Condannati a non amare di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 18 maggio 2016 Vedo spesso durante l’ora d’aria un ergastolano un po’ "strano" che ogni volta che fa su e giù per il cortile quando arriva in fondo accarezza le pareti del muro. Oggi per curiosità gli ho chiesto perché fa quel curioso gesto e mi ha risposto che è tanto tempo che non accarezza una donna e non voleva perdere l’abitudine. Gli ho sorriso. (Diario di un ergastolano: carmelomusumeci.com) L’Italia è uno dei pochi paesi nel mondo e in Europa che non prevede colloqui affettivi e riservati per i suoi prigionieri. Da tempo c’è depositato in parlamento un disegno di legge che delega il governo a effettuare modifiche nell’ordinamento penitenziario per consentirlo e c’è una proposta di legge sugli affetti delle persone detenute che sta facendo il suo iter in Commissione giustizia della Camera. E mi hanno colpito le dichiarazioni di un noto sindacalista della Polizia penitenziaria, che ha rilasciato alla giornalista Silvia Mancinelli: "Ci metteremo di traverso per evitare che questo provvedimento diventi realtà, siamo disposti a manifestare a oltranza. Non vogliamo passare per guardoni di Stato. (…) Si rischia di far passare l’idea che convenga delinquere. (…) La pena non consiste solo nella privazione della libertà, ma anche in tutto quello che ne consegue. (…) Insomma, se uno commette un reato dovrà capire che non gli conviene rientrare in carcere." (Fonte: "Il Tempo" 16 maggio 2016). Quest’ultima affermazione mi ha amaramente fatto sorridere perché si vede che in Italia in carcere si sta molto bene perché le statistiche ci dicono che il 70% per cento dei detenuti che escono dal carcere ci rientrano. Riguardo all’affermazione "Non vogliamo passare per guardoni di Stato" credo che sia poco rispettosa verso i suoi colleghi degli altri paesi europei dove è consentito scambiare un bacio, una carezza in intimità con la moglie i figli e i genitori. Non voglio fare polemiche perché è assolutamente sbagliato che un detenuto condannato per gravi reati si permetta di contraddire un operatore penitenziario con la fedina penale pulita, ma penso che inevitabilmente, durante la detenzione, gli affetti col tempo si perdono anche a causa delle modalità medievali e delle poche ore di colloquio che abbiamo a disposizione. E, irrimediabilmente si sfasciano le famiglie. Non sarebbe più semplice per tutti modificare queste restrizioni incivili e controproducenti ed allinearci col resto del mondo? Il carcere è il luogo dove hai più bisogno d’amore, ma sembra che i nostri guardiani siano gelosi dell’amore. In carcere si vede così poco amore che, quando uno ne ha poco, te lo vogliono persino portare via. Quei pochi detenuti che sono amati vengano trasferiti in carceri lontani e duranti i colloqui si è separati da vetri, banconi, tavoli per impedire di dare e ricevere baci e carezze ai e dai propri figli. Molti detenuti preferirebbero più amore che la libertà, ed io sono uno di quelli. Quello che rimpiango non è la libertà che mi manca da venticinque anni, ma le carezze e i baci che lo Stato mi ha rubato e negato, perché a mio parere queste restrizioni non dovrebbero essere compatibili con la pena che devo scontare. Proibire o rendere difficili i rapporti affettivi in carcere penso che sia un crimine contro l’amore e contro l’umanità. Non tanto, però, contro i detenuti, noi ce lo "meritiamo", ma contro i nostri familiari che hanno solo la colpa di continuare a volerci bene. Riforma del processo penale e Costituzione dimenticata di Manuel Sarno L’Opinione , 18 maggio 2016 La politica, è noto, si alimenta con il consenso: e la Giustizia è un settore che difficilmente offre tale opportunità tranne che non si assecondino diffuse istanze securitarie alle quali vengono offerte soluzioni che - in genere - poco hanno a che fare con l’ars boni et aequi. A comprova vi è un palinsesto di interventi, essenzialmente nel settore del diritto e del processo penale, che si propongono come meramente simbolici, espressioni di una torsione repressiva portata avanti tramite slogan e grida manzoniane approvate a colpi di maggioranza. Il risultato della frettolosa accondiscendenza verso pulsioni mediatiche ed emergenze reali o presunte non può essere che quella dell’imbarbarimento del sistema attraverso produzioni che sono il paradigma dell’approssimazione populista della legislazione. Ed è in questo filone che si inseriscono i disegni di legge pertinenti la modifica della legittima difesa, volti a superare l’esigenza di bilanciamento tra natura del bene aggredito, modalità dell’azione offensiva e perimetro della reazione attribuendo all’aggressore una sorta di accettazione del rischio, quali che ne siano le intenzioni. Qualcuno dimentica, probabilmente, che il diritto alla salute - quindi alla integrità fisica ed alla vita stessa - è il solo che la Costituzione, all’articolo 32, definisce fondamentale: il che significa che esso è concepito come il presupposto del pieno godimento di tutte le altre garanzie costituzionali ed il cui sacrificio non può essere previsto se non a fronte della necessità di fronteggiare il rischio concreto di un analogo pregiudizio. Altre riflessioni può indurre l’analisi della disciplina del cosiddetto "omicidio stradale", nella quale non è dato comprendere le ragioni di un trattamento dispari del cittadino di fronte alla legge - postulato dall’articolo 3 della Costituzione - rispetto ad ipotesi analoghe di lesioni o morte cagionate per colpa: ad esempio, con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro o per negligenza medica e per le quali la dosimetria della sanzione è più mite nonostante la gravità oggettiva delle condotte; a tacer del fatto che, a causa dei limiti al bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti, la norma in materia di lesioni colpose "stradali" può determinare un trattamento sanzionatorio più elevato per un incidente causato dopo aver bevuto una birra piuttosto che per un investimento volontario (e, a questa stregua, all’autore converrebbe confessare falsamente il dolo). In materia di giustizia, però, il tema più attuale e propagandato dagli epigoni della presunzione di colpevolezza è la modifica della prescrizione mediante allungamento dei termini o interruzione definitiva del suo corso da un momento processuale dato in avanti. Il maggior numero di prescrizioni, statisticamente esorbitante e senza distinguere tra delitti e contravvenzioni, peraltro, matura nella fase delle indagini; dunque - tranne, forse, casi eccezionali - per scelta o inerzia del pubblico ministero, non di rado per direttive esplicite declinate dal capo dell’Ufficio circa la priorità da assegnare alla trattazione di taluni reati rispetto ad altri: tra questi, non di certo, quelli contro la Pubblica amministrazione sulla cui presunta impunità diffusa viene fatta leva. Un falso problema, dunque. Così come non è corrispondente al vero il riferimento, quale causa, a callidi stratagemmi dei difensori, che nel corso delle indagini non hanno nessuna possibilità di intervenire, volti a conseguire l’estinzione del reato per decorso del tempo. Per vero, neppure nelle fasi successive la lentezza del processo, da cui può derivare la prescrizione, sembra ascrivibile a subdole manovre degli avvocati (le cui ragioni di rinvio, tra l’altro, ne interrompono il corso): un’estesa indagine Eurispes del 2008 ha rilevato, infatti, come il maggiore numero in assoluto dei differimenti delle udienze dibattimentali sia da riferire a difetti nelle citazioni, mancate presentazioni dei testimoni del pm, assenza del giudice titolare o altre problematiche di carattere amministrativo e burocratico. Ma tant’è, si vorrebbero dilatare i tempi del processo quasi che la sua ragionevole durata prevista dall’articolo 111 della Costituzione fosse tale solo se tendente ad infinito, come se il principio di rieducazione della pena dettato, invece, dall’articolo 24 non imponesse che un’eventuale condanna sia ravvicinata il più possibile alla commissione del reato per assolvere efficacemente alla sua funzione, evitando inutili afflizioni ad una persona le cui condizioni soggettive e di vita possono essere, nel frattempo, profondamente mutate. Molto ci sarebbe ancora da dire sulle suggestioni di eliminazione del doppio grado di giudizio di merito, circa la proposta di legge sul reato di negazionismo che intacca la libertà di espressione, sulla ipotizzata estensione dei processi celebrati in videoconferenza che vulnera il diritto alla difesa e l’impiego nelle indagini dei più invasivi virus informatici con buona pace della garanzia primaria di riservatezza delle comunicazioni. L’imminente astensione di protesta degli avvocati aderenti all’Unione delle Camere Penali si incentra su più di uno di questi punti. Per ora fermiamoci qui con la considerazione amara che, forse, prima della sciatteria normativa, il problema con cui ci si deve confrontare è quello di una Costituzione dimenticata. L’arresto mediatico del (non) terrorista di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 18 maggio 2016 Nei giorni scorsi a Bari erano stati arrestati due afghani e un pakistano con un’accusa pesantissima ovvero associazione finalizzata al terrorismo internazionale. L’operazione fu rivendicata in una conferenza stampa della Procura del capoluogo pugliese che ebbe le prime pagine di tutti i giornali e di tutti i media digitali. La notizia non sfuggì al mitico - direbbe Homer Simpson - Matteo Salvini. Il sito ilsudconsalvini.info annunciò una pronta visita di Salvini a Bari. I titoli dei giornali non lasciavano dubbi: pronti a colpire; volevano colpire Circo Massimo e Colosseo; scoperta cellula legata all’Isis, fermati militanti dell’Isis. Accade però che il Gip barese dichiara gli indizi di terrorismo insussistenti: uno dei tre arrestati è scarcerato. Per gli altri restano le accuse più banali di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Che dire? Tre considerazioni a margine. La prima riguarda gli organi investigativi. Supponiamo abbia ragione il Gip. Il punto non è l’eventuale errore giudiziario. Può capitare. Basta rimediare subito così come è avvenuto. Il punto è l’avere attivato la bomba mediatica. Quegli arresti - giusti o sbagliati - potevano avvenire senza la rivendicazione in conferenza stampa che, visto il tema, inevitabilmente va a diffondersi su scala globale. I media di tutto il mondo infatti ne hanno parlato scatenando il panico, favorendo la diffidenza nei confronti delle persone straniere di fede islamica, alimentando le tensioni locali, aiutando i politici che vivono dell’altrui paura. Le azioni di polizia e degli organi investigativi richiedono discrezione, quanto meno nelle ipotesi di reato contestate. Spesso accade che vengono indette conferenza stampa dopo un arresto e all’operazione di polizia viene dato un nome. Quel nome evoca a volte addirittura una fattispecie criminosa specifica commessa. Crimine che in fase di giudizio potrebbe essere invece derubricato, cambiato, cassato. Resta però lo stigma. Resta la paura collettiva. Resta il danno sociale. Restano i titoli di stampa. È del tutto legittimo che i magistrati dicano la loro su un referendum di rilevanza costituzionale. Più cautela servirebbe invece rispetto a inchieste il cui esito è incerto. I nomi delle persone arrestate a Bari hanno fatto il giro del pianeta. Andrebbe verificato ora giornale per giornale, sito per sito, social media per social media che analogo spazio sia stato concesso alla notizia della scarcerazione. La seconda osservazione riguarda la deontologia giornalistica. Nella fase precedente alla sentenza definitiva di condanna i nomi dovrebbero essere citati con grande senso di responsabilità e dunque con parsimonia. La rete infatti li inchioda in eterno massacrando la privacy e la presunzione di innocenza. Si resta colpevoli a vita nonostante una possibile assoluzione giudiziaria. Inoltre dovrebbe essere obbligatorio nella fase delle indagini l’uso del modo condizionale o dell’aggettivo presunto. Infine vi è il tema specifico del terrorismo internazionale. Non è questo un reato qualunque. Non viviamo in un momento qualunque. Dunque ancor più cautela dovrebbe essere usata in questo ambito evitando di indurre a facili assimilazioni tra immigrato, profugo, radicalizzato, combattente, terrorista. Le parole vanno maneggiate con grande cura e nel rispetto delle libertà fondamentali. L’ultima esternazione di Davigo: "i nostri politici hanno una tendenza alla devianza" Il Dubbio, 18 maggio 2016 Il Presidente dell’Anm Piercamillo Davigo torna a esternare in televisione: "Uno dei nostri problemi è che dobbiamo affrontare gli appartenenti alla classe dirigente mentre ancora ricoprono cariche: all’estero si dimettono per molto meno di quanto emerge all’inizio di una vicenda giudiziaria in Italia, da noi fanno cose orribili e poi dicono aspettiamo le sentenze". E come prova di quel che dice, Davigo ha portato gli esempi del "presidente della Repubblica tedesco che si è dimesso per aver ottenuto un prestito da un amico a un tasso inferiore di quello legale", o del ministro che, sempre in Germania, "si è dimesso per aver copiato una parte della sua tesi di dottorato". Ma il piatto forte il presidente dell’Anm l’ha sfoderato poco più in la quando ha sottolineato che "la nostra classe dirigente, e