Salviamo Ristretti Orizzonti di Bruno Mellano (Garante dei detenuti della Regione Piemonte) Ristretti Orizzonti, 17 maggio 2016 In una precedente occasione mi ero già occupato della rivista Ristretti Orizzonti, in quel caso per dare una buona notizia, vale a dire la nomina della sua direttrice, Ornella Favero, quale Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Era stata l’occasione per rimarcare la peculiarità della rivista nel panorama editoriale carcerario: nata nel 1997, ha da sempre rappresentato un importante punto di riferimento sul mondo della detenzione: centro di raccolta ed elaborazione dati, fonte preziosa di informazione sul mondo carcerario italiano (con la pubblicazione cartacea e on line della rivista e la stampa di libri), impegnata da sempre nell’educazione delle nuove generazioni (con progetti che coinvolgono migliaia di studenti) e nell’erogazione di opportunità formative e lavorative per i detenuti (che collaborano alla realizzazione della rivista). In quest’occasione torno ad occuparmene per un motivo assai più triste, del quale già accennavo un anno fa. Complice la difficile congiuntura economica, Ristretti Orizzonti rischia ora la chiusura, per la diminuzione dei contributi pubblici e degli abbonamenti, e se non riuscirà a raccogliere duemila abbonamenti o l’equivalente in donazioni, il rischio più che concreto è che la pubblicazione non arrivi a festeggiare i suoi vent’anni di attività, ormai dietro l’angolo, visto che ricorreranno nel 2017. La direttrice, Ornella Favero, lancia in questi giorni l’ennesimo e - probabilmente - ultimo appello dal sito internet e dalle pagine on-line della rivista. Riporto qui di seguito le sue parole che mi appaiono condivisibili e che spiegano la situazione meglio di tante altre: "Si preferisce parlare di sicurezza finanziando l’acquisto di telecamere invece del reinserimento delle persone detenute. Noi, tra l’altro, alla sicurezza pensiamo davvero, incontrando ogni anno, nelle scuole e in carcere, migliaia di studenti che si confrontano con le persone detenute, su come si può scivolare in comportamenti a rischio (...) e questo è un progetto che potrebbe davvero essere un modello di educazione alla legalità. La sicurezza si costruisce investendo sui percorsi di responsabilizzazione, non sulle città blindate e le carceri abbandonate. Su questi temi noi cerchiamo di fare un’informazione approfondita e onesta, ed è la nostra sfida, quella dell’onestà di un giornale e di una newsletter, realizzati anche e soprattutto da persone che le regole non hanno saputo rispettarle. Abbiamo per anni fornito i nostri servizi, garantendo un’informazione davvero approfondita e puntuale e facendolo gratuitamente, perché ci interessava soprattutto arrivare a più persone possibile, conquistarle non alle nostre idee, ma a una visione più critica dei temi legati alla Giustizia, all’esecuzione delle pene, al carcere. Oggi nessuno investe più sui "soggetti difficili", si preferisce fingere che i "buoni" siano tranquillamente e sicuramente buoni e possano fregarsene dei "cattivi", e così noi che, come dice Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, "non vogliamo buttare via nessuno", semplicemente non ce la facciamo più". Sono profondamente convinto, e molti altri lo sono con me, che per tutti questi motivi una realtà come Ristretti Orizzonti, che non è solo editoriale ma culturale e "politica" nel senso più alto del termine, debba sopravvivere perché davvero utile se non indispensabile a quel processo di cambiamento e di presa di coscienza della società sui temi della detenzione che sta alla base del processo di riforma fortemente voluto e più volte evocato dallo stesso Ministro della Giustizia. Sondaggio dell’Istituto di Studi sulla Paternità: i detenuti vedono poco i figli, alcuni mai Ansa, 17 maggio 2016 È difficile essere buoni padri se si è in carcere, anche se la volontà ci sarebbe. Un sondaggio su circa 200 uomini detenuti in sette istituti penitenziari romani rivela che ben il 22% non vede mai i figli e il 41% li incontra una volta al mese o ancor più raramente. L’indagine "Paternità senza sbarre" è stata effettuata dall’Istituto di Studi sulla Paternità e sarà presentata domani alle 15.00 nella sala Isma del Senato, a Roma. Evidenzia le molte difficoltà che un padre detenuto deve affrontare se vuole rispettare il suo ruolo di genitore: difficoltà legate ai ritmi e alle regole dell’istituzione carceraria, ma anche ai vissuti personali più profondi ed emotivi. I detenuti rivelano di amare poco il telefono e di preferire sfogarsi scrivendo lettere. Possono contare sull’appoggio della moglie o della compagna per favorire il rapporto con i figli (ad eccezione dei padri separati), ma bocciano l’aiuto che ricevono dall’Istituto nel quale scontano la pena: 43 detenuti su cento ritengono che esso non faccia il possibile per aiutarli ad essere bravi papà. Unanime anche l’insoddisfazione per il modo e il luogo dei colloqui con i familiari: per la brevità dell’incontro e la scarsa accoglienza dei locali, inadatti a bambini. Alla domanda se sia possibile essere un buon padre nello stato di detenzione, 7 padri su 10 hanno risposto di sì: segno di una fiducia e di una volontà - secondo l’Isp - sulle quali si dovrebbe operare per adeguate strategie di miglioramento. Abstract della ricerca La ricerca: Intitolata "Paternità senza sbarre", è stata svolta fra ottobre 2013 e novembre 2014 sulla base di un progetto elaborato dall’I.S.P., Istituto di studi sulla paternità, fondato a Roma nel 1988. Si è articolata nella somministrazione assistita di un questionario con 30 domande a 197 detenuti comuni in sette carceri italiane: Rebibbia (Roma), Velletri, Civitavecchia Nuovo Complesso, Civitavecchia Casa di Reclusione, Secondigliano (Napoli), Ucciardone (Palermo), Sollicciano (Firenze). Alla distribuzione e compilazione del questionario è seguito un colloquio con il detenuto. Obiettivo della ricerca: approfondire e rendere noto il tema della paternità in carcere, argomento trascurato e a molti sconosciuto ma di enorme portata umana e sociale; cogliere gli aspetti critici di una paternità reclusa, non solo quelli logistici, pratici (le telefonate, i colloqui, la corrispondenza…), ma i vissuti più profondi, emotivi (il senso della lontananza e dell’impotenza, i dubbi sul proprio ruolo, il senso di colpa…). La ricerca si conclude con una richiesta al Dap e al Ministero di Grazia e Giustizia: istituire un tavolo di lavoro multidisciplinare che affronti il tema della paternità in carcere ed esamini la possibilità di eliminare le criticità che si oppongono ad una paternità meglio vissuta e di rafforzare al contempo una paternità più matura e responsabile. I risultati: Il contatto con i figli è assicurato soprattutto dai colloqui, che avvengono settimanalmente per il 34% dei detenuti; il 41% di loro incontra i figli una volta al mese o meno e il 22% non li vede mai. Il ricorso al telefono risente della lontananza (ne sono esclusi i detenuti con figli in un paese straniero), ma soprattutto della frequenza e del tempo disponibili (dieci minuti una volta alla settimana), così il 43% dei padri da noi ascoltati non ricorre a questo strumento, trovandolo imbarazzante e stressante. Sembra invece svolgere una funzione catartica lo scrivere lettere ai figli: lo fanno quasi tutti: il 24% settimanalmente, il 26% più volte a settimana. Sei padri su cento hanno detto di scrivere quotidianamente. Ad accompagnare i figli agli incontri con il padre è anzitutto la madre (60%), ma i nonni vengono al secondo posto (26%), a dimostrazione di come queste figure siano sempre più presenti in molteplici circostanze. La grande maggioranza dei padri (75%) ritiene che la moglie/compagna si adoperi per favorire il rapporto fra lui e i figli; all’opposto risalta la particolare difficoltà dei detenuti che sono separati, dove alle criticità usuali della separazione conflittuale si accompagna un surplus di impotenza facilmente intuibile. Ben diverse le risposte - ma questo non sorprende - alla domanda se la Direzione dell’istituto penitenziario faccia il possibile per favorire il rapporto padre-figli. 43 detenuti su 100 hanno risposto "no", 25 "abbastanza" e 32 "sì". Quello che colpisce - in questa come in altre domande - e deve far riflettere, la marcata differenza tra un carcere e l’altro: per il "sì" si passa dal 47% al 9%. Particolare importanza abbiamo annesso alla domanda se sia possibile "essere un buon padre nello stato di detenzione". Poiché la reclusione tende a produrre svalorizzazione del sé, infantilizzazione e deresponsabilizzazione, passività, rinuncia, scoprire che sette padri su dieci ritengono che ciò sia possibile è stata una "sorpresa" ricca di significato: c’è dunque una fiducia sulla quale si può operare e che può costituire terreno fertile di empowerment. Il luogo e il modo in cui si svolgono le visite hanno prodotto le risposte più critiche, evidenziando una profonda insoddisfazione dei padri detenuti. Quasi il 50% si è detto scontento: per la mancanza di privacy, per la brevità del colloquio, per l’atteggiamento a volte severo di chi sorveglia, per la scarsa accoglienza dei locali, inadatti a bambini… Anche qui, evidentissime le differenze di risposta fra un istituto e l’altro. I detenuti non parlano molto dei loro problemi di paternità, sembrano non cercare (o non trovare) un interlocutore. Se lo fanno, lo fanno soprattutto con l’educatore penitenziario (31%), o con altri detenuti (27%). Ma alla domanda se riterrebbero utili incontri con esperti di paternità il 57% risponde di sì. Sul versante emozionale, alla domanda "cosa le manca di più di suo figlio", il 50% ha risposto con una sola parola: "Tutto!" E poi: "dargli la buonanotte", "il suo odore", "il suo sguardo", "vederli dormire". Molti vivono l’angoscia dei momenti perduti, della lontananza: "Ogni attimo, ogni cosa nuova, ogni momento che manco è una perdita. Ogni emozione, ogni passo che fanno , tutto è una perdita". Anche l’ultima domanda: "Quale sarà la prima cosa che farà assieme a suo figlio non appena sarà di nuovo libero", ha suscitato molte emozioni. Un uomo ha risposto: "Ubriacarmi di loro e loro di me". E un altro: "Condividere un sorriso". Un altro ancora, semplicemente: "Ascoltarla". Alla fine della ricerca, una serie di brevi paragrafi con alcune osservazioni: La vicinanza a casa, le lamentele, la mancanza di una vita sessuale, il "dopo", il senso della famiglia. E poi le conclusioni, con in evidenza i possibili effetti della deprivazione paterna, e alcune linee-guida per possibili interventi. E la richiesta di un Tavolo di lavoro e riflessione sullo specifico problema del rapporto padre-figli nelle carceri italiane. Società Italiana Medicina delle Migrazioni: salute degli stranieri più a rischio in carcere lapresse.it, 17 maggio 2016 Il 33,6% dei detenuti italiani è rappresentato da stranieri: si tratta di 18.074 persone, tra le quali 900 donne. Una quota che, seppur in riduzione (era il 37% nel 2010), rimane ancora più alta della media europea del 21%. È quanto è emerso dal XIV Congresso nazionale della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm) che si è svolto a Torino e che è stato dedicato alla salute della popolazione immigrata in restrizione di libertà. I dati, evidenzia la Simm, non indicano una maggiore propensione degli stranieri a trasgredire la legge, né "una maggior inclinazione a commettere reati rispetto a quella attribuibile agli italiani", ma "si tratta di un fenomeno in gran parte ascrivibile al processo di discriminazione e criminalizzazione della figura dell’immigrato che permea l’intero sistema penale italiano". Come ha spiegato Daniela Ronco, sociologa del diritto dell’osservatorio Antigone di Torino, questa problematica "incide non soltanto in fase di esecuzione della pena, ma nasce fin dal momento della scrittura delle leggi, come la penalizzazione del reato di clandestinità) e continua nel momento della loro applicazione: sono numerosi gli studi che rilevano la maggior predisposizione delle forze dell’ordine ad eseguire controlli sulla popolazione immigrata". Inoltre, ha detto ancora Ronco, "si consolida in fase di giudizio, con ad esempio la minor tutela delle garanzie giuridiche degli immigrati e termina appunto in percorsi differenziati di sentenza". Il 35,1% dei detenuti stranieri ha una pena inflitta inferiore ai 3 anni, contro il 23,7% del totale della popolazione carcerata, il 69,9% ha una pena residua inferiore a 3 anni (contro il 56,2%) e nel 34% si tratta di detenuti non definitivi (contro il 29% relativo ai detenuti italiani). Gli stranieri dunque entrano in carcere in misura maggiore per reati di bassa entità, fanno più fatica a beneficiare di misure alternative al carcere a cui si può accedere nella fase finali delle condanne, quali l’affidamento a servizi sociali o l’ottenimento della semilibertà (essenzialmente per la mancanza dei requisiti di affidabilità richiesti dalla magistratura, quali la mancanza di una residenza certificabile, di una rete famigliare o di un lavoro). I rischi per la salute in carcere. Quali sono, dunque, gli effetti di questa situazione sulla salute degli immigrati in carcere? Secondo la Simm le strutture di detenzione sono già di per sé luoghi patogeni, a causa delle condizioni di sovraffollamento, di scarsa areazione e di igiene precaria. "Gli stranieri, inoltre - spiega la Simm - risultano particolarmente