che nei giorni scorsi avevano scatenato un putiferio, per precisare che il problema non riguarda solo certi politici, ma l’intera classe dirigente italiana. "Per molto meno di quello che emerge in Italia all’inizio di una vicenda giudiziaria all’estero si dimettono. Da noi fanno cose orribili e dicono: ‘ Aspettiamo la sentenzà", ha chiosato il presidente dell’associazione magistrati. Verissimo. E non si può non ricordare come un certo cambio di passo nel mondo delle imprese private sia stato avvertito quando la Confindustria, sotto la spinta coraggiosa e decisiva del presidente dell’associazione siciliana Ivan Lo Bello, ha fatto propria una norma in base alla quale le aziende che non denunciano le richieste di pizzo vengono espulse dall’organizzazione. Anche se nello stesso mondo imprenditoriale si continuano tuttora a registrare resistenze diffuse al rispetto di regole etiche stringenti. Resistenze non evidenti, ma significative. Sotto forma di segnali. Un caso? Due anni orsono l’Ance vara un codice etico che abbatte radicalmente il tabù dei tre gradi di giudizio, decretando la sospensione dagli incarichi per chi viene rinviato a processo con l’accusa di gravi reati. Pochi mesi dopo arriva all’associazione dei costruttori una lettera della Confindustria nella quale, a scanso di equivoci, si rammenta che la presidenza sta per scadere, e che secondo le norme statutarie non può essere rinnovata né prorogata. Ineccepibile. Se non fosse che in tanti altri casi analoga sollecitudine non è stata usata. Così in politica. Da un lato la candidata sindaco di Roma Virginia Raggi ammonisce a non usare "gli avvisi di garanzia come manganelli", dichiarandosi comunque disposta a dimettersi su richiesta di Beppe Grillo, e dal lato opposto si sente Denis Verdini rivendicare con orgoglio: "sono innocente fino al terzo grado di giudizio". Il fatto è che troppo spesso il confine dell’etica viene identificato con i reati penali. Mentre una classe dirigente degna di tale nome dovrebbe essere pienamente consapevole che esistono pratiche non penalmente rilevanti ma non per questo meno moralmente disdicevoli, da cui chi ha responsabilità politiche, burocratiche o imprenditoriali ha l’obbligo di tenersi alla larga. Valgano come metro di paragone le regole che vietano a funzionari e responsabili istituzionali di accettare regali di valore introdotte da quasi tutti i governi dei Paesi sviluppati. È qui che interviene il codice etico, capace sotto certi aspetti di essere ancora più rigoroso ed efficace delle norme penali. Per esempio c’è chi, come l’ex giudice ed ex parlamentare Giuseppe Ayala, sostiene che l’annosa questione di quali intercettazioni telefoniche contenute negli atti giudiziari siano o meno pubblicabili si possa risolvere semplicemente adottando uno specifico codice etico per i giornali e i giornalisti, anziché ricorrere a leggi che inevitabilmente finirebbero per limitare la libertà di stampa. Il vero problema è che spesso anche i codici rimangono sulla carta, ridotti a semplice foglia di fico. Per questo è necessario che vangano applicati con serietà, avvalendosi di probiviri scelti con saggezza e preferibilmente terzi: cioè esterni alla categoria che adotta quelle regole. Ma si può stare certi che il contributo al recupero di moralità della nostra classe dirigente potrebbe essere davvero fondamentale. Anche grazie a un effetto collaterale non trascurabile, conseguente al fatto che violando un codice etico ci si espone non al giudizio indistinto della collettività ma a quello dei propri simili. È il risveglio del sentimento, tragicamente assopito da troppi anni, della vergogna. Il deterrente più micidiale che possa esistere contro malaffare e corruzione. La verità sui giudici fuorilegge di Piero Tony Il Foglio, 19 maggio 2016 La gogna del circo mediatico-giudiziario nasce perché i magistrati non sanno più fare indagini e oggi si spaccia per prova ciò che prova non è. Processo alla giustizia ingiusta. Credo che ormai sia chiaro e indiscutibile che, lo diciamo con un sorriso, il calo del numero degli spettatori di teatro, di cinema e di cabaret sia stato causato dai processi mediatici, eventi così denominati in quanto, come è noto, non gestiti con regole processuali ma inscenati dai media di solito con materiale giudiziario, spesso di non provata qualità. I processi mediatici funzionano meglio degli stessi reality show visto che i primi, oltre a essere di per sé complessi e congegnati, hanno qualcosa in più, soprattutto elementari dinamiche empatiche, che li rendono davvero avvincenti. Perché, diciamo la verità, dal tuo piccolo salotto i processi mediatici ti consentono di giudicare senza che nessuno ti contraddica, di gioire per quell’altro alla gogna e in ceppi che basta guardarlo nella foto dell’arresto e capisci che negli occhi ha qualcosa che non va, o per quel pallone gonfiato che credeva di essere chissà chi ed ora è finalmente nelle peste. Per non parlare di quei discorsi personali e un po’ piccanti "finalmente" venuti alla luce da discorsi intercettati e subito pubblicati. La sai l’ultima? Mi tratti come una sguattera e ti approfitti di me. La sai l’ultima? Dopo le riunioni al ministero quel bellimbusto si ritira in albergo e tra bagordi di ogni genere si fa anche sculacciare da una squadra di escort. La sai l’ultima? Non l’avrei mai detto ma Tonino l’ha saputo da Gianni che l’aveva saputo da Piero e mi ha assicurato che senz’ombra di dubbio sotto quell’aria da macho Peppino ama molto il dito birichino. E così via. Veramente uno spasso, non trovate? Un tripudio di pirotecnici titoloni - bignè chissà perché sempre in linea con la posizione dell’accusa, che come tutte le deflagrazioni non consente né difesa né interlocuzione e che inizia senza che mai si sappia chi ha acceso la miccia e continua per qualche giorno sui talk show - pochi giorni per fortuna trattandosi in genere di fuochi di paglia. Un tripudio però non previsto dalla legge anzi, lasciatemi dire, contro legge. Un tripudio incontrollato e quel che più conta incontrollabile, che oltre a crocifiggere mediaticamente l’indagato rischia anche di attizzare la pressione dell’opinione pubblica sulle indagini - con buona pace per il precetto di cui all’articolo 358 cpp ("il pubblico ministero… svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini") - e di consolidare un fatto compiuto, ossia un clima di suggestioni difficilmente scalzabile e in ogni caso condizionante il futuro processo che lontano si intravede all’orizzonte. Siamo vicini alla frutta ma ci si diverte a discutere anche quando non ce n’è bisogno. Si fa finta di non capire che libertà di stampa è cosa troppo seria per confonderla con libertà di nuocere chi ancora è persona dabbene a tutti gli effetti e, come se non bastasse, al solo e solito scopo di aumentare tiratura, rating o share. Si finge di non capire che il diritto di cronaca, come tutti i diritti fondamentali, per nessuna ragione al mondo può essere compresso e che proprio per questa ragione non può non essere seriamente e severamente autoregolamentato, cosa che oggi non accade nonostante che se ne blateri da decenni. Che il divieto di pubblicazione di atti ancora segreti - sempre ignorato - è norma di legge e non esercitazione perditempo del legislatore. Che le intercettazioni così come oggi codificate sono strumenti investigativi assolutamente irrinunciabili (anche se a parer mio verrebbe naturale, in un paese… non spaesato, prevedere la possibilità per la procura di richiedere al gip, prima dell’udienza filtro, l’archiviazione dei brogliacci e delle registrazioni ritenute dall’ufficio investigativamente irrilevanti, o quantomeno di quelle irrilevanti e nel contempo relative a dati sensibili di estranei caduti nella rete solo per caso) ma da governare prudentemente a norma di legge e non di ghiribizzo, tenendo presente che di solito - per dirla chiara - a telefono si chiacchiera e non si parla. E per dirla… forbita che, diversamente dal verbale dove ogni parola ha un suo peso meditato e reale, il "parlato libero" della quotidianità rivela sempre non solo per le regole di Ferdinand de Saussure ma anche, per comunissima esperienza, marcate e significative discrepanze - casuali e non, e variabili soprattutto secondo il maggior grado di affinità e di confidenza - nella relazione tra il piano dell’espressione significante e quello del contenuto significato. Dopo decenni si finge ancora di dimenticare che, nel Libro terzo, il codice di procedura penale regola con il Titolo Secondo le prove e con il Titolo Terzo "i mezzi di ricerca della prova" cioè non prove ma strumenti di indagine (ispezioni, perquisizioni, sequestri ed intercettazioni) funzionali a una futura e solo eventuale acquisizione probatoria. Si finge di non capire e si discute di qualsiasi cosa che consenta di commentare urlando i titoloni del giorno prima: è il così detto "effetto volàno" del processo mediatico. Di tutto lo scibile giudiziario, problematiche sociologiche o di sistema comprese: aiuto, la corruzione dilaga! Come se Manlio Cancogni non lo avesse scritto più di 60 anni fa - ricordate? "capitale corrotta nazione infetta" - e Cicerone qualche tempo prima. Va punita con ergastolo e fustigazione! Come se contro la corruzione non sia unica o principale arma il prevenirla con una concreta riforma della pubblica amministrazione che, semplificando e snellendo le procedure, precisi i diritti degli utenti e così renda vane questue e scorciatoie più o meno lubrificate; e come se i delinquenti - nel nostro caso corrotto e corruttore - mettessero in preventivo la possibilità di lasciarci lo zampino. Come se anche all’estero si facessero rinvii di anni e anche gli stranieri corressero il rischio di diventare nonni ed invecchiare serenamente in compagnia del proprio procedimento. Come se allungare i tempi di prescrizione anziché abbreviare quelli dei procedimenti non fosse illogico come ampliare i cimiteri anziché curare le malattie. Ecco, a causa della micidiale lentezza della giustizia e di un dibattimento conseguentemente sempre lontano all’orizzonte, questa festa di indagini sta divenendo centrale del nostro procedimento penale. In barba al codice che quelle indagini le prevede brevi, giusto il tempo di capire se si deve fare il processo oppure archiviare, e sicuramente non mediatiche. E di nuovo in barba quanto al dibattimento, immaginato dal legislatore non come paludato simulacro teatrale ma come unica fase deputata all’acquisizione delle prove al cospetto delle parti. E purtroppo in barba alla Giustizia, basta pensare al numero di procedimenti, con imputati detenuti in carcere, finiti dopo anni in una bolla di sapone. Un esempio recente? I fatti di Lodi, sicuramente gravi - chi potrebbe negare il danno sociale di quegli insolenti intrallazzi? - che però quanto alla reazione giudiziaria chissà perché mi hanno fatto tornare in mente il motivetto "… vengo anch’io? No tu no!" per via di quello che potrebbe apparire - alla luce delle sole notizie di stampa, naturalmente - una sorta di gioioso intruppamento emulatore, sorto sull’aire delle forti suggestioni del momento. Sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza non è dato pronunciarsi visto che le notizie dei media sono verosimilmente incomplete. Per tutto il resto c’è da chiedersi molte cose. La prima domanda che mi faccio: gli indagati di Lodi e i loro difensori avevano interesse alla propalazione delle notizie e sennò chi le ha divulgate? Direi proprio di no. E allora ad opera di chi e a quale scopo la notizia ha preso il volo? Visto il clima, "vengo anch’io" a dare lezioni di correttezza amministrativa e buone prassi? Direi proprio che è molto probabile. La seconda: attento come sono alla materia, come mai nemmeno io - l’hanno detto in tanti - ho ricordanza di altre carcerazioni che in passato siano state disposte per quel delitto di turbata libertà degli incanti (articolo 353 cp, meglio noto come turbativa d’asta) che, almeno per come risulta collocato e punito dal codice penale, tra quelli in danno della pubblica amministrazione è uno dei meno allarmanti? Mah, forse qualcosa sarà cambiato negli ultimi tempi. La terza: prescindiamo dalla fattispecie concreta; il solo titolo di reato, quando non concorre con i più gravi delitti di truffa, estorsione, concussione, corruzione, abuso d’ufficio ed altri - come invece e purtroppo sovente accade - può in astratto ossia sulla carta apparire da solo e per sé solo così grave da rendere tollerabile il ricorso al carcere? Possiamo dimenticare che fino al 2010 nella forma non aggravata codesto reato era punito con la reclusione fino a due anni tanto da non consentire né arresto né fermo né misure cautelari coercitive? E comunque la concreta condotta contestata nell’ambito di codesto reato (di certo molto odiosa, nonostante una base d’asta di solo 5.000 euro e l’assenza di violenze o minacce, per alcune miserabili furberie azionate a discapito degli aventi diritto) è così grave da far pensare in prima battuta alla misura coercitiva più pesante tra le numerose previste dal codice, a quella dei casi estremi e residuali, insomma alla custodia cautelare in carcere nei confronti di un cittadino presunto non colpevole ed assolutamente incensurato? Direi proprio di no, oltre che per comune buon senso perché l’articolo 275 cpp lo dice a chiare lettere che "nel disporre le misure il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto" (comma 1), e poiché "ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata (comma 2) e poi che "la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate" (comma 