non parlo solo di politici, ha una tendenza alla devianza sconosciuta negli altri Paesi: altrove rubano i poveri e non i ricchi, mentre da noi rubano pure i ricchi". Secondo il presidente dell’Anm processare la classe dirigente "crea dunque una serie di problemi: sono meglio difesi e hanno a disposizione mezzi di pressione e informazione". Solo il giorno prima Davigo, ospite del Programma Piazza pulita su LA7 aveva replicato al premier: "A mio giudizio - ha detto - la frase di Renzi, secondo cui veniamo da venti anni di barbarie giustizialista, non è condivisibile. Al momento in cui gli indici di percezione della corruzione collocano l’Italia allo stesso livello della Grecia e della Bulgaria tra gli ultimi posti in Europa e quando poi si vanno a vedere le statistiche giudiziarie si scopre che abbiamo più o meno lo stesso numero di condanne per centomila abitanti della Finlandia che è uno dei Paesi". Insomma, Davigo è un presidente del sindacato dei magistrati decisamente presenzialista. Meno "colore", più nomine, la politica nuova del Csm di Errico Novi Il Dubbio, 18 maggio 2016 È diventata una corsa contro il tempo. Al Consiglio superiore della magistratura si accelera per votare domani al plenum sul nuovo procuratore di Milano. Potrebbe dunque arrivare il giorno di Francesco Greco, attuale aggiunto nell’ufficio dei pm milanesi, sostituto dello storico pool di Mani pulite e appartenente ad "Area", la stessa componente del predecessore Edmondo Bruti Liberati. Tutto dipende dalla tempestività con cui stamattina saranno depositate le proposte sui tre magistrati in lizza - oltre a Greco, Alberto Nobili e Giovanni Melillo. Se il ministro della Giustizia Orlando avrà il tempo di valutarle per esprimere il proprio parere, o come si dice in gergo il "concerto", domani il plenum si riunirebbe davvero per discutere della delicatissima nomina. È una partita che si tende a vedere colorata politicamente, ma che forse lo è meno di quanto appaia all’esterno di Palazzo dei Marescialli. La magistratura, se è politicizzata, non lo è più come all’epoca del conflitto frontale con Berlusconi. La Procura di Milano in effeti un colore politico, con l’ultimo capo, Edmondo Bruti Liberati, l’aveva mantenuto: l’ultimo vertice di quell’ufficio è uno storico leader di Magistratura democratica, la corrente "rossa" e comunque politicizzata per definizione. Ma forse non è più tempo di confusioni tanto indebite tra partiti e gruppi di magistrati. Eppure negli ultimi giorni la confusione c’è stata. Molti hanno cominciato a osservare il Csm come un Parlamento in miniatura, in cui la componente più robusta, Area, ha fatto sapere di voler fare campagna per il referendum. Si è detto: ecco la sinistra giudiziaria che scende in campo contro il fantasma autoritario nascosto tra le pieghe della riforma Boschi. Da lì, per sillogismo, il Consiglio superiore della magistratura è trasfigurato in una terza Camera, tenacemente schierata a difesa di quella in via di soppressione, ossia il Senato. Ma non è proprio così. Intanto è da una settimana che i consiglieri, laici e togati, dovrebbero riunirsi per definire un codice di autoregolamentazione, e non ci riescono. Hanno molti incarichi direttivi da assegnare. Dall’inizio della consiliatura hanno indicato 320 nuovi dirigenti degli uffici. E il fabbisogno di nomine è in aumento, dopo l’abbassamento a 70 anni della soglia per la pensione. Non c’è tempo per la politica propriamente intesa (non a caso Morosini non voleva dare interviste e Spataro, che pure si è esposto, del Csm non fa parte). Piuttosto prevale l’affermazione delle diverse "culture di autogoverno", per usare l’espressione con cui le correnti dei giudici definiscono i loro "programmi". Culture che appunto si affermano anche con il presidio fisico: tutti i procuratori scelti giovedì scorso sono iscritti a un gruppo associativo. I gruppi del Csm - Nel plenum siedono di diritto 27 consiglieri: il presidente della Repubblica è anche presidente del Consiglio superiore, ma non vota per gli incarichi. Raramente lo fanno i "capi di Corte", cioè i membri di diritto della Cassazione - attualmente Giovanni Canzio (primo presidente) e Pasquale Ciccolo (procuratore generale) - e il vicepresidente Giovanni Legnini. Si schierano invece i laici, indicati dal Parlamento, tra i quali nell’attuale Consiglio sussiste un complicato equilibrio: 3 consiglieri di centrosinistra (Fanfani, del Pd, Balducci, proposta da Sel, Balduzzi di Scelta Civica), 3 di centrodestra (Alberti Casellati e Pierantonio Zanettin di FI, Leone dell’Ncd) e un "indipendente" (Alessio Zaccaria, proposto comunque da M5s). Schieramenti che si combinano con le correnti d’appartenenza dei togati (la cui geografia interna al Csm è ricostruita in grafica, ndr). Queste ultime oscillano tra la maggioranza relativa di "Area" e quella spesso assoluta delle occasionali convergenze tra i "centristi" di Unicost (5 consiglieri) e la "destra" della magistratura associata, a sua volta divisa tra il gruppo Magistratura indipendente (3 consiglieri) e Autonomia & Indipendenza. Quest’ultima è la corrente nata per scissione da Mi, capeggiata da Piercamillo Davigo e rappresentata attualmente dal consigliere Aldo Morgigni, il gip del processo Fastweb. Anche in "Area" c’è una ripartizione: si tratta di un’alleanza formata da due gruppi. Quello più antico, Magistratura democratica, ha due rappresentanti, Morosini e Aschettino. Gli altri 5 provengono tutti da Movimento per la giustizia, compreso il capodelegazione di Area nel plenum, Valerio Fracassi. Un segno anche questo che la politica giudiziaria, al Csm e in generale tra le toghe, non ha più le stesse sfumature del ventennio berlusconiano. Caso Ilva, Strasburgo processa l’Italia: "non tutelata la salute di 182 cittadini" di Michelangelo Borrillo Corriere della Sera, 18 maggio 2016 Lo Stato italiano è formalmente sotto processo di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, con l’accusa di non aver protetto la vita e la salute di 182 cittadini di Taranto dagli effetti negativi delle emissioni dell’Ilva. La Corte di Strasburgo ha ritenuto sufficientemente solide, in via preliminare, le prove presentate, e ha così aperto il procedimento contro lo Stato italiano. Tutto nasce da un ricorso collettivo - Nello scorso mese di febbraio la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva accettato la domanda di trattazione prioritaria del ricorso collettivo presentato da un gruppo di residenti di Taranto per denunciare la violazione, dallo Stato italiano, degli obblighi di protezione della vita e della salute in relazione all’inquinamento prodotto dall’Ilva. Nel ricorso sostengono che "lo Stato non ha adottato tutte le misure necessarie a proteggere l’ambiente e la loro salute, in particolare alla luce dei risultati del rapporto redatto nel quadro della procedura di sequestro conservativo e dei rapporti Sentieri". Tra le doglianze sollevate figurano, in particolare, la violazione del diritto alla vita e all’integrità psico-fisica, in quanto le autorità nazionali e locali hanno omesso di predisporre un quadro normativo ed amministrativo idoneo a prevenire e ridurre gli effetti gravemente pregiudizievoli derivanti dal grave e persistente inquinamento prodotto dal complesso dell’Ilva. Contestata anche la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, anche in conseguenza dei ripetuti decreti "salva Ilva" con cui il governo ha mantenuto in funzione l’impianto sotto la propria gestione. La decisione odierna di comunicare i ricorsi al governo significa, con ogni probabilità, che le prove presentate dai ricorrenti contro l’operato dello Stato sono molto forti visto che solo l’anno scorso i giudici di Strasburgo hanno dichiarato inammissibile il ricorso di una donna che sosteneva l’esistenza di un nesso tra la sua malattia e le emissioni dell’Ilva. A Taranto al via il più grande processo ambientale - La notizia arriva nel giorno in cui si è aperto a Taranto il processo "ambiente svenduto". Più di sei anni di indagini, 47 imputati, un migliaio di parti civili, più di 100 avvocati e un’intera città che aspetta di sapere se chi ha inquinato dal 1996 al 2013 (anni della gestione della famiglia Riva) sarà condannato insieme a chi avrebbe fatto poco o nulla per evitarlo, dai dirigenti d’azienda a politici e amministratori. Dopo il replay di parte dell’udienza preliminare a causa di un vizio procedurale, quello che si è aperto oggi nell’aula Alessandrini della Corte d’Assise di Taranto è il più grande maxi-processo italiano in tema ambientale dopo il rinvio a giudizio disposto il 23 luglio 2015. Per "ambiente svenduto" dell’Ilva sono 44 le persone fisiche e 3 le società (Ilva spa, Riva Fire, la holding del gruppo, e Riva Forni Elettrici) alla sbarra. È lunga la lista dei reati contestati dalla Procura della Repubblica di Taranto, dall’associazione per delinquere finalizzata a vari reati, tra i quali il disastro ambientale, all’avvelenamento di acque e sostanze alimentari, al getto pericoloso di cose, all’omissione di cautele sui luoghi di lavoro. Della famiglia Riva saranno processati Nicola e Fabio, tra i politici anche l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. Omofobia, legge al palo da tre anni di Liana Milella La Repubblica, 18 maggio 2016 Norma seppellita dagli emendamenti del centrodestra. Mattarella: contrastare l’intolleranza. 19 settembre 2013, giorno in cui alla Camera è stato approvato il ddl sull’omofobia, che amplia il catalogo delle discriminazioni punite dalle legge Mancino anche con pene fino a 4 anni. 20 settembre 2013, giorno in cui il testo è stato spedito al Senato. Ieri, 17 maggio 2016, giorno in cui quel testo è ancora lì, in commissione Giustizia, seppellito dalle migliaia di emendamenti che due senatori, Lucio Malan di Fi e il centrista Carlo Giovanardi, gli hanno buttato addosso paralizzandone il cammino. Antefatto necessario prima di parlare della giornata mondiale contro l’omofobia e la transfobia che cadeva giusto ieri. Come ha ricordato il presidente del Senato Piero Grasso, nel giorno in cui, 26 anni fa, l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, "ha tolto l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali". Il capo dello Stato Sergio Mattarella ha detto parole chiare contro la discriminazione perché "è inaccettabile che l’orientamento sessuale costituisca il pretesto per offese e aggressioni e determini discriminazioni sul lavoro e sulle attività economiche e sociali". Parole importanti che subito ottengono il consenso di Ivan Scalfarotto, primo firmatario della legge alla Camera e di Nichi Vendola. Ma parole che fanno riflettere sullo stop che la legge ha subito al Senato. Felice Casson, vice presidente della commissione Giustizia, è netto: "È semplicemente vergognoso che la legge sia bloccata in commissione da tutto questo tempo. Non c’è nessun mistero su quale ne sia la ragione: è il frutto dell’atteggiamento ostruzionistico e delle migliaia di emendamenti presentati da chi cerca in tutti i modi di opporsi alla legge". Malan e Giovanardi appunto. Protagonisti di un forcing contro il testo della Camera, con interminabili sedute notturne passate a discutere se fosse meglio usare la parola "lesbico" o "saffico". Alla fine, per l’evidente mancanza di una maggioranza sufficiente, il testo è finito "in sonno". Alla Camera, del resto, era passato tra le polemiche - 228 sì di Pd e Scelta civica, 57 no di Fi e Lega, 108 gli astenuti di M5S - soprattutto per via di un emendamento che escludeva il reato di omofobia "all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto". Formula che ha fatto astenere M5S con dure proteste in aula. Ora bisogna ripartire da lì, ma la strada è tutta in salita, soprattutto dopo gli scontri sulle unioni civili. La presidente della Camera Laura Boldrini dice che la legge contro l’omofobia "da sola non sarà sufficiente, ma colmerà un vuoto legislativo che pesa". M5S la rimprovera subito, parla di "legge zoppa, caratterizzata da troppi compromessi al ribasso e da timidissimi passi avanti". È sempre il testo che il forzista Malan, ancora ieri, definiva "orrendo perché manderebbe in carcere chiunque dicesse che per un bambino è meglio avere un padre e una madre piuttosto che due padri e due madri". Ma il presidente del Senato Grasso è pronto a seguire il cammino della legge, considera l’omofobia "frutto di pregiudizi, paura e ignoranza", al punto che "sono gli omofobi ad avere seri problemi e dovrebbero, loro sì, curarsi". Il Pd sembra pronto ad affrontare questa nuova battaglia al Senato dopo le unioni civili. Monica Cirinnà parla di "una legge quanto mai urgente che regoli e punisca in modo specifico questo reato, una legge scritta bene, senza equivoci e compromessi". Il presidente del Pd Matteo Orfini ammette che "siamo in ritardo e dobbiamo accelerare, e assumere un’iniziativa politica". La vice segretaria Deborah Serracchiani plaude al Mattarella "contro la discriminazione". Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi tweetta sotto "stop omofobia". Il deputato Matteo Colaninno chiede di sbloccare il ddl, al momento l’unica cosa necessaria da fare. Femminicidio: non arrendiamoci alla violenza di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 18 maggio 2016 Un operaio di 32 anni ha ucciso l’ex fidanzata di 24. Le tragedie del femminicidio e quella pericolosa ambivalenza che ancora permea la nostra mentalità quotidiana. Cresce l’idea che il cosiddetto delitto d’onore, pur essendo stato cancellato dal Codice penale da tempo, non è per nulla scomparso, nei fatti, dalle teste: perché comunque ci sono ancora uomini che si ritengono autorizzati, per vergogna o per frustrazione, a eliminare una donna che si sottrae al loro controllo. Pensando che l’ex moglie, l’ex fidanzata, l’ex compagna non debba avere altra ragione di vita se non il legame con lui. La stessa ossessione che abita l’uomo deve appartenere alla donna, pena la morte. Passano gli anni, progrediamo in (quasi) tutto, la famiglia si frantuma, si moltiplica, si rinnova, eppure resistono numerosi antri (mentali) primitivi: e sono spesso uomini della borghesia attiva, della società civile, mediamente acculturata, mediamente inserita, mediamente tecnologica, mediamente benestante, mediamente tutto. E abbiamo un bel dire che l’islam maschilista maltratta la donna: la sottomette, la schiavizza. Certo, l’aggravante è che si tratta di una mentalità spesso diffusa e codificata. Ma la nostra libertà e liberalità non è sgombra dai cliché, altrettanto (e specularmente) codificati, della donna oggetto del godimento estetico dell’uomo (la donna necessariamente bella, provocatoria, succinta): basti osservare le immagini della pubblicità, soffermarsi su un varietà televisivo di prima serata. Ogni giorno accogliamo pigramente l’immagine ammiccante e degradata della donna (ovvio, con il suo consenso). Quanta audience in più non appena mostriamo un vertiginoso decolleté? L’ipocrisia (diffusamente maschilista) rimuove gli stereo-tipi da voyeur che finiamo per tramandare ai nostri figli, maschi e femmine, in silenzio (e chi poi alza la mano timidamente è un insopportabile moralista, buonista, politicamente corretto...). Ma se non bisogna arrendersi alla nausea e allo scandalo dopo le tragedie del femminicidio, non dovremmo, ancor prima, accettare quella pericolosa, pervasiva ambivalenza che ci abita nella quotidianità. Caporalato, gli sfruttati sono 430 mila di Luisa Grion La Repubblica, 18 maggio 2016 Aumento di trentamila unità in 12 mesi. In agricoltura il boom dei voucher maschera il lavoro nero In un anno l’uso dei ticket è cresciuto del 67%. Doveva fare emergere il sommerso, è servito al contrario. Voucher e caporalato: il primo doveva essere lo strumento principe per l’emersione del lavoro nero, il secondo un retaggio del passato. Non è andata così e i numeri lo dimostrano. Si stima che nel 2015 le vittime del caporalato siano state 430 mila, 30 mila in più rispetto a un anno prima, per l’80 per cento stranieri, oltre 100 mila in grave disagio ambientale e abitativo. E di "ticket", in questi anni, se ne sono venduti una quantità che poco ha a che fare con l’idea di remunerazione di lavoro occasionale per il quale erano stati creati. Fra il 2014 e il 2015 l’utilizzo del voucher è aumentato del 67,5 per cento; una ricerca Inps-Veneto lavoro ha appena reso noto che dal 2008 ad oggi due milioni e mezzo di italiani sono stati pagati con il "buono", passando dai 25 mila "voucheristi" di otto anni fa al milione 380 mila dello scorso anno. Più che di lavoro occasionale si tratta di norma, tanto che il buono - studiato soprattutto per dare legalità alla raccolta stagionale nei campi - è utilizzato solo in minima parte dagli imprenditori del settore: 16 mila contro i 250 mila dell’industria e del terziario. In agricoltura il voucher, di fatto, è servito per dare una parvenza di regolarità ad aziende che utilizzano il nero per la maggior parte dei rapporti di lavoro e il suo ingresso sul mercato nulla è valso contro la piaga del caporalato, che in questi anni, si è allargata. "C’è un abuso acclarato in tutti i settori - afferma Luigi Sbarra della Fai-Cisl - e la tracciabilità annunciata dal ministro Poletti non è risolutiva. Il voucher è un "caporale di carta" che colpisce le tutele, nega Tfr, assistenza, malattia e ammortizzatori sociali". Un "caporale di carta" che non ha indebolito quelli in carne ed ossa. Anche qui le cifre parlano chiaro. Le stime di Cisl e Cgil concordano nel segnalare un fenomeno in crescita. Il terzo rapporto "Agromafie e caporalato" realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil dimostra che ci sono 80 distretti agricoli nei quali, pur se con diversa intensità, si registrano casi di grave sfruttamento e caporalato. Senza distinzioni fra Nord e Sud: si pratica nella raccolta di pomodori al Sud, come nei vigneti del Chianti e del Prosecco. Un business che tra infiltrazione della criminalità e sfruttamento muove tra i 14 e 17,5 miliardi di euro. E che costa allo Stato 600 milioni l’anno di evasione contributiva. C’è una proposta del governo che prevede fra altro - la confisca dei beni obbligatoria, il reato di intermediazione illecita e sfruttamento, la punibilità del caporale e dell’azienda consapevole, il risarcimento per le vittime. I sindacati dicono che si poteva fare meglio, ma che soprattutto si deve fare. La legge è ferma al Senato e la campagna di raccolta sta per cominciare. Enzo Tortora era innocente. La Rai e la magistratura invece no di Francesca Scopelliti Il Dubbio, 18 maggio 2016 Il ventottesimo anniversario della morte del giornalista "stritolato" dalla mala-giustizia. "Signora Presidente, signor Ministro, signori colleghi, mezz’ora fa è mancato all’affetto della sua famiglia il nostro Enzo Tortora. Mi si consenta, pur non essendo stato un nostro collega, ma essendo stato un rappresentante del nostro popolo - e quale, e come, e in che circostanze - nel Parlamento Europeo, mi consenta, signora Presidente, senza usare violenza di sorta, di tacere per mezzo minuto". "Così Marco Pannella, con voce rotta dalla commozione ? vera - alla Camera dei Deputati il mattino del 18 maggio 1988, esattamente 28 anni fa. Cinque anni prima, il 17 giugno 1983, Tortora era stato arrestato come un volgare e pericoloso delinquente. Un arresto spettacolare per supportare accuse infondate, infamanti quanto assurde: appartenenza alla camorra, traffico di droga e - inchiesta facendo - altre invenzioni. Ad accusarlo un manipolo di delinquenti che, con il nobile quanto inappropriato titolo di "collaboratori di giustizia", era stato assunto a servizio della Procura di Napoli dai procuratori Felice Di Persia e Lucio di Pietro. Le farneticanti dichiarazioni di 17 gaglioffi e il libero convincimento di quei magistrati rivoluzionano la vita di un uomo perbene: non uno straccio di prova, non un riscontro, non un’indagine alla ricerca della verità, non una intercettazione ma solo menzogne, calunnie, false accuse precostituite e propagandate da giornalisti complici e asserviti alla procura. Perché? Perché Tortora deve essere colpevole. Enzo è un personaggio amato da milioni di telespettatori, una icona del giornalismo italiano fino a quando un’assurda accusa lo trasforma da grande giornalista in grande spacciatore di droga, da uomo di cultura in uomo di malavita. Enzo vive la gogna di una campagna di informazione pilotata dalla procura napoletana che ha bisogno di compensare la mancanza di prove con la costruzione del "colpevole". Ma anche da imputato, da detenuto, Enzo Tortora non rinuncia ad essere se stesso, ad agire con la dignità e la forza di un uomo perbene. Lo vogliono vittima? Lui si fa protagonista di una nobile battaglia per la giustizia giusta, tesa a risolvere non soltanto il suo processo, ma il ben più grave "caso Italia". Lo vogliono camorrista e spacciatore con una condanna a 10 anni di galera scritta da Luigi Sansone (presidente della corte) e suggerita da Diego Marmo (quel Pubblico Ministero che recentemente ha chiesto scusa per aver commesso una grave errore giudiziario)? Lui si conferma galantuomo, si dimette dal Parlamento Europeo per tornare in galera e presentarsi ai suoi giudici come semplice cittadino. Innocente. Tortora è innocente, gli altri no. Tortora non ha nulla da rimproverarsi, i magistrati sì. Tortora potrà tornare al suo pubblico a testa alta, tanti altri giornalisti no. Dopo aver affermato la verità e aver portato nelle sedi istituzionali la denuncia del degrado giuridico italiano, Enzo muore per un tumore al polmone "che mi hanno fatto scoppiare come una bomba al cobalto" in quel dannato giorno di metà giugno 1983. Quei magistrati che hanno firmato la più brutta pagina della storia della giustizia italiana potranno invece godere di note di merito e promozioni di carriera (Felice Di Persia viene addirittura eletto al Consiglio superiore della magistratura). Ancora oggi c’è un problema "magistratura" da riformare: gli errori giudiziari sono ancora tanti, la legge sulla responsabilità dei magistrati ? pur nella sua inadeguatezza - non trova applicazione, esiste un libero convincimento del giudice che si scontra con il sistema accusatorio, c’è una stretta correlazione tra la magistratura giudicante e quella inquirente, e sia l’una che l’altra sono troppo politicizzate. È una verità incontestabile. Così come è vero che tanti magistrati concordano però sull’esigenza di una vera, sana e profonda riforma. Per intervenire contro i mali reali del sistema, facendosi garanti di una riforma a favore della giustizia giusta e non a dispetto di qualcuno, tantomeno a dispetto della magistratura, alla quale vanno ridati quella dignità e quel rispetto che la Costituzione le assegna ma che la stessa magistratura deve guadagnare e mantenere sul campo. Per questo credo che non sia più rinviabile un confronto con l’Anm per trovare la giusta quadratura, per garantire a tutti giudizi equi e celeri, certezza della prova e giusto processo. E invece assistiamo a una contrapposizione pretestuosa, a un interminabile scontro ? tanto frontale quanto volgare - che genera mostri e impedisce ogni modifica legislativa, ponendo una pietra tombale su ogni possibile e necessaria riforma. Confermando - ahimè, ahinoi - che il "sonno della ragione genera mostri". Per ricordare Enzo nel ventottesimo della sua morte, uno Speciale del TG5 firmato da Andrea Pamparana è stato titolato "Quella giustizia che uccise un galantuomo". Un servizio giornalistico equilibrato e vero, che ha reso la giusta memoria a Tortora. Mediaset se ne è ricordato, d’altronde è stato proprio Enzo il "papà" delle televisioni libere. Ma è stato soprattutto "figlio" di quella Rai alla quale tantissimo ha dato in termini di cultura, spettacolo e "guadagni". Eppure quest’ultima tace (nonostante i miei solleciti a diversi consiglieri di amministrazione), perché parlare di Tortora dà ancora fastidio: qualcuno potrebbe indispettirsi, c’è il rischio di sollevare qualche suscettibilità. Tortora è stato ed è un personaggio da dimenticare per non svegliare le coscienze. "Hai visto la Tv? La Tv alla quale ho dato quasi tutta la mia vita, beh, hai visto se, nella disgustosa celebrazione dei suoi 30 anni ha ricordato una sola volta me, un mio programma? Silenzio. È il Potere, Francesca. È questo, che ha deciso di stritolarmi". Così mi scrive Enzo dal carcere in una lettera del gennaio 1984: parole profetiche. Quel silenzio dura da ben 28 anni. Mamma Rai ingrata e distratta? No, perché non rinuncia a ricordare, giustamente, gli altri suoi figli. Ma Tortora è il figlio ribelle, troppo liberal per le paludate consuetudini della Tv di Stato, troppo innocente nella inchiesta napoletana per richiamare alla memoria i carnefici, troppo "antipatico" per meritare una citazione. Insomma, sembra proprio che il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini non valga in Rai e allora mi chiedo: ma se il servizio pubblico viola un sacrosanto e semplice principio, perché io devo pagare il canone? P. S. Subito dopo aver consegnato questo articolo, ricevo una telefonata di RaiNews in cui mi si informa che, giorno 18 alle 18, il direttore Antonio Di Bella dedicherà la sua trasmissione "Telegram" alla memoria di Enzo Tortora. Ne sono felice: è una ennesima conferma della sensibilità del direttore Di Bella sulla vicenda di Enzo. Plaudo quindi a lui, mentre mantengo il mio giudizio sulla Rai. "Non accettate i processi inutili". Stop agli avvocati delle cause perse di Franco Vanni La Repubblica, 18 maggio 2016 La Cassazione punisce un legale "Vietato intasare le aule con liti temerarie". Liti con il vicino di casa per una lavatrice troppo rumorosa, cause sull’esatta spaziatura fra i pioppi in filare che dividono due campi. Istanze contro l’ex moglie per l’orario in cui il bambino deve essere riaccompagnato a casa dopo il nuoto. Le cause già perse in partenza, intentate in mala fede, inceppano il meccanismo della giustizia. E per ogni lite temeraria, c’è un avvocato che non ha saputo, o voluto, frenare il cliente. Proprio agli avvocati si rivolge ora la Cassazione. Una sentenza dello scorso 12 maggio, della Sesta sezione civile, afferma che "l’avvocato ha l’obbligo di non consigliare azioni inutilmente gravose e di informare il cliente sulle caratteristiche della controversia e sulle possibili soluzioni". Il giudice da ragione a una donna che aveva citato in giudizio il proprio legale, colpevole di non averla dissuasa dal presentare un’istanza per un risarcimento, poi dichiarata infondata dal Tribunale di Roma. Il legale è stato condannato a versare alla donna mille euro. E i giudici affermano che "sussiste l’obbligo in capo all’Avvocato di dissuadere il cliente