vulnerabili a queste problematiche, anche per la minor disponibilità di risorse economiche attraverso le quali accedere a beni come ad esempio alimenti a pagamento con cui arricchire i pasti carcerari o oggetti con cui adornare gli spazi. Infine pesanti sono le conseguenze della etnicizzazione delle sezioni carcerarie anche quando conseguenza delle richieste dei detenuti di condividere gli spazi con individui di simile culturale che spesso porta alla segregazione e alla moltiplicazione dei problemi di salute, spesso mentale, delle comunità etniche più bisognose". La salute nei Cie e negli hotspot. A questo si aggiunge la preoccupazione per la salute nei centri di identificazione ed espulsione e negli hotspot, luoghi - ha spiegato Valentina Calderone, direttrice dell’associazione ‘A buon dirittò, "in cui la restrizione della libertà degli individui avviene senza alcun fondamento giuridico" e "spesso per un lungo periodo". I servizi di assistenza sanitaria erogati in queste strutture "spesso non riescono a rispondere ai veri bisogni di salute che sono in primo luogo bisogno di ascolto e di supporto psicologico". Da qui, spiega la Simm, la forte presenza di episodi di autolesionismo che "consentono l’ingresso nei canali dell’assistenza sanitaria nazionale e spesso consentono l’uscita dai centri di detenzione e il tentativo di fuga". Se il giovane condannato impara a farcela da solo di Dacia Maraini Corriere della Sera, 17 maggio 2016 In Sardegna i ragazzi della Collina imparano un mestiere, studiano, guadagnano e si scelgono la vita che vogliono. Si fa fatica a separare la giustizia dalla vendetta. Anche le persone più aperte, di fronte a un delitto, raccomandano di "sbattere in cella e gettare via la chiave". Siamo ancora lì a godere della punizione, contenti che il predatore soffra le stesse pene del predato. Ci sono voluti secoli di rivoluzioni, studi e esperimenti per arrivare a considerare la vendetta come un piacere illecito. Niente risposte impulsive, ma strutture legali da affidare a competenti, assicurando al colpevole la sua difesa, e la possibilità di pentirsi. Il pentimento non è solo un sentimento cristiano, è la base di una trasformazione interiore che appartiene a ogni persona. La legge agisce oggi in questo senso, ma la mentalità corrente fatica a seguirla. Ascoltando la bella trasmissione di Radio3, "Uomini e profeti" di Gabriella Caramore, mi sono imbattuta in don Ettore Cannavera che ha formato in Sardegna una comunità, "La Collina", in cui accoglie ragazzi condannati per pene che vanno dall’omicidio al traffico di droga. L’ho rintracciato e ci siamo parlati. Don Ettore mi ha spedito una montagna di materiale. I ragazzi della Collina imparano un mestiere, studiano, guadagnano soldi per il proprio sostentamento (don Ettore sostiene che l’ozio e la dipendenza portano alla disgregazione psicologica), e si scelgono la vita che vogliono. Naturalmente sono incoraggiati, guidati, finché non diventano autonomi, ma l’idea che il lavoro non sia sfruttamento ma autonomia, che la collettività sia un fattore di crescita, crea orgoglio e rispetto di sé. Si cerca di costruire in questi ragazzi il senso della responsabilità e la riuscita è straordinaria. "Nessuno nasce criminale, lo diventa", come ama dire don Ettore. Molti si chiedono se questo lavoro di recupero umano sarebbe possibile anche con criminali adulti incalliti. I dubbi sono molti, perfino da parte di don Ettore. Ma coi ragazzi funziona. "Da noi il giovane può incontrare familiari e amici, può uscire accompagnato dagli operatori, frequentare persone diverse da lui per origine, cultura e religione. Per stare in Collina naturalmente ci sono regole rigide: non è tollerato nessun tipo di assistenzialismo: ognuno ha un lavoro da svolgere e deve pagare il suo sostentamento". Solo gli insegnanti, gli psicologi sono pagati dalla Regione sarda. Per il resto si mantengono da soli. Ed è questa la terapia vincente. Date le ottime risposte, non sarebbe da applicare questo metodo in tutto il Paese? Zagrebleski & Spataro, prove di svolta autoritaria di Piero Sansonetti Il Dubbio, 17 maggio 2016 L’ex Presidente della Consulta chiede a Mattarella di mettere a tacere Renzi. È logico, è naturale che un presidente emerito della Corte Costituzionale chieda al Presidente della Repubblica di mettere a tacere il Presidente del Consiglio e impedirgli di fare campagna elettorale? Oppure: è logico, è naturale che un presidente emerito della Corte Costituzionale, che è anche presidente del comitato per il No al referendum costituzionale, chieda al Presidente della Repubblica di impedire a un segretario di partito (e cioè sempre a Matteo Renzi) di usare gli argomenti che vuole per la campagna elettorale a favore del sì al referendum costituzionale? Cioè chieda al Quirinale di limitare la libertà di espressione, o anche di propaganda, del capo del partito di maggioranza (ma se fosse di minoranza non cambierebbe molto)? Diciamo di no. Diciamo pure che se un osservatore politico esterno, che non sapesse niente delle recenti vicende italiane, venisse a conoscere questa richiesta, penserebbe, inevitabilmente, alla provocazione di qualche gruppo di estrema destra. Ora però si dà il caso che le richieste di imbavagliare il premier vengano da Gustavo Zagrebelsky (che appunto è un ex presidente della Consulta ed è il capo del comitato per il No); ed è difficile immaginare Zagrebelsky con il fez e il manganello. La sua biografia testimonia a favore di una profonda fede democratica. Eppure le richieste che ha fatto l’altro giorno al salone del libro di Torino, presentando un volume di Salvatore Settis (che è un grandioso storico dell’arte, ma non è detto che arte e politica sempre coincidano...) sono - come si diceva una volta - di stampo fascista. Uso questo parola, molto aspra, e magari un po’ imprecisa, perché nella politologia italiana - per ragioni storiche - si fa coincidere di solito autoritarismo e fascismo (in altri paesi, magari, si direbbe: di stampo comunista). Zagrebelsky, dunque, non è fascista, tutt’altro. Ma la sua presa di posizione contro Renzi lo è. Questo vuol dire che nella politica italiana sta succedendo qualcosa di molto molto complicato, e probabilmente di molto pericoloso, perché da settori storicamente e fortemente democratici vengono messi in discussione i principi essenziali della democrazia politica. In nome di che? Non so, non sono sicuro, ma ho l’impressione che vengano messi in discussione in nome dell’etica. E cioè che si tenda a contrapporre lo stato democratico (corrotto e in decadenza) con lo stato etico (integerrimo e autolegittimato). Già: lo "stato Etico". Vi dice qualcosa? La richiesta di Zagrebelsky è stata rilanciata con enorme evidenza dal Fatto Quotidiano (che è il giornale leader di questo schieramento "eticista") il quale ha aperto a tutta pagina l’edizione di ieri con un titolo assolutamente esplicito: "Mattarella fermi Renzi". Titolo di per sé legittimo, se si riferisse a qualche provvedimento legislativo che Renzi sta adottando e che viene giudicato anticostituzionale. Ma non è così. Il sottotitolo del Fatto è chiarissimo: "Zagrebelsky: il premier semina paura contro il No". C’è poco da discutere, è un intervento sui toni della campagna elettorale di Renzi (in particolare Zagrebelsky si lamenta per l’atteggiamento da ultima spiaggia di Renzi e per il suo annuncio che se perde il referendum se ne va) e una richiesta di limitazione dall’alto di questa campagna elettorale, sicuramente in contrasto aperto con l’articolo 21 della Costituzione ("tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione"), e con ogni principio di democrazia, da svariati secoli a questa parte. Possibile che il professor Zagrebelsky non conosca l’articolo 21 della Costituzione? Non è possibile. Probabilmente il professore si sente autorizzato, in una situazione che considera di emergenza, a sollecitare provvedimenti di emergenza, anticostituzionali, direttamente al Quirinale. La circostanza colpisce soprattutto se si pensa che in occasione delle ultime e delle penultime elezioni presidenziali (che poi portarono al Quirinale prima Napolitano e poi Mattarella) Zagrebelsky fu proposto come candidato presidente. E se fosse stato eletto? Ora ci troveremmo di fronte a un presidente della Repubblica che toglie il diritto di parola al premier? Un po’ come è successo in Turchia. Viene qualche brivido. (Come vennero i brividi, cinque anni fa, quando il professor Asor Rosa, in un articolo sul manifesto, chiese che intervenissero i carabinieri per fermare Berlusconi. I carabinieri non intervennero, intervenne la Finanza Internazionale e Berlusconi fu fermato...). L’offensiva di Zagrebelsky ha coinciso con una nuova "avanzata" del partito dei Pm. L’altro giorno il Procuratore di Torino, Armando Spataro (che è uno dei leader della corrente di Area e della sottocorrente movimento per la giustizia) ha mandato una lettera agli amici di corrente nella quale usa toni da vero e proprio leader di partito. Scrive Spataro: "Mentre si susseguono in lista le adesioni alla "Campagna per il No" con ottime soluzioni (purché Area scenda in campo), vi metto al corrente degli eventi che si susseguono: oggi a Torino, nella Fabbrica delle "e", sede del Gruppo Abele, ho partecipato alla mia quarta manifestazione a sostegno del No con Gustavo Zagrebelsky, Livio Pepino, Maurizio Landini, Giangiacomo Migone con centinaia di persone partecipanti. Hanno parlato anche tanti giovani universitari, c’è stata musica e entusiasmo e solidarietà per i magistrati. Forza, non perdiamo tempo". Leggete bene queste righe. Si capiscono due cose. La prima è che Spataro punta a costruire sella campagna del No il rafforzamento del partito dei magistrati. (Altrimenti non si capirebbe quell’accenno alla solidarietà coi magistrati in una discussione che invece dovrebbe riguardare la riforma del Senato). La seconda cosa che si capisce è che Spataro si considera segretario di questo partito. Mattarella: "la crescita delle coscienze mature è la risposta più forte alla corruzione" di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2016 "La crescita di coscienze mature è la risposta più forte a chi semina violenza, corruzione, sfiducia, sopraffazione. La leva della conoscenza e la capacità di confronto, sono antidoti alla penetrazione delle mafie e del malaffare. Le mafie temono la cultura e la diffusione del sapere perché proliferano nell’ignoranza e nelle ingiustizie sociali". Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in un passaggio del messaggio inviato a Rita Borsellino, presidente del Centro studi "Paolo Borsellino", promotore dell’iniziativa "Bibliolapa", una speciale Ape "ambasciatrice´ della lettura che partirà domani da Malegno, nella Valle Camonica, in provincia di Brescia, per un viaggio diretto a Palermo e che toccherà varie tappe nel Paese. Far crescere i valori della legalità - Tenere viva la memoria, far crescere i valori della legalità, sviluppare il dialogo tra generazioni e culture diverse, costituiscono grandi obiettivi educativi, che devono impegnare non soltanto la scuola, ma l’intera società, il cui futuro dipende sempre più dalla qualità della formazione e dalle opportunità che vengono offerte ai giovani", ha sottolineato Sergio Mattarella nel messaggio a Rita Borsellino. La comunità educante è chiamata a mobilitarsi - L’intera comunità educante è chiamata a mobilitarsi - ha sottolineato - aprendo così ai nostri figli e ai nostri nipoti un domani in cui potranno essere liberi e protagonisti consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, cittadini responsabili che costruiscono la pace". Facendo riferimento al progetto del Centro Paolo Borsellino, "impegnato dalla sua nascita in attività educative e di promozione culturale", Mattarella ha parlato di "coraggiosi propositi" e ha rivolto "l’augurio più cordiale agli organizzatori di "Bibliolapa", a quanti animeranno le varie tappe del percorso attraverso l’Italia e a tutti i partecipanti". Il ricordo di Pietro Scoppola - Il presidente della Repubblica oggi è intervenuto a Palazzo Madama all’incontro "Democrazia, impegno civile, cultura religiosa. Ricordando Pietro Scoppola", moderato dal professore Camillo Brezzi, Pro-Rettore presso l’Università degli Studi di Siena. Dopo l’indirizzo di saluto del presidente del Senato, Pietro Grasso, nella Sala Koch hanno preso la parola: Agostino Giovagnoli, professore ordinario di Storia e comunicazione del tempo presente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Giuseppe Tognon, professore ordinario di Pedagogia generale e di Storia dell’Educazione presso l’Università Lumsa di Roma; Andrea Riccardi, presidente della Società Dante Alighieri. "Smettiamola di far politica". Gratteri sferza i colleghi pm di Errico Novi Il Dubbio, 17 maggio 2016 Sarà un problema per tutti avere a che fare con Nicola Gratteri, finché avrà la toga indosso: e il bello è che il magistrato scrittore se lo dice ormai da solo, con l’affilata ironia che gli si riconosce. Lo ha ripetuto anche alla cerimonia d’insediamento da procuratore della Repubblica a Catanzaro. Un incarico importante, il primo pienamente "direttivo" nella carriera del pm anti ‘ndrangheta, che lui dice di aver ottenuto dal Csm "perché ero mediaticamente ingombrante". E non è che adesso Gratteri intenda starsene in silenzio. Presenta subito il conto al ministro della Giustizia: "Entro pochi mesi la pianta