3). Eppure d’emblée è stata chiesta e ottenuta la custodia cautelare in carcere quando le esigenze cautelari sarebbero probabilmente cadute con un semplice sequestro dei computer minacciati di formattazione - quanto scherzosamente? - o, al limite, sarebbero rimaste fin dall’inizio soddisfatte con quegli arresti domiciliari che, dopo un bel po’ di carcere, qualche giorno fa sono stati finalmente concessi. Ed invece cultura e sensibilità giudiziaria rasoterra (a quando gli effetti dell’istituita Scuola Superiore della Magistratura? Vi si insegna anche modestia e rispetto?) hanno prodotto l’ammanettamento, la solita gogna mediatica, l’usuale bagarre politica, il già sperimentato rischio di vedere eliminato un soggetto politico con metodi non elettorali, il che non è poco per un paese democratico. È solo l’ultimo caso, almeno per ora, di scintillanti partenze in quarta con trombe e bignè poi finite nel dimenticatoio. "Che fine hanno fatto i casi Macchi di Varese e Corini di La Spezia?", mi ha chiesto stamani un amico confidando in un mio peculiare interessamento. L’ho dovuto freddare con un "boh". Per concludere riporto parte del testo dell’art. 111 della Costituzione: "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata… il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova". L’assalto mafioso ai parchi di Tonino Perna Il Manifesto, 19 maggio 2016 Il tentato omicidio del presidente del Parco regionale dei Nebrodi non è un fatto isolato, anche se finora in nessun parco naturale si era giunti a tanto. Quest’inverno una testa di capretto mozzata è stata appoggiata sul cofano dell’auto del presidente del Parco d’Aspromonte, che aveva già subito negli anni scorsi diverse minacce (con relativi proiettili in buste consegnate dal postino). Ed in passato anche i presidenti del Parco del Pollino, del Salento e del Vesuvio, che faceva abbattere le case abusive, avevano subito minacce. Ma, l’assalto più pesante, anche se poco conosciuto, è quello che le aree protette subiscono in tutto il mondo a causa di questo modello di sviluppo. Secondo la Iucn, l’International Union for the Conservation Nature, la superficie delle aree protette nel mondo è pari oggi a circa il 13 per cento delle terre emerse. Ne fanno parte tanto le riserve naturali a conservazione integrale, quanto i parchi naturali, che si distinguono in nazionali e regionali ed hanno un livello di protezione ambientale articolato in base al grado di antropizzazione dell’area. In Italia l’estensione delle aree protette è cresciuta esponenzialmente pochi anni dopo che è stata varata la legge 394/91, fortemente voluta dai Verdi e dal primo ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo. Si è passati così da 5 parchi naturali nazionali esistenti al 1991 ai 23 di oggi, più un centinaio di parchi naturali regionali e riserve di natura integrali. Purtroppo, a questa crescita quantitativa si è accompagnata, in tutto il pianeta, una perdita di qualità e valore d’uso dei parchi naturali, soggetti agli attacchi di interessi economici grandi e piccoli, a quella "guerra al vivente" ben descritta e documentata da Jean Paul Berlan (Bollati-Boringhieri, 2001). Dall’Alaska alla Colombia, dall’Equador alla Nigeria, dall’Australia ai grandi laghi della Federazione Russa, la guerra economica ai parchi naturali viene condotta in nome del progresso e dello sviluppo. Le leggi nazionali vengono fatte a pezzi, gli Stati concedono deroghe e contraddicono se stessi, premettendo alle imprese multinazionali di sfruttare risorse naturali, far passare oleodotti, scavare nuove miniere, sfruttare le rocce bituminose (shale gas), come nei parchi delle Rocky Mountains. Un caso emblematico, che è stato raccontato su questo giornale da Giuseppe Di Marzo e dalla indimenticabile Giuseppina Ciuffreda, è quello degli indios Ùwa nel Nord della Colombia. La multinazionale nordamericana Oxy aveva ottenuto dal governo colombiano la possibilità di sfruttare il petrolio presente nelle montagne dove vivono da sempre gli Ùwa. Era sempre andata bene alla Oxy (Occidental) come alle altre multinazionali presenti nel paese dei narcotraficantes. Bastava pagare qualche tangente, al governo e/o alla guerriglia o, più spesso, a tutti e due, e le cose si mettevano a posto. Non avevano considerato che in quelle montagne viveva un popolo che aveva ancora una cultura, un’identità e un credo. Non sapevano che per gli Ùwa "il petrolio è il sangue della terra, le sue vene, che gli danno la vita". Se togli il petrolio a quelle montagne è come se togliessi il sangue ad un uomo. Non pensavano che un piccolo popolo potesse arrivare a far causa ad una potente impresa multinazionale, che arrivasse a vincere la causa di fronte ad un tribunale degli Stati Uniti. È una storia che ha un grande significato: quando un luogo ha una forte valenza simbolica per un popolo non è in vendita, non c’è denaro, né tangenti che possano renderlo merce. Come ci ha mostrato Karl Polanyi in "La sussistenza dell’uomo", la conquista economica di un territorio è preceduta dalla sua disintegrazione culturale. Da una parte, il mito del Progresso e dello Sviluppo, che sottende i grandi interessi economici, dall’altra popolazione locali ed associazioni ambientaliste con pochi mezzi, che lottano per la sopravvivenza di siti naturali, di parchi e riserve di biosfera. È una lotta che nell’era del neoliberismo trionfante diventa sempre più dura, anche nel nostro paese. È da quando Altiero Matteoli è diventato ministro dell’Ambiente nel 2001 che è iniziato in Italia un lento ed inesorabile piano di emarginazione, sterilizzazione delle velleità di autonomia e tutela ambientale dei Parchi nazionali e regionali. Dopo la fortunata parentesi di Edo Ronchi, il ministero dell’Ambiente è stato gestito, non solo dal centro destra, sempre più come stampella per i disegni di grandi investimenti e grandi opere nel nostro paese: dalla Tav al Ponte sullo Stretto, la V.i.a. (Valutazione di impatto ambientale) del Ministero dell’Ambiente è stata sempre positiva. Da Portofino, dove il parco regionale è stato fortemente ridimensionato, al Parco regionale di Bracciano oggetto di un grande progetto speculativo, al terzo traforo del Gran Sasso, nel cuore del Parco nazionale, che mette a repentaglio le risorse idriche di 800mila abitanti, all’aeroporto di Malpensa che impatto fortemente sul prezioso Parco del Ticino, polmone verde della metropoli, fino all’abuso di parchi eolici ed elettrodotti che attraversano parchi ed aree protette. E questi sono alcuni casi fra i tanti, parte di un attacco quotidiano all’ambiente ed agli ecosistemi in cui ‘ndrangheta, camorra e mafia possono all’occasione costituire il braccio armato di interessi locali e/o internazionali, ma i mandanti sono altrove. Caso Yara, per Bossetti il pm chiede l’ergastolo e sei mesi d’isolamento di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 19 maggio 2016 Oltre al Dna, per l’accusa pesano le bugie, la mancanza di collaborazione e la crudeltà contro la vittima: "Non importa se non c’è un movente preciso". E cita il caso del camionista Roberto Paribello. Uno che ha mentito tutta la vita. Uno che non ha avuto nessun atteggiamento collaborativo, anzi ha tentato di scaricare la colpa su un collega. Soprattutto, un uomo capace di infierire su una tredicenne indifesa. E di abbandonarla agonizzante tra le sterpaglie di un campo isolato, in una notte d’inverno. Per questo il pm Letizia Ruggeri ha chiesto l’ergastolo e sei mesi di isolamento diurno per Massimo Bossetti, unico imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. È il massimo della pena prevista. Bossetti, 45 anni, carpentiere di Mapello con tre figli, è in carcere dal 16 giugno. "Totale incapacità a controllarsi, come Paribello" - Non importa, secondo il pubblico ministero, che, in definitiva, non sia stato individuato un movente certo, questo "non dà meno significato". Il pm cita il caso di Roberto Paribello, il camionista di Verdellino, che il 26 marzo del 2002 sequestrò, strozzò e gettò in un canale la 24enne praticante commercialista Paola Mostosi. Quel giorno vittima e assassino si erano incontrati per la prima volta in autostrada, tra i caselli di Dalmine e Capriate. Dal camion di lui era caduto un sassolino, che aveva colpito l’auto della ragazza. Così si erano fermati a compilare la costatazione amichevole, ma lei aveva minacciato di denunciarlo perché l’uomo le aveva toccato una gamba. A quel punto, era scattato il raptus. "Come fu nel caso di Paribello - sostiene Ruggeri, non sappiamo che cosa è scattato nella mente di Bossetti". Il camionista fu condannato nel 2003 all’ergastolo e all’isolamento. Per il pm, inoltre, Paribello e Bossetti sono caratterizzati dalla stessa "incapacità di controllarsi". "Totale incapacità di autocontrollo" che spinge Bossetti anche a scrivere le ormai note lettere "hard" alla detenuta Gina, in cui tornano, sempre secondo il pm, le ricerche "su ragazzine tredicenni" e a "sfondo sessuale" nei due computer di casa sequestrati e che "non è credibile siano state fatte dalla moglie di Bosetti, o non da sola, quindi sono certamente state fatte anche da lui". La crudeltà - Il pm ha concluso la lunga requisitoria pochi minuti prima delle 20, dopo dodici ore (tra l’udienza del 13 e quella di oggi, 18 maggio) in cui ha ripercorso dettagliatamente le tappe dell’inchiesta. Nella fase finale, ha insistito sull’aggravante della crudeltà: "Bossetti - rimarca - ha voluto cagionare le lesioni, ha voluto abbandonare Yara agonizzante, in un campo, dove non era possibile trovarla. Ha infierito sulla ragazza, ha voluto infliggere sofferenze aggiuntive. Sappiamo che Yara è morta dopo un’agonia particolarmente lunga". Il pm lo aveva descritto nella precedente udienza. Secondo quanto ricostruito, l’assassino ha aggredito la tredicenne nel campo di Chignolo d’Isola (dove fu trovata il 26 febbraio 2011), l’ha colpita alla nuca, allo zigomo sinistro e alla mandibola destra. Poi l’ha ferita con un’arma da taglio alla gola, ai polsi, sulla gamba destra, al busto e alla schiena. Ma non l’ha uccisa. L’ha abbandonata tra le sterpaglie ancora viva: "La presenza di acetone e di adrenalina nel corpo - sottolinea il pm - indicano che ha subìto uno forte stress, dovuto anche al freddo. Era sola, era al buio. Deve avere provato paura e dolore". Le bugie del "Favola" - Oltre che l’atteggiamento poco collaborativo, per il pm pesano pure le bugie raccontate da Bossetti, "bugie anche strutturate". Questo serve all’accusa per dire che "in questo processo ha sempre negato tutto, ma in modo inconcludente". "È una persona abituata a raccontare bugie - sottolinea Ruggeti, le ha raccontate tutta la vita". Al lavoro, dove aveva detto di avere un cancro e che la moglie lo aveva denunciato per maltrattamenti, lo chiamavano "il Favola". Ma è soprattutto la presunta calunnia nei confronti del collega Massimo Maggioni a inguaiarlo. Su di lui Bossetti avrebbe tentato di scaricare la colpa "di un delitto che sapeva bene di avere commesso". "Ha chiesto lui - aveva ricordato il pm nella scorsa udienza - di essere interrogato per dare spiegazioni su come il suo Dna fosse finito sulla vittima. E in che cosa si sono concretizzate? Ha detto che in cantiere si feriva spesso, che usava degli stracci per pulirsi e che Maggioni poteva averne preso uno. E perché? Perché il collega era invidioso che lui avesse una bella famiglia, perché dava sempre ragione al cognato, perché Maggioni guardava le ragazzine scendere dall’autobus vicino al cantiere, quando in realtà scendeva solo una bambina di sei anni". Il filmati del furgone - Il pm oggi ha anche attaccato la consulenza della difesa, effettuata da Ezio Denti, sul furgone ripreso dalle telecamere vicine alla palestra, la sera del delitto. Tra gli elementi contestati, c’è la misura del passo, cioè la distanza tra le ruote. L’accusa parla di "calcoli approssimativi che non tengono conto della prospettiva". Il riferimento è al confronto che Denti fa tra il passo e la lunghezza del cancello secondario del centro sportivo. Per gli inquirenti il perito non avrebbe tenuto conto del fatto che, rispetto al cancello, il furgone era più distante. La Ruggeri ha poi elencato i 16 elementi caratterizzanti, tra cui una macchia di ruggine, che portano gli inquirenti a credere che quello ripreso dagli obiettivi del distributore di via Locatelli, dell’azienda di via Caduti e Dispersi dell’Areonautica e di una banca in via Rampinelli sia l’Iveco del carpentiere. "Non possiamo dire cosa sia successo - conclude il pm - ma possiamo dire che Bossetti non era in un luogo così distante da non poter essere lì". Questo anche in base alle celle telefoniche e al papà che incrociò Yara mentre usciva dalla palestra tra le 18.40 e le 18.42. Il contatto in via Morlotti - La testimonianza di un passante che racconta di avere visto un furgone a tutta velocità svoltare da via Locatelli a via Morlotti, alle 18.40, è significativa per l’accusa perché collocherebbe il punto del contatto tra la vittima e l’assassino proprio in via Morlotti, cioè nella strada che sta tra la palestra e la casa dei Gambirasio. In via Morlotti, quella sera, a quell’ora, non c’era nessuno. In via Rampinelli, invece, una famiglia stava cambiando la gomma di un’auto. Se il contatto fosse avvenuto là, avrebbero visto qualcosa. La lunga requisitoria - Venerdì scorso il pm aveva già perlato per otto ore, nelle quali ha ripercorso dettagliatamente le tappe dell’inchiesta. Dalle difficoltà iniziali, quando non si aveva idea di cosa fosse successo