da azioni che siano manifestamente prive di fondamento". Sulla responsabilità degli avvocati nel proliferare delle cause inutili aveva parlato chiaro Piercamillo Davigo, dal palco del forum Ambrosetti a Cernobbio, quando ancora non era a capo del Csm. "Si devono introdurre clausole penalizzanti per le liti temerarie. Le cause vanno fatte per questioni serie, quando c’è ragionevole possibilità di vincerle. Questo va contro gli interessi degli avvocati che sono agguerriti, con l’interesse alla proliferazione dei processi. E ben rappresentati nella classe politica". E sono tanti: 229mila, contro i 56mila della Francia. Secondo i dati della Commissione europea, la durata del processo in Italia è di 520 giorni, contro una media continentale di 241. Lo scorso anno sono state accese 3,8 milioni di nuove cause civili, in confronto a 1,5 milioni di media europea. Per l’irragionevole durata dei processi, lo Stato ha accumulato un debito di 749 milioni di euro nei confronti dei cittadini in attesa dei rimborsi previsti dalla legge del 2001 sul Giusto processo. Una cifra imponente, che rappresenta però solo una piccola parte dello spreco di soldi pubblici dovuto al moltiplicarsi delle cause inutili. Giuseppe De Palo, docente alla Hamline University School of Law nel Minnesota, è uno dei massimi esperti europei in mediazione. I suoi studi mettono in evidenza come, in Italia, chi si rivolge a un Tribunale per la composizione dei conflitti, versando il contributo unificato, sostenga solo il 10 per cento del costo totale del procedimento. Il restante 90, circa tre miliardi di euro all’anno, grava sulla collettività. E mentre il ministro Andrea Orlando ha studiato un decreto legge per sveltire il processo civile, i giudici hanno cominciato a fare la loro parte. Il principio fissato ora dalla Cassazione era già stato espresso dal giudice Giuseppe Buffone della Nona sezione civile del Tribunale di Milano. Il caso era quello di una donna che, lo scorso 22 marzo, aveva trascinato in causa l’ex marito, ponendo questo quesito: "Voglia l’illustrissimo giudice chiarire cosa occorra intendere per "festività pasquali", se dalla domenica di Pasqua alla sera del lunedì dell’Angelo, e a che ora sia quindi da compiersi il prelievo e il successivo riaccompagno della bambina". Il giudice, nel dichiarare inammissibile l’istanza, aveva bacchettato il legale della donna, ricordandogli come avrebbe dovuto "svolgere un ruolo protettivo del minore, arginando il conflitto anziché alimentarlo". Sottinteso: anche a discapito della propria parcella. Droghe, la Consulta cancella le sanzioni amministrative di Elia De Caro Il Manifesto, 18 maggio 2016 Dopo l’incostituzionalità di larghe parte della Fini Giovanardi del 2014, la Corte Costituzionale cancella ora l’intero articolo 75 bis del Dpr 309/90 che stabiliva un inasprimento delle sanzioni amministrative per l’uso personale di stupefacenti. La Corte Costituzionale torna a pronunciarsi sulla legge sugli stupefacenti a due anni di distanza dalla nota sentenza 32/2014 che aveva sancito l’incostituzionalità di alcuni degli interventi normativi effettuati con la Legge 49 del 2006, la famigerata Fini-Giovanardi. Segnatamente con l’intervento del 2014 la Consulta sanciva l’illegittimità di quelle norme che avevano parificato il trattamento della cessione a terzi (e di svariate altre condotte) di droghe leggere e pesanti innalzando verso l’alto il relativo trattamento sanzionatorio. Per effetto di tale sentenza si è resuscitato l’art. 73, I e IV comma della legge Jervolino-Vassalli del 1990 e pertanto si applica una pena con limiti edittali da 2 a 6 anni e multa da euro 5.164 a 77.488 (in luogo di una norma dichiarata incostituzionale che prevedeva la pena da sei a venti anni e la multa da euro 26.000 a 260.000). Con la recente sentenza, la 94 del 2016, ancora redatta dal giudice Marta Cartabia, viene a essere rimossa dal nostro ordinamento un’altra norma introdotta nel 2006 ovvero l’art. 75 bis del Dpr 309/90 il quale stabiliva un inasprimento delle sanzioni amministrative per l’uso personale di stupefacenti. Infatti si prevedeva la possibilità da parte del Questore, previa convalida da parte del Giudice di pace competente per territorio, di irrogare a quei consumatori, la cui condotta configurasse un pericolo per la sicurezza pubblica e che avessero riportato condanne anche non definitive per reati contro la persona, il patrimonio, sugli stupefacenti, di violazione di norme sulla circolazione stradale o destinatari di misure di sicurezza o di prevenzione o fossero già stati sanzionati per uso personale ai sensi dell’art. 75, una gamma di sanzioni solo nominalmente amministrative ma che si traducevano in realtà in provvedimenti fortemente limitativi della libertà personale. Tali possono definirsi l’obbligo di presentarsi almeno due volte alla settimana presso una sede di polizia, l’obbligo di rientrare presso la propria abitazione o altro luogo di dimora entro una certa ora e non uscirne prima di un’altra, il divieto di frequentare alcuni locali pubblici, il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza, l’obbligo di comparire in uffici di polizia in orari prefissati, il divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore. Una gamma di misure che riproduceva un misto tra misure cautelari, misure di sicurezza e prescrizioni tipiche di misure alternative alla detenzione. La violazione di tali sanzioni, la cui durata poteva estendersi fino a due anni, comportava l’arresto da 3 a 18 mesi. L’intero articolo 75 bis è stato ritenuto incostituzionale e scompare dal nostro ordinamento sempre sulla base delle considerazioni che la Corte Costituzionale aveva sviluppato con la sentenza 32/2014 ovvero la disomogeneità delle disposizioni introdotte dall’art. 4 quater, oggetto del presente giudizio, con la legge di conversione, rispetto al testo dell’art. 4 dell’originario decreto legge che conteneva norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine era quello di non interrompere programmi di recupero dalla tossicodipendenza, mentre le norme censurate introducevano anche modifiche di carattere sostanziale senza alcuna attinenza alle finalità di recupero della tossicodipendenza, realizzandosi una violazione dell’art.77 secondo comma della Costituzione per difetto del requisito dell’omogeneità tra le norme dell’originario decreto legge e quelle introdotte in sede di conversione. Un giudizio che cancella una norma afflittiva e che va salutato positivamente e che dovrebbe spingere la politica, il governo e il parlamento, a mettere all’ordine del giorno la riforma della legge sulle droghe. Vigilanza, dribblato il penale di Luciano De Angelis Italia Oggi, 18 maggio 2016 L’organismo di vigilanza ex art. 6 dlgs 231/01 non è penalmente responsabile delle eventuali irregolarità operative dei cantieri facenti capo alla società. Così la Cassazione, prima sezione penale, con sentenza n. 18168 del 2 maggio 2016, prima decisione, a quanto consta, sui confini della responsabilità penale dell’organismo di vigilanza. Il fatto. Un incidente, avvenuto in un cantiere navale, determinava una grave invalidità a un operaio poiché due (pesanti) tubi si sfilavano dal carico che una gru stava sollevando cadendo sull’operaio in trattazione. A riguardo, l’accusa lamentava, ex art. 437 c.p. (relativo alla "Rimozione o omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro"), ai componenti del cda della società, di aver omesso di collocare apparecchi idonei al sollevamento dei materiali a mezzo gru o di averne messo in numero insufficiente e, segnatamente appositi accessori quali baie o ceste idonee al carico dei materiali. Inoltre si imputava ex art. 437 c.p. ai componenti dell’organismo di vigilanza di avere omesso di segnalare il fatto al cda e ai direttori generali e di non aver preteso che si ponesse rimedio ad una serie di carenze in tema di prevenzione dagli infortuni che venivano segnalati nei report in tema di sicurezza all’interno del cantiere, che ribadivano da tempo la mancanza di impianti, apparecchi e segnali e che l’organismo di vigilanza avrebbe recepito passivamente. A fronte del non luogo a procedere, relativamente al capo di imputazione da parte del giudice di primo grado nei confronti di tutti gli imputati per insussistenza del fatto, avverso alla sentenza proponeva, invece ricorso il procuratore della repubblica che contestava da un lato la distinzione del Gup fra apparecchi e attrezzature e dall’altro l’efficacia della delega di funzioni poiché tali deleghe non esonerano il delegante dal vigilare sull’attività del delegato, ravvisando altresì che il cda era informato delle manchevolezze di cautele del cantiere e che l’odv era consapevole dei problemi economici alla base di tali carenze. La decisione della Cassazione. Non vi è dubbio, secondo la Cassazione che l’infortunio de quo sia stato causato dal mancato utilizzo di ceste per la sollevazione dei tubi inox a mezzo gru, ceste che, peraltro erano presenti nel cantiere navale. Tuttavia se le ceste "erano nel cantiere in quanto fornite dalla componente datoriale, spettava eventualmente ai soggetti responsabili di unità operative disporne l’utilizzo e se ( ) esse fossero state impegnate al momento della lavorazione che è stata alla base dell’infortunio de quo, allora l’operazione doveva essere differita del tempo sufficiente a reperirne altre". Non è compito del consiglio di amministrazione che ha attribuito, a riguardo, specifiche deleghe né dell’organismo di vigilanza verificare le concrete modalità operative, sotto il profilo organizzativo, attraverso le quali il lavoro viene svolto. Conclusioni. La sentenza è di estremo rilievo in quanto va a delimitare i confini della responsabilità penale degli organi amministrativi e di controllo (nel caso di specie l’odv, ma la teoria è sicuramente estendibile anche al collegio sindacale). Viene evidenziato, in definitiva, come i compiti del consiglio di amministrazione, così come dell’organismo di vigilanza, non si dilatano fino a decidere se nell’ambito di mere operazioni tecniche (nel caso di specie le modalità di carico in una nave) si debba utilizzare una specifica modalità di lavoro o meno. Detti compiti di vigilanza specifica esulano anche da quelli dell’organismo di vigilanza di cui al dlgs 231/01. Rischia il carcere chi fa il "saluto fascista" allo stadio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 17 maggio 2016 n. 20450. Commette un reato e dunque rischia il carcere, o comunque una pesante multa, chi fa il "saluto romano" allo stadio. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 17 maggio 2016 n. 20450, giudicando il ricorso proposto da sette "tifosi" che durante la partita Italia - Georgia che si giocava a Udine, valida per le qualificazioni ai Mondiali di calcio, "dagli spalti avevano fatto il "saluto fascista", anche noto come "saluto romano", per tutta la durata dell’inno nazionale italiano, compiendo in tal modo una manifestazione esteriore tipica di un’organizzazione politica perseguente finalità vietate ai sensi dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654", e cioè legate alla "propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico". Gli imputati sono comunque stati assolti per prescrizione. Per sei dei sette ricorrenti la condanna a un mese e dieci giorni di reclusione era stata però convertita in Appello in 1.520 euro di multa, per un solo ultrà invece la previsione di due mesi di reclusione non era stata rideterminata. In Cassazione, gli imputati, per un verso, avevano eccepito l’assenza e comunque la mancata dimostrazione dell’elemento soggettivo del reato, per l’altro, avevano dedotto che "il "saluto fascista", in quanto tale, non possedeva alcuna valenza discriminatoria e non era accompagnato da comportamenti violenti che potessero essere ricondotti, direttamente o indirettamente, al regime fascista, in relazione al quale non venivano pronunciate espressioni inneggianti o apologetiche dagli imputati". Per la Suprema corte le argomentazioni dei giudici di appello sono immuni da vizi logici o giuridici, laddove sostengono che il saluto fascista "costituisce una manifestazione che rimanda all’ideologia fascista e a valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza", evidenziando che "la fattispecie contestata non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva, secondo quanto previsto dall’articolo 2 del decreto-legge n. 122 del 1993". Non solo, prosegue la Cassazione, nonostante tali condotte siano "dì per sé sole giustificative della condanna", la Corte di appello, allargando lo scenario, ha evidenziato anche che "gli imputati erano noti alle forze dell’ordine per fare parte di un gruppo di ultras friulani attestato su posizioni politiche di estrema destra", oltre al fatto che due dei ricorrenti erano sottoposti a Daspo. Così ricostruita la vicenda, "occorre aggiungere - conclude la Cassazione - che le condotte contestate venivano esternate nel corso di un incontro di calcio valido per la partecipazione ai campionati mondiali di calcio, al quale assistevano 20.000 spettatori, trasmesso in televisione, rendendo infondato - anche in conseguenza della diffusione mediatica della manifestazione sportiva in esame - l’assunto difensivo finalizzato a escludere l’elemento soggettivo indispensabile per configurare il reato". Se la