organica della Procura di Catanzaro sarà aumentata, stiamo trattando, si sta mercanteggiando sui numeri, ma si farà. Ho visto apertura da parte del guardasigilli Orlando". La città sede della giunta regionale calabrese accusa da tempo un deficit negli organici giudiziari, come ha ricordato, durante la cerimonia, il procuratore generale Raffaele Mazzotta. E lui, il nuovo capo dei pm, ha rincarato: "Ogni volta che sono stato a Roma ho sempre posto il problema: in questa Procura non partiamo da zero, ma con questi numeri non andremo da nessuna parte". Nel distretto di Catanzaro "c’è una ‘ndrina diversa in ogni paese" ma Gratteri confida in Orlando e si dice "leggermente ottimista per il futuro". Ringraziati i togati del Csm Galoppi (Magistratura indipendente) e Forciniti (Unicost, presente alla cerimonia) che lo hanno ben indirizzato verso l’ufficio assegnatogli, ricordato che "nonostante le schermaglie" col Csm stesso, "so da febbraio che sarei venuto qui", l’ex aggiunto di Reggio Calabria non risparmia i colleghi ansiosi di fare campagna referendaria: "Noi dobbiamo cercare non solo di essere, ma anche di apparire indipendenti e distanti. Non possiamo andare avanti così, già la gente dubita di noi e pensa che siamo di parte. Non penso che un magistrato debba fare politica attiva". E pure le toghe alla Armando Spataro sono servite. Un magistrato mediaticamente ingombrante, Gratteri, non c’è che dire. Il ministro Orlando: in tema di adozioni i giudici devono interpretare la legge di Leo Lancari Il Manifesto, 17 maggio 2016 Il ministro Orlando zittisce il collega Costa: "Niente automatismi, si valuta caso per caso". "La legge non prevede nessun automatismo ma chiede al giudice di apprezzare il caso concreto, per assicurare la continuità affettiva al minore". Nella polemica sulle adozioni sollevata da ministro per la Famiglia Costa, che ha accusato i giudici di adottare "sentenze creative" per quanto riguarda le adozioni da parte dei coppie gay, interviene il ministro della Giustizia Andrea Orlando smentendo clamorosamente il collega di governo. "È la legge che chiede di essere interpretata" ha spiegato ieri il Guardasigilli intervenendo in commissione Giustizia della Camera, aggiungendo di non ritenere che "competa al governo dare indicazioni ai magistrati su come addivenire alle sentenze". Le parole di Costa tradiscono quanto nelle file di governo e maggioranza la stepchild adoption rappresenti ancora un problema non superato. "Non vorrei che rientrasse dalla finestra quello che è uscito dalla porta", aveva detto Costa riferendosi alle tante sentenze dei tribunali dei minori che fino a oggi hanno consentito a coppie gay di adottare il figlio del partner. Parole che ieri gli sono state ancora una volta contestate da Monica Cirinnà, la senatrice del Pd che ha dato il suo nome alle legge sulle unioni civili. "Il ministro dovrebbe sapere che restano applicabili tutte le norme on materia di adozione. I giudici non hanno le mani legate e possono continuare a fare il loro lavoro per il bene dei bambini". Da parte sua Costa ha preferito evitare ulteriori polemiche limitandosi a un "La mia posizione è nota non ho altro da aggiungere". L’audizione a Montecitorio del ministro della Giustizia è stata occasione per fare anche il punto sulle adozioni in Italia e soprattutto sull’avvio di una banca dati dedicata ai minori adottabili e ai coniugi aspiranti all’adozione. Dopo anni di ritardi, dovuti alle difficoltà legate alla costruzione del sistema informatico complesso, la Banca dati dovrebbe essere completata entro settembre, entrando così definitivamente a regime. "Ad oggi possiamo dire che funziona", ha spiegato Orlando. "Dove è stata attivata c’è la possibilità di individuare immediatamente il bacino territoriale ed eventualmente, se non è sufficiente, vedere nei bacini contigui. Questo meccanismo ha consentito di migliorare la percentuale di adozioni andate a buon fine, soprattutto nelle situazioni più critiche dal punto di vista delle patologie che spesso hanno i bambini interessati". I numeri parlano di una flessione nel numero delle adozioni sia a livello nazionale che internazionale. Per quanto riguarda l’Italia, ha spiegato il Guardasigilli, si registra "una significativa flessione delle domande di adozione da parte di coniugi dichiarati idonei ad adottare, a fronte di un numero complessivo stabile di minori dichiarati adottabili": sono circa 300 i minori che, pur potendo, non sono riusciti ad avere una famiglia. Spesso si tratta di bambini con più di 15 anni e di minori stranieri. Un andamento analogo si registra per quanto riguarda i procedimenti relativi alle adozioni internazionali: 3.189 nel primo semestre del 2015 contro gli 8.540 del 2012, i 7.421 del 2013 e i 6.739 del 2014. Un trend in costante discesa che riguarda anche i paesi di origine dei minori dati in adozione. "Il Brasile ad esempio - ha spiegato Orlando - è passato da 543 minori concessi in adozione all’estero nel 2006, a 238 nel 2013; la Cina da 14.434 a 2.931 nel 2013; l’India da 1.076 minori adottati nel 2003 ai 363 del 2012; la Federazione Russa da 9.472 minori del 2004 ai 2.483 del 2012". A rendere maggiormente più tangibili le difficoltà, c’è il dato degli Stati uniti, primo paese di accoglienza, che in dieci anni ha fato registrare un calo del 70% delle adozioni, passando dai 22.508 casi del 2005 agli appena 6.408 dell’anno scorso. Dopo gli Usa, l’Italia resta comunque il secondo paese al mondo per quanto riguarda l’accoglienza di bambini attraverso l’adozione internazionale. Diverse le cause che sono alle origine di questa crisi, e valide sia per le adozioni internazionali che per quelle nazionali. Si va dalla sempre maggiore preparazione che viene richiesta alle famiglie adottati in considerazione del fatto che si troveranno probabilmente di fronte a bambini sempre più grandi di età, ma anche a numerosi fratelli e a bambini con particolari esigenza sanitarie, ai costi delle adozioni internazionali, alle lunghe attese e ai percorsi complessi che deve affrontare una coppia decisa ad avere un bambino in adozione. Un aiuto potrebbe arrivare dall’istituzione dell’Agenzia italiana per le adozioni internazionali, che dovrebbe fornire assistenza giuridica, sociale e psicologica alle coppie. Caso Cucchi, scontro tra periti. Il Gip bacchetta il collegio di Introna di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 maggio 2016 Inchiesta bis. La famiglia chiede l’intervento del tribunale per il comportamento "irrituale" del perito considerato "vicino alla destra" che dovrà condurre le operazioni per l’esecuzione dell’incidente probatorio. Tira una brutta aria nelle riunioni del collegio di periti e consulenti capitanati dal prof. Francesco Introna che dovrà eseguire l’incidente probatorio necessario, nell’ambito dell’inchiesta bis aperta dalla procura di Roma, per accertare le cause della morte di Stefano Cucchi. Nell’ultimo incontro dell’11 maggio scorso tenutosi nell’Aula magna dell’Università di Bari si erano dati appuntamento in diciassette, tra periti nominati dal Gip Elvira Tamburelli, esperti (medici legali, neurologi, radiologi, ecc.) e avvocati della difesa e della parte offesa. Doveva essere una giornata dedicata al confronto sui documenti, sui reperti e sugli accertamenti eseguiti sul corpo di Stefano Cucchi, presentati da entrambe le parti e che entreranno nel fascicolo per le operazioni peritali. L’incontro invece si è tenuto in un clima piuttosto concitato ed è finito con un documento presentato, fuori fascicolo, dal prof. Introna che ha suscitato le proteste della famiglia Cucchi, e con il rimbrotto dello stesso Gip, costretta ieri ad intervenire per ricordare al collegio di periti le regole a cui attenersi. Va ricordato che Ilaria Cucchi e il suo avvocato Fabio Anselmo si erano opposti fin da subito alla nomina di Introna, docente dell’Università di Bari considerato "molto vicino a Ignazio La Russa e a Cristina Cattaneo, il medico legale che firmò la prima perizia d’ufficio sul corpo di Stefano in cui non c’erano tracce delle vertebre fratturate di recente". Nomina non gradita neppure dal prof. Vittorio Fineschi che rinunciò perciò all’incarico di perito di parte della famiglia Cucchi. L’11 maggio scorso però qualcosa deve essere andato più storto del previsto. A cominciare dal confronto tra esperti che si è immediatamente spento, per tatticismo, come se si trattasse di un pubblico dibattimento anziché di una sessione di lavoro peritale. Il prof. Ferdinando Sasso, uno dei consulenti dei tre carabinieri indagati, infatti, su invito dell’avvocato difensore dei tre militari, si è rifiutato di rispondere ad un domanda del neurologo della famiglia Cucchi, il prof. Alessandro Rossi, che chiedeva come si potesse considerare compatibile una supposta condizione di deperimento fisico del geometra romano al momento del suo arresto (il 15 ottobre 2009) con il fatto che Stefano Cucchi avesse svolto fino al giorno prima attività sportiva. Fine della riunione: il prof. Introna segna il time out, le domande dovranno essere poste in una sede più adatta. Ma è subito dopo che avviene qualcosa che spinge l’avvocato Anselmo a chiedere l’intervento del Gip Tamburelli: "Al termine" delle operazioni peritali, scrive il legale, il prof. Introna mostra alcune "immagini frutto di elaborazione tridimensionale degli accertamenti eidologici effettuati a Stefano Cucchi", rinvenute a suo dire sul web e in suo possesso "fin dal momento dell’incarico peritale". Introna le tira fuori, annuncia che "saranno oggetto di considerazione peritale" e chiede alla famiglia Cucchi e al loro legale di confermare che si tratti di "immagini facenti parte di studi, elaborazioni, consulenze e quant’altro, di cui possono avere anche solo notizia". Un comportamento "irrituale", lo definisce l’avvocato Anselmo. Tanto che anche il Gip Tamburelli ne conviene, ordinando al collegio di periti capeggiato da Introna di presentare "entro sette giorni" l’elenco completo della documentazione che si intende utilizzare per le operazioni peritali. Riforma della prescrizione dei reati: quali i risvolti? di Roberta Maira diritto.it, 17 maggio 2016 La Commissione Giustizia del Senato, su proposta dei due relatori Pd Felice Casson e Giuseppe Cucca, ha approvato di recente il testo base del disegno di legge sulla riforma del Codice penale e di procedura penale, che contiene l’accorpamento dei provvedimenti in tema di prescrizione dei reati contro la Pubblica Amministrazione, i quali erano già stati approvati dalla Camera dei deputati. Alla modifica del processo penale vengono pertanto abbinati gli otto disegni di legge sulla prescrizione, compreso quello che prevede l’allungamento dei tempi fino al doppio per i reati contro la Pubblica Amministrazione, incluso il reato di corruzione. Particolare importanza assume la rimessa in discussione, dopo oltre un anno di stallo presso la Commissione Giustizia del Senato, del disegno di legge in tema di prescrizione contenente il cosiddetto "Emendamento Ferranti" che modifica la legge n. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. Legge Cirielli, voluta dal Governo Berlusconi, la quale ha in modo rivoluzionario dimezzato i termini della prescrizione nei reati contro la Pubblica Amministrazione. Prima di soffermarci sul contenuto di tale emendamento che ha fatto tanto discutere, è opportuno analizzare l’istituto giuridico della prescrizione. Nell’ordinamento penale la prescrizione del reato (ex artt. 157-161 c.p.) è una causa di estinzione dello stesso sul presupposto del trascorrere di un determinato periodo di tempo. La ratio di questo istituto risiede nel fatto che, a distanza di molto tempo, viene meno l’interesse dello Stato a perseguire un comportamento penalmente rilevante ed a tentare un reinserimento sociale del reo. La prescrizione è poi frutto del bilanciamento di due beni costituzionalmente tutelati, quali, da un lato, il diritto ad avere giustizia, e quindi, l’obbligatorietà dell’azione penale, e, dall’altro, assicurare al cittadino la ragionevole durata del processo. Orbene, la disciplina sulla prescrizione è stata fortemente modificata con la sopra citata Legge Cirielli, la quale modifica la modalità di calcolo della prescrizione dei reati. Se prima di tale intervento legislativo la durata della prescrizione veniva calcolata a scaglioni, a seconda della fascia a cui apparteneva la pena massima dell’illecito contestato al reo, l’attuale configurazione dell’art. 157 c.p. prevede che i termini di prescrizione siano resi uguali al massimo della pena edittale prevista per la tipologia di reato, mantenendo la prescrizione fissa in 4 anni per i reati contravvenzionali e in 6 anni per i delitti la cui pena non sia superiore ai 6 anni oppure sia pecuniaria. Detta legge prevede altresì un aumento del termine prescrizionale nel caso in cui si realizzi un atto interruttivo pari ad ¼ della pena, sia in caso di delitti che di reati contravvenzionali. La nuova normativa prevista dal disegno di legge in tema di prescrizione non si limita a modificare i termini prescrittivi ma introduce una sospensione del decorso dei termini, e precisamente, di due anni dopo il giudizio di primo grado, e di un anno dopo la sentenza emessa in appello. Tutto ciò unicamente in caso di sentenza di condanna dell’imputato. Nel caso in cui la vittima sia un minore, la decorrenza della prescrizione si ha a partire dalla maggiore età, tranne nei casi in cui l’azione penale non inizi prima di tale momento. Inoltre, il disegno di legge in oggetto non ha valore retroattivo, ciò significa che esso avrà efficacia soltanto per i reati commessi in futuro, ossia dopo la sua entrata in vigore. Come accennato in precedenza, deve necessariamente farsi riferimento al divisivo emendamento creato dalla Presidente Pd della Commissione Giustizia al Senato, On. Donatella Ferranti, approvato dalla Camera dei deputati il 23 Settembre 2015, il quale apporta significative modifiche all’impianto della legge Cirielli. Detto provvedimento allunga notevolmente i termini di prescrizione per il reato di corruzione, prevedendo un’aggiunta di due righe all’art. 157 c.p. In particolare, dispone che "sono aumentati della metà" i termini di prescrizione per i reati previsti dagli articoli 318, 319 e 319 ter c.p., ossia corruzione per l’esercizio della funzione pubblica, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e corruzione in atti giudiziari. Il nuovo falso in bilancio sanziona la mancata esposizione di attivi e passivi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 16 maggio 2016 n. 20256. Non ci sono dubbi. La mancata esposizione nel bilancio di poste attive e passive effettivamente esistenti nel patrimonio della società è sanzionato anche sulla base del nuovo falso in bilancio. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 20256 della Quinta sezione penale depositata ieri. La sentenza prende in esame i nuovi articoli 2621 e 2622 del Codice civile in vigore da poco meno di un anno. E lo fa, prendendo atto, per la prima volta, della pronuncia delle Sezioni unite, della quale ancora mancano le motivazioni, con la quale è stata confermata la rilevanza penale del falso qualitativo, risolvendo in questo modo lo spinoso tema delle valutazioni che aveva visto dividersi la stessa Cassazione. Si tratta però di un aspetto che non viene approfondito più di tanto, perché il giudizio della Cassazione si concentra su un altro aspetto, meno controverso: l’omissione, secondo l’accusa, di una serie di dati relativi a crediti e debiti della società (una S.r.l. attiva nel settore dell’edilizia) nei bilanci relativi a due annualità. Così, la Corte avverte che questa fattispecie è sicuramente riconducibile allo schema della nuova incriminazione, anche se si dovesse propendere per un’interpretazione restrittiva della nozione di fatti materiali. Nozione quest’ultima che, proprio con riferimento alla fattispecie omissiva, ha sostituito quella di "informazioni". Infatti, la nuova formulazione dell’articolo 2622, puntualizza la sentenza, introdotta dalla legge n. 69 del 2015, si pone, quanto alla condotta di mancata esposizione in bilancio di poste attive effettivamente esistenti nel patrimonio sociale, in rapporto di continuità normativa con la fattispecie precedente, determinando in questo modo una successione di leggi penali nel tempo. La Cassazione per arrivare a questa conclusione mette a confronto la vecchia versione del Codice civile con la nuova, con alcuni passaggi di indubbio interesse. Tra questi, quello sulla tipizzazione delle comunicazioni sociali rilevanti, individuate nei bilanci, nelle relazioni e nelle altre comunicazioni dirette ai soci e al pubblico previste dalla legge. Apparentemente anche in questo caso si può individuare una linea di continuità tra le diverse fattispecie. Tuttavia, mette in evidenza la Corte, l’ultimo inciso è stato spostato in fondo all’elenco rispetto alla formulazione precedente: un segno dell’intenzione "di fugare eventuali residui dubbi circa il fatto che la specificazione riguardi non solo le comunicazioni, ma altresì le relazioni". A essere confermata è pertanto l’irrilevanza penale delle condotte che riguardano "comunicazioni "atipiche", comunicazioni inter-organiche e quelle dirette ad un unico destinatario, sia esso un soggetto privato o pubblico, le quali, sussistendone le condizioni, possono configurare, a seconda dei casi, i reati di truffa ovvero quelli previsti dagli articoli 2625, 2637 e 2638 del Codice civile o ancora quello di cui all’articolo 185 Tuif". Quanto ai potenziali autori del reato, questi restano identificati negli amministratori, nei direttori generali, nei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori. Rafforzata poi l’idoneità ingannatoria della falsa comunicazione rafforzandone il profilo di concretezza del pericolo. "Caro Marco, mi trattano come un terrorista. Mi viene da piangere" di Rita Bernardini Il Dubbio, 17 maggio 2016 La lettera di un detenuto, in osservazione psichiatrica, a Pannella. Il ministro Andrea Orlando ha recentemente inviato una direttiva al Capo del Dap, Santi Consolo, per la prevenzione dei suicidi in carcere. Non so quante direttive e circolari del genere siano state emanate nel corso degli oltre 40 anni di vigenza dell’Ordinamento penitenziario. Gli archivi del ministero della Giustizia ne conterranno sicuramente centinaia. Io sono convinta, invece, che sarebbe bastato rispettare l’Ordinamento penitenziario per evitare tante morti e, fra queste, centinaia di suicidi. È utile inoltre ricordare che ci vollero 25 anni prima che l’Ordinamento avesse il suo Regolamento di attuazione, entrato in vigore il 22 agosto del 2000 (D. P. R. 30 giugno 2000, n. 230). Dal 2000 a oggi il censimento puntuale di Ristretti Orizzonti ci dice che i morti sono stati 2.527 e i suicidi ben 900. Quante di queste vite spezzate avrebbero potuto essere salvate attraverso il rispetto della normativa penitenziaria in vigore? Per spiegarmi con un esempio, vi presento il caso di un giovane detenuto napoletano che nei giorni scorsi ha scritto un’accorata lettera a Marco Pannella. La lettera integrale l’abbiamo trasmessa al Direttore generale dei detenuti e del trattamento, il dottor Roberto Piscitello, che io ho soprannominato "muro di gomma" perché non risponde mai alle segnalazioni che gli faccio quando valuto che ci siano violazioni dei diritti dei detenuti. In passato avevo un’interlocuzione felice con il Vice-Capo del Dap, il dottor Luigi Pagano, che mi rispondeva puntualmente a volte accogliendo, a volte respingendo le mie richieste di intervento, ma sempre motivando i dinieghi. Ora credo che dovrò ricorrere all’iniziativa nonviolenta per avere quelle risposte che non arrivano soprattutto a coloro che noi radicali definiamo i "detenuti ignoti". La lettera Ecco alcuni passaggi della lettera che G. P. scrive a Marco Pannella con miei commenti fra parentesi: "sono stato arrestato per un definitivo di cui mi accusano di una minaccia di cui giuro sui miei figli che non ho minacciato nessuno" (e vabbè, opinerà qualcuno: dicono tutti così, tutti innocenti!). "Il giorno 16/12/2015 entro per la prima volta in carcere a Secondigliano poi il 14/01/2016 sono stato trasferito nel carcere di Catanzaro" (ah, ecco, la territorialità della pena va a farsi benedire, visto che il detenuto è della provincia di Napoli). Il detenuto scrive al Dap e al magistrato di Sorveglianza chiedendo un avvicinamento alla famiglia (ha una figlia di 4 anni e sua madre è appena stata colpita da un ictus). Il 30 aprile il Dap risponde, ma lo sventurato viene trasferito a Livorno in osservazione psichiatrica (avete presente l’affettività che secondo l’Ordinamento penitenziario e il suo regolamento di attuazione non può essere negata ai detenuti? Art. 28: Rapporti con la famiglia "Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie"). Il nostro amico si dispera perché lì a Livorno ci sono persone con problemi psichiatrici e pericolosi "ma io non ho questi problemi, ho solo un po’ di depressione perché è la prima volta che sto in carcere e non vedo mia madre da mesi. Del resto non ho mai dato problemi da quando sto in carcere; L’unico problema è che ogni tanto mi viene da piangere pensando a quello che mi è capitato e per il motivo che non vedo mia madre e mia figlia perché sto lontano e non possono affrontare il viaggio". (Sigh). "Come posso guarire qui da questa piccola depressione? Qua mi tengono chiuso 24 ore su 24 senza andare all’aria, poi in cella non c’è niente, è tutta sporca, non c’è l’acqua calda, non c’è un fono per asciugare i capelli, poi non mi hanno dato le mie cose personali per cui non posso lavarmi e cambiarmi; non mi danno un po’ di detersivo per pulire la cella e non posso farmi una camomilla e neanche un caffè. Ripeto, non ho mai dato motivo di essere un ragazzo pericoloso". "Dott. Pannella vorrei tanto farmi una doccia ma non posso, vorrei tanto socializzare con qualcuno e non posso. Perché tutto questo abuso? Vengo trattato come un terrorista e pure ero incensurato, ho sempre lavorato e per qualcuno che mi accusa di cose che non ho fatto mi trovo in carcere". Mi aiuti a mandare qui qualche Commissione per vedere in quali condizioni mi tengono e di potermi aiutare a farmi avere un avvicinamento in Campania". Il Davigo pensiero, ovvero il pensiero indicibile dalla Giunta dell’Unione Camere Penali camerepenali.it, 17 maggio 2016 Il pensiero del dott. Davigo, Presidente "pro-tempore" dell’Anm, è il pensiero della magistratura? L’Anm ed il Csm lo dicano, altrimenti coglieremo, nel loro silenzio, il segno inequivoco di un soddisfatto, malcelato consenso al Davigo-pensiero. A che serve esaminare i testimoni nel contraddittorio delle parti? Non bastano i verbali fatti nel chiuso di una caserma? A che serve, dunque, fare lunghi dibattimenti, quando invece il processo potrebbe essere un affare sbrigativo, basato su fonti sottratte al controllo delle parti ed all’inutile controesame degli avvocati? Il Davigo-pensiero si fa sempre più chiaro e, nella formazione dispensata ai giovani studenti salentini, ad una parte, dunque, delle future classi dirigenti del nostro Paese, si delinea con chiarezza una idea del processo totalmente inquisitoria, ancorata al passato, prescientifica, decisamente contraria alle convenzioni internazionali e francamente anticostituzionale. Dica, il dott. Scarpinato, che autorevolmente pone la magistratura intera al vertice della tutela dei valori costituzionali, se possa un Magistrato di Cassazione (qual è il dott. Davigo, prima di essere - pro-tempore - presidente dell’Anm) diffondere un simile pensiero, offensivo dell’art. 111 della nostra Costituzione e del pensiero stesso che matura quotidianamente, nel bene e nel male delle nostre giurisdizioni superiori, fra quei nobili scranni. Se è vero che la magistratura, soi-disant indipendente e autonoma, debba, sempre e comunque, liberamente e doverosamente esprimere il proprio pensiero sull’universo-mondo della politica, della legislazione, degli affari governativi e della costituzione, ci dica cosa pensa anche di questo ultimo Davigo-pensiero. Ce lo dicano soprattutto Anm e il Csm, attraverso i propri rappresentanti, espressioni di altrettante anime correntizie, se questa è la loro condivisa idea del processo. Perché se così fosse, come noi cautamente da tempo temiamo, sapremmo anche il perché, sotto la maschera della prescrizione, di presunti eccessi di garanzie e di altri accidenti, si è voluto e si vuole il fallimento dell’unico modello di processo democratico, civile, moderno e costituzionale, equo e giusto, qual è quello accusatorio, che si fonda su principi diametralmente opposti alle pratiche processual-probatorie evocate dal dott. Davigo. Coglieremo, purtroppo, nel loro silenzio, il segno inequivoco di un soddisfatto, malcelato consenso. Meno male che Davigo c’è di Andrea Mascherin (Presidente Consiglio Nazionale Forense) Il Dubbio, 17 maggio 2016 Francamente non riesco a comprendere i miei colleghi che si lamentano delle esternazioni del dott. Davigo, secondo il quale il numero e la durata di processi e cause è colpa degli avvocati o che i politici sono tutti ladri, o che, come pare abbia da ultimo affermato, assumere i testi in dibattimento sia inutile se già sentiti in sede di indagini da parte della polizia giudiziaria, il tutto con buona pace del principio di non colpevolezza, della separazione dei poteri, del giusto processo. Ora, una analisi giusta e serena, deve portare gli avvocati a porsi una domanda, ovvero, se noi vivessimo in un Paese in cui tutta la magistratura, e non solo una parte (secondo me non minoritaria) fosse assolutamente rispettosa del principio di non colpevolezza, in cui la custodia cautelare fosse da tutti i magistrati avvertita come l’estrema drammatica soluzione, in cui per garantire la ragionevole durata del processo non lo si allungasse dilatando i tempi di prescrizione e in cui questa fosse considerata uno strumento di civiltà, in cui il giudice fosse terzo rispetto al pubblico ministero, in cui la Politica ascoltasse tutti gli operatori del diritto, non solo le Procure, in cui i processi si facessero esclusivamente in Tribunale non anche sui media, in cui il segreto di indagine fosse rispettato, in cui l’uso delle intercettazioni fosse rispettoso dei limiti posti dalla Costituzione, se noi vivessimo in un Paese così, a che cosa servirebbe l’avvocato? A cosa servirebbe un professionista che per Costituzione deve garantire le tutele dei diritti fondamentali dei cittadini, le libertà, le garanzie di difesa e con esse la stessa Democrazia? Semplicemente non servirebbe a nulla, così come i medici non servirebbero a nulla se vivessimo in un mondo senza malattie. Per fortuna le tesi del dott. Davigo esaltano da sole la necessità di una avvocatura solida, autonoma ed indipendente, più