alla tredicenne di Brembate Sopra, svanita nel nulla dopo avere salutato le compagne di palestra. Era il 26 novembre 2010. Fino all’indiscutibilità, per l’accusa, della prova regina: il Dna del carpentiere di Mapello sugli slip della ragazzina. "Non c’è dubbio che il Dna sia di Bossetti - dice il pm, un muratore bergamasco che aveva mille motivi, come ci ha confermato lui stesso, per passare davanti alla palestra di Brembate. Il Dna non ci ha portato a un pescatore siciliano o a un pastore abruzzese o a un immigrato". La sentenza entro metà giugno - La prossima udienza, venerdì, sarà riservata alle parti civili, dunque agli avvocati della famiglia Gambirasio. Poi, settimana prossima toccherà alla difesa. La sentenza è prevista entro la metà di giugno. Il garantismo di Santoro sulla gogna a Cosentino di Luca Rocca Il Tempo, 19 maggio 2016 Il conduttore tv in difesa dell’ex sottosegretario "Non sopporto che stia in galera senza processo". E alla fine persino Michele Santoro, colui che da decenni usa gli schermi televisivi come clave verso avversari politici, prende le difese di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario del governo Berlusconi in carcere, preventivo, da ormai mille giorni. Ospite al Salone del libro di Torino, infatti, l’ex conduttore di Servizio Pubblico ha sorpreso la platea con queste parole. "Non vi scandalizzate, ma non sopporto il fatto che Nicola Cosentino sia in galera da tempo senza processo. Le sue responsabilità politiche e morali nei confronti dei Casalesi mi sono chiare, ma lo stato di diritto non può venire meno". Coraggioso? Può darsi! Audace? Sicuramente! Dato a Santoro quel che è di Santoro, però, vanno rammentate almeno due cose. La prima è che, quando la Camera dei deputati negò l’autorizzazione ad arrestare Cosentino, accusato di collusione con la camorra, fu lo stesso giornalista ad affermare, senza tentennamenti, che con quella scelta "il Parlamento delegittima la magistratura". Pentito? La seconda riguarda il merito. Da dove nasce, infatti, la certezza di Santoro sul legame fra Cosentino e i Casalesi? Le inchieste che coinvolgono Nick ‘o mericano sono quattro: "Eco4", dove l’accusa è di concorso esterno in associazione camorristica: "Il principe e la scheda ballerina", su un presunto reimpiego di capitali illeciti allo scopo di realizzare un centro commerciale (mai costruito); estorsione, al fine di agevolare la società di carburanti dei fratelli Orsi; e infine corruzione degli agenti penitenziari. Finora, però, nessuno è riuscito a provare, ad esempio, che Cosentino abbia ottenuto i voti dei Casalesi. Nessun pentito, infatti, ha riferito di aver ricevuto richieste di aiuto elettorale dall’imputato. E nell’elaborare i flussi dei voti, inoltre, è saltato fuori che l’appoggio della camorra all’esponente del Pdl negli anni incriminati non esiste. Quanto all’intervento dell’ex sottosegretario per far ottenere un finanziamento bancario a Nicola Di Caterino, imprenditore ritenuto vicino alla camorra, per la realizzazione di un centro commerciale, va detto che l’operazione parte nel 2000 e ancora nel 2007 Di Caterino non ha in rubrica nemmeno il numero di telefonino di Cosentino. Le convinzioni di Santoro, dunque, poggiano, da un punto di vista giudiziario, sul nulla. A ciò va aggiunto che al processo sul concorso esterno stanno sfilando, come testimoni, anche i preti amici di don Peppe Diana, il parroco ammazzato dalla camorra nel lontano 1994. Don Carlo Aversano, ad esempio, soffermandosi sulle proteste del 2004 contro l’ampliamento della discarica di Parco Saurino a Santa Maria la Fossa, dietro le quali, secondo i pm, ci sarebbe stata la mano della camorra e quella di Cosentino, ha affermato che "in quel periodo la puzza proveniente dalla discarica era insopportabile, così, quando si seppe della decisione del Commissariato di ampliare il sito, i cittadini organizzarono un presidio fisso, e noi parroci ci unimmo alla protesta. Poi arrivarono anche i politici, come Gennaro Coronella e Nicola Cosentino. A loro ci rivolgemmo affinché la protesta avesse maggiore visibilità sui media". Lo stesso ex superiore di don Diana ha sgombrato il campo sulla presunta presenza, fra i manifestanti, dei figli del boss Francesco Schiavone: "Lessi sui giornali che avevano preso parte alle proteste, ma io non li ho mai visti sebbene li conoscessi". Un secondo prelato amico d’infanzia di don Diana, don Delio Pellegrino, ha poi aggiunto che "la Chiesa fu tra i promotori della protesta" e "Cosentino fu tra i politici che ci diede il maggior supporto, anche economico, in quanto provvedeva alla nostre primarie necessità". A difendere l’ex sottosegretario è stato anche Gianni Allucci, amministratore delegato di Agrorinasce, consorzio di sei Comuni che amministra centinaia di beni confiscati: "Cosentino - ha chiarito - ci è sempre stato vicino e si è impegnato anche presso la Regione e il ministero dell’Interno per farci avere i finanziamenti necessari per gestire i beni tolti ai clan". Infine, va ricordato che, secondo lo stesso Cosentino, don Peppe Diana era un suo elettore, e che tre anni fa anche Carmine Schiavone, pentito dei casalesi, rivelò di aver chiesto, nel 1991, allo stesso parroco di "appoggiare Cosentino alle elezioni provinciali". Alla luce di tutto ciò c’è da domandarsi se, fra qualche anno, Santoro cambierà idea anche sulla collusione dell’ex esponente del Pdl. Alle Sezioni unite la decisione sul concorso esterno per l’associazione criminale "semplice" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2016 Corte di cassazione, Prima sezione penale, notizia di decisione 13 maggio 2016 n. 10. La questione del concorso esterno è storicamente tra le più dibattute del nostro diritto penale. Almeno per quanto riguarda il diritto di cittadinanza della contestazione dell’appoggio a Cosa Nostra da parte di chi non è affiliato all’organizzazione. Adesso saranno le Sezioni unite a stabilirne la portata espansiva. La Prima sezione penale, al termine dell’udienza del 13 maggio, ha infatti rinviato a loro la risposta al quesito "se sia configurabile il cosiddetto concorso esterno nel delitto di associazione per delinquere prevista dall’articolo 416 del Codice penale". Una decisione che si preannuncia cruciale per mettere un punto fermo quando la giurisprudenza è ancora lontana dall’essersi assestata sul fronte dell’appoggio alla "sola" associazione mafiosa, articolo 416 bis del Codice. Negli ultimi mesi, per esempio, proprio in Sicilia due sentenze si sono espresse in termini opposti. Il Gip di Catania, lo scorso 16 febbraio, ha prosciolto un indagato per concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto che gli era imputato non è previsto dalla legge come reato. Il Gip, valorizza le conclusioni di due sentenze, entrambe del 2015, in tema di associazione mafiosa (sentenza n. 48 della Corte costituzionale e sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso "Contrada" del 14 aprile), per precisare che "anche alla uce delle superiori sentenze, occorre pregiudizialmente rispondere al quesito se sia previsto nell’ordinamento giuridico italiano il cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa. Al quesito si deve dare risposta negativa". Poche settimane dopo, invece, il 17 marzo, la Corte d’appello di Caltanissetta, ha respinto l’istanza di revisione del processo, presentata da Bruno Contrada, mettendo in evidenza come "al di là (...) delle suggestioni polemiche e delle esigenze di rafforzamento argomentativo che tali formulazioni possono esprimere, parlare di "inesistenza del reato" e di "mera creazione giurisprudenziale" del concorso esterno, per sintetizzare i contenuti della decisione della Corte Edu, costituisce se non un vero e proprio errore giuridico quantomeno una disinvolta forzatura tecnica". Nel rinviare alle Sezioni, in assenza delle motivazioni che saranno note solo tra qualche tempo, le Prima sezione ricorda le principali pronunce favorevoli all’uno o all’altro orientamento. Più risalente quello contrario alla configurabilità del concorso, sintetizzato, nel 1994, dalla sentenza n. 2343 in base alla quale "affinché una condotta sia ritenuta punibile a titolo di concorso in un determinato reato, ai sensi dell’articolo 110 Codice penale, sono necessari un contributo causale (materiale o semplicemente morale o psichico), e il dolo richiesti per il reato medesimo". Mentre nel 2012, la Cassazione, sentenza n. 47602, sottolineava la rilevanza penale di prestazioni occasionali di singoli comportamenti dotati di "idoneità causale" per il raggiungimento dello scopo dell’associazione criminale o per la conservazione della sua struttura. Giudici di pace, "riparazione" efficace solo se integrale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 20542/2016. La riparazione del danno nei reati di competenza del giudice di pace ha effetto estintivo solo se integrale, se è estesa alle conseguenze non patrimoniali e se è eseguita nei confronti di tutti gli aventi diritto. Inoltre, l’eventuale concorso di colpa della vittima deve essere ricavato (e dimostrato) dalle "emergenze probatorie" del procedimento, e deve incidere proporzionalmente nella (eventuale) riduzione del risarcimento riparatorio. La Quarta sezione penale della Cassazione (sentenza 20542/16, depositata ieri) ha annullato con una motivazione rescindente il "non doversi procedere" pronunciato dal giudice di pace di Busto Arsizio a margine di un grave incidente stradale, costato 85 punti di invalidità a uno straniero di 36 anni, travolto da un’automobilista del posto. Succinta e contraddittoria la motivazione scritta dal gdp lombardo, insufficiente non solo nell’articolare la scelta di estinguere il reato, ma ulteriormente in conflitto con se stessa quando rimetteva al giudice civile la complessiva determinazione degli ulteriori danni non ristorati. Secondo la Quarta, il dettato dell’articolo 35 della legge istitutiva delle competenze del giudice di pace ("Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie") è sufficientemente chiaro laddove esige le avvenute "restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato" per sfociare nel non luogo a procedere. Nel caso specifico, il magistrato lombardo non aveva considerato il danno riflesso - sia patrimoniale che non - sui familiari conviventi, rinviando addirittura al tribunale civile l’eventuale integrazione del dovuto, salva tra l’altro l’incidenza del concorso di colpa dell’investito. Dopo aver tacciato la motivazione come "meno che un simulacro", la Quarta ha annullato la sentenza con rinvio, fissando i canoni per il nuovo giudizio, dal risarcimento integrale del danno biologico e non a tutte le parti danneggiate, all’attenta valutazione del concorso di colpa - semmai emergente dalle risultanze processuali - con l’avviso che la riduzione eventuale del risarcimento dovrà essere quantificata e incidere proporzionalmente su tutte le voci di danno e nei confronti di tutti i danneggiati. Il codice dei commercialisti sulle sanzioni "guarda" al penale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2016 Codice delle sanzioni dei commercialisti. I propositi che stanno alla base del Codice delle Sanzioni disciplinari elaborato dal Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti e revisori contabili sono da condividere e apprezzare. È infatti innegabile che il lavoro dei professionisti viene talvolta offuscato da semplicistici pregiudizi, che fanno torto al ruolo indispensabile che essi hanno in molti settori economici e sociali. Di qui la decisione dei commercialisti di dare un segnale forte - agli iscritti all’albo, ma anche alle istituzioni - attraverso un’autoregolamentazione caratterizzata da una severa tipizzazione delle tipologie degli illeciti disciplinari, e da automatismi nella determinazione delle sanzioni volti a evitare disparità di trattamento. Una prima lettura delle nuove disposizioni suscita però qualche riflessione, che è auspicabile venga affrontata e risolta dagli Ordini territoriali nel periodo di consultazione che durerà fino al 30 giugno, ferma restando l’importanza che il diritto vivente avrà per collocare le novità nella concreta fisionomia del procedimento disciplinare. Sono evidenti le influenze che il Codice subisce dagli istituti del diritto penale: si pensi all’introduzione del principio di "colpevolezza" dell’illecito disciplinare e dell’illecito disciplinare "circostanziato", o all’importanza riservata a elementi quali il danno da illecito disciplinare e il "ravvedimento" dell’iscritto. Novità condivisibili, tranne che nei casi di violazione degli obblighi formativi, che appaiono difficilmente distinguibili in casi di "dolo" o "colpa", e che perciò forse avrebbero meritato una collocazione autonoma dal Codice. Altrettanto pregnanti sono le similitudini tra la sanzione disciplinare - alla quale le nuove norme si propongono l’obiettivo di attribuire una natura sempre più afflittiva, anche attraverso l’individuazione di minimi e massimi edittali collegati al singolo illecito - e il concetto di "pena". Qualche falla può essere rappresentata dall’assenza di una disposizione che aiuti i giudici a districarsi nelle situazioni in cui concorrano aggravanti ed attenuanti. Basta pensare al caso di un incolpato che abbia cagionato un grave danno - ovvero un’aggravante che può talora comportare la radiazione - in assenza però di dolo, cioè un’attenuante che consente importanti diminuzioni della sanzione. L’assenza di una norma di coordinamento lascia ampia discrezionalità nella graduazione della sanzione - forse