fabbrica dei mostri si rivela falsa e bugiarda di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 18 maggio 2016 Era il 2011 e con queste parole i canali Rai diffondevano la notizia dell’arresto di 40 persone in un solo paese della Locride: Gioiosa Marina. Tra questi il sindaco Rocco Femia e gran parte degli assessori comunali. Poi il solito spettacolo con la classica sfilata in manette degli arrestati per la gioia dei forcaioli e, soprattutto, per "gabbare" il popolo calabrese trattato da coglione. Il consiglio comunale viene sciolto. Gli imputati esposti nelle gabbie come un trofeo. Lo scorso 28 aprile la Cassazione decide per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato. L’assessore Marrapodi, unico degli amministratori ad aver scelto l’abbreviato, è stato assolto. È innocente! Per gli altri imputati in abbreviato annullamento con rinvio. La fabbrica dei mostri si è rivelata ancora una volta falsa e bugiarda. In seguito a questa sentenza della Cassazione, Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa - uomo di centro destra - è stato scarcerato dopo cinque lunghi anni di galera. Ovviamente, lo Stato ha il diritto di processare chiunque venga sospettato di aver commesso un reato ma avrebbe il dovere di rispettare le leggi e la persona umana. Anche in Calabria! Tenere una persona - socialmente non pericolosa - per cinque anni in carcere senza una sentenza definitiva, è una barbarie. Un insulto alla Costituzione. Infatti, cinque anni fa scrivemmo in perfetta solitudine sul quotidiano calabrese diretto da Piero Sansonetti. "non tocca a noi giudicare. Noi chiediamo soltanto che Rocco Femia - così come tutti gli altri imputati - venga messo i in condizioni di difendersi nel processo. Da uomo libero e senza catene ai polsi. La carcerazione preventiva, quando manca la pericolosità sociale, è un sopruso. È un arbitrio e una ferita mortale alla libertà personale e alla democrazia". Sull’argomento siamo ritornati dopo tre anni dagli arresti: "Rocco Femia ex sindaco di Marina di Gioiosa e Sandro Figliomeni già sindaco di Siderno e tantissimi altri sono in carcere da quasi mille giorni? scontano una pena senza condanna? Sono mafiosi? Non ho alcun elemento per escluderlo, ma lo si dimostri in un processo giusto ed equilibrato". Meno di un mese fa su questo stesso giornale abbiamo ribadito, ancora una volta, le nostre posizioni. Chiariamo, non abbiamo riportato quanto abbiamo scritto per gratificarci o per dire "noi l’avevamo detto", ma per dimostrare che i "fatti hanno la testa dura" e oggi, con cinque anni di ritardo, ci hanno dato ragione. Una magra consolazione perché in Calabria la situazione è andata degenerando giorno per giorno e oggi i pasdaran della magistratura avanzano senza trovare resistenza in un’opera di desertificazione della democrazia. La politica quando non è complice è ammutolita e servile mentre la stampa e l’intellighenzia o trovano rifugio tra le calde braccia di chi detiene potere oppure sono troppo deboli e conformisti per opporsi al nuovo regime che avanza. Nessuno creda che questo scempio di libertà serva per combattere la ?ndrangheta o per sconfiggere i malviventi.. È vero esattamente il contrario. Tanto più le galere si riempiono di innocenti, tanto più saranno i delinquenti impuniti che resteranno in libertà. Anche un idiota capirebbe che un innocente tenuto in carcere per anni non sarà più in condizione di opporsi alla penetrazione mafiosa. Uno Stato che dovrebbe mai rompere il patto sociale con i propri cittadini, invece alcuni Pm incapaci (?) di ottenere risultati concreti nella lotta alla criminalità utilizzano gli innocenti buttati in carcere per anni, per oscurare gli insuccessi e i loro sostanziali fallimenti. Ogni storia personale è parte della storia di un popolo. La "piccola" storia di Marina di Gioiosa parla all’Italia intera. Quando una piccola comunità o un solo cittadino della stessa, può essere rinchiuso in carcere impunemente ed in spregio alle leggi ed alla Costituzione, il regime è alle porte. Qualcuno dice: succede in Calabria, "terra di ?ndrangheta". È la storia che si ripete. Si inizia sempre con i più deboli e che, in quanto tali, sono marchiati dal sospetto. Ieri gli zingari, oggi i calabresi. Questa non è solo una giustizia ingiusta ma anche una giustizia di classe. La viltà collettiva ha generato le grandi tragedie della storia. Rocco Femia è libero ed in attesa di giudizio ma le prigioni restano piene di innocenti o, comunque, di persone che attendono da anni una equa sentenza. E al danno si aggiunge la beffa: chi pagherà i danni morali e materiali per l’ingiusta detenzione dell’ex assessore Marrapodi? Gli stessi calabresi che in passato hanno pagato centinaia di milioni per i "prigionieri" innocenti lasciati marcire in carcere. Lo Stato che non trova un somma modesta per coprire il posto di primario di chirurgia d’urgenza presso l’ospedale di Locri per mancanza di fondi, pagherà somme maggiori per aver provato un cittadino della libertà e dell’onore. Non ci sarà un primario che avrebbe potuto salvare tante vite umane ma avremo più secondini che faranno la guardia a persone che non hanno mai toccato un capello ad alcuno. Qualcuno direbbe: così va il mondo! Nella Locride si vive quasi due anni in meno rispetto ad altre zone d’Italia. Non è l’oscura setta di assassini che accorcia la vita (anche se qualche volta vi contribuisce) ma la mancanza di prevenzione, di cure adeguate, di una sanità moderna. C’è tanto sdegno, certamente per l’impunità dei mafiosi ma ancor di più per la palese impostura dell’antimafia che ci viene sbattuta in faccia senza vergogna. Sia chiaro, noi guardiamo con grande rispetto alla stragrande maggioranza dei magistrati che svolgono il loro lavoro con serietà e compostezza. Non a tutti perché non è mai l’abito che fa il monaco. E di finti frati è pieno il convento! Presidente, sfidi la palude e conceda la grazia a Dell’Utri di Piero Sansonetti Il Dubbio, 18 maggio 2016 Marcello Dell’Utri è malato. Lo hanno ricoverato a Roma, al Pertini. È in condizioni di salute preoccupanti. Dell’Utri ha 75 anni ed è stato condannato a sette anni di carcere. Ne ha scontati quasi due. (Esiste una norma che prevede che le persone anziane, over 70, possono scontare le condanne ai domiciliari. Nel suo caso non è stata applicata). Forse perché il reato per il quale è stato condannato è considerato reato di mafia. Forse semplicemente perché è antipatico. Dell’Utri è stato condannato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Questo reato non è previsto dal codice penale. Il codice penale all’articolo 1 recita così: "Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge". E allora? Si obietta: ma la giurisprudenza, dal 1994 considera il concorso esterno un reato. Va bene (alla faccia dell’articolo 1 del Cp). Dell’Utri però è stato condannato per fatti avvenuti prima del 1994. E prima di quell’anno nessuna giurisprudenza prevedeva questo reato. L’articolo 2 del codice penale dice: "Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato". E allora? Vogliamo infischiarcene anche dell’articolo 2 del codice penale? Qualche mese fa la Corte europea ha condannato l’Italia per aver processato e condannato il dottor Bruno Contrada proprio per concorso esterno in associazione mafiosa, in riferimento a fatti avvenuti prima del 1994. Contrada ora andrà risarcito. È una sentenza, quella della Corte europea, che evidentemente riguarda in modo diretto il caso Dell’Utri. La condanna di Contrada e quella di Dell’Utri sono identiche. Tutte e due si riferiscono a fatti anteriori al 1994. Lasciamo stare qualunque altra considerazione sulla "modernità" dei reati associativi (inventati nell’ottocento dalla macchina repressiva dei Savoia per stroncare le rivolte nei paesi del Sud) che non sono previsti nei codici di quasi nessun paese dell’Occidente. Limitiamoci a questi fatti. Dell’Utri va scarcerato perché sta male. Dell’Utri va scarcerato perché ha più di 70 anni. Dell’Utri va scarcerato perché la Corte Europea ha stabilito che il suo reato non esisteva. Però Dell’Utri resta detenuto. Perché? Forse più che detenuto Dell’Utri è prigioniero. Potremmo scomodare addirittura il termine di prigioniero politico. Perché lo spirito pubblico ha stabilito che la persona di Dell’Utri è l’incarnazione di tutte le "malvagità" del berlusconismo. Io non voglio né condannare né assolvere i governi di Berlusconi (non in questa sede). Considero semplicemente una aberrazione tenere una persona in prigione perché è un simbolo. È un atto che non ha niente a che fare con lo Stato di diritto. Né con la democrazia. La politica non ha il coraggio di affrontare questo problema. È tremebonda. C’è una sola soluzione. Che il Presidente Mattarella trovi il coraggio per sfidare gran parte dell’opinione pubblica e grazi Dell’Utri. Ristabilendo la certezza del diritto e ponendo fine ad una evidente persecuzione. Gorizia: Crvg e Garante "il carcere è inadeguato, nella struttura e nella gestione" Ristretti Orizzonti, 18 maggio 2016 Da mesi la situazione precaria e inumana del carcere di Gorizia è sulle cronache locali, regionali e nazionali. Esponenti di partito (eccetto una sola persona alla quale il problema dei detenuti sta molto a cuore), sindacati, amministratori, associazioni fanno la "passarella" dentro l’edificio di via Barzellini senza poi creare un momento di verifica e di reale confronto con tutti coloro che operano all’interno della struttura: amministratori, agenti di polizia penitenziaria, volontari, detenuti ed il loro garante. Ai 42 detenuti è già stata spenta la speranza di accedere degnamente ad un programma riabilitativo per poter poi, terminata la pena, inserirsi dignitosamente nella società. Così la pena diventa tortura. Per l’inadeguatezza della struttura e nella gestione della stessa, nonostante la Riforma carceraria del 1975 e la "riforma della riforma" degli Stati Generali del 2016, non ci si vuole adeguare alla pressione della Corte Europea (legge Torreggiani 2013) che ha già condannato l’Italia per inadempienza della Carta dei diritti umani causa il trattamento inumano e degradante delle persone detenute. Il malessere e la sofferenza accompagnano anche le attività del Volontariato, che vive a stretto contatto con le persone detenute e spesso anche con le loro famiglie, e si fa carico della loro fatica di vivere; e oltre a non avere alcun riconoscimento se non di tipo strumentale, non ha nemmeno un benché minimo rimborso per i suoi sforzi. Però la cosa che fa molto riflettere oggi è che, mentre la situazione carceraria di Gorizia langue a causa (così dicono) della mancanza di fondi, d’altra parte ci si stupisce di leggere su Il Piccolo di oggi, Cronaca di Gorizia (17 Maggio 2016), che la Provincia ha un "tesoretto" di oltre 29 milioni di euro fermo lì… "…e il Consiglio avvisa la Regione che i soldi devono rimanere sul territorio". E la drammatica situazione in cui versano i detenuti del carcere di Gorizia non si trova forse sul nostro territorio? La Conferenza Regionale Volontariato Giustizia F.V.G. Il Garante del carcere di Gorizia, Don Alberto De Nadai Civitavecchia (Rm): tirocini lavorativi per ex detenuti, pubblicato l’avviso trcgiornale.it, 18 maggio 2016 Scadono il prossimo 13 giugno i termini per la presentazione della domanda di partecipazione ai tirocini formativi finalizzati al rientro nel circuito occupazionale di ex detenuti, finanziati dalla Regione Lazio. In particolare sono previsti tirocini per: 4 giovani adulti (18-25 anni) seguiti dal Servizio Sociale della Giustizia Minorile e sottoposti a misure alternative alla detenzione o sottoposti alla messa alla prova ex art. 28 D.P.R. 448/88; 3 ex detenuti/internati (18/55 anni) usciti per fine pena dagli Istituti penitenziari/Opg da non più di un anno; 4 soggetti in esecuzione penale esterna o a misure di sicurezza non detentiva (18-55 anni) - (affidati al servizio sociale dalla detenzione o dalla libertà, detenuti domiciliari, liberi vigilati, liberi controllati) con una pena da scontare non inferiore a 5 mesi. Ciascun tirocinio avrà la durata di 12 mesi, prevedendo un orario di 25 ore settimanali a fronte di un compenso di 500 euro mensili. Tutti gli interessati possono presentare domanda, utilizzando il modulo reperibile presso l’Ufficio URP in P.le Guglielmotti 7 dal lunedì al venerdì dalle ore 10,30 alle ore 12,30 e nei giorni di martedì e giovedì anche dalle ore 15,30 alle ore 17,30, o scaricabile dal sito internet istituzionale nella sezione "Avvisi Pubblici", allegando la documentazione espressamente richiesta nel bando. La busta sigillata contenente la domanda, dovrà essere indirizzata al: Comune di Civitavecchia - Piazzale Guglielmotti, 7 - con la seguente dicitura : "Tirocini lavorativi finalizzati al rientro nel circuito occupazionale - Ufficio alla persona e socio-assistenziali - e dovrà essere presentata all’Ufficio Protocollo del Comune di Civitavecchia, pena l’esclusione, entro e non oltre le ore 12,00 del 13 giugno 2016. Foggia: un "atelier" del carcere, gli ausili riprendono vita con il lavoro dei detenuti di Sara Mannocci Redattore Sociale, 18 maggio 2016 In Puglia è partita la sperimentazione dell’Atelier dell’ausilio. Grazie al lavoro di detenuti e persone in esecuzione penale esterna, attrezzature obsolete vengono riparate e rimesse a nuovo. Una sinergia efficace per