che mai perché non sono tesi provenienti da persona priva di spessore giuridico e culturale, o priva di ruolo, bensì da giurista fine, da uomo colto e da rappresentante di tutti i magistrati, anche se di certo molti suoi colleghi non si riconosceranno nel suo stile di pensiero. E allora, meno male che il dott. Davigo c’è, ma soprattutto, meno male che ci siamo noi avvocati. Ma non tutti i magistrati sono come Piercamillo di Giacomo Ebner (Magistrato, dirigente dell’Anm) Il Dubbio, 17 maggio 2016 Caro avvocato, ogni giorno ci vediamo e condividiamo una parte del lavoro assieme. Sì, ma tu facendo la fila fuori dalla mia porta, io alla mia scrivania; tu entrando col sorriso anche se hai i tuoi cavoli, io dipende dall’umore; tu in piedi io seduto; tu in giacca e cravatta anche a luglio io in jeans; tu paziente dei miei orari, io non sempre dei tuoi; tu che hai il cliente sul collo, io che ho tutto apparecchiato; tu che torni più volte per vedere se ho deciso e io che mi sento in colpa di non averlo ancora fatto; tu che hai venti anni più di me e mi saluti con rispetto; tu che mi racconti storie di altri e dagli occhi capisco che mille ne avresti da dirne di tue. Ti rispetto, ti ammiro, ti sono grato. Appello a Renzi: tolga il segreto di Stato su Ustica e Bologna di Rosario Priore Il Dubbio, 17 maggio 2016 Chiarissimo Presidente del Consiglio, ci permettiamo di disturbarla per segnalare una problematica che, a nostro sommesso avviso, richiederebbe una perentoria e ragionevole soluzione. Come riferito dagli organi di stampa, è in corso da alcune settimane un’accesa polemica all’interno della Commissione Moro. L’oggetto della discordia è costituito dalla documentazione del centro Sismi di Beirut relativa agli anni 1979 e 1980, visionata di recente da alcuni membri dell’organismo bicamerale. I Senatori Carlo Giovanardi e Gaetano Quagliariello hanno dichiarato che i suddetti documenti conterrebbero informazioni di estrema utilità per l’accertamento della verità sulle stragi di Ustica e Bologna. L’onorevole Paolo Bolognesi e il senatore Paolo Corsini, pur ritenendo tale documentazione rilevante per la ricostruzione storica, hanno escluso qualsiasi nesso con le stragi precitate. Storici, ricercatori e giornalisti sono chiamati ad assistere a un reciproco e persistente scambio di accuse tra parlamentari senza poter esprimere alcuna opinione sulla vicenda in quanto i documenti in questione, nonostante la rimozione del segreto di Stato, sarebbero tuttora gravati da un divieto di divulgazione perché classificati con la dicitura "segreto" e "segretissimo". I parlamentari dinnanzi menzionati affermano che è stato impedito loro di estrarre copia dei documenti visionati. Sostengono, inoltre, che se rendessero noto all’opinione pubblica quanto letto rischierebbero una condanna penale. Tale situazione sta generando un profondo senso d’imbarazzo in coloro che da anni svolgono ricerche in ambito giornalistico o storiografico sulle stragi di Ustica e di Bologna, nonché sul rapimento e sull’omicidio di Maria Grazia De Palo e Italo Toni. Costoro, infatti, sono posti in una mortificante condizione d’inferiorità e di esclusione che a distanza di diversi decenni dagli eventi appare ormai inspiegabile e gravemente nociva per le attività di studio o d’informazione. Per tali specifiche ragioni, ci rivolgiamo a lei ? quale autorità preposta a statuire sui vincoli di segretezza ? affinché possa essere consentita a chiunque ne faccia istanza per finalità di studio e/o ricerca la visione e l’estrazione di copie della suddetta documentazione. Piemonte: il Garante dei detenuti Bruno Mellano è in carica da due anni di Laura Arconti Il Dubbio, 17 maggio 2016 In Piemonte l’istituzione del Garante è avvenuta con la promulgazione della legge regionale n. 28 del 2 dicembre 2009, pubblicata nel Bollettino Ufficiale n. 48 del 7 dicembre. Si tratta di una legge lodevolmente snella e chiara, di 8 articoli, senza ripetizioni e senza fronzoli. L’art. 2 della legge precisa che la designazione del Garante avviene per maggioranza qualificata, dei due terzi dei consiglieri assegnati alla Regione. Qualora nella prima votazione non si raggiunga la predetta maggioranza, il Garante è designato a maggioranza assoluta dei consiglieri aventi diritto al voto. Il Garante dura in carica cinque anni e può essere confermato per non più di una volta. Dopo la scadenza del mandato, il Garante rimane in carica fino alla nomina del successore. All’art. 7 della legge prescrive che la prima nomina del Garante debba avvenire entro centottanta giorni dalla pubblicazione della legge sul Bollettino ufficiale della regione Piemonte, e pertanto non oltre l’inizio del mese di giugno 2010; a causa della consultazione elettorale di marzo, tuttavia, il bando di invito alla presentazione delle candidature appare soltanto nel Burt n. 40 del 7 ottobre 2010. Passano altri tre anni e mezzo, e la designazione del Garante regionale avviene con la deliberazione di Consiglio n. 273-12286 (aprile 2014): dal 12 maggio 2014 il Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà è Bruno Mellano, come conferma anche il ministero con l’aggiornamento 11 marzo 2016. Napoli: Secondigliano, un carcere dove il recupero è "eco" di Massimo Gardini Roma, 17 maggio 2016 Il riciclaggio dei rifiuti diventa economia circolare e produttività. Il recupero e il reinserimento dei detenuti del penitenziario di Secondigliano passa anche attraverso il progetto "Ecodistretto Km zero", modello di economia circolare e ambientale. L’idea di Paul Connett. Oltre quaranta detenuti incontrano Paul Connett, scienziato statunitense e professore di chimica ambientale all’Università di Saint Lawrence di Canton che illustra la sua teoria "I dieci passi verso Rifiuti zero", sulla base di ricerche effettuate sulle realtà carcerarie di San Francisco. "Nel carcere - evidenzia il direttore del centro penitenziario, Liberato Guerriero - avvengono trasformazioni umane considerevoli. Ma i reclusi hanno bisogno di figure chiave in grado di supportarli e traghettarli verso un futuro diverso". Il fulcro del progetto ruota intorno alla gestione dei rifiuti a "chilometro zero" che s’inquadra anche nel contesto dell’orto che consente la coltivazione prima e la lavorazione e trasformazione dei prodotti poi. La psicologa Roberta De Martino è l’ideatrice del format "Napoli in Treatment" che promuove "Ecotreatment Fest". "La scommessa - evidenzia la terapeuta - è mostrare che Napoli ha due volti. Non solo i limiti di sempre, ma anche tante risorse. Una realtà con tan ti punti critici che non dipendono dalle persone, bensì dalle relazioni. Esattamente come avviene per i rifiuti. Dove l’emergenza va risolta soprattutto nella gestione dei rapporti tra le istituzioni locali e i cittadini". Spazzatura come risorsa. E qui la metafora calzante dei rifiuti che sta a evidenziare come anche la spazzatura possa essere una risorsa per i territori. Cosi come i detenuti, qualora si inseriscano m un contesto "naturale" possono più facilmente essere vissuti come esseri umani, tralasciando pregiudizi che vertono sul concetto di "rifiuti" della società. "Raccogliamo oggi i frutti di un modello di eco distretto collegato al territorio, con il materiale raccolto a Scampia e Secondigliano". Danilo Risi, che parla a nome dell’assessorato comunale all’ambiente, pone l’accento sulla duplice valenza del progetto sia da un punto di vista ambientale che occupazionale. E rilancia anche una nuova imminente fase. "Sta per partire - dichiara - anche un piccolo impianto di compostaggio per il recupero del materiale umido che abbatterà i costi del cinquanta per cento. L’ambizione è allargare il progetto a nuovi materiali ed estenderlo a ogni quartiere di Napoli". Nel corso della manifestazione rilanciano le potenzialità del territorio nell’ottica ambientale e naturale anche Luigi Peluso, dell’associazione "Secondigliano Recupero" e Luigi De Matteis, di "Motus". Si chiude così, con quest’ultima tappa al penitenziario di Secondigliano, la rassegna di eventi dedicata all’ecologia ambientale e sociale "per diffondere buone pratiche "green" e promuovere riflessioni sulle differenti accezioni dei rifiuti dai materiali di scarto urbani alla spazzatura interiore, personale, sociale e relazionale". Rovigo: denuncia della Cgil "basta un temporale e piove dentro il nuovo carcere" rovigooggi.it, 17 maggio 2016 Dopo il maltempo del fine settimana segnalati disagi nella nuova struttura: acqua nel sottopasso e nella prima rotonda. Intanto, arrivano detenuti ma non poliziotti. Il maltempo del weekend ha riportato d’attualità la situazione - precaria - del nuovo carcere di Rovigo. Chi lavora all’interno della struttura e chi tutela questi lavoratori conferma che, in una struttura che dovrebbe essere nuova, piove dentro: in particolare nelle zone della prima rotonda e del sottopasso. Il tutto mentre sabato mattina sono arrivati 10 nuovi detenuti e nella mattinata di lunedì 16 altri sei. Il numero totale è ora di circa 80, mentre non aumenta quello dei poliziotti della penitenziaria. E i sindacati sono preoccupati. Ormai appare chiaro: il nuovo carcere di Rovigo è stato aperto in tutta fretta, magari per motivi propagandistici, quando sarebbe stato molto meglio attendere che tutto fosse in ordine. I sindacati lo hanno ribadito con forza anche nei giorni scorsi. Il maltempo e i temporali del fine settimana portano però alla ribalta una verità ancora più grave: piove dentro la nuova struttura. Alcune aree, per la verità, si sono ritrovate allagate per un motivo molto banale e facilmente rimediabile: qualcuno non ha chiuso le finestre. In altre però - in particolare vengono segnalate la prima rotonda e il sottopasso - il problema appare strutturale. Il che fa pensare, dal momento che stiamo parlando di una struttura nuova. Disagi che divengono via via più preoccupanti se si pensa che gradualmente il numero di detenuti sta aumentando, come è normale che sia se si pensa all’estensione e alla capienza del carcere. Nella giornata di sabato 14 maggio ne sono arrivati una decina, in quella di lunedì 16 altri sei. Il primo gruppo è costituito da detenuti che passano la giornata fuori, al lavoro, per rientrare in carcere la sera. Il secondo invece dai cosiddetti nuovi ingressi: ossia persone che, finite arrestate in varia zone della Regione, vengono poi indirizzate a Rovigo. Allo stato il numero complessivo di detenuti si avvicina all’ottantina, mentre non cresce quello dei poliziotti della penitenziaria. Da qui la grande preoccupazione dei sindacati, con in prima linea il sindacato di categoria di Cgil, col segretario provinciale Gianpietro Pegoraro. Cgil sta pensando anche a uno stato di agitazione, eventualmente da concordare con le altre sigle, alla luce anche dell’atteggiamento del Dipartimento che, a livello centrale, non appare intenzionato a dare riscontro alle proposte dei sindacati. Tra queste, per esempio, la possibilità di ricorrere alla mobilità interna, visti gli esuberi presenti in altre realtà. Cagliari: Sdr; "Benessere... dentro e fuori", un progetto per le detenute a Uta castedduonline.it, 17 maggio 2016 "Benessere…. dentro e fuori" è la nuova iniziativa che l’associazione "Socialismo Diritti Riforme" dedica alle detenute della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Organizzato con la collaborazione dell’Area Educativa dell’Istituto, coordinata da Claudio Massa, il progetto, che è stato concordato con il Direttore del Penitenziario Gianfranco Pala, intende favorire una riflessione sulla convivenza nella sezione destinata alle donne all’interno del Villaggio Penitenziario, ubicato nell’area industriale di Cagliari, a circa 23 chilometri dal capoluogo. L’iniziativa in programma giovedì 19 maggio a partire dalle ore 9.30 prevede un incontro Maria Franca Marceddu, chirurgo estetico, e Rina Salis Toxiri, psicologa esperta di leadership, comunicazione e motivazione personale. "Dai colloqui con le detenute - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione SDR promotrice dell’iniziativa - è emerso il profilo problematico della convivenza delle donne in un ambiente come quello detentivo particolarmente difficile e inadeguato a favorire relazioni serene e costruttive. È stata altresì riscontrata la necessità di condividere una visione di benessere che coincida con la conoscenza di sé, della propria identità, della cura della persona e salvaguardia della salute. Un’immagine di sé e della propria bellezza che necessariamente si deve nutrire di conoscenze, di saperi da condividere, di scelte di vita consapevoli anche attraverso il confronto e la costruzione di relazioni positive tra donne private della libertà e Agenti della Polizia Penitenziaria. La realtà delle donne detenute - figlie, madri, mogli e compagne con vicende umane dolorose - genera spesso un mondo a parte in cui il rispetto delle regole e la crescita individuale sono talvolta animate da rivendicazioni e da rapporti con l’altro sesso e con i figli improntate al senso di colpa. Terminata l’esperienza detentiva, c’è il forte rischio che nelle famiglie e nei gruppi sociali di appartenenza si ripetano modelli sbagliati. Il mese di maggio, con un forte significato evocativo, segue un percorso che, iniziato a marzo con la Giornata internazionale della Donna, intende attivare a luglio - conclude Caligaris - una giornata di prevenzione del tumore al seno". In occasione dell’incontro, le