andando oltre alle intenzioni del Consiglio nazionale - dato che l’unico limite è quello dell’onere motivazionale, introdotto dall’articolo 10. La natura particolarmente afflittiva che ci si propone di attribuire alla sanzione disciplinare non può poi escludere aprioristicamente - nei casi di procedimento penale e disciplinare per i medesimi fatti - l’applicazione del divieto di bis in idem, secondo i parametri indicati dalla giurisprudenza europea. È il caso della violazione del principio di riservatezza (articolo 17), che nei casi aggravati può comportare la sospensione dalla professione superiore a un anno: ovvero una pena in concreto ben più afflittiva - si pensi al danno economico che crea al professionista - di quella in ipotesi applicabile in sede penale per la violazione dell’articolo 622, Codice penale (rivelazione di segreto professionale), che prevede nel massimo la reclusione fino a un anno, ma che può rimanere priva di conseguenze concrete se viene concessa la sospensione condizionale. Tutto ciò è altamente condivisibile, dato che lo strumento penale dovrebbe essere residuale e lasciare il passo alla giustizia disciplinare, e se del caso a quella civile, in tutti i casi di condotte professionali che non abbiano comportato un danno agli interessi dello Stato. Purché epiloghi di questo genere vengano incoraggiati dalla giurisprudenza, e il diritto di difesa dell’incolpato venga sempre effettivamente garantito dalla celebrazione di un procedimento disciplinare attento al rispetto dei principi del giusto processo. Natura di reato permanente del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2016 Famiglia - Reati contro la famiglia - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza - Natura permanente del reato. Il delitto di violazione degli obblighi di assistenza è un reato permanente a condotta omissiva; la permanenza cessa nel momento in cui viene meno la condotta antigiuridica per volontà dell’obbligato o per altra causa. Ne deriva che il reato di cui all’ articolo 570 c.p. permane fino a quando la condotta di sottrazione agli obblighi non cessi in maniera definitiva, non avendo rilievo, ai fini in disamina, adempimenti parziali od occasionali. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 6 maggio 2016 n. 19000. Famiglia - Reati contro la famiglia - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza - Natura permanente del reato - Conseguenze - Inapplicabilità delle cause di estinzione del reato alle singole violazioni. Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’articolo 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., è reato permanente, che non può essere scomposto in una pluralità di reati omogenei, essendo unico ed identico il bene leso nel corso della durata dell’omissione, ne deriva che le cause di estinzione del reato operano non in relazione alle singole violazioni, ma solo al cessare della permanenza, che si verifica o con l’adempimento dell’obbligo eluso o, in difetto, con la pronuncia della sentenza di primo grado. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 13 novembre 2015 n. 45462. Famiglia - Reati contro la famiglia - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza - Reato permanente - Modalità di contestazione con l’individuazione della data d’inizio della condotta - Cessazione della permanenza - Decorrenza del termine di prescrizione. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, quando la condotta è contestata con l’individuazione della sola data d’inizio, il termine di prescrizione - trattandosi di reato permanente - decorre dalla data della sentenza di condanna di primo grado e non da quella di emissione del decreto di citazione, qualora sia emerso, nel corso del giudizio, che la condotta omissiva si è protratta anche dopo l’esercizio dell’azione penale. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 28 luglio 2015 n. 33220. Famiglia - Reati contro la famiglia - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza - Inadempimento degli obblighi ex articolo 3 L. n. 54/2006 - Natura di reato permanente - Consumazione. In tema di reati contro la famiglia, le condotte di inadempimento degli obblighi di natura economica previsti dall’articolo 3 legge 8 febbraio 2006, n. 54 costituiscono un unico reato permanente, la cui consumazione termina con l’adempimento integrale dell’obbligo ovvero con la data di deliberazione della sentenza di primo grado, quando dal giudizio emerga espressamente che l’omissione si è protratta anche dopo l’emissione del decreto di citazione a giudizio. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 5 febbraio 2015 n. 5423. Il dott. Spataro si scuserà con Petrilli? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 19 maggio 2016 Voi sicuramente sapete chi è il dottor Spataro. È il procuratore di Torino. È un esponete molto attivo della parte più politicizzata della magistratura. L’altro giorno abbiamo pubblicato una e-mail che lui ha indirizzato agli esponenti della sua corrente, nella quale, proprio come un capo partito, chiede la mobilitazione contro la riforma costituzionale voluta da Renzi. Spataro è uno dei leader di quel pezzo di magistratura che ritiene che il compiuto dei magistrati sia non solo quello di giudicare sulla violazione delle leggi, ma anche - o forse soprattutto - quello di vigilare sulla realizzazione delle leggi. Voi invece, molto probabilmente, non sapete chi è Giulio Petrilli. Ve lo dico io e poi brevemente vi racconto la sua storia che di sicuro sarebbe piaciuta davvero molto a Franz Kafka. Giulio è un signore pacifico e perbene. Ha 58 anni. Si occupa di tante cose, viaggia per il mondo sia per conoscerlo meglio sia per mettere insieme un reddito che gli permetta di vivere. Nella sua biografia c’è un buco di sei anni - quando ne aveva una ventina - che non gli ha permesso di organizzarsi la vita come voleva. Fra poco vi dico perché. Nel 1976 Giulio aveva 18 anni, viveva a L’Aquila, andava a scuola, era di sinistra, faceva politica studentesca e si era iscritto al Pdup, partito moderatamente alla sinistra del Pci. Un tipo tranquillo: assemblee, riunioni, volantini, cortei. Qualche anno più tardi, quando andava già all’università, la notte prima del natale 1980 (di anni ne aveva 22) i carabinieri fecero irruzione in casa sua, terrorizzarono i suoi genitori e anche lui, spianarono i mitra, gli misero le manette e poi con una Alfa Romeo e a sirene spiegate lo portarono a Legnano. "Che ho fatto?", chiedeva Giulio, "Che volete da me?". Silenzio. In cella. Terrore, angoscia. Poi finalmente, dopo qualche giorno di disperazione, arrivò un magistrato. Un giovanotto di trentadue anni, appena un po’ meno ragazzo di lui. Gli disse: "Pèntiti e facci i nomi". "Di che? Di chi?", rispondeva Giulio, esterrefatto. "Dei tuoi complici, di quelli di "prima Linea"". Finalmente Giulio capì che lo accusavano di terrorismo. Ma lui non sapeva un fico secco di terrorismo. E non si capacitava, non aveva idea del perché di quelle accuse. Poi seppe che era stato un pentito balordo a tirare giù quel nome, il suo, chissà perché, o chissà convinto da chi. Il giudice fu chiaro: o collabori o ti fai vent’anni in carcere. "Ma io non ho niente da dire", rispose Giulio. Allora in isolamento, disse il magistrato. Beh, si: quel magistrato si chiamava Spataro. Armando Spataro. Non aveva uno straccio di prova per accusarlo: voleva la confessione e qualche nome. Non li ebbe mai, naturalmente. Giulio in primo grado si prese 11 anni. Restò in cella fino al 1897. Passò in prigione la sua giovinezza. Poi il solito giudice onesto e scrupoloso - c’è sempre un giudice a Berlino, come sapete - lo assolse con formula piena. E la Cassazione confermò. Giulio uscì. Chiese il risarcimento per quei sei anni. Ne aveva diritto. Ovvio. Beh, sapete che è successo? Gli hanno detto di no. Neanche un euro. Perché? Perché - gli hanno detto - tu frequentavi brutta gente e perciò hai indotto in errore i magistrati. C’è mancato poco che non gli chiedessero di rimborsare il vitto per quei sei anni! Capito? E che deve fare un povero magistrato se ti vede ion cattiva compagnia? Ti arresta, ed è colpa tua se sei innocente. Sei un Lo so che non ci credete, ma è così. Secondo voi il dottor Spataro, che ha rovinato la vita di Giulio perché ha sbagliato clamorosamente un’indagine, si è pentito? Si è preoccupato, almeno, di chiedergli scusa? Ma per carità... Sardegna: Sdr; Dap procede d’ufficio per direttori in 5 istituti penitenziari della Regione Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2016 "È stata finalmente riconosciuta l’emergenza gestionale dei 5 Istituti sardi alcuni da anni senza Direttore. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dopo le insistenti segnalazioni, ha infatti assunto l’iniziativa di disporre d’ufficio la copertura delle sedi vacanti. Un segnale importante anche se l’assegnazione è provvisoria in quanto copre per ora solo 6 mesi". Lo afferma Maria Grazia Caligaris con riferimento alla determinazione del vice capo del Dipartimento Massimo De Pascalis. "L’incarico, della durata di 6 mesi con trattamento di missione, è relativo - precisa Caligaris - alle strutture detentive di Mamone, Is Arenas, Nuoro, Lanusei e Tempio Pausania che sono state infatti individuate per la particolare condizione critica. Da troppo tempo le sedi sarde, in assenza di un titolare, erano state assegnate ai cinque direttori di ruolo. Particolarmente difficile da gestire con doppio incarico è la Colonia Penale di Mamone per la dislocazione in un’area dove durante i mesi invernali la neve impedisce spesso gli spostamenti. Non meno importanti per le attuali caratteristiche dei detenuti, garantendo il rispetto dei loro diritti, le sedi di Nuoro, Tempio Pausania, Lanusei e Is Arenas. "Il dirigente sarà individuato - si legge nella determinazione a conferma dell’eccezionalità della situazione isolana - attraverso l’ordine inverso di ruolo tra i vice direttori delle sedi di servizio in esubero". "Viene infatti altresì precisato nella lettera di accompagnamento inviata dal Direttore Generale del personale del Dap Pietro Buffa agli interessati che per "il termine vice direttore va inteso anche riferito alle posizioni di direttore aggiunto nei provveditorati e nella sede centrale". "Un’elegante sottolineatura - rileva ancora la presidente di Sdr - che sembra confermare gli esuberi nel Ministero se è vero che i direttori sono complessivamente 294 e gli Istituti 193". "In attesa che si completi il quadro dei Direttori, del resto annunciato personalmente dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando ad Ales in occasione della premiazione delle opere pittoriche del concorso "Gramsci visto da dietro le sbarre, occorre anche considerare che devono essere assegnati due vice direttori alla Casa Circondariale di Cagliari-Uta, l’Istituto più grande della Sardegna, e uno a quella di Sassari-Bancali, dove è stato attivato il Padiglione destinato ai 41bis. Ciò eviterebbe situazioni assurde come quella di tre Direttori - conclude Caligaris - per dieci Istituti, una condizione che si ripete in caso di ferie o di malattia di uno dei responsabili". Roma: venti detenuti di Rebibbia al lavoro per il Giubileo, parte progetto Agenparl, 19 maggio 2016 Al via l’impiego dei primi venti detenuti selezionati per il progetto dei lavori di pubblica utilità in aree e percorsi cittadini interessati dallo svolgimento del Giubileo Straordinario della Misericordia. A partire da oggi i detenuti provenienti dalla casa di reclusione di Rebibbia (14), dalla Casa circondariale femminile Rebibbia "G. Stefanini" (4), dalla Terza Casa circondariale di Rebibbia (2) parteciperanno a tre giorni di formazione per quattro ore giornaliere, a cura del Dipartimento Tutela Ambientale di Roma Capitale, presso la Casa del Giardinaggio di Roma. Al termine del modulo formativo dieci detenuti saranno immediatamente impiegati in attività di pulizia e decoro del verde presso il Colle del Gianicolo, i giardini di via Garibaldi e a Villa Sciarra; due detenuti presso i giardini di Piazza Vittorio; otto detenuti presso i giardini di via Carlo Felice, S. Giovanni in Laterano e S. Croce in Gerusalemme. Il progetto è stato attivato sulla base degli accordi raggiunti il 21 aprile 2016 tra il Capo del Dap Santi Consolo, il Dipartimento Tutela Ambientale di Roma Capitale ed Ama spa di seguito alla Convenzione quadro stipulata dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal Commissario Straordinario di Roma Capitale Prefetto Francesco Paolo Tronca lo scorso 7 aprile. Alghero: il carcere non chiude, sono arrivati quaranta detenuti di Gian Mario Sias La Nuova Sardegna, 19 maggio 2016 L’annuncio di Mauro Pili (Unidos) aveva allarmato i sindacati. Ora i reclusi sono 100 a fronte di una capienza di 159 unità. "Nel carcere di Alghero sono arrivati 40 nuovi detenuti provenienti dalle altre strutture della Sardegna, ora gli ospiti del nostro istituto sono 100, mentre la capienza massima è di 159 carcerati". Interpellata, Elisa Milanesi, che dirige la casa di reclusione "Giuseppe Tomasiello" di Alghero, spende pochissime parole per sciogliere indirettamente i dubbi, le preoccupazioni e le polemiche che per un mese sono entrate e uscite dalla struttura di via Vittorio Emanuele con molta libertà. La dirigente evita qualsiasi tipo di commento o di valutazione, lasciando che sia la politica a dare spiegazioni delle decisioni che prenderà. Ma l’annuncio dei nuovi quaranta detenuti appena arrivati ad Alghero sono una risposta eloquente alle perplessità sollevate dal deputato