ridare valore agli ausili e contenere la spesa sanitaria. "Le pietre di scarto possono diventare chiavi di volta": niente è più efficace di questa parabola evangelica per spiegare il senso dell’Atelier dell’ausilio, progetto sperimentale avviato a partire dal 2014 in Puglia nella provincia di Foggia, raccontato da Sara Mannocci nel numero di aprile di SuperAbile Magazine. Grazie a una robusta sinergia tra soggetti pubblici e privati, gli ausili protesici per le persone non autosufficienti ormai obsoleti - "pietre di scarto" - vengono rigenerati e resi nuovamente funzionanti con il lavoro di personale detenuto e in esecuzione penale esterna, altre "pietre di scarto", per rimanere nella metafora. Un’intuizione che coniuga una reale opportunità di reinserimento sociale e lavorativo dopo la detenzione con l’attenzione ai bisogni delle persone disabili e, non ultimo, un concreto risparmio della spesa sanitaria, altrimenti inevitabile per l’acquisto di ausili nuovi. Queste, sì, vere "chiavi di volta". Ad oggi l’Atelier ha avviato in lavorazione 949 ausili, di cui 510 sono stati già rimessi a nuovo in linea con le normative e consegnati alla Asl di Foggia. L’intera azione, finanziata con il sostegno della Fondazione con il Sud, vede capofila la cooperativa sociale L’Obiettivo insieme a Escoop, Cooperativa sociale europea, la società Home Care Solutions e l’associazione di volontariato Lavori in corso. La casa circondariale di Lucera, d’intesa con il garante pugliese dei diritti dei detenuti e l’Uepe, la Asl di Fog- gia e gli ambiti territoriali di Cerignola e Appennino Dauno settentrionale costituiscono invece il fronte pubblico dell’iniziativa. "Avevamo da un lato la forte esperienza di inserimento lavorativo della cooperativa L’Obiettivo, dall’altro la capacità di Escoop che gestisce il Centro regionale di esposizione, ricerca e consulenza sugli ausili tecnici Cercat - spiega Paolo Tanese, presidente di Escoop. Ci siamo chiesti: saremo in grado di riparare gli ausili insegnando un mestiere a chi ha bisogno di opportunità? Così abbiamo pensato di coinvolgere la casa circondariale". La cooperativa Escoop, attraverso la gestione dell’ausilioteca del Cercat, verifica l’appropriatezza degli ausili prescritti dalla Asl di Foggia. Non solo sedie a ruote o stampelle ma anche deambulatori, montascale, sollevatori, o ancora letti motorizzati, sedie per doccia, respiratori, numerose strumentazioni dal costo significativo. È nata così l’idea di dar vita a veri e propri laboratori per il ritiro e la riparazione degli ausili danneggiati o fortemente consumati, "realizzando due strutture, la Bottega dell’ausilio, all’interno della casa circondariale, e l’Officina, nella zona industriale di Cerignola. Al momento lavorano, regolarmente retribuite, tre persone detenute, quattro in esecuzione penale esterna e due dipendenti con mansioni di capisquadra - sottolinea Pietro Rossi, garante regionale dei diritti dei detenuti -. Stiamo cercando concretamente di insegnare un mestiere, un’opportunità vera spendibile anche fuori dal carcere". La Bottega è operativa al terzo piano della casa circondariale; invece l’Officina, inaugurata a gennaio, si sviluppa su uno spazio di mille metri quadri a Cerignola. Sia le persone detenute che quelle in esecuzione penale esterna hanno ricevuto una formazione teorica e on the job, e dall’ottobre 2015 sono assunte con il contratto collettivo delle cooperative sociali. Innova è la società consortile no profit istituita per la gestione coordinata delle due strutture. Il circuito degli ausili. Per avviare l’intero processo l’Atelier ha ritirato 949 ausili da riparare, in maggioranza da strutture della Asl di Foggia. L’operazione di rimessa a nuovo non ha comportato l’acquisto di pezzi di ricambio, ricavati dalle 110 strumentazioni non più servibili e da rottamare. "Gli ausili ritirati sono stati in primo luogo analizzati per capire il lavoro da svolgere - precisa Tanese. Sono seguite poi le operazioni di sanificazione, per togliere la carica batterica, smontaggio, verniciatura, assemblaggio e verifica dello strumento. Ogni operatore ha registrato sul computer tutto ciò che ha svolto, un sistema informativo ha collegato a ogni prodotto una scheda e ciascun ausilio pronto è stato dichiarato conforme alla norme da un tecnico ortopedico e garantito da una polizza". Se i primi 510 ausili sono stati consegnati alla Asl, 305 sono ancora in lavorazione. Una volta pronte, le strumentazioni vengono raccolte in un magazzino gestito da un software in rete a cui personale Asl accede tramite password. In questo modo il medico può verificare la disponibilità del prodotto di cui un paziente ha bisogno, prima di prescrivere un ausilio nuovo, e prenotarlo incaricando la società Innova di consegnarlo a domicilio. Quell’ausilio in particolare, a questo punto, verrà rimosso, prima virtualmente e poi fisicamente dal magazzino. Un circuito di operazioni complesse e ben orchestrate che, per i 510 ausili già consegnati, ha costituito per la Asl un risparmio sulla spesa pari a circa il 70%. Un’analisi di mercato potenziale, applicata all’intera Regione, comporterebbe una riduzione della spesa sanitaria di circa 15 milioni di euro all’anno. "La Asl ci ha comunicato che darà seguito al progetto e abbiamo sollecitazioni anche da fuori regione - aggiunge Tanese. Ho capito il senso di questo lavoro quando ho incontrato le famiglie all’inaugurazione dell’Officina. I figli dei dipendenti esclamavano: questo lo ha fatto papà". Cagliari: detenuti al lavoro in ospedale, una nuova vita oltre le sbarre sardegnaoggi.it, 18 maggio 2016 Messa alla prova per trenta persone per tre anni al San Giovanni di Dio e al Policlinico universitario di Monserrato. "L’inclusione sociale per chi ha sbagliato passa anche da azioni come questa". Trenta persone condannate al lavoro di pubblica utilità o che godranno del procedimento sospeso con messa alla prova, per i prossimi tre anni, si apprestano a dare il loro servizio in favore della collettività nei due presidi dell’Azienda ospedaliero universitaria di Cagliari, dunque al San Giovanni di Dio e al Policlinico Duilio Casula. È quanto prevedono il protocollo d’intesa e la convenzione firmati dal commissario straordinario dell’Aou di Cagliari, Giorgio Sorrentino, dal presidente del Tribunale di Cagliari, Mauro Grandesso Silvestri, e da Rossana Carta, dirigente dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Cagliari, Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Oristano e Ogliastra. Le persone ritenute idonee per il percorso di volontariato sono pronte a svolgere attività amministrative e tecniche, ma anche ogni altra attività di lavoro di pubblica utilità connessa alla professionalità degli interessati e alle finalità dell’Azienda. Per ciascuno deve essere redatto un progetto che contempli l’attività di volontariato, il luogo in cui si svolge, il numero di ore e le modalità. Per ogni persona inserita è prevista la presenza di un referente che lo affianchi nel percorso, lo supporti nello svolgimento del compito affidatogli e mantenga i rapporti con l’Ufficio esecuzione penale esterna. L’inserimento nell’attività deve essere preceduto da un colloquio con il referente dell’Aou e viene redatta una scheda di presentazione, in cui si specifica anche l’impegno al fine di poter collocare al meglio le persone all’interno dell’Azienda. "Si tratta", spiega Giorgio Sorrentino, "di un accordo che ha lo scopo di dare impulso ad azioni volte a favorire percorsi di inclusione sociale nei confronti delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione, finalizzate all’espletamento di attività di volontariato. Noi crediamo che, grazie a queste iniziative, davvero possiamo fare tantissimo sul fronte dell’inclusione sociale. Crediamo molto nella collaborazione con i magistrati e con gli uffici del ministero della Giustizia e vogliamo dare il nostro contributo". Soddisfatta Rossana Carta: "Si tratta di una risorsa per i cittadini, condannati e imputati, che attraverso un procedimento di risocializzazione e di un percorso in lavoro di pubblica utilità, diventano attori di buone azioni. Dunque, si ottengono diversi risultati. L’esecuzione della pena, ma anche garanzia di sicurezza per la società, perché il condannato e l’imputato non deve più incorrere in comportamenti di reato". Caserta: carcere di Santa Maria C.V., sbloccati i fondi per l'acqua corrente di Marilù Musto Il Mattino, 18 maggio 2016 Il carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato costruito, negli anni 90, senza un collegamento con la rete idrica Comunale. Manca l’acqua corrente perchè non c'è la condotta legata alla rete pubblica dell’acquedotto. Da sempre, i detenuti, usufruiscono di acqua conservata in cisterne e serbatoi, ma nel periodo estivo, per metà giornata, gli ospiti della struttura carceraria, 964 in tutto, utilizzano acqua in bottiglia per cucinare e bere. Dei quasi mille detenuti, 340 sono ristretti in regime di alta sicurezza perchè accusati di reati mafiosi, ottanta sono donne. In estate, l’acqua viene prelevata da un pozzo artesiano e viene filtrata attraverso un impianto di potabilizzazione. Tuttavia, con il caldo l’erogazione idrica si riduce al minimo per la minore quantità presente nella falda, causando enormi disagi ai detenuti, che restano per la maggior parte delle ore senz' acqua. Qualcosa, però, negli ultimi mesi si è mosso. La Regione Campania ha sbloccato due milioni di euro per la costruzione di un impianto che possa garantire la presenza d'acqua in carcere e il collegamento alla rete idrica: "Abbiamo vinto la battaglia contro la burocrazia, finalmente si darà la possibilità ai detenuti di usufruire dell'acqua potabile", ha dichiarato la deputata Pd Camilla Sgambato la quale, in sinergia con la regione e il Ministero della Giustizia (Dap) ha ottenuto il finanziamento per la creazione dell'impianto. Venezia: due sottosegretari alla Giustizia in Tribunale e tra i detenuti La Nuova Venezia, 18 maggio 2016 Giornata veneziana, ieri, per i sottosegretari alla Giustizia Gennaro Migliore e Federica Chiavaroli. In mattinata hanno fatto visita negli uffici della cittadella della Giustizia di piazzale Roma, alla presidente del Tribunale facente funzioni Giuliana Galasso, che ha illustrato loro le carenze d’organico degli uffici giudizari veneziani sia per quanto riguarda i magistrati - ne mancano 7 ma si avviano a mancarne 9 se tra poco Manuela Farini e Antonella Magaraggia saranno nominate presidenti di Tribunale di Venezia e Verona dal Consiglio superiore della magistratura - sia per quanto riguarda il personale amministrativo (- 30 per cento). Quindi Galasso ha illustrato l’ennesimo problema di carenza di mezzi: sono finiti i soldi per acquistare la benzina delle due auto a disposizione del Tribunale. I due sottosegretari hanno dichiarato che si faranno parte attiva nei confronti del ministro Andrea Orlando per affrontare al più presto questi problemi. Infine, Migliore e Chiavaroli si sono recati prima nel carcere femminile della Giudecca, poi in quello maschile di Santa Maria Maggiore. Hanno incontrato le direttrici Gabriella Straffi e Immacolata Mannarella, ma anche i detenuti e in particolare al maschile hanno ascoltato le loro richieste. A Santa Maria Maggiore uno dei problemi irrisolti è quello del lavoro, sono pochissimi i detenuti che possono lavorare e lo hanno spiegato ai due esponenti politici. I quali hanno voluto anche vedere le bocche di lupo e quello veneziano è uno degli pochi carceri dove ci sono ancora, impedendo alla luce di entrare. Lecce: il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, in visita al carcere Agenparl, 18 maggio 2016 Mauro Palma, presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha visitato nella giornata di ieri la Casa circondariale di Lecce, ed è stato ricevuto dalla direttrice Rita Russo, dal comandante dell’istituto Riccardo Secci e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone. E' quanto si legge in una nota dell’ufficio stampa del Garante nazionale dei detenuti. All’incontro – prosegue la nota – erano presenti anche il magistrato di sorveglianza Emanuela Foggetti e il garante regionale Piero Rossi. Il garante ha visitato il nuovo blocco psichiatrico realizzato in collaborazione con la Asl di Lecce che, sul piano strutturale, potrebbe entrare in funzione prima dell’inizio dell’estate; a regime potrà ospitare venti detenuti in osservazione psichiatrica o comunque bisognosi di terapie dedicate. Tuttavia il garante ha osservato che “prima dell’apertura deve essere definito un protocollo d’intesa tra l’Amministrazione penitenziaria e quella sanitaria al fine di assegnare le unità di personale specialistico necessario e identificare con precisione le procedure operative che riguardano il coordinamento dei rispettivi interventi di cura e sicurezza” aggiungendo “va inoltre previsto all’interno dell’articolazione psichiatrica un presidio di medicina generale per affrontare le eventuali emergenze di natura somatica”. Il garante nazionale, accompagnato dal commissario Massimiliano Bagaglini, attualmente assegnato all’Ufficio del garante, ha poi visitato il blocco femminile, intrattenendosi con alcune delle donne e raccogliendo le loro testimonianze sulle condizioni della vita detentiva. Come previsto dalla legge sull’istituzione di questa figura di