detenute, attualmente una trentina, riceveranno in omaggio dei campioncini di prodotti per la cura della persona messi a disposizione dal Centro medico estetico "Dalle ceneri della Fenice" di Cagliari. Ferrara: violenze in carcere, dossier degli studenti Unife estense.com, 17 maggio 2016 Il report realizzato con l’aiuto degli studenti Unife testimonia gli abusi subiti da Rachid Assarag. Picchiato ripetutamente dagli agenti di polizia penitenziaria, lasciato nudo in cella e senza acqua per tre giorni. Sono solo alcuni dei presunti abusi subiti da Rachid Assarag nel carcere di Parma e raccolti in un corposo report che elenca le registrazioni fatte dallo stesso detenuto nel 2010, nel suo anno di reclusione nella prigione emiliana. Il dossier con gli audio choc, resi pubblici dall’avvocato difensore Fabio Anselmo per dimostrare i soprusi subiti dal suo assistito ed evitare l’archiviazione chiesta dal pm, è stato realizzato con l’aiuto di un gruppo di studenti della facoltà di Giurisprudenza di Unife. I cinque studenti iscritti al corso di Clinica Legale - Jacopo da Villa, Elisa Garbellini, Alessia Sacchetti, Giuliana Messina e Michele Tondello - hanno studiato il fascicolo dal punto di vista giuridico, hanno ascoltato tutte le registrazioni e incrociato le trascrizioni con le relazioni di servizio redatte dalla polizia penitenziaria. "Un lavoro complesso e un incrocio enorme di dati a cui i ragazzi hanno riposto con impegno, sono stati bravissimi" commenta Anselmo. Ma più che sulla bravura degli studenti ferraresi, il report fa riflettere sulla situazione carceraria dove sembrano vigere regole non scritte di punizione molto più dure della stessa detenzione. Il registratore nascosto del detenuto segna tutto, anche le conversazioni rubate di agenti penitenziari che ammettevano le violenze dietro le sbarre. Ma c’è anche la voce di medici e operatori sociali che conoscono tutto ma non dicono niente perché "dentro il carcere funziona così - spiega una psicologa catturata dal micro registratore, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca - diciamo - una specie di solidarietà reciproca tollerata". Un altro agente penitenziario asseriva: "Se io devo fare la regola della giustizia, facevo il magistrato […] spero che rimettano le torture, mi propongo io come boia". Una testimonianza dura e cruda finita sul banco del gip per evitare l’archiviazione chiesta dal pm che aveva liquidato il caso come "notizia di reato non precisa" e gli episodi documentati come "lezioni di vita carceraria". "Questa inchiesta non può essere archiviata o ignorata dagli organi di controllo dell’Ue - afferma con fermezza l’avvocato Anselmo - perché è una palese violazione della Corte europea dei diritti dell’uomo che garantisce un equo processo. Se si vuole garantire trasparenza, servono indagini che non si basino sulle relazioni di servizio redatte dallo stesso personale sotto indagine. Poi spetterà al gip decidere se si tratta di tortura". La prossima udienza, in cui ci sarà sotto esame anche il documento preparato con la collaborazione degli studenti di Unife, è fissata al 28 giugno. Ma non finisce qui. "Stiamo facendo un lavoro analogo su Prato e Firenze (altri due carceri dove è stato rinchiuso Assarag, ndr.), dove sono stati registrati episodi analoghi". Si prospettano intense ore di trascrizioni per gli studenti ferraresi in cerca di giustizia. Piacenza: riparte "Sosta Forzata", in redazione ragazzi in Messa alla prova Dire, 17 maggio 2016 Una nuova vita per "Sosta Forzata", il giornale del carcere di Piacenza, chiuso lo scorso febbraio per cause non ancora chiarite. Oggi si chiama "Sosta forzata - itinerari della giustizia": redattori, le persone in messa alla prova esterna dell’Uepe (l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna, appunto), alcune studentesse volontarie e un tirocinante dell’Uepe. Al timone, Carla Chiappini, direttore responsabile della pubblicazione. "Sono ragazzi molto giovani, tra i 19 e i 28 anni - spiega Chiappini. Le studentesse e il tirocinante hanno più o meno la loro età: si è instaurato un bellissimo confronto, molto diretto e onesto. Le ragazze si sono poste in una posizione mai accusatoria nè tantomeno leggera, ma con un’idea di responsabilità e consapevolezza". La versione cartacea di "Sosta forzata - itinerari della giustizia" esce - come il predecessore - in allegato al giornale diocesano "Il nuovo giornale". La previsione è di uscire con 3 numeri l’anno (come d’abitudine): in tarda primavera, in occasione del Festival del Diritto (quest’anno dedicato al tema della dignità, in calendario a Piacenza 23, 24, 25 settembre) e intorno a Natale. "Vorremmo fare di più, ma con le forze che abbiamo questo è il massimo che possiamo fare - ammette Chiappini. Queste pubblicazioni per noi sono essenziali: le portiamo nelle scuole, apriamo il confronto". I primi numeri sono stati finanziati dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano, ora rientrano tra le attività del Piano di zona per la salute e il benessere di Piacenza: "Siamo molto grati a entrambi: hanno permesso a una lunga esperienza di non morire, credendo fortemente in noi". "Lavorare con ragazzi messi alla prova è molto diverso dal lavorare con detenuti, ma è un’esperienza altrettanto bella. I loro reati sono molto meno gravi e talvolta anche tollerati dalla società civile. Per questo tutta la riflessione, e la conseguenza scrittura, passano su binari diversi rispetto a quelli a cui eravamo abituati". La rinascita del giornale della casa circondariale piacentina non è l’unico progetto a cui Carla Chiappini sta lavorando. L’altro riguarda gruppi di scrittura sulla genitorialità con papà detenuti e papà volontari. Laboratori a tutti gli effetti, che prevedono uno stimolo sui cui ragionare, il momento della scrittura e poi la condivisione, tutto in una stessa "seduta". A febbraio si è concluso il primo gruppo nel carcere di Verona; quello a San Vittore si concluderà a maggio e quello nella casa circondariale di Parma verso l’inizio di giugno. "In ogni struttura abbiamo lavorato con altre associazioni: a Verona con l’associazione Microcosmo, a San Vittore con Ekotonos, a Parma con Per ricominciare. Sono state esperienze bellissime, che mi hanno confermato che, quando il mondo dell’associazionismo trova le chiavi per una vera collaborazione, la soddisfazione e i risultati sono amplificati 10 volte". A Parma i laboratori coinvolgono i detenuti in alta sicurezza, a Verona e Milano detenuti comuni: "Variare la tipologia delle persone coinvolte, dai detenuti ai volontari, è uno degli aspetti più interessanti. Qui a Parma, per esempio, i detenuti mi hanno chiesto di leggere in gruppo ma di scrivere in privato, e gli incontri sono il lunedì, un giorno feriale: così, i papà volontari sono quasi tutti pensionati". Chiappini racconta che, attraverso questi percorsi, ha sconfitto "il pregiudizio che avevo rispetto alle scritture maschili". Nei laboratori si parla del ricordo del proprio padre e dell’esperienza di essere diventato genitore: "Non poniamo grosse questioni teoriche: le persone arrivano al cuore in maniera naturale. Scrivono pezzi bellissimi, delicati: letture inattese e inaspettate. Sabato scorso un papà volontario di San Vittore mi ha detto: ‘La cosa che ho capito è che qui dentro potrebbe esserci ciascuno di noì. Il nostro desiderio, come sempre, infatti è quello di gettare ponti". I laboratori di scrittura per papà detenuti a settembre saranno ospitati dalle carceri di Modena, Opera e molto probabilmente Padova ("Merito del nostro generosissimo e coraggioso sponsor, la Fondazione Cattolica di Verona"): alla fine di tutto il percorso è prevista una pubblicazione, curata scientificamente da alcuni docenti di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Piacenza. Entrambi i progetti sono frutto dell’impegno di Verso Itaca onlus, che da anni si occupa di portare, soprattutto nelle scuole, ragionamenti e riflessioni sui temi della giustizia. Salerno: detenuti e imputati si riscattano lavorando al Comune puntoagronews.it, 17 maggio 2016 San Valentino Torio (Sa). Condannati oppure imputati nei procedimenti penali svolgeranno attività di volontariato presso il Comune di San Valentino torio: la giunta comunale guidata da Michele Strianese ha firmato un importante convenzione con il Ministero della Giustizia- ufficio di esecuzione penale esterna di Salerno, per promuovere azioni di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno ed al reinserimento di persone in esecuzione penale, per la conoscenza e lo sviluppo di attività riparativa a favore della collettività, e per favorire la costituzione di una rete di risorse che accolgono i soggetti in esecuzione di pena siano essi detenuti o che abbiano aderito ad un progetto riparativo. Un passo importante che permetterà a detenuti oppure imputati, che abbiano avuto quindi una condotta penalmente sanzionata, potranno essere inseriti nell’attività non retribuita presso il Comune di San Valentino Torio a beneficio della collettività nei servizi che si svolgono per realizzare le finalità istituzionali e statutarie dell’ente amministratore Michele Strianese. La convenzione si rinnova di anno in anno a meno che non sarà annullata. Si tratta di un’iniziativa si rientra in una legge nazionale di reinserimento. Cesena: Avventisti, l’esperienza del servizio pastorale in prigione avventisti.it, 17 maggio 2016 Una riflessione del past. Franco Evangelisti tenuta a Cesena in occasione della giornata dedicata al tema delle carceri. Evangelisti: Non esistono vite inutili, non esiste storia umana che non abbia valore. Franco Evangelisti, pastore delle comunità avventiste di Cremona e Mantova, è stato ospite a Cesena di un evento dedicato al tema delle carceri, nell’ambito della serie Bibbia Festival. Pubblichiamo una sua riflessione sull’esperienza vissuta durante le visite ai detenuti. "Entrai per la prima volta in carcere circa 30 fa, senza pensare lontanamente che le tante esperienze vissute da allora fino a oggi avrebbero arricchito la mia esperienza di vita e di fede. Allora ero un giovane aspirante pastore. Oggi, dopo 33 anni di ministero, vivo ancora con stupore questa esperienza che ogni volta presenta tratti sempre nuovi e diversi, molti dei quali impressi da fosche tinte drammatiche; altri così luminosi. Già, il carcere, il foulaché in greco (lingua in cui è scritto il Nuovo Testamento, ndr), una parola che indica non solo un luogo di prigionia fisica, ma anche e soprattutto lo stato di totale schiavitù in cui si trova l’essere umano sopraffatto dal male. La Scrittura lo individua con il totale degrado, il punto più lontano da Dio raggiunto dall’uomo, prigioniero nella sua condizione di peccato: "l’ultimo degli ultimi" in cui si trova "l’uomo ultimo tra gli ultimi". È in questo confronto con una condizione estrema che ho scoperto come il punto più profondo del pozzo in cui è precipitato l’essere umano, possa trasformarsi, attraverso il miracolo della fede, nella possibilità di Dio di agire e di salvare. Lo vissi io, da bambino, tanti anni fa. L’ho vissuto ogni qualvolta il Signore mi ha permesso di incontrare i miei ‘fratellì tra le mura di una prigione. Per questo motivo ringrazio Dio di avermi fatto capire che non esistono vite inutili, non esiste storia umana che non abbia valore davanti agli occhi di chi non ha avuto timore di dismettere gli abiti della regalità e dell’eternità, per oltrepassare le sbarre di quel grande carcere, qual era diventata la sua terra, per "cercare e salvare ciò che era perduto". Scrive l’apostolo Giovanni: "La Parola si è fatta carne e ha abitato un tempo tra noi", anche se "gli uomini hanno amato le tenebre piuttosto che la vita" (Gv. 1:9-13; 14). E aggiunge inoltre l’apostolo Paolo, scrivendo ai Filippesi: "Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo… facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte della croce". (Fil 2:5-11). Ecco perché Dio invita ogni uomo e ogni donna a vivere la stessa "incarnazione", fatta di condivisione della sofferenza e del dolore estremo, e di solidarietà. Attraverso gli sguardi sperduti di detenuti, il Signore si è manifestato e mi ha fatto conoscere amici con i quali condividerò per sempre il dono della libertà. Attraverso di loro ho imparato a conoscere e a vedere Gesù, il Buon Samaritano, il Salvatore del mondo". Treviso: giustizia e mediazione nei conflitti, conversazione con tre donne "in prima linea" lavitadelpopolo.it, 17 maggio 2016 "Sia fatta Giustizia! La mediazione come via per la trasformazione del conflitto": è il tema dell’incontro promosso per martedì 17 maggio, alle 18.15 in sala Longhin del Seminario di Treviso, da "Cantiere Giustizia" e da "La Voce - associazione per la mediazione dei conflitti". Ospite Jacqueline Morineau, fondatrice della Mediazione Umanistica. La fondatrice della Mediazione Umanistica, la Direttrice del carcere femminile della Giudecca di Venezia e colei che per molti anni è stata Direttrice dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Venezia-Treviso-Belluno. Tre donne "in prima linea" saranno ospiti domani a Treviso per aiutare a ripensare percorsi di giustizia e di pace che mettano sempre di più al centro la persona. "Sia fatta Giustizia! La mediazione come via per la trasformazione del conflitto": è questo, infatti, il tema dell’incontro promosso per martedì 17 maggio, alle 18.15 in sala Longhin del Seminario di Treviso, da "Cantiere Giustizia" e da "La Voce - associazione per la mediazione dei conflitti", con il patrocinio della Città di Treviso. "Sarà una conversazione per aiutarci a riflettere sul tema della giustizia - sottolinea don Marco Di Benedetto, cappellano del carcere minorile di Treviso. L’incontro, promosso nell’ambito della sensibilizzazione e della formazione sul tema e sulle pratiche della giustizia, è pensato non solo per professionisti, volontari ed educatori che lavorano in quest’ambito, ma per tutti i cittadini sensibili a questo tema". Il "Cantiere Giustizia" di Treviso è un tavolo di riflessione e di promozione di iniziative mirate a sensibilizzare la cittadinanza e le comunità cristiane sui temi legati alla giustizia e alla legalità. Nato per iniziativa dei cappellani, di alcuni operatori e volontari degli istituti penitenziari trevigiani, il "cantiere" coinvolge professionalità e sensibilità diverse per allargare i confini di una cultura della giustizia nel nostro territorio. Gli interventi saranno della prof. Jacqueline Morineau, fondatrice della Mediazione Umanistica, già docente di Mediazione penale all’Università Bicocca di Milano, della dott. Gabriella Straffi, direttrice della Casa di Reclusione femminile di Venezia "Giudecca" e della dott. Chiara Ghetti, già direttrice dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Venezia-Treviso-Belluno. Bologna: cinema, un festival dietro le sbarre di Fulvio Fulvi Avvenire, 17 maggio 2016 Un festival del cinema dentro un penitenziario. Mancavano solo i lustrini e il tappeto rosso ma per il resto è stata una rassegna come quelle che si svolgono "fuori", con proiezioni, spettatori, ospiti illustri, una madrina, incontri con gli autori e una giuria di "esperti" che ha assegnato il premio al miglior film tra gli undici in concorso, tutte produzioni "fresche" e di qualità, distribuite nelle sale italiane quest’anno. Si intitola "Cinevasioni" ed è il primo festival del genere in Italia, e forse al mondo: organizzato con il sostegno di Rai Cinema, si è svolto nella Casa circondariale di Dozza, a Bologna, dal 9 maggio fino a ieri, giornata in cui la commissione, composta da detenuti e presieduta dall’attore romagnolo Ivano Marescotti, ha attribuito la "Farfalla di ferro" a Lo chiamavano Jeeg Robot, l’immaginifico film di Gabriele Mainetti con Claudio Santamaria. Perché, dice la motivazione, "è un indubbio capolavoro di recitazione e di esposizione della fantasia, ed esprime con sapiente irriverenza i drammi, i sogni e il coacervo di passioni ed emozioni delle periferie metropolitane". Per la prima volta in un evento cinematografico dentro un carcere non si è parlato delle tematiche del settore e della condizione dei reclusi ma si è cercato di guardare alla Settima Arte come fanno quelli che non vivono "il sole a scacchi", ovvero i critici o gli spettatori comuni, ascoltando le testimonianze di registi come Luchetti, Falcone e Garrone, sceneggiatori come Roberto Menotti, direttori della fotografia, montatori, autori di colonne sonore come Carlo Amato. Un braccio dell’istituto penale si è persino trasformato in set cinematografico: alcuni detenuti ci hanno girato il cortometraggio La sfida, realizzato come saggio finale del corso-laboratorio iniziato a ottobre su sceneggiatura, regia, recitazione al quale hanno partecipato per preparare il festival e imparare a fare i critici-giurati. Il documento filmato, della durata di tre minuti, è stata la sigla di "Cinevasioni 2016", rassegna sul cui schermo sono passati in questi giorni documentari come Fuocoammare di Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’oro all’ultimo festival di Berlino, e film-fiaba come Il racconto dei racconti di Matteo Garrone (sette David di Donatello), ma anche la commedia brillante Se Dio vuole, opera prima di Edoardo Falcone, e il biografico Chiamatemi Francesco di Daniele Luchetti sulla vita di papa Bergoglio. Tra le opere in gara c’erano pure Zanetti Story, di Simone Scafidi e Carlo A. Sigon, sulla vicenda umana e sportiva del giocatore argentino ex capitano dell’Inter, e il pluripremiato Sponde. Nel sicuro sole del Nord, della giovane regista Irene Dionisio, storia dell’amicizia tra lo scultore e postino tunisino Mohsen e il becchino in pensione di Lampedusa, Vincenzo. Altri titoli proposti, Mia madre fa l’attrice di Mario Balsamo, Ravelstoke - Un bacio nel vento di Nicola Moruzzi, il documentario The lives of Mecca di Stefano Etter e Dio esiste e vive a Bruxelles di Jaco Van Dormael. Insomma, il grande cinema è entrato a pieno titolo nel carcere di Dozza (450 detenuti, 6 educatori, 414 poliziotti penitenziari), e non solo con le proiezioni (aperte anche al pubblico esterno) in una sala di 150 persone ma anche con protagonisti che hanno varcato il portone del penitenziario per presentare le opere in gara e rispondere alle domande degli spettatori. La Farfalla di ferro consegnata ieri al regista del film vincitore Gabriele Mainetti da Claudia Cardinale è una scultura disegnata dall’artista Mirko Finessi e costruita dall’officina metalmeccanica del carcere bolognese, dove ogni giorno lavorano, fianco a fianco, detenuti e un gruppo di volontari, operai metalmeccanici in pensione. Il corto-trailer di "Cinevasioni" (con musiche di Ennio Morricone dalla "trilogia del dollaro") interpretato da una ventina di detenuti si ispira a tre capolavori, Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone, Apocalypse now di Francis Ford Coppola e Un americano a Roma di Steno, che hanno come tema simbolo proprio la sfida: quella quotidiana all’ultima forchetta, sulla qualità dei pasti che vengono distribuiti dalla mensa del carcere (uno dei più sovraffollati d’Italia), e quella con la propria esistenza, adesso dietro le sbarre per scontare una pena e in un futuro più o meno lontano di nuovo nella società civile, alle prese con gli stimoli e i problemi del mondo esterno. "Ma il festival è stata anche una doppia sfida diretta tra carcere e mondo del cinema - precisa il direttore artistico e ideatore del festival, il giornalista Rai Filippo Vendemmiati - e ha visto una partecipazione entusiastica dei detenuti, italiani e stranieri, che si sono informati, hanno studiato, imparato a giudicare i film e a valutare le loro emozioni di fronte a una storia". "Evadere", dunque, si può: "Tutti i film degli ultimi anni per noi sono inediti - ha dichiarato uno dei partecipanti al corso-laboratorio di cinema tenuto dall’associazione dei documentaristi dell’Emilia-Romagna - ma non capiamo perché, in carcere, così come si può leggere un libro in biblioteca non si possa vedere un film appena uscito nella sua sede naturale, cioè la sala cinematografica". "Quello che abbiamo insegnato nel corso - afferma Angelita Fiore, direttrice scientifica di "Cinevasioni" - è soprattutto guardare la realtà con altri occhi e con una consapevolezza diversa, anche se da dietro le sbarre quello che c’è fuori può essere solo pensato, oppure visto attraverso i film. Un po’ come avviene quando s’immagina una storia: ed è proprio questo, forse, è il punto di forza del nostro festival". "L’attività del progetto CiakinCarcere, che si aggiunge a quelle sportive e musicali, fa parte di un preciso percorso formativo - spiega la direttrice del carcere di Dozza, Claudia Clementi - destinato ad incidere sulla vita delle persone sia dentro che fuori dal penitenziario ed è anche un modo efficace per mettere in contatto il carcere con la città: l’obiettivo è quello aiutare i detenuti a coltivare un sogno, facendo vedere cose mai viste: il cinema può rappresentare, infatti, per loro una ulteriore possibilità di vita diversa, di un’esistenza migliore". Roma: la storia di Pippa Bacca a Rebibbia, i detenuti la raccontano di Maria Grazia Filippi artemagazine.it, 17 maggio 2016 Hanno letto il libro "Sono innamorata di Pippa Bacca chiedimi perché", hanno scelto i brani che preferivano, li hanno letti in pubblico. Giornata speciale per i detenuti della Casa di Reclusione romana che hanno accettato di confrontarsi con l’arte e la vita dell’artista uccisa del 2008. Una storia incredibile, ma assolutamente vera. Ma questa volta non è la storia di Pippa Bacca, artista milanese violentata e uccisa nel 2008 durante il suo Brides on tour, performance che la vedeva attraversare vestita da sposa in autostop i paesi europei teatri di guerra, proprio come racconta il libro di Giulia Morello "Sono innamorata di Pippa Bacca, chiedimi perché". La storia incredibile, ma assolutamente vera, riguarda questa volta i detenuti di Rebibbia che, hanno scelto di farsi guidare dalle parole di Giulia Morello alla scoperta dell’artista scomparsa, del suo mondo, della sua arte, trasformando quelle ore dedicate alla lettura del libro in uno spunto di riflessione acuto e profondo, doloroso ma al tempo stesso sorridente e pieno di speranza. Sono loro, i sedici "abitanti" di Rebibbia, i protagonisti della sorprendente presentazione del libro della Morello che si è svolta questa mattina nella casa di reclusione romana che, come un fortino, domina la Tiburtina. Quartiere brutto, edificio brutto. Eppure dentro c’era un giardino pieno di fiori. "Avrei voluto che non finisse mai" ha esordito Sergio, il primo a parlare fra molte incertezze e una voce un po’ incrinata dal disagio dettato dell’inusuale situazione. E non credo che Giulia Morello abbia mai sentito un commento più bello, sul suo libro. C’è una sensazione strana nell’aria, mentre i detenuti si alzano, uno ad uno, e si avviano al banco degli oratori "istituzionali" (Rosalia Pasqualina di Marineo, la sorella di Pippa Bacca, la consigliera regionale Marta Bonafoni, il presidente di Metamorfosi Pietro Folena, la giornalista Mimosa Martini e ovviamente, Giulia Morello). Ognuno ha in mano un foglietto (verde, come il colore preferito da Pippa Bacca) su cui ha scritto le sue impressioni e il brano del libro che vuole leggere pubblicamente. Le scelte sono state personali, dettate un po’ dalla biografia di ognuno, un po’ dal piacere della lettura. Però Giovanni rompe il muro delle emozioni quando dice: "Questo libro mi ha insegnato l’ingenuità, la bellezza, la speranza del viaggio. Non dobbiamo mai smettere di conoscere le persone che sembrano diverse da noi". Fa sorridere un po’ tutti Patrizio che invece confessa di aver scelto il brano da leggere perché lo divertiva come Giulia Morello aveva riportato l’eterna rivalità tra Roma, la sua città, e Milano, la città di Pippa. E fa molto riflettere Alberto che invece, tra tutti i personaggi del libro, ne ha scelto uno particolarmente significativo: Diego. Quel Diego che sin dall’inizio del tour che Pippa si accinge a fare fra i paesi dei Balcani sconvolti dalla guerra appena finita, verso Istanbul e poi Gerusalemme, inizia sin da subito ad attaccarla pesantemente, fino a quando, quando la violenza viene perpetrata fino all’omicidio, arriva ad accusarla di "essersela un po’ cercata". Ribalta la situazione Giorgio, interessato soprattutto al talento artistico di Pippa, a quella sua "ultima performance messa in scena dalla sua stessa morte". Giuseppe arriva addirittura a ritrovare nel libro di Giulia Morello e nella vita di Pippa Bacca, il fascino della beat generation, di Jack Kerouac e del viaggio on the road. E Marco che trova il senso: "non se l’è cercata. Ha solo incontrato la persona sbagliata". "Il libro fa una distinzione importate fra vivere ed esistere" conclude Marta Bonafoni. Ed è una riflessione importante. Per chi tutti i giorni si affanna a cercare il senso fra mille attività, ma anche per chi vive, temporaneamente, in un carcere. Ma forse la domanda più giusta è quella che, attraverso la sua arte, ci fa arrivare proprio Pippa Bacca, come giustamente sottolinea Pietro Folena nel suo intervento. "Tu cosa fai? Tu cosa sei capace di fare?". E a chiederlo, provocatoriamente, era una che aveva capito bene che arte e gesto, sono la stessa cosa. Milano: il volley dentro il carcere Bollate, una ventata di libertà per le detenute di Daniele Redaelli Gazzetta dello Sport, 17 maggio 2016 Con l’iniziativa "Andiamo a muro insieme" il Volley Novate è andato a incontrare la squadra femminile del carcere di Bollate. A giugno il ritorno all’esterno. Il sogno delle detenute: una copertura mobile per usare il campo tutto l’anno. Andiamo a muro insieme", così si chiama la doppia sfida tra il Novate Volley e le Tigri di Bollate, la squadra delle detenute nel carcere milanese. Il primo incontro si è disputato all’interno della casa circondariale, il "ritorno" è previsto per il 18 giugno nella palestra di via Cornicione a Novate. Il sindaco di Novate, Lorenzo Guzzeloni, è stato accompagnato dal vice e da alcuni assessori a testimoniare ("lo sport è un veicolo di valori fondamentali per la crescita della persona") la sensibilità del comune dell’hinterland settentrionale di Milano a questa iniziativa che ha visto la squadra di pallavolo accettare con gioia la proposta degli Amici di Zaccheo, un’onlus molto attiva all’interno delle carceri. Le ragazze di Novate sono state precedute nell’esperienza dalle colleghe del Gaggiano. "Per loro è la prima volta all’interno del carcere - spiega il presidente Giorgio Accorsi - e sono abbastanza emozionate. Abbiamo portato le ragazze della serie C più alcune della 2a divisione, ma poche perché le minorenni non possono accedere. Il Novate Volley esiste dal 2012, ma è il proseguimento di una società nata nel 2000, abbiamo 105 