Mauro Pili. Tre settimane fa il leader di Unidos aveva svelato un piano del Dipartimento per l’attività penitenziaria per svuotare il carcere di Alghero, chiuderlo e destinarlo alla nuova funzione di centro di accoglienza per 300 profughi. Alle smentite delle autorità del sistema penitenziario regionale e nazionale, l’ex presidente della Regione aveva replicato difendendo l’attendibilità delle sue fonti e compiendo un’attività ispettiva all’interno del carcere per acquisire ulteriori elementi a supporto della sua tesi. L’interessamento dell’ex sindaco di Iglesias per il "Tomasiello" ha messo in allarme l’intero sistema sindacale della polizia penitenziaria. Non più tardi di cinque giorni fa, le quattro organizzazioni che rappresentano la polizia penitenziaria hanno scritto al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Maurizio Veneziano, al Capo del Dipartimento per l’attività penitenziaria e all’ufficio Relazione sindacali dello stesso dipartimento. "L’amministrazione penitenziaria ha smentito le affermazioni di Pili, che però ha "smentito la smentita" dell’amministrazione e in seguito alla visita ispettiva compiuta da parlamentare ha raccolto e diffuso dei dati dai quali emerge una situazione a dir poco allarmante, che corrobora la tesi da lui sostenuta sulla chiusura dell’istituto", era stata la denuncia di sabato scorso. "Stando alle informazioni, a fine anno ci dovremmo trovare a gestire 26 detenuti - avevano detto tra l’altro - e l’interrogazione parlamentare sull’esito della sua visita all’istituto non ha ancora trovato risposta". A quella del leader di Unidos ha fatto seguito anche l’interrogazione di Nicola Molteni della Lega. I dati confermati da Elisa Milanesi spazzano via ogni dubbio. Milano: quasi assolto il sacerdote che pretendeva favori sessuali dai detenuti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 maggio 2016 Un cappellano che nel carcere di San Vittore pretendeva favori sessuali dai detenuti facendo leva sullo "stato di bisogno" di chi si rivolgeva a lui per avere sigarette, shampoo, saponette: su questa ricostruzione le pm del pool del procuratore aggiunto milanese Piero Forno nel 2014 avevano chiesto la condanna a 22 anni di don Alberto Barin (arrestato il 20 novembre 2012 per violenze sessuali su 12 detenuti), ridotti a 14 anni e 8 mesi dal rito abbreviato. E il giudice Luigi Gargiulo aveva sì condannato il prete, ma a 4 anni, alzati dall’Appello a 5 anni e 4 mesi. Ora però il quadro cambia del tutto in Cassazione. Che annulla senza rinvio, "perché il fatto non sussiste", la parte di condanna (parametro della pena base) sui 12 casi di "induzione indebita a dare utilità". Poi annulla senza rinvio la condanna per "violenze sessuali" su 8 casi (intercettati in cella dalle pm Daniela Cento e Lucia Minutella) nei quali esclude l’"abuso d’autorità" da parte del cappellano del carcere. E conferma solo la condanna per 2 baci e 2 toccamenti: 4 episodi il cui carattere "repentino" integra la qualificazione di "violenza sessuale", seppure di "minore gravità". Il risultato, per il prete difeso da Mario Zanchetti, è che ora il pg di Milano dovrà ricalcolare la pena superstite: che però, di certo inferiore ai 3 anni e mezzo di custodia cautelare già trascorsa tra carcere e domiciliari (in convento), imporrà la scarcerazione per fine pena già espiata. Brescia: corso di criminologia dietro le sbarre, insieme studenti reclusi e liberi di Marco Toresini Corriere della Sera, 19 maggio 2016 Prospero: "Quando mi sono iscritto non sapevo se fossi ancora capace di studiare". "Quando ho incominciato a frequentare questi "alberghi" erano gli anni 70, il carcere era tutta un’altra cosa. Quella dell’ educatore, giusto per far capire, era una figura che stava muovendo i primi passi all’interno dei penitenziari". Prospero, capelli bianchi mani dalla stretta cordiale, di "alberghi", come chiama lui le carceri con uno slang da vecchia mala, ne ha passati tanti. Ma ora ha ripreso in mano la sua vita e sta cercando, tra le mura della casa di reclusione di Verziano, di cambiare rotta. Così, non più giovane, si è buttato in un’avventura che fino a qualche anno fa gli sembrava aliena. "Sono tornato sui libri - spiega - e mi sono iscritto a Giurisprudenza. Non sapevo nemmeno se fossi ancora in grado di studiare, per me era una scommessa". Prospero parla da studente davanti agli studenti del corso di Criminologia Penitenziaria del Dipartimento di Giurisprudenza tenuto dal professor Carlo Alberto Romano, in una lezione - confronto che si svolge fra le mura del carcere di Verziano. Proprio Romano, in collaborazione con la direttrice del penitenziario di via Flero, Francesca Paola Lucrezi, ha portato i suoi studenti (che saranno futuri avvocati, magistrati, funzionari di polizia e - perché no - potenziali direttori di carcere) ad una lezione sul campo. In prima fila, però, si sono seduti gli studenti detenuti iscritti a Giurisprudenza grazie alla convenzione fra il carcere e l’Università che qui ha creato, dieci anni fa, il primo polo universitario lombardo. Garantire il diritto allo studio. Attualmente sono una decina gli studenti universitari distribuiti tra Statale, Cattolica e altri istituti universitari. "Un percorso non semplice per chi sta in carcere - ricorda il professor Romano, anche perché molti detenuti sono in un regime che non permette di frequentare i corsi con gli altri studenti". Ieri però è stato un giorno particolare anche per chi non ha mai potuto condividere il suo percorso formativo con gli studenti "liberi", in una lezione in cui si è parlato di diritti costituzionalmente garantiti che non sono sospesi per il semplice fatto che una persona è stata condannata. "Noi non siamo qui per giudicare, lo hanno fatto altri prima di noi - spiega la direttrice del carcere Francesca Paola Lucrezi - ma per poter garantire l’espiazione di una pena nel rispetto di alcuni diritti fondamentali come il diritto allo studio, al lavoro, alla salute, alla libertà di culto, all’affettività che ogni persona ha a prescindere dal fatto di essere dentro una prigione". Gli sforzi per garantire questi diritti sono quotidiani e, date le risorse, i risultati non sono mai garantiti. Quello allo studio, qui a Verziano, è certamente uno di quelli su cui ci si è spesi con più profitto. "Io ho sempre incontrato studenti preparati, nonostante studiare in carcere non sia facile" interviene Carlo Alberto Romano. In prima fila sorride Omar, in cella c’è finito 10 anni fa a 35 anni e il suo passato è macchiato di sangue. Ma ora vuole raccontare un’altra storia: quella di una persona che in carcere ha conseguito il diploma di maturità e poi si è iscritto a Giurisprudenza: i primi esami in carcere e poi, quando la legge lo ha permesso, in facoltà. "Ora me ne mancano cinque alla laurea". E il volto di Omar si illumina: come un arcobaleno in certe giornate piovose. Firenze: convegno sull’affettività in carcere, presente anche il presidente Giani gonews.it, 19 maggio 2016 Un seminario sulla tutela dell’affettività nelle carceri toscane è stato organizzato per il pomeriggio di oggi, giovedì 19 maggio, in Consiglio regionale, dove sarà presentata la ricerca "Tutela di bambini ed adolescenti nella visita in carcere" promossa dall’Ufficio del Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Toscana in collaborazione con il Garante regionale dei diritti dei detenuti e con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria in Toscana. Scopo dell’indagine svolta dalle ricercatrici Raffaella Pregliasco, Elisa Vagnoli ed Antonietta Varricchio, i cui risultati saranno appunto illustrati domani, è mettere al centro "i minori in visita nelle carceri" e in particolare "le garanzie di tutela dei bambini e degli adolescenti figli di detenuti che si recano in visita negli istituti penitenziari della Toscana". Il convegno si aprirà alle 14,30 di giovedì 19 nell’Auditorium di Palazzo Panciatichi. Dopo i saluti istituzionali del presidente dell’Assemblea regionale, Eugenio Giani, vi saranno quelli del garante toscano dei detenuti, Franco Corleone. Al convegno, coordinato dalla presidente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, Alessandra Maggi, prenderanno parte la ricercatrice Raffaella Pregliasco del medesimo Istituto che presenterà i risultati del lavoro, Giuseppe Martone in qualità di provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Lia Sacerdote dell’associazione Bambini senza sbarre, lo psicologo e psicoterapeuta Ezio Benelli, il consigliere regionale Paolo Sarti in quanto medico pediatra. Sylke Stegemann, Michela Salvetti e Sara Pagani, attive nelle carceri toscane, metteranno invece a confronto le esperienze di Sollicciano a Firenze, San Gimignano e Pontremoli, quest’ultimo istituto minorile e femminile. Le conclusioni saranno a cura di Stefano Scaramelli, presidente della commissione Sanità e sociale. Roma: la musica di Stefano D’Orazio colora il carcere di Rebibbia romait.it, 19 maggio 2016 Sul palco di Rebibbia il cantautore romano nel penitenziario di Roma, ha regalato ai detenuti presenti in sala, due ore di musica ed emozione. Un concerto a cuore a cuore quello di Stefano D’Orazio dei Vernice, sul palco di Rebibbia lo scorso venerdì 6 maggio. Il cantautore romano, per la prima volta live nel penitenziario di Roma, ha regalato ai detenuti, presenti in sala, due ore di musica e tanta emozione. "Un miracolo", per usare le stesse parole con cui si sono espressi a fine esibizione i vertici dell’Istituto, compiuto all’interno del penitenziario. "I nostri ragazzi - hanno commentato dalla direzione del carcere - hanno dimostrato una partecipazione davvero inaspettata per non parlare della loro emozione. Stefano è riuscito ad accendere nei loro cuori la speranza e la voglia di riscatto". Una scaletta all’insegna dei nuovi e vecchi successi (Non posso stare senza te, La vita è, Che cos’è, Su e Giù, Quando Tramonta il sole), arricchita però dai tributi ai grandi autori della musica italiana (Pino Daniele, Ligabue, Vasco) e internazionale ( Doors e U2). Mani alzate, occhi lucidi, visi inebriati e cori da stadio, hanno accompagnato senza sosta il live dell’ex leader dei Vernice che si è detto "profondamente commosso per aver toccato il cuore di quelle persone ed essere riuscito a condividere con loro attimi di gioia". "È un’esperienza a dir poco toccante - ha dichiarato - Se sono riuscito a trasmettere loro un messaggio positivo e una speranza nuova non posso che essere felice. Ringrazio anche a nome del mio staff e della mia band la direzione del carcere per averci offerto questa possibilità e tutti i detenuti per l’affetto con il quale ci hanno accolto". Le linee di frattura dell’Europa che non c’è di Aldo Carra Il Manifesto, 19 maggio 2016 La crisi economica prescinde dalla successiva esplosione migratoria che assume tratti senza precedenti e vanifica le politiche dell’ossimoro europeo, l’emergenza permanente. Non dovrebbero esserci più dubbi sul fatto che l’Europa che abbiamo conosciuto e sognato non c’è più. Confini, filo spinato, respingimenti stanno dando l’impressione che la causa della crisi sia la recente esplosione dell’immigrazione. Ma non è così. Il principale fattore di crisi è precedente e riguarda l’evoluzione e la gestione dell’unificazione europea. Il processo è stato sviluppato come un crescendo rossiniano. Si è partiti da un nucleo originario di pochissimi paesi con livelli di vita abbastanza simili, ci si è progressivamente allargati ad un’area crescente di paesi con livelli di vita sempre più differenziati. Se nell’Europa a sei il rapporto tra Pil per abitante del paese più povero (Italia) e Pil del paese più ricco era di 1 a 2,7, esso è diventato di 1 a 5 con l’ingresso di Spagna e Portogallo, poi di 1 a 12 nel 1995 (paese più povero la Lettonia) fino ad arrivare ad 1 a 20 nel 2007 (paese più povero la Bulgaria). Il numero di paesi è cresciuto di cinque volte, le disuguaglianze interne di sette volte, le aspettative si sono sempre più divaricate: i paesi più ricchi contavano sui nuovi mercati di sbocco e su manodopera a costi più bassi, quelli più poveri su crescita e benessere a livelli "europei". Tutto questo allora non sembrava irrealistico perché, proprio fino al 2007, le economie crescevano: dal 2000 al 2007 i paesi del centro nord hanno visto crescere il reddito procapite del 12%, quelli del sud del 9%, quelli provenienti dall’est sovietico, che erano entrati con redditi di appena un quarto, sono crescite del 44%. Il loro sogno, insomma sembrava potersi realizzare. Ma nel 2008 si è verificato un primo fattore imprevisto: è iniziata quella crisi che si trascina fino ad oggi e che in Europa si è tradotta in una stagnazione-recessione differenziata: la crescita dei paesi dell’est è crollata all’8%, quella del centro nord si è azzerata, i paesi del sud hanno perso addirittura l’11%. La crisi, così, ha vanificato i sogni ed aumentato le disuguaglianze. Un fenomeno di questa portata avrebbe richiesto una politica economica solidale con un intervento pubblico consistente, si è fatta invece una politica di austerità e di egoismi nazionali. Da qui la rinascita di nazionalismi e populismi prima e la nascita di tre linee di frattura tra paesi ricchi del centro nord, paesi dell’area orientale e paesi del sud mediterraneo. La crisi economica è la prima frattura dell’Europa, è, quindi, un problema a sé che prescinde dall’esplosione delle migrazioni. Queste sono sopraggiunte dopo, si sono inserite nelle linee di frattura ricordate, debbono, quindi, essere esaminate separatamente. La nuova grande