garanzia, un breve rapporto sulla visita sarà inviato all’amministrazione penitenziaria nelle prossime settimane. Roma: così la camorra truccava il concorso per guardie carcerarie di Valentina Errante Il Messaggero, 18 maggio 2016 Il sospetto è che la camorra abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane e che per farlo abbia intrapreso la via ordinaria del concorso ministeriale. E non è un caso che il fascicolo sullo scandalo della selezione per 400 agenti di polizia penitenziaria, sospesa dal Dap perché 88 concorrenti sono stati trovati durante le prove con radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni, sia all’esame della procura distrettuale antimafia della Capitale. A coordinare l’indagine a carico degli 88, che alla fine di aprile erano sbarcati alla Fiera di Roma dalla Campania per superare le prove, è il procuratore aggiunto Michele Prestipino. Sono state le dichiarazioni di alcuni dei concorrenti finiti sotto accusa e i primi accertamenti sui candidati, bloccati all’esame con le risposte in tasca, a suscitare i sospetti della magistratura. I nomi di terze persone coinvolte, rivelati proprio dagli indagati che non hanno potuto negare le circostanze, avrebbero portato gli inquirenti dritto ai clan. La procura ipotizza che dietro alla falsificazione dei test potesse esserci una vera e propria connection che puntava a inserire uomini dell’organizzazione all’interno delle carceri. Le verifiche sono ancora all’inizio ma Prestipino potrebbe decidere in tempi strettissimi di modificare in associazione mafiosa il reato nel fascicolo inizialmente aperto per falso e tentata truffa. Le indagini puntano anche ad accertare eventuali complicità all’interno del Dipartimento. A suscitare allarme e forti dubbi sulla possibilità di infiltrazioni della criminalità orgnizzata sono state anche le cifre che sarebbero state pagate per ottenere le soluzioni ai test. Troppo elevate per trattarsi di semplici mazzette e ordinaria corruzione. In alcuni casi raggiungerebbero i 25mila euro. Soldi che difficilmente un normale concorrente, che abbia la licenza media, può permettersi di pagare per superare un concorso. Gli accertamenti riguardano pure la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, anche quella con sede in Campania e le idoneità fisiche ottenute dai candidati. Il concorso, che si è svolto dal 20 al 22 aprile, è stato sospeso dallo stesso Dipartimento dopo la verifica delle irregolarità. Intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto una relazione urgente a Santi Consolo, responsabile del Dap, per chiarire tutti gli aspetti della vicenda. Adesso spetterò all’Avvocatura dello Stato, interpellata dal Dipartimento, pronunciarsi e stabilire se sia possibile annullare la prova. Nei prossimi giorni dovrebbero arrivare le prime risposte, ma riguarderanno soltanto, il piano amministrativo. Le indagini invece risultano molto più complesse. Ad accorgersi di quanto stava accadendo nei locali della Nuova fiera di Roma, nei tre giorni delle prove, è stato il personale della stessa amministrazione penitenziaria, che, dopo le voci circolate alla vigilia del concorso, aveva predisposto una task force del Nic, il Nucleo investigativo centrale del Dap, e da due commissari. Dopo lo scandalo, anche i controlli rinforzati hanno suscitato i dubbi e le domande da parte di alcuni sindacati di polizia penitenziaria, come il Sappe, che adesso premono per l’annullamento del concorso. Alle prove per 400 posti (300 uomini e 100 donne) hanno partecipato undicimila persone. Tutti e tre i giorni, le operazioni di verifica e il sequestro del materiale, da personale della polizia penitenziaria, hanno allungato a tal punto i tempi di svolgimento dell’esame che le prove sono andate avanti fino a notte fonda, le tre del mattino il 22 aprile. È stato lo stesso Dipartimento, dopo un’indagine interna, a inviare gli atti in procura. Rimini: al "Caffè corretto" poesia, arte e sport per vincere la noia in carcere di Stefano Rossini Redattore Sociale, 18 maggio 2016 Alla Casa circondariale Casetti di Rimini è attivo uno spazio di confronto e incontro gestito da un operatore della Caritas per far socializzare i detenuti e farli interagire in un contesto diverso. Dallo scorso ottobre sono diversi i laboratori che si sono susseguiti. Il più frequente compagno di cella, in carcere, è la noia. Ma questa inattività non procura alcun vantaggio, né a chi la subisce, né a chi la propina come punizione per chi è finito in prigione per qualsiasi motivo. Il carcere può e deve essere qualcosa di più, un luogo in cui il tempo viene impiegato in modo proficuo, per conoscere se stessi, per imparare qualcosa di nuovo, e per cercare di uscire meglio di come si è entrati. Nasce con questi intenti il Caffè Corretto, uno spazio di confronto e incontro gestito da un operatore della Caritas, che si svolge tutti i martedì dalle 13 alle 15. Queste attività sono finanziate dal Comune di Rimini attraverso il Piano di Zona per la Salute e il Benessere Sociale e realizzati dall’associazione Madonna della Carità grazie anche all’importante ruolo rivestito dai volontari del progetto "Sportello carcere - centro di ascolto". La finalità è quella di far socializzare i detenuti e farli interagire in un contesto diverso, fornendo una seria di impegni diversi da quelli che solitamente il carcere offre; un momento di pausa e socializzazione assimilabile a quello di un caffè al bar appunto, di un caffè letterario per meglio dire, di un caffè "corretto" (nella doppia valenza di "conforme ad educazione" ma anche di "bevanda con aggiunta di un qualcosa in più"). Dallo scorso ottobre sono diversi i laboratori che si sono susseguiti all’interno dei Casetti, la casa circondariale di Rimini, tra cui uno di teatro, a cura dell’associazione Klangwelt, e un altro dedicato alla realizzazione dei regali per la festa del papà (in particolare delle cornici). Tra le varie forme espressive capaci di regalare un momento di libertà autentica anche dietro le sbarre, non poteva mancare la poesia, "veicolo d’eccellenza dei sentimenti e delle ragioni del cuore" usando le parole della poetessa e insegnante Silvia Bernardi, dell’associazione Scuola e Società: da poche settimane ha concluso con un gruppo di ospiti dei Casetti un laboratorio articolato in cinque incontri, al suo secondo anno, proprio dedicato alla poesia e letteratura in chiave educativa e pedagogica. "Desideravo molto fare questa iniziativa con i carcerati che non avevo mai avuto occasione di visitare. E alla fine posso dire che per me è stata oltre che una grande gioia, un’opera di misericordia e un’esperienza culturale di altissimo livello", afferma la professoressa che ha lavorato con una media di 12-13 persone. Il programma didattico non è stato meno rigoroso di quelli già attuati in altri contesti e con altri "alunni" speciali, nelle varie iniziative seguite dall’associazione sul territorio. Ma ai Casetti la poesia è stata vissuta soprattutto nel suo aspetto più umano, non senza un approccio a tratti ludico, con gli stessi detenuti pronti anche a iniziare ad abbozzare qualche testo poetico. "Nel contesto del carcere, dove non esistono i ruoli e le etichette che fuori, nella vita di tutti i giorni, ci impediscono di conoscere veramente le persone, ho potuto incontrare prima di tutto degli uomini", commenta Silvia Bernardi. "Ho trovato persone che nella loro nudità, hanno tirato fuori sentimenti profondissimi, soprattutto l’amore per la propria famiglia, la madre, i figli. Persone belle, ci tengo a dirlo, disarmate e disarmanti al tempo stesso, che mi hanno arricchita. Nessun uomo in nessuna condizione e in nessuna condanna può esaurire se stesso: siamo più grandi dei nostri imiti e dei nostri sbagli". È quello che la poetessa ha sperimentato in prima persona con questo laboratorio. "La poesia in particolare è un elemento di umanizzazione estremo, il più grande veicolo di sentimenti profondi ed inconsci: paradossalmente, dentro il carcere, la poesia ha concesso un vero momento di libertà". Tra i laboratori appena conclusi anche un ciclo di 3 incontri di libero sfogo della creatività rivolto ai detenuti della sezione Vega (transessuali). Il breve corso, condotto da Cristina Brolli, volontaria dell’Associazione Nati per Leggere, biblioteca di Rimini, si è proposto di realizzare con i materiali a disposizione, tra cui vari tipi di carta, riviste, quotidiani, colla, tempere o acrilici, o matite, e altro, un lavoro espressivo, grafico pittorico. "Il fine di questa attività - dice Cristina - non è il bel risultato, il disegno grazioso, ma dare la possibilità di esprimersi con i mezzi a disposizione. Non è una lezione tecnica sul come, ma un momento di condivisione, di parole e di sguardi, di divertimento e di libertà". Altri due corsi sono invece appena cominciati. Il primo è a cura di Davide Curradi, giovane laureato in scienze della formazione e personal trainer, che sta conducendo un laboratorio su salute e benessere e sport. "Ho fatto due incontri, entrambi molto partecipati - racconta Davide - nel quale abbiamo parlato di salute, attività fisica e alimentazione. Mi è piaciuto molto l’approccio perché non è quello classico della lezione, ma c’è un continuo scambio e tanta attenzione. Ho cercato di insistere sull’importanza dell’attività fisica per il benessere. Alcune delle persone presenti hanno svolto nella loro vita lavori pesanti e per questo erano già avvezze all’attività. "Un altro aspetto importante - continua Davide - è quello dell’alimentazione. Qui si riscontrano anche delle difficoltà, perché ovviamente in carcere non c’è la libertà di mangiare quello che si vuole. Per questo l’incontro è stato molto seguito, e devo dire che sono davvero contento". Ora Davide sta strutturando un percorso come personal trainer nella sezione a custodia attenuata Seatt che si svolgerà da martedì 17 maggio fino a metà giugno, una volta a settimana dalle 9 alle 11. L’ultimo laboratorio - tra quelli appena cominciati - è invece dedicato ai detenuti della sezione Vega, ed è un corso di Danza Movimento Terapia, a cura di Giulia Landi dell’associazione Art Therapy Italiana di Bologna. Si tratta di una forma di terapia che utilizza il movimento e l’espressione del corpo come mezzo di integrazione e crescita emotiva. "Lavorare con un linguaggio non verbale - spiega Giulia - può essere un modo per esprimere la parte più autentica di sé. D’altronde siamo in una situazione in cui il corpo ha già parlato molto, è stato un elemento importante delle loro vite. Il tema scelto per gli incontri è quello del paesaggio. Lavoriamo non solo col corpo, ma anche con materiali artistici e immagini. "Il laboratorio è appena cominciato ma sono soddisfatta - conclude Giulia - perché i corsi sono partecipati, tutti si sono impegnati molto e sono entrati nel lavoro proposto". Tante le attività proposte dal centro di ascolto della Caritas - a cui partecipano una media di 10, 15 detenuti - tra cui anche corsi più "pratici" come l’orto disinvolto, e attività di artigianato, di cui parleremo le prossime volte. Cannes, Giulietta e Romeo dietro le sbarre. Il regista: "La vita è confluita nel film" di Chiara Ugolini La Repubblica, 18 maggio 2016 Parla Claudio Giovannesi, ultimo italiano alla Quinzaine des Réalisateurs, che con ‘Fiorè offre uno spaccato sui carceri minorili dove gli attori si confondevano con gli ex detenuti. Romeo e Giulietta dietro le sbarre di un carcere minorile. Arriva il turno anche dell’ultimo film italiano alla Quinzaine des Réalisateurs, Fiore, di Claudio Giovannesi. Una storia molto applaudita dai presenti in sala, quella di Daphne e Josh. Lei è stata condannata per aver puntato un coltello alla gola per rubare un cellulare, lui per aver rapinato, il primo incontro è fuori dall’infermeria: lei ha fatto a botte con le compagne, lui per la rabbia ha dato un pugno al muro. Poi viene il patto: lei, per qualche pacco di sigarette, proverà a chiamare la fidanzata di lui che non vuol saperne di aspettarlo, dopo inizia l’amicizia fatta di biglietti scambiati nel carrello della spesa, infine sboccia l’amore, fatto di sguardi tra una finestra e l’altra, di un ballo durante la festa di Capodanno del carcere, di baci rubati e di attese, ma anche di incomprensioni. Il regista ha lavorato per quattro mesi come insegnante volontario nell’Istituto penale per i Minori di Casal del Marmo a Roma coinvolgendo i detenuti in una serie di laboratori per riuscire a scrivere la sceneggiatura all’interno del carcere e basarla sulle loro esperienze e vere biografie. "Mi ha sorpreso vedere l’innocenza di ragazzi che dal punto di vista della legge non sono innocenti per nulla: perché l’innocenza è un tratto dell’adolescenza, quello che più mi emoziona". Nei panni di molti dei ragazzi del carcere gli stessi detenuti mentre in quelli dei protagonisti ci sono due esordienti, Josciua Algeri e Daphne Scoccia che ha accompagnato il film insieme al regista e a Valerio Mastandrea che interpreta il padre di lei. "Quel che più mi ha regalato il personaggio di Daphne è stato la verità - ha detto l’attrice ventunenne - la verità di Claudio che voleva assolutamente raccontare questa storia e l’ha portata fino a qui a Cannes. Di tutta questa esperienza quello che mi è rimasto è che l’amore può essere la cura fondamentale per una ragazzina di diciassette anni". Il film è stato girato in un carcere minorile non utilizzato, che è quello dell’Aquila ristrutturato dopo il terremoto e rimasto vuoto. "Tipica storia italiana: era un deserto dei Tartari con veri poliziotti e nessun detenuto - ha spiegato Giovannesi. Noi lo abbiamo usato abitandolo con alcuni dei ragazzi con cui avevamo fatto laboratori, ex criminali o in regime di messa alla prova e poi con alcune guardie carcerarie. La troupe dormiva con gli attori, era un ambiente multietnico perché come si vede nel film ci sono ragazzi di ogni provenienza. È stata una vera esperienza di vita che poi è confluita nel film". Anche il suo film precedente, Alì ha gli occhi azzurri, aveva per protagonisti due adolescenti. "L’adolescenza ci offre uno sguardo sulla realtà presente e sul futuro della nostra società ed in questo sta la dimensione politica. Se racconti i ragazzi di oggi stai raccontando l’Italia di domani, quelli che saranno gli adulti tra dieci o vent’anni. L’adolescenza è qualcosa che tutti abbiamo vissuto ma che ora abbiamo perso e quindi è ormai qualcosa che è altro da te. Io spero che il pubblico per questo film sia vasto, tutti lo possono capire perché il desiderio d’amore è universale e vale per tutte le età. Per cui spero che i nostri spettatori non siano solo gli adolescenti ma anche e soprattutto loro". "Fiore". L’amore (im)possibile secondo Claudio Giovannesi di Serena Catalano movieplayer.it, 18 maggio 2016 Claudio Giovannesi continua a declinare la sua idea di adolescenza, e stavolta lo fa dall’interno delle carceri con Fiore, piccolo e intimo racconto dell’amore (im)possibile tra due esistenze piegate ma non spezzate. Daphne (Daphne Scoccia) è una ragazza che vede la maggiore età da lontano, che sfrutta l’adolescenza per conoscere il mondo dal lato sbagliato: lo fa con un coltello in mano, sempre di spalle alle persone e mai di fronte, sfruttando gli angoli bui e i momenti di debolezza per sfilare cellulari dalle tasche e rubacchiare una vita normale. Un’esistenza solitaria, che parla poco e che quando lo fa sembra non riuscire ad esprimere altro che un bisogno d’affetto, costantemente deluso e tradotto in una panchina solitaria in stazione. Ci vuole poco perché Daphne raggiunga un vicolo cieco e venga trascinata di nuovo in una struttura carceraria minorile, in cui la sua esperienza si incastra a quelle di altri giovani come lei, come tanti piccoli pezzi di un puzzle. All’interno della vita carceraria Claudio Giovannesi si muove con attenzione e cerca il suo Fiore un’inquadratura dopo l’altra, raccontandone la (a)normalità all’interno di una situazione che nonostante le sue regole, le ovvie restrizioni e le inevitabili difficoltà riesce comunque a ritagliarsi piccoli spazi di crescita, che riescono a sbocciare pur essendo soffocati. Dietro le sbarre Daphne si conquista la sua musica, si guadagna l’amicizia di Josh e poi il suo amore, irruento e selvatico; crea amicizie semplici ma essenziali, scambi di rossetti, risate e voglia di provare una nuova pettinatura; evolve inimicizie che spesso terminano in insulti e occhiatacce; matura un rapporto con un padre assente e disconnesso, che lei sente sottopelle al punto di tatuarne il nome. Cresce, semplicemente, con determinazione e bellezza: nonostante il terreno non sia fertile, nonostante non venga innaffiata costantemente, nonostante il sole riesca ad illuminarla solo per pochi istanti. Cresce grazie alla forza di un sentimento che riesce a superare le sbarre e che le darà finalmente tutto ciò che aveva costantemente cercato. Mette il punto e va a capo Claudio Giovannesi, ma nonostante tutto il paragrafo della sua filmografia dedicato all’adolescenza e al rapporto tra genitori e figli non sembra ancora concluso. È così d’altronde che aveva iniziato, con La casa sulle nuvole e la storia di due fratelli alla ricerca di un padre desertico; allo stesso modo aveva continuato con Alì ha gli occhi azzurri, in cui correva dietro a Nader e alla sua voglia di ribellione, non solo dalla sua età anagrafica ma anche dalle tradizioni, dalla religione, dalla legalità. Ora c’è invece Daphne davanti a lui, gli occhi grandi pieni d’amore inespresso e di ferite che la vita le ha inferto; il percorso diventa così quasi inverso, come un elastico che dopo essere stato teso fino all’estremo torna indietro violentemente. Nader aveva bisogno di uscire dal nucleo familiare, mentre Daphne non vorrebbe altro che ritornarci, nonostante le innumerevoli porte sbarrate che suo padre (Valerio Mastandrea) le chiude davanti. Un passo alla volta però l’elastico torna a rilassarsi, allo stesso modo il loro rapporto sembra trovare una nuova dimensione fatta di piccoli passi in punta di piedi, a volte claudicanti ma pieni di buona volontà. Quel moto paterno diventa per la protagonista trampolino di lancio verso una sentimentalità finalmente possibile, ed è grazie a Josh (Josciua Algeri) che Daphne riesce a trovare quell’amore che le è costantemente negato dal nucleo familiare e dall’ambiente in cui si trova, dove dietro le sbarre non viene chiusa solo la libertà personale ma anche quella sentimentale. L’amore per Daphne è una lotta: si esprime in bigliettini nascosti nei carrelli, in baci tra pezzi di metallo e in intimità rubate di notte tra una finestra e l’altra, dove nascono sguardi vogliosi e occhiate profonde. Troverà finalmente la sua soluzione finale fuori da quella prigione, superando tutti gli ostacoli ed esprimendosi finalmente al di fuori di qualsiasi restrizione. Storie viscerali come quella di Daphne necessitano di respirare attraverso performance attoriali che sappiano restituirne tutta la profonda intimità: non è un lavoro semplice, ma Daphne Scoccia sembra essere nata per farlo.La sua fisicità esile ma scattosa, il suo volto capace con un gioco d’ombra di apparire feroce e violento quanto debole e delicato, ogni elemento sembra offrirsi al gioco del suo personaggio esaltandone ogni momento, dagli schiaffi alle compagne fino ad una carezza in un sogno. La accompagna per mano Valerio Mastandrea, che sfrutta al contrario la sua esperienza per far emergere i tratti di un padre in divenire, che tenta di ricostruire se stesso e di farlo senza lasciare da parte il rapporto con sua figlia, offrendole quasi inconsapevolmente un’occasione di rinascita. Fiore è un film che si serve principalmente dei suoi attori, così come di una sensibilità registica che continua un discorso iniziato in precedenza ma non per questo sembra aver esaurito le cose da dire, che anzi vengono presentate di nuovo con puntualità e attenzione, rendendo il percorso di Claudio Giovannesi ancora una volta importante. Egitto: l’appello dei Regeni "processi politici, il mondo si mobiliti" La Repubblica, 18 maggio 2016 "Giustizia e libertà per il popolo egiziano". È l’ultima richiesta della famiglia Regeni che lancia un appello alle "autorità diplomatiche di tutti i paesi presenti al Cairo, alle Ong e alle testate giornalistiche nazionali e internazionali per intervenire in qualità di osservatori nei processi politici" in corso in questo momento al Cairo. Paola e Claudio Regeni, insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini, chiedono la mobilitazione dopo "che anche recentemente le autorità egiziane hanno arrestato e recluso giornalisti, medici, avvocati attivisti dei diritti umani, dissidenti". In particolare la famiglia ricorda che sono stati arrestati recentemente e sono attualmente in carcere ancora l’avvocato Malek Adly, il giornalista Amr Badr e Ahmed Abdallah, presidente del consiglio di amministrazione della Commissione egiziana per í diritti e le libertà e che è uno dei consulenti proprio dei Regeni, che in questi giorni hanno chiesto ufficialmente, tramite i loro legali al Cairo, una copia di tutti gli atti di indagine fin qui svolti. "La prossima udienza nella quale si decideranno le sorti di Ahmed Abdallah, si terrà il 21 maggio: la partecipazione fisica di personale diplomatico, giornalisti e rappresentanti delle Ong di ogni Paese democratico e l’osservazione diretta del processo potrebbe impedire il prorogarsi dell’ennesima detenzione arbitraria da parte del potere egiziano" dicono Paola e Claudio. "Verità per Giulio - concludono - è ormai una richiesta della società civile mondiale che riguarda non solo la nostra famiglia ma sottende un’esigenza ineludibile di giustizia e libertà per il popolo egiziano che Giulio amava e ci ha insegnato a rispettare". Stati Uniti: nelle prigioni torneranno i plotoni d’esecuzione e le sedie elettriche? di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 18 maggio 2016 Ritorno al passato dopo che la Pfizer ha negato i farmaci per le iniezioni. Dopo la storica decisione del colosso farmaceutico Pfizer di non distribuire più i suoi prodotti destinati alle iniezioni letali negli Stati Uniti, i condannati a morte non sanno più in che modo il boia gli toglierà la vita. La penuria di farmaci mortali nelle prigioni d’oltreoceano spinge infatti i 31 Stati in cui è prevista la pena capitale a trovare delle soluzioni, per così dire, alternative. Una delle pratiche più diffuse, per quanto illegale secondo i dettami della legge federale, è il ricorso a delle preparazioni farmaceutiche non omologate dall’Agenzia americana per il farmaco (Fda): è il caso di Georgia, Missouri e Texas. O addirittura a dei circuiti clandestini dall’estero. Non mancano scorciatoie artigianali come è accaduto lo scorso anno in Oklahoma che ha autorizzato l’inalazione di azoto senza ossigeno, metodo che provoca una morte molto dolorosa, al limite dell’agonia. I protocolli ufficiali che regolamentano l’iniezione letale prevedono infatti l’utilizzo di tre sostanze per limitare le sofferenze dei condannati: una per addormentare il condannato, un’altra per paralizzare i muscoli e infine l’ultima per provocare l’arresto cardiaco. Nel 2014 in Ohio è stata realizzata un’esecuzione con un cocktail mortale che non era mai stato testato prima, una doppia iniezione che ha fatto molto discutere per la crudeltà dei suoi effetti. La "cavia" il 53enne Dennis McGuire, condannato per violenza sessuale e omicidio; la terrificante morte di Mc Guire era infatti finita sui giornali di mezzo mondo, oltre 25 minuti di supplizio in cui il condannato ha sofferto le pene dell’inferno tra soffocamenti e convulsioni. Uno spettacolo così straziante che ha sconvolto gli stessi familiari della ragazza uccisa da Mc Guire nel 1988 i quali non sono riusciti ad assistere al martirio. Per evitare di infrangere le regole ricorrendo a preparazioni illegali i governatori ora si dicono pronti a riabilitare i cari vecchi metodi di una volta, cosa peraltro già attuata dallo Utah che ha previsto il ritorno del plotone di esecuzione nel caso in cui le iniezioni letali non fossero più praticabili nelle sue prigioni per mancanza di barbiturici. In Virginia invece gli eletti repubblicani stanno tentando di far passare una legge che prevede la reintroduzione della micidiale sedia elettrica, mentre le autorità locali di altri Stati come il Wyoming evocano il lugubre spettro della camera a gas. Nonostante una cultura della vendetta molto radicata, negli ultimi anni al di là dell’oceano il numero di esecuzioni si è drasticamente ridotto: nel 2015 sono state 28, il numero più basso dal 1991. Nei primi cinque mesi del 2016 14 persone sono state giustiziate nelle carceri statunitensi, di cui sei solo in Texas, lo Stato dell’Unione in assoluto più forcaiolo e veterotestamentario. Negli ultimi 25 anni il picco di esecuzioni si è verificato nel 1998 con 98 persone uccise nei death row americani. Messico: sacchetto in testa al detenuto, l’interrogatorio shock della polizia La Stampa, 18 maggio 2016 Dal Messico arriva un video raccapricciante in cui si vedono alcuni agenti di polizia utilizzare un sacchetto di plastica nel corso di un interrogatorio. Il detenuto Silverio Rodriguez Martinez, condannato per omicidio a mano armata, è ripreso seduto sulla sedia mentre viene interrogato ma a un certo punto un agente si avvicina con un sacchetto di plastica e glielo mette in testa stringendo per non far passare aria mentre un altro prende il tempo con un cronometro. La tortura per estorcere confessioni è già nota alle cronache: lo scorso anno fu una donna a subire lo stesso crudele trattamento. Olanda: i richiedenti asilo alloggiati nelle carceri vuote "stiamo meglio che nelle tende" Ansa, 18 maggio 2016 Con il crimine in calo, l’Olanda ha pensato ad un nuovo modo per sfruttare gli spazi delle sue prigioni: ospitare i migranti. Il governo olandese, sull’onda del maxi-flusso di migranti (60mila l’anno scorso), ha stabilito che diversi istituti di pena nel Paese, in particolare nelle città di Haarlem e Arnhem, vengano adibiti a centri di accoglienza temporanea per richiedenti asilo. "Le camere sono destinate ad una o due persone, spesso ci sono palestre ed una buona cucina", ha riferito un funzionario responsabile degli alloggi per i profughi, che da parte loro sembrano gradire, anche se si tratta di carceri, tanto più che possono uscire durante il giorno e trascorrere anche alcune notti fuori. Come Abdul Moeen Alhaji, un siriano di 16 anni, felice di chiamare casa una cella di prigione ad Arnhem, visto che in precedenza era stato costretto a stare in una tenda: "Non mi sento in carcere, ciò che conta è che qui siamo al sicuro", ha detto all’Ap.