atlete". A Bollate sui circa 1100 detenuti, 98 sono donne. Tra queste, 15-18 partecipano agli allenamenti della pallavolo. Maria Angela Marcioni, e Piera Venturini, "prestate" dal Novate, seguono con Laura Montalbetti le Tigri di Bollate. "È un progetto nato tre anni fa - raccontano - ma il campo è all’aperto per cui può essere utilizzato da marzo a giugno, prima è troppo freddo poi diventa un forno. L’allenamento dura un’ora e mezzo ogni sabato, aiuta le giocatrici a socializzare, a fare squadra tenendo conto che è un gruppo multi-etnico e multinazionale e abbiamo perfino una ragazza sordomuta. Dà sempre l’anima e ormai riusciamo a farci capire anche senza ricorrere ai gesti". Il campo, in effetti, è un rettangolo di cemento stretto fra mura alte 5 metri. Alleggerito da allegri murales. "Si devono accontentare - sottolinea Nicola Garofalo, presidente degli Amici di Zaccheo -, oltretutto ci sono due tombini in mezzo alle due metà del campo. Poi il sogno sarebbe realizzare una copertura mobile così da poterlo utilizzare per un tempo maggiore. Ma non ci sono risorse. Ci vorrebbe un investitore". Eh sì, sarebbe davvero bello, le donne qui hanno poche strutture sportive rispetto ai maschi. Però c’è interesse ed entusiasmo, il pubblico è abbastanza folto e le detenute sono scese per vedere all’opera le loro colleghe, gli applausi scrosciano ogni momento per sostenere le Tigri. Non c’è storia nella partita. Il Novate è squadra, il Bollate è composto da molte ragazze alle prime armi e solo un paio hanno già giocato. Divertente e istruttivo siparietto al termine del primo set. Il segnapunti, un "esterno", pensando di evitare brutte figure, è stato di manica larga: ogni tanto girava il cartellino del punteggio delle Tigri. Così si chiude sul 25-17 per Novate. L’arbitro Sergio Rizzi si avvicina durante il cambio campo e sottolinea: "Guarda che due o tre ragazze del Bollate mi hanno detto che non vogliono punti regalati. Vogliono perdere con i punti che si sono meritate, quindi primo set 25 a 3". Migliorano nel secondo set che chiudono a 7, poi si fanno due gruppi misti più equilibrati e tutto diventa una vera festa con tanto di rinfresco finale. Catia Bianchi, una delle educatrici del settore femminile, al termine è felice: "Ci vuole molta forza di volontà per lavorare in carcere, soprattutto con le donne. Vederle qui, numerose, contente per noi è una grande soddisfazione". Paola Santini, capitana del Novate, fa da portavoce alle compagne: "Un’esperienza straordinaria e interessante. Un po’ di emozione all’inizio, anche da parte loro. Poi, quando ci siamo mischiate, sono diventate compagne di squadra normali. Il pensiero che loro adesso restano qui non ci è più passato per la mente, abbiamo giocato, ci siamo divertite tutte assieme. Tra un mese verranno da noi. Ecco lì, forse, ci sarà più emozione". Per le Tigri parla Jessica Marsiglia, 28 anni, la migliore. "Dice che si vede che ho i fondamentali? Grazie, sono felice. Sono un po’ arrugginita, ma io ho giocato a pallavolo dai 9 ai 24 anni, poi sono rimasta ferma due anni per un incidente e poi… sono finita qui. Lo sport ti fa stare bene. Ho un fine pena 2026, ma vedo la luce, perché dal giugno 2017 forse potrò uscire a lavorare. Il tempo qui dentro scorre con altri ritmi. Il volley aiuta molto, è una ventata di libertà". Radio Carcere con Roberto Vecchioni. Conversazione su processo penale e pena Ristretti Orizzonti, 17 maggio 2016 Conversazione con Roberto Vecchioni alla luce dell’uscita del suo ultimo libro "La vita che si ama" edito da Einaudi. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/474233/radio-carcere-con-roberto-vecchioni-conversazione-su-processo-penale-e-pena-alla-luce Via libera al Freedom of Information Act italiano di Valentina Conte La Repubblica, 17 maggio 2016 Il Cdm ha varato il decreto trasparenza. Una rivoluzione, per il premier Renzi e il ministro Madia. Ma i cittadini potranno davvero richiedere tutti i documenti e i dati che vogliono alle amministrazioni? E se queste si rifiutano saranno sanzionate? "Passo in avanti, ma troppe deroghe", dice Riparte il futuro, l’organizzazione che ha raccolto 88 mila firme online per ottenere il Foia anche in Italia. Anche l’Italia ha il suo Foia, il Freedom of Information Act. La possibilità cioè per qualunque cittadino, a prescindere da un interesse diretto, quindi senza doverlo giustificare, di richiedere alla pubblica amministrazione dati e documenti. Oggi il Consiglio dei ministri ha approvato in via definita il primo decreto di attuazione della riforma Madia, noto come decreto "trasparenza", anche da noi si passerà quindi dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere, from need to right to know, nella definizione inglese di Foia. Ci arriviamo da buoni ultimi, visto che già è applicato in oltre 90 paesi, gli Stati Uniti ce l’hanno dal 1966, la Svezia addirittura dal 1766 due secoli prima, seppur in forma primitiva. Siamo dunque a un passo dal controllo sociale di 60 milioni di cittadini sull’azione pubblica? All’arma finale contro la zona grigia di illeciti e sprechi? All’amministrazione come "casa di vetro", cara a Filippo Turati? Le correzioni. Il testo iniziale, presentato dal governo il 20 gennaio scorso, è stato corretto in molte parti (quasi un’eccezione per le riforme delegate dal Parlamento al governo). Merito anche della società civile e di Foia4Italy, la rete di 30 associazioni, che prima ha lanciato la petizione e raccolto online 88 mila firme (erano 82 mila quando sono state consegnate al ministro Madia dieci giorni fa), poi è stata coinvolta in tutto l’iter parlamentare con tanto di audizioni in commissione Affari Costituzionali. Rispetto alle perplessità iniziali, molti nodi sembrano sciolti. Secondo quanto si legge nella nota odierna di Palazzo Chigi, nel testo definitivo (che sarà disponibile forse già da domani) il Governo recepisce tutte le condizioni poste dalle commissioni parlamentari nei loro pareri. Ossia, sarà eliminato il silenzio-diniego, ovvero l’automatico rigetto della domanda di accesso agli atti se l’amministrazione non risponde entro 30 giorni. Il rifiuto dovrà essere sempre motivato. La richiesta di documenti sarà gratuita (si paga solo la riproduzione sui supporti materiali), non dovrà per forza essere iper-precisa, di regola sarà inoltrata online e ogni amministrazione indicherà un desk telematico o un ufficio-sportello unico per evadere questo tipo di richieste. Il cittadino avrà un’altra via, aggiuntiva al Tar, per ricorrere in caso di diniego totale o parziale. Verrà creato un Osservatorio per monitorare l’attuazione del Foia. E sarà l’Autorità anticorruzione di Cantone a definire i casi in cui la pubblicazione integrale dei dati deve essere rimpiazzata (per semplificare e ridurre i costi) da "informazioni riassuntive". E soprattutto sarà l’Anac a stilare le linee guida con tutte le deroghe previste, "a tutela di interessi pubblici e privati". Punti deboli. Proprio le eccezioni al Foia - assieme alla mancata previsione di sanzioni per le amministrazioni che si rifiutano di rispondere al cittadino - rappresentano il punto più critico del decreto trasparenza. "Il bilancio è comunque positivo", ammette Federico Anghelè, campaigner di Riparte il futuro, l’organizzazione per le campagne digitali che in questi anni ha raccolto in totale 3 milioni di firme (l’ultima "SaiChiVoti" per chiedere ai candidati sindaci trasparenza sui nomi inseriti nelle liste in termini di curriculum, conflitti di interesse potenziali, situazione finanziaria, hanno aderito sin qui tra gli altri Meloni, Giachetti e Raggi a Roma). "È un enorme passo avanti, avremo finalmente in Italia un diritto di accesso generalizzato, un accesso civico come esiste in oltre 90 paesi nel mondo". Detto questo però, "le eccezioni così come previste ci sembrano davvero o troppo ambigue o troppo vaghe o troppo ampie". Interessi economici e commerciali. Saranno sempre preservati dalle richieste, sia quelli delle persone fisiche che giuridiche. In questa categoria sono ricompresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore, i segreti commerciali. Cosa significa in concreto? "Che non si può fare domanda per vedere i bandi degli appalti", spiega Anghelè. "Se il cittadino vuole capire come mai alla mensa dell’asilo si mangia così male, non riuscirà ad ottenere il contratto firmato dall’amministrazione con la ditta vincitrice dell’appalto". Indagini sui reati. Un’eccezione oltremodo ampia, "perché può essere importante sapere se il bar sotto casa è coinvolto in un’indagine in corso perché ad esempio non rispetta i parametri di igiene e sarebbe utile saperlo prima della chiusura dell’indagine". Politica e stabilità economica e finanziaria dello Stato. "Detto così può essere tutto. Ad esempio, anche la richiesta al ministero dell’Economia di conoscere quanti sono realmente i titoli derivati acquistati dallo Stato italiano". Richiesta realmente avvenuta, racconta ancora Anghelè. Com’è andata a finire? "Dati negati, ricorso al Tar del Lazio che ha stabilito il non diritto di avere l’informazione". Cosa cambierà ora? "Nulla, a meno che questa eccezione non sia definita meglio". Anche chiedere informazioni o documenti sulle quattro banche fallite, ad esempio, a Bankitalia e Consob sarà impossibile. Così come avere accesso a tutti i dati a disposizione delle Authority. Libertà e segretezza della corrispondenza. Tutelate dalla Costituzione, ma quando è importante conoscere il contenuto di certa posta? "A livello internazionale è successo con Hillary Clinton e le informazioni segrete sull’attacco al consolato Usa di Bengasi in Libia che lei aveva fatto transitare nella sua casella di posta elettronica privata. I giornalisti americani hanno invocato il Foia e le hanno divulgate". Da noi invece tutto ciò che ricade nella sfera della sicurezza nazionale e dei segreti di Stato sarà ben difficilmente accessibile. Anche il capitolo di deroghe relativo alle "relazioni internazionali" sembra assai ampio. Anac e società civile. "Quello che chiediamo ora al governo - dice Anghelè - è di poterci sedere al tavolo con Anac per stendere le linee guida, rivedere le eccezioni, numerose e poco circostanziate. La società civile è stata protagonista sin qui, come non mai. Perché isolarla ora?". Una campagna per lo Stato di Diritto di Elisabetta Zamparutti (Nessuno Tocchi Caino) L’Unità, 17 maggio 2016 Di fronte alla violenza dell’estremismo, sembra che i Governi vogliano collettivamente rispondere dichiarando uno stato d’emergenza globale e sono pronti a sopprimere o sospendere i diritti - principalmente quelli degli altri! - considerandoli d’impaccio o un lusso che non ci si può permettere in tempi di "guerra al terrorismo". Una visione diversa è emersa la settimana scorsa a Ginevra nell’incontro dal titolo "SOS Stato di Diritto" che si è tenuto al Palais des Nations, promosso dal Partito Radicale e dalla missione italiana, con il suo Ambasciatore Maurizio Serra. Le risposte oggi prevalenti rischiano di intrappolarci in un mortifero ciclo infinito di azione-reazione. Albert Einstein diceva che "non possiamo risolvere i problemi con lo stesso modo di pensare con culli abbiamo creati". Il continuo impegno delle Nazioni Unite nell’affermazione dello Stato di Diritto e dei Diritti Umani rappresenta quel diverso modo di pensare che, se praticato, ci permetterebbe di risolvere molti dei problemi che abbiamo contribuito a creare. Le Nazioni Unite ci ricordano che ogni "stato d’emergenza" deve essere un’estensione dello Stato di Diritto, non la sua abrogazione, che non vi è dicotomia tra sicurezza e diritti umani ma complementarietà e reciproco rafforzamento. Il rafforzamento dello Stato di Diritto deve essere una componente essenziale di ogni risposta alle minacce dell’estremismo violento", ha recentemente affermato il Segretario Generale dell’Onu nel suo Piano d’Azione per prevenire l’estremismo. Ben Ki-moon, ad esempio, spiega che tra "i fattori che spingono i detenuti a cercare protezione unendosi a gruppi terroristici e violenti" vi sono, tra l’altro "le condizioni disumane di detenzione, di trattamento, l’isolamento" e che per prevenire il diffondersi di ideologie estremiste tra detenuti è necessaria un trattamento "conforme al diritto internazionale". Un approccio radicalmente diverso rispetto al preoccupante crescente ricorso all’isolamento nelle carceri europee, in Francia, Belgio ed Olanda, ma non solo. Dobbiamo abbandonare lo schema azione-reazione che ci sta incastrando, essere visionari anziché reazionari, perché le violazioni dei diritti umani e il mancato rispetto dello Stato di Diritto sono chiaramente conduttori di estremismo violento. Esiste un flusso costante di trattati, rapporti, risoluzioni e raccomandazioni sullo Stato di Diritto e i Diritti Umani promossi e adottati dalle organizzazioni internazionali, eppure tutto ciò resta poco conosciuto e, spesso, manca di traduzione nell’ordinamento interno del singoli Stati. Un esempio per tutti: l’Italia che ha ratificato ventotto anni fa la Convenzione contro la tortura ma non ha ancora introdotto il reato. Ai numerosi delegati di vari Paesi presenti all’evento di Ginevra è stato presentato il "Comitato Globale per lo Stato di Diritto", coordinato da Matteo Angioli e dall’Ambasciatore Giulio Maria Terzi e costituito proprio per trovare e indicare soluzioni creative con cui affrontare le sfide del nostro tempo. Una proposta è quella