migrazione del ventunesimo secolo riguarda ambedue i continenti più ricchi del mondo, quello americano e quello europeo. In questo scenario globale l’Europa è diventata la terra promessa per una lunghissima teoria di popoli che si snodano dall’Asia (Afghanistan, Pakistan…), attraversano tutto il medio oriente (Siria, Irak..) arrivano all’intero, immenso, continente africano. Si tratta di una migrazione senza precedenti causata da fughe da guerre e da fame, incentivata dalla nuova conoscenza del mondo prodotta dalla rete, sostenuta da una nuova ed inattesa coscienza del diritto di emigrare e di essere accolti. Una nuova generazione di migranti, di diverse etnie e generazioni, unite da una nuova consapevolezza della loro condizione di vittime di politiche economiche e militari occidentali preme senza sosta ai confini del mondo sviluppato con una potenza quantitativa e qualitativa inarrestabili. Questo fenomeno, in Europa, si somma alla crisi economica, ne accentua le linee di frattura e ci pone davanti ad drammatico bivio: cercare di giorno in giorno di arginarne gli effetti con politiche di emergenza permanente o prendere il toro per le corna ed impostare una strategia di lungo periodo adeguata alla gravità della situazione. Partiamo intanto da una constatazione. L’esodo che stiamo vivendo presenta una differenza rispetto a quello del continente americano perché qui le conseguenze si scaricano tutte sull’Europa, ma le cause non sono generate dalla sola Europa. Le politiche di sfruttamento delle risorse, le guerre che hanno destabilizzato paesi ed intere aree, sono state promosse dagli Usa, accettate dall’Europa ed avallate dall’Onu ed hanno generato una nuova divisione del mondo. Se fino a pochi decenni fa si poteva parlare di "paesi sviluppati", "paesi emergenti" e "paesi fermi" e si poteva ipotizzare una mobilità dei paesi da un gruppo all’altro, oggi ai tre gruppi citati se ne è aggiunto un altro, quello dei "paesi declinanti" come Siria ed Irak e questi nuovi blocchi appaiono come sclerotizzati ed immodificabili. La conseguenza è che i "paesi declinanti" ed i "paesi fermi" sanno di essere tagliati fuori e per sempre da ogni speranza di futuro. Questa suddivisione appare inaccettabile in tempi di globalizzazione economica e delle informazioni ed è proprio la consapevolezza di essere tagliati fuori da ogni possibile futuro sviluppo che sta determinando i ritmi senza precedenti dell’esodo dal medio oriente e dall’Africa. Il problema tocca l’Europa, ma è di carattere globale. Serve perciò una politica all’altezza dei tempi e delle dimensioni che si fondi su tre pilastri capaci di unificare le risposte all’emergenza a quelle più strutturali. Gestire i flussi distribuendoli tra paesi, riequilibrare le disuguaglianze tra aree, arrestare i focolai di guerre diffusi sono tre azioni che debbono far parte di un’unica strategia. Si tratta di un sogno, di un progetto utopistico, difficile? Si anzi difficilissimo ai limiti dell’impossibile. Si tratta di un progetto che richiederebbe una sessione straordinaria dell’Europa prima e dell’Onu dopo che affronti il problema delle nuove migrazioni, che vari un grande piano euro mediterraneo di pacificazione, di riequilibrio e di sviluppo. Si tratta di realizzare ingenti investimenti e di trasferire risorse dai paesi più ricchi verso le aree ferme ed in declino. Si tratta, però, di cose che nessuno ci costringe oggi a fare. Possiamo continuare a trastullarci col nostro declinante benessere materiale, a resistere ed ostacolare gli arrivi, a palleggiarceli come merci infette che nessuno vuole, a spostare il problema sempre oltre e sempre dopo. Possiamo anche farlo fino a quando non esploderanno le nostre miserie culturali ed umane. Patto africano per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 19 maggio 2016 Il piano del governo. Vertice Italia-Africa alla Farnesina. Dieci miliardi di euro a sette paesi per progetti di cooperazione. Dieci miliardi di euro investiti dall’Europa in sette paesi africani per fermare i flussi di migranti. Ma anche nuovi hotspot - oltre ai cinque già esistenti - da aprire in Italia anche su strutture mobili e galleggianti, come navi e piattaforme. Si muove su queste due gambe la strategia messa a punto da Palazzo Chigi alla ricerca di una soluzione alla crisi dei migranti. Con il premier Matteo Renzi che chiede all’Europa di mettere fine a interventi spot, come la costruzione di muri e recinzioni che non risolvono il dramma di chi è costretto a lasciare la propria terra a causa di una guerra o della miseria in cui vive, lasciando però allo stesso tempo il ministro degli Interni Angelino Alfano libero di ripetere (lo aveva già fatto il 27 aprile scorso) proposte scioccanti e dal sapore tutto elettorale come quella di identificare i migranti in mezzo al mare "senza far fuggire nessuno", ha detto ieri il ministro senza spiegare cosa accadrebbe a quanti non potessero presentare domanda di asilo. La stragrande maggioranza dei migranti che arrivano oggi nel nostro paese provengono da paesi del Nord Africa e dell’Africa occidentale. Ed è proprio a quel continente che il governo ha deciso di rivolgersi organizzando la prima conferenza ministeriale Italia-Africa, che ha riunito ieri a Roma i ministri degli Esteri di oltre 50 paesi. "Per ora non ci sono emergenze - ha detto il ministro Paolo Gentiloni introducendo i lavori - ma proprio per questo dobbiamo lavorare, adesso che abbiamo lo spazio e la possibilità, per mettere in campo una strategia prima che cominci una situazione di maggiore emergenza". La strategia prescelta è quel migration compact già presentato poche settimane fa a Bruxelles e che prevede finanziamenti destinati a progetti di cooperazione utili a contenere le partenze. Per ora si parla di dieci miliardi di euro da investire in Tunisia, Senegal, Ghana, Niger, Egitto, Nigeria e Costa d’Avorio. E come primo passo, ieri l’Italia ha cancellato la parte di debito che il Ciad ha nei suoi confronti. "Paesi sicuri, destinatari dei rimpatri e con i quali si possono fare accordi bilaterali. Altro discorso sono i paesi in guerra, gli stati falliti. E con quelli è molto difficile avere rapporti di questo tipo", ha aggiunto Gentiloni. Non si tratta, però, di un regalo, visto che anche i paesi beneficeranno dei finanziamenti europei dovranno fare la loro parte. In particolare quello che Roma - e presto l’Europa - chiede è un impegno nel rafforzare i controlli ai confini, maggiore cooperazione nei rimpatri degli irregolari e una gestione nei rispettivi territori dei flussi migratori, distinguendo così fin da subito tra richiedenti asilo e migranti economici. In pratica la riproposizione, seppure in termini diversi, dell’accordo siglato il 18 marzo scorso con la Turchia. Oggi Renzi illustrerà il piano al premier olandese Mark Rutte, presidente di turno dell’Ue, in visita a Roma, e lunedì se ne parlerà al vertice dei ministri degli Esteri dei 28. Ma l’Italia chiederà al Consiglio europeo in programma a giugno di allestire un "piano operativo" e di "ampio respiro", in modo da poter partire quanto prima con dei progetti pilota. Non è a prima volta che l’Europa cerca di coinvolgere l’Africa nella gestione dei migranti. A novembre dell’anno scorso si tenne a La Valletta un vertice Ue-Unione africana proprio su questo tema, ma con scarso successo. Bruxelles mise sul piatto aiuti per 1,8 miliardi di euro per quei paesi disposti a collaborare per impedire le partenze, senza però ricevere le risposte sperate. Troppi pochi soldi (specie se paragonati ai 3 miliardi di euro destinati alla Turchia dei quali già si cominciava a parlare), ma soprattutto nessuna disponibilità ad aprire campi dove trattenere i migranti. L’esperienza ha spinto Roma a lavorare su un approccio diverso, che puntasse davvero allo sviluppo delle economie locali. Una scelta che sembra aver fatto breccia nei ministri riuniti a Roma. "Dobbiamo rafforzare il processo di industrializzazione in Africa e offrire opportunità di lavoro per dare uno sbocco ai giovani", ha commentato ieri la presidente dell’Unione africana, Nkosozana Damlini Zuma. "Se noi riuscissimo a valorizzare le nostre risorse naturali e minerali del 50 per cento potremmo creare ben 7 milioni di posti di lavoro ogni anno". Oltre che per mettere fine agli sbarchi di migranti, la partita che sta giocando con l’Africa è fondamentale per Renzi anche per un altro motivo. L’Italia si è infatti candidata a un seggio come membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu per il 2017/18. Si vota il 28 giugno e per essere eletti bisogna conquistare i due terzi dei voti dell’Assemblea generale. Chiaro, quindi, che per Renzi è fondamentale avere dalla propria parte se non tutti almeno la maggioranza dei 54 stati africani. Bruxelles non boccia il "muro" di Vienna. Ipotesi di infrazione per l’Italia sui rimpatri di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 19 maggio 2016 Lettera del Commissario Avramopoulos a Roma: il Brennero può essere chiuso in via eccezionale. La lettera è stata trasmessa al Viminale sei giorni fa e contiene tre punti di contestazione alle politiche migratorie dell’Italia. Quanto basta per riaprire lo scontro con Bruxelles. Perché il documento firmato dal commissario Dimitris Avramopoulos fa proprie "le preoccupazioni espresse dall’Austria riguardo al potenziale aumento di migranti in provenienza dall’Italia". E non esclude che sui Cie possa essere avviata una procedura di infrazione. Nel giorno in cui la stessa Commissione europea decreta ufficialmente il fallimento del piano di ricollocamento dei profughi giunti nel nostro Paese e in Grecia - appena 1.500 trasferimenti a fronte dei 160 mila previsti per la fine del 2017 - si scopre che anche Roma è sotto tiro. Durissima la reazione del ministero dell’Interno, dove si sottolinea: "Il nostro impegno è massimo, ma non riusciamo nemmeno a garantire il trasferimento degli eritrei che hanno diritto all’asilo visto che gli Stati membri non forniscono alcuna collaborazione". Proprio ieri il prefetto Mario Morcone ha evidenziato come "nelle strutture sono attualmente presenti ben 120 mila stranieri". Il "muro" austriaco - Scrive Avramopoulos: "Ho ribadito che il Codice frontiere Schengen vieta l’installazione di recinzioni alle frontiere interne. Tuttavia è possibile, in via eccezionale, adottare misure provvisorie per incanalare i flussi migratori, se necessario e proporzionato. Per preservare l’integrità dello spazio Schengen, condivido tuttavia le preoccupazioni espresse dall’Austria riguardo al potenziale aumento dei movimenti secondari di migranti in provenienza dall’Italia e all’importanza dell’essere preparati ad affrontare i flussi migratori provenienti dalla rotta del Mediterraneo centrale. In tale contesto è fondamentale che l’Italia - uno degli Stati membri in prima linea, particolarmente esposto alla rotta del Mediterraneo centrale proveniente dalla Libia - intensifichi gli sforzi già in atto per fornire le condizioni di accoglienza necessarie ai migranti in arrivo e per prevenire le fughe". Cie e "hotspot" - Ieri il ministro Angelino Alfano si è detto "disponibile ad aprire due nuovi centri di smistamento" ed è tornato a proporre "hotspot" galleggianti. Su questo la posizione della Commissione è però netta: "Frontex non dispone in permanenza di navi più grandi. Confido che l’Agenzia valuterà la proposta ma, come viene giustamente osservato nella lettera, il trasferimento in alto mare da una nave all’altra di un gran numero di migranti soccorsi/intercettati ne metterebbe a rischio la vita". Critiche forti di Avramopoulos anche sulle strutture: "Pur riconoscendo il forte impegno dell’Italia, un gran numero di sbarchi avvengono al di fuori dei punti di crisi (hotspot), e i previsti gruppi mobili addetti ai punti di crisi non sono ancora operativi. È quindi importante predisporre i punti di crisi supplementari in Sicilia. Per quanto riguarda il rimpatrio e la riammissione, l’attuale capacità ricettiva dei centri di trattenimento chiusi è chiaramente insufficiente e deve essere ampliata rapidamente. Occorre inoltre predisporre urgentemente un nuovo programma di rimpatrio volontario assistito". Flop del piano Juncker - Ieri la Commissione ha dovuto riconosce in un rapporto ufficiale il fallimento completo dell’agenda Juncker approvata nell’ottobre scorso. A fronte dei 20 mila profughi da ricollocare entro metà maggio, Italia e Grecia sono riusciti a trasferirne appena 1.500: dal nostro Paese sono partiti solo 595 stranieri, di cui 24 bambini. La Ue conferma che "Austria, Ungheria e Slovacchia non hanno ancora offerto di ricollocare alcun profugo, mentre Germania e Polonia non rispettano l’obbligo di indicare, ogni tre mesi, il numero di richiedenti asilo da accogliere". Il ministro Alfano: sì a nuovi hotspot galleggianti rainews.it, 19 maggio 2016 Il ministro dell’Interno: permetteranno di registrare tutti e di non far andare via nessuno. Poi: dal 2013 registrati 350mila reati in meno. Nuovi hotspot per i migranti, ma diversi: saranno galleggianti. Lo annuncia Angelino Alfano al Viminale, tracciando il bilancio dei suoi mille giorni da ministro dell’Interno. Da parte dell’Italia c’è "disponibilità assoluta" a creare nuovi hotspot perché "conviene anche a noi", dice Alfano. "Faremo degli hotspot galleggianti", annuncia, che permetteranno di "registrare tutti e non far andar via nessuno", garantendo un sistema di rimpatri "ancora più efficace". Alfano la definisce una "soluzione rapida e innovativa" che ha ricevuto un parere "sostanzialmente favorevole, anche se esiste qualche criticità" dagli uffici tecnici del Viminale e dalla Commissione europea. L’idea, spiegano fonti del ministero, è quella di utilizzare navi o piattaforme. Il ministero dell’Interno ha espulso ieri due marocchini, entrambi detenuti sospettati di terrorismo di stampo jihadista, annuncia poi Alfano. I due detenuti sono stati espulsi dal territorio italiano per aver manifestato, in carcere, l’intenzione di unirsi all’Isis, ha spiegato. Uno di loro aveva manifestato apprezzamento per gli attentati di Bruxelles, l’altro si diceva pronto a combattere con l’Isis. Dal 2013 sono 350mila i reati in meno - "Il 2015 è stato l’anno con il minor numero di reati del decennio. Un dato in calo dal 2013", dice il ministro dell’Interno. "Nel triennio 2013/2016 abbiamo fatto lavoro straordinario che ha portato a un risultato eccellente con l’anno 2015 che è quello con il minor numero di reati nel decennio". "Dal 2013 contiamo 350mila reati in meno". Alfano ha, tra l’altro, voluto sottolineare l’8,5% in meno delle donne vittime di femminicidio, dopo l’entrata in vigore della legge voluta dall’esecutivo, il più 27,7% di denunce di stalking. Anche sotto il profilo della lotta al terrorismo internazionale, il responsabile del Viminale ha ricordato l’aumento dell’arresto di terroristi riconducibili a forme di estremismo religioso pari al più 24,7% Quei minori negli hotspot non ci dovrebbero stare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 maggio 2016 Hotspot di Pozzallo, provincia di Ragusa, è come una prigione dove detengono i minori oltre la permanenza consentita. A denunciarlo è il senatore Luigi Manconi durante una sua visita ispettiva. "Su 142 presenze - fa notare il senatore - 120 sono costituite da minori non accompagnati. È impensabile che i minori debbano stare lì addirittura per settimane, ben oltre le 72 ore". E spiega: "Ciò ò dovuto al fatto che non ci sono posti disponibili dove inserire questi ragazzi, non esiste un sistema nazionale centralizzato. Di certo è grave che restino negli hotspot, in una situazione di vuoto totale, senza fare nessuna attività". Luigi Manconi aggiunge che "oltre ai minori ci sono circa 20 adulti, anche la loro permanenza nel centro va oltre quella normalmente prevista (72 ore): sono lì dal 13 aprile scorso". Durante la visita gli sono state presentate lamentele da parte degli ospiti riguardo al cibo e ai vestiti, una situazione di difficoltà dovuta proprio alla permanenza nel centro più lunga del previsto. Ma i minori non accompagnati non dovrebbero, per legge, essere rinchiusi negli hotspot. Questi ultimi sono centri di contenimento e di selezione dei migranti appena arrivati in Italia. I minori stranieri non accompagnati si trovano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Si applicano per loro le norme previste in generale dalla legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori e, tra le altre, le norme riguardanti: il collocamento in luogo sicuro del minore che si trovi in stato di abbandono; la competenza in materia di assistenza dei minori stranieri, attribuita, come per i minori italiani, all’Ente Locale (in genere il Comune), l’affidamento del minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo a una famiglia o a una comunità. L’affidamento può essere disposto dal Tribunale per i minorenni (affidamento giudiziale) oppure, nel caso in cui ci sia il consenso dei genitori o del tutore, dai servizi sociali e reso esecutivo dal Ciudice Tutelare (affidamento consensuale). La legge non prevede che per procedere all’affidamento si debba attendere la decisione del Comitato per i minori stranieri sulla permanenza del minore in Italia. E quindi perché ci sono minori non accompagnati rinchiusi negli hotspot? Dovrebbero essere inseriti immediatamente in strutture protette, andrebbe avvertito il tribunale dei minori, il giudice tutelare dovrebbe nominare qualcuno che faccia le veci del genitore. Invece dimorano in questo stato per più di un mese. Questi centri sono una zona d’ombra dove è vietato - per ordine del ministro degli interni Alfano - fare entrare i giornalisti. Sono luoghi ancora più oscuri dei Cie, che invece hanno una copertura legislativa affinata e migliorata negli anni anche grazie alle battaglie della società civile. Gli hotspos funzionano a regime, ma - come abbiamo già denunciato su Il Dubbio - non hanno basi giuridiche. Sono citati dall’agenda europea delle migrazioni e dalla roadmap presentata dall’ Italia all’Ue, ma non ci sono direttive europee o leggi italiane che li istituiscano o ne regolino il funzionamento. Eppure sono luoghi chiusi, di trattenimento a tempo indeterminato, dove viene limitata la libertà personale. Secondo l’articolo 13 della Costituzione, questo potrebbe avvenire solo nei casi previsti dalla legge e con l’autorizzazione ed il controllo della magistratura. Per questo l’avvocatessa Nazzarena Zorzella dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione denuncia un vero e proprio sequestro di persona all’interno di questi centri. Egitto. Una macchina fotografica contro le sparizioni forzate di Chiara Cruciati Il Manifesto, 19 maggio 2016 La giovane giornalista Esraa al-Taweel, fatta sparire in prigione, ora è libera e lancia una campagna online mentre il Ministero degli Interni nega l’esistenza dei desaparecidos. Le foto che nel gennaio 2011 partirono da Piazza Tahrir inondarono il mondo della potenza della rivoluzione egiziana. Tra le macchine fotografiche che l’hanno raccontato c’era quella di Esraa al-Taweel, giovane fotografa egiziana arrivata al Cairo nel 2010 a soli 17 anni. Dalla caduta di Mubarak in poi Esraa ha vissuto sulla sua pelle tutte le politiche repressive che soffocano Il Cairo dal golpe del 2013. L’anno dopo, il 25 gennaio 2014, era a Mohandesin con la sua macchina fotografica per immortalare le proteste di un popolo frustrato per la permanente assenza di democrazia: è stata ferita da una pallottola che l’ha lasciata paralizzata per un anno. Qualche mese dopo, giugno 2015, è stata arrestata. Scomparsa: "Stavo cenando con degli amici a Zamalek - racconta Esraa - quando siamo stati presi dai servizi di sicurezza. Sono stata fatta sparire per 15 giorni. Mi hanno interrogato e il procuratore mi ha accusato di disseminare informazioni false". A casa è tornata sei mesi dopo, a dicembre, per finire agli arresti domiciliari. Da gennaio è libera. E vuole riprendersi la macchina fotografica che la polizia le ha strappato via quando l’ha fatta sparire dentro una prigione. Per farlo ha lanciato una campagna di crowdfunding che in 5 giorni ha già raccolto quasi la metà del necessario: 4.550 dollari dei 10mila richiesti. La sua campagna dice molto: le difficoltà di una giornalista indipendente, la repressione di Stato, le scomparse forzate. Migliaia da quando Abdel-Fattah al-Sisi si è preso la poltrona di presidente con la forza militare, mai così tante nemmeno sotto Mubarak. Eppure c’è chi nega l’innegabile: il Ministero degli Interni - principale responsabile della politica delle sparizioni forzate - martedì ha scacciato l’argomento come si scaccia una mosca. "In Egitto non esiste il crimine di sparizione forzata, non ci sono vittime nelle prigioni egiziane", ha detto il vice ministro Ali Abdel-Mola, spiegando il nuovo rapporto del dicastero che tratta - o meglio nega - la questione. A costringere il Ministero a compiere un’indagine è stata l’agenzia di Stato National Council for Human Rights, secondo cui negli ultimi anni 331 cittadini sono spariti involontariamente. Molti di meno di quelli calcolati da organizzazioni indipendenti: l’Egyptian Commission for Rights and Freedom (Ecrf) ha documentato nel solo 2015 1.840 casi di desaparecidos, altri 202 quelli da gennaio a marzo 2016. Non sembra quindi una coincidenza che tra le 1.270 persone arrestate il 25 aprile ci sia il direttore dell’Ecrf, Ahmed Abdallah. Una figura simbolica: noto difensore dei diritti umani in Egitto, è anche il consulente della famiglia di Giulio Regeni, vittima delle sparizioni forzate e del controllo capillare della società civile da parte dei servizi interni. Esraa con la sua macchina fotografica rimette a fuoco un argomento scottante di cui in molti in Europa si sono accorti solo ora. Da giornalista conosce bene le violazioni del regime contro la stampa, oggi colonna del movimento anti-governativo. Ieri si è tenuta l’attesa riunione del sindacato della stampa, chiamato a individuare nuove misure nel conflitto con gli Interni: in centinaia vi hanno preso parte promettendo di proseguire nella protesta fino alle dimissioni del ministro Ghaffar. Qualche passo in avanti però c’è stato: martedì il sindacato ha accolto positivamente (in parte) il disegno di legge del governo per i media. I giornalisti si sono detti soddisfatti per la cancellazione dei reati legati all’attività giornalistica e delle perquisizioni in case e uffici. Non piacciono invece le regole per lanciare nuove agenzie: servirà una società con un capitale minimo di 50mila dollari e un direttore con 10 anni di esperienza, requisiti che tagliano le gambe alle realtà indipendenti nate in questi anni. La battaglia della stampa è ancora lunga. Di sostegno da fuori ne riceve poco, generiche parole di condanna occidentali al presidente al-Sisi. Ieri al-Cairo è tornato per la seconda volta in un mese il segretario di Stato Usa Kerry per discutere dell’iniziativa egiziana di mediazione nel conflitto israelo-palestinese. Fonti Usa hanno assicurato che Kerry ha affrontato anche la questione della repressione interna. Ma a favorire l’ex generale è il ruolo centrale che si è ritagliato in Libia, nella "guerra al terrore" e nel settore energetico. I numeri snocciolati dal Ministero del Petrolio cariota parlano da soli: l’Egitto calcola che le attività estrattive dell’italiana Eni e della britannica Bp in tre giacimenti di gas attireranno investimenti stranieri per 25 miliardi di dollari in 4 anni. Egitto. RegeniLeaks, per smascherare le menzogne del regime di al Sisi di Marco Pratellesi L’Espresso, 19 maggio 2016 L’Espresso ha creato la piattaforma protetta Eleaks per raccogliere testimonianze di whistleblower sulle torture e le violazioni dei diritti umani. Per chiedere giustizia per Giulio e per tutti i Regeni d’Egitto. La morte di Giulio Regeni non è accettabile. Non lo è per il modo in cui si è consumata. Non lo è per la violenza incontrastata del governo egiziano, per le menzogne e per i goffi tentativi di depistaggio. Ma ora che la morte del ricercatore italiano ha alzato il velo sul dittatore al Sisi, sarebbe perfino riduttivo limitarsi a chiedere la verità per Giulio scordando le tante altre vittime del regime del Cairo. Anche qualora fossero consegnati gli assassini di Regeni, cosa a questo punto alquanto improbabile, sarebbe ingiusto fermarsi, tornando a fare finta di non vedere quello che oggi è davanti agli occhi del mondo intero. Chiedere giustizia per tutti i Regeni d’Egitto appare il modo più civile e umano per rendere omaggio alla memoria del giovane ricercatore italiano. Il rispetto dei diritti umani non è negoziabile, neanche nei confronti di un Paese che ha con l’Italia rapporti economici e politici di evidente rilevanza strategica. Per questo motivo, l’Espresso ha creato ELeaks, una piattaforma protetta per raccogliere denunce, documenti, foto, video, testimonianze di quanti hanno subito torture o sono a conoscenza dei soprusi del regime di al Sisi. Una violazione dei diritti umani denunciata anche dal Parlamento europeo di Strasburgo il 10 marzo 2016. La piattaforma, che utilizza il software Globaleaks, è in grado di garantire l’anonimato e la sicurezza delle fonti. Nonostante le pressioni del governo italiano e della comunità internazionale, sulla morte di Regeni non c’è ancora una verità. Ma ci sono tante certezze. Giulio era un ricercatore italiano dell’Università di Cambridge. Nato a Trieste il 15 gennaio 1988, era cresciuto a Fiumicello, in provincia di Udine. In Egitto si era trasferito per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti presso l’Università Americana del Cairo. Non aveva commesso reati. Non solo: ad oggi non risulta che avesse fatto niente di neanche vagamente censurabile in qualsiasi paese democratico. Eppure, nell’Egitto di al Sisi, non è stato sufficiente. Le altre certezze sono una delle tante pagine scritte con il sangue dal regime egiziano. Il 25 gennaio 2016, quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir, luogo simbolo della Primavera araba, Giulio era uscito di casa per incontrare alcune persone in piazza Tahrir. Insieme dovevano festeggiare il compleanno di un amico. Non è mai arrivato. Il suo corpo è stato ritrovato il 3 febbraio 2016, abbandonato sul ciglio dell’autostrada che dal Cairo porta ad Alessandria. È stato rapito e torturato per giorni da professionisti, come ha rivelato l’autopsia condotta in Italia. Quando il corpo di Giulio è stato fatto ritrovare, polizia e apparati di sicurezza di al Sisi hanno provato in tutti i modi a coprire quello che fin dall’inizio è apparso come un delitto di Stato. Uno dei tanti che si consumano quotidianamente nei confronti degli oppositori al regime, ma anche di gente comune che il destino fa incrociare con la polizia e gli uomini dei servizi segreti. Le versioni ufficiali si sono susseguite, fantasiose quanto improbabili, senza uno straccio di prova: incidente stradale, delitto passionale, resa dei conti maturata in ambienti criminali, spionaggio, delitto politico orchestrato per minare i rapporti tra Italia e Egitto. Nessuna ha trovato un pur minimo riscontro. E quando il regime ha capito che doveva offrire un capro espiatorio, ha messo in piedi la più criminale delle messe in scena. Il 24 marzo 2016 la polizia egiziana annuncia di aver ucciso in un conflitto a fuoco cinque uomini. Per il Ministero dell’Interno egiziano si tratta di una banda criminale specializzata nei rapimenti di cittadini stranieri al fine di estorcere denaro. La versione ufficiale del Cairo indica nei cinque i responsabili del sequestro e della morte del ricercatore italiano. Questa volta vengono esibite anche le prove. La polizia egiziana mostra una borsa di colore rosso, con il logo della Federazione Italiana Gioco Calcio, che sarebbe stata trovata durante le perquisizioni in casa dei familiari di uno degli uomini uccisi. Nella borsa ci sono vari oggetti, alcuni effettivamente appartenuti a Regeni: il passaporto, i tesserini di riconoscimento dell’Università di Cambridge e dell’Università Americana del Cairo, oltre alla carta di credito. Per il Cairo il caso è chiuso. Ma si tratta di un irreale tentativo di depistaggio. Le tante contraddizioni, supportate anche dalle dichiarazioni dei parenti degli uomini uccisi dalla polizia, costringono l’ufficio del procuratore del Cairo a una rapida marcia indietro smentendo che la banda criminale fosse coinvolta nell’omicidio. Il caso, dunque, è tutt’altro che chiuso. Anzi: c’è stato un evidente tentativo di depistaggio al quale polizia e servizi segreti non possono essere estranei. Ma anche in questo caso tutto viene messo a tacere senza che si indaghi o si cerchi di fare luce sui responsabili della messa in scena. Non c’è giustizia al Cairo. O meglio, una giustizia c’è: quella che fa comodo al suo presidente. Tutti questi tentativi maldestri di nascondere la verità e proteggere gli assassini di Giulio non fanno che rafforzare nell’opinione pubblica mondiale la convinzione che si sia trattato di un delitto di Stato; che al Sisi e gli apparati più vicini al regime siano chiaramente consapevoli di chi siano i materiali responsabili delle torture e dell’omicidio e che ne condividano le responsabilità. Una verità raccontata dall’ex colonnello della polizia egiziana, Omar Afifi, dal 2008 rifugiato negli Usa, che in una intervista a l’Espresso non ha esitato a indicare le responsabilità: "Il capo di gabinetto di Al Sisi, Abbas Kamel, che lo ha fatto trasferire per farlo interrogare dai servizi segreti militari; il generale Mohamed Faraj Shehat, direttore dei servizi segreti militari. Naturalmente il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar e il presidente Al Sisi erano al corrente già dal trasferimento. Sono anni che nessun cittadino straniero può essere interrogato senza che gli Interni lo sappiano. È il regolamento ed è sempre rispettato". Le altre certezze su cosa sia accaduto tra il 25 gennaio, giorno del rapimento, e il 3 febbraio, quando il cadavere viene ritrovato, arrivano dall’esame del corpo di Regeni, una volta restituito all’Italia. Un corpo sul quale la madre di Giulio ha visto "tutto il male del mondo". La perizia medico legale, svolta a Roma dal professor Vittorio Fineschi, conferma che Giulio è stato torturato "professionalmente" per cinque o sei giorni. Le orecchie sono state recise. Ci sono segni evidenti di bruciature e fratture in tutto il corpo. Tac e risonanze magnetiche hanno dimostrato come per tutti i giorni in cui Giulio è stato nelle mani dei suoi aguzzini nessuna lesione esterna o interna sia stata letale, fino alla violenta torsione del collo che ha provocato la frattura di una vertebra cervicale, causa ultima della morte. Anche questa viene definita una manovra da professionisti. Sul corpo di Giulio è scritto un circostanziato, inoppugnabile, atto di accusa che nessun depistaggio, menzogna, ricostruzione di comodo potrà mai cancellare. Ma i reiterati tentativi di insabbiare il caso dimostrano anche un’altra verità: al Sisi e i suoi uomini più fedeli sanno esattamente cosa è successo e cercano di nasconderlo all’Italia e al mondo intero. L’ultimo tentativo di infangare la memoria di Giulio è arrivato il 29 aprile dal vicepresidente della Camera dei rappresentanti del Cairo: Soliman Wahdan ha insinuato che il ricercatore italiano potesse essere "una spia", spiegando che se ciò fosse dimostrato "si creerebbe un problema enorme tra l’Italia e l’Egitto". Un tentativo di ribaltare le responsabilità nei confronti dell’Italia. In Egitto operano molte importanti aziende italiane, i due paesi condividono interessi in campo economico e nella politica estera dello scacchiere Mediorientale. La morte di Giulio Regeni è diventata un caso internazionale: ha squarciato il velo sul regime di al Sisi e sul modus operandi che i suoi uomini della sicurezza attuano nei confronti degli oppositori o di chiunque si trovi comunque davanti a un ufficiale di polizia. Adesso il mondo intero ha potuto vedere e toccare con mano come le sparizioni e le torture in Egitto siano sistemiche, come lo erano con i desaparecidos nell’Argentina del generale Videla tra il 1976 e l’81. Oltre 600 minorenni sono detenuti illegalmente nelle prigioni egiziane ; tra febbraio e marzo più di 250 persone sono state fermate per strada e non sono più tornate a casa. Un baratro di violenza e orrore che terrorizza il Paese. ELeaks è stata creata nella speranza di contribuire a fare luce sulla morte di Giulio, ma anche sul baratro di orrore e violenza in cui è caduto il Paese. Oggi non si può più chiedere giustizia per il ricercatore italiano facendo finta di non vedere i mille Regeni senza nome, di cui non si parla. La piattaforma, che consente di inviare, in forma anonima e protetta, denunce, documenti, video e immagini, si avvale di un sistema di crittografia messo a punto con la collaborazione di Globaleaks. Seguendo le procedure, in italiano, inglese e arabo, le fonti avranno la sicurezza dell’anonimato. Neanche noi sapremo mai chi sono se non saranno loro a volere svelare la propria identità. Ovviamente, tutti i documenti e le segnalazioni che arriveranno attraverso la piattaforma saranno sottoposti a verifiche e controlli. Solo le informazioni verificate dalla redazione e sorrette da riscontri oggettivi verranno pubblicate da l’Espresso. Davanti al Parlamento, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha detto: "Se qualcuno immaginava che il trascorrere del tempo avrebbe un po’ diminuito l’attenzione dell’Italia e un po’ costretto tutti a rassegnarci a un ritorno alla normalità delle relazioni, per noi il ritorno alla normalità delle relazioni dipende da una collaborazione seria". Ma possono esserci normalità e relazioni con un Paese che tortura i propri cittadini? Svizzera: "un richiedente asilo non può essere collocato in detenzione" tio.ch, 19 maggio 2016 Lo sentenzia il Tribunale federale, accettando il ricorso di un cittadino afgano trasferito due mesi fa in Bulgaria. Un richiedente asilo non può essere collocato in detenzione solo perché ha presentato una richiesta di asilo in un altro Stato che applica l’accordo di Dublino. Lo sentenzia il Tribunale Federale (TF), accettando il ricorso di un cittadino afgano trasferito due mesi fa in Bulgaria. L’uomo ha presentato una domanda di asilo nel dicembre scorso, dopo essere giunto in Svizzera dalla Bulgaria. Dato quest’ultimo fatto, la Segreteria di Stato della migrazione (Sem) ha deciso di non entrare nel merito della sua domanda. Nello stesso tempo, in applicazione dell’accordo di Dublino, la Sem ha ordinato il ritorno del richiedente asilo in Bulgaria. Per garantire l’esecuzione dell’allontanamento, era inoltre stata ordinata la sua carcerazione per un periodo massimo di sei settimane. Chiamato in causa da un ricorso, il Tribunale amministrativo federale (Taf) aveva impiegato due settimane per esaminare la legalità della carcerazione, un periodo che il TF considera troppo lungo. Il richiedente asilo è stato trasferito in Bulgaria il 22 marzo scorso. Nella sentenza pubblicata oggi, il TF accoglie parzialmente il ricorso del cittadino afgano. L’uomo - rileva - è stato incarcerato a torto: "il fatto che una persona abbia già formulato una domanda d’asilo in un altro Stato non costituisce un motivo sufficiente per una sua carcerazione in base all’accordo di Dublino", precisa. Per giustificare una detenzione amministrativa "è necessario che vi siano concreti indizi riguardo all’esistenza di un notevole pericolo che la persona si renda irreperibile". Non è inoltre normale che il cittadino afgano abbia dovuto aspettare circa due settimane prima che il TAF decidesse dell’esito del suo ricorso. In base alla Costituzione federale e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), nel caso di una prima verifica giudiziale della loro incarcerazione "le persone hanno diritto alla verifica della legalità della misura privativa della libertà in tempi brevi". "Nei casi in cui trova applicazione l’accordo di Dublino - conclude il TF - occorre di massima considerare che una decisione dev’essere presa entro 96 ore". Gran Bretagna: dalla riforma del sistema penitenziario arrivano lezioni per l’Italia Il Foglio, 19 maggio 2016 La Gran Bretagna si appresta a varare la più grande riforma del sistema penitenziario dell’ultimo secolo. Ad annunciare il piano del governo è stata ieri la regina Elisabetta, nel suo tradizionale discorso annuale davanti al Parlamento di Westminster. La gestione delle carceri, sempre più affollate e incapaci di realizzare la loro finalità rieducativa (il 46 per cento dei detenuti inglesi torna a delinquere a un anno dall’uscita), sarà fortemente decentralizzata. Agli istituti penitenziari - inizialmente sei, tra cui quello di Wandsworth, uno dei più grandi in Europa - verrà riconosciuto un regime speciale di autonomia finanziaria e amministrativa: saranno i direttori delle carceri a decidere come utilizzare le risorse a loro disposizione, a disciplinare liberamente la vita interna degli istituti, e a disporre anche del potere di stipulare accordi con soggetti esterni per favorire l’impiego dei detenuti in attività lavorative e rieducative. L’obiettivo di lungo periodo del piano voluto dal primo ministro, David Cameron, è quello di trasformare le carceri in una sorta di mini-imprese, dotate di autonomia contrattuale, del potere di gestire il proprio fatturato e della capacità di istituire dei board con esperti privati. A questa concessione di autonomia si accompagnerà, però, un regime di assoluta trasparenza. I direttori delle carceri, infatti, saranno obbligati a fornire dati comparabili sui risultati ottenuti con la loro gestione, sugli eventuali casi di violenza e autolesionismo, sul grado di recidiva dei detenuti rilasciati e sul loro tasso di occupazione. Una rivoluzione copernicana del modo di concepire l’esecuzione della pena, alla quale l’Italia dovrebbe guardare con attenzione. Gran Bretagna: la Regina Elisabetta "una riforma delle carceri senza precedenti" Huffington Post, 19 maggio 2016 La riforma del governo di David Cameron per le carceri britanniche offre una autonomia "senza precedenti". Lo ha affermato la regina Elisabetta nel corso del Queen’s Speech a Westminster. Secondo la sovrana, per "offrire una seconda possibilità" a chi commette un reato sarà offerta grande autonomia agli istituti detentivi, chiusi quelli inefficienti e costruite nuove strutture con innovativi programmi di reinserimento in società. Nel suo intervento, in cui vengono annunciate le proposte di legge dell’esecutivo, la sovrana ha sottolineato l’impegno a una serie di misure in ambito sociale e nel settore dell’istruzione, oltre a quelle per contrastare l’estremismo "di qualsiasi tipo". "La Gran Bretagna mantenga il suo ruolo guida" nelle relazioni internazionali, ha aggiunto la regina sottolineando che Londra assicura il suo impegno, fra l’altro, nella cooperazione internazionale, nel contrasto dell’Isis e nella crisi in Ucraina. La sovrana ha fatto un solo riferimento alla Brexit, ricordando che è stato indetto il referendum del 23 giugno. Viene nuovamente rinnovata l’intenzione di arrivare ad un British Bill of Rights, una nuova carta dei diritti, con maggiori poteri per i tribunali del Regno, rispetto all’attuale Human Rights Act, che sotto i laburisti aveva di fatto recepito le regole europee sul rispetto dei diritti umani. Tornando alla Brexit, il tabloid Sun di Rupert Murdoch, il giornale più letto del Regno Unito con 1,8 milioni di copie, è stato condannato dall’autorità che vigila sulla correttezza della stampa (Independent Press Standards Organisation) per aver sostenuto in un articolo in prima pagina che Elisabetta II fosse a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Ue. Il titolo non lasciava spazio a possibili fraintendimenti: "Queen backs Brexit" ("La regina sostiene la Brexit") mentre come ha lamentato Buckingham Palace Sua Maestà è sempre "neutrale su ogni vicenda politica". Il direttore Toni Gallagher ha respinto l’accusa di aver riportato una falsa notizia. Anzi ha ribadito l’accuratezza del pezzo ma si è attenuto al provvedimento pubblicando la sentenza della Ipso. La neutralità politica di Elisabetta II venne messa in dubbio quando si trattò del referendum sull’indipendenza scozzese del 18 settembre 2014. La regina, la settimana prima del voto, all’uscita del servizio domenicale nella chiesa della tenuta scozzese di Balmoral consigliò agli scozzesi di "riflettere bene" sul voto da dare. Anche in quel caso, però, Buckingham Palace smentì l’interpretazione data alle parole della regina con uno schierarsi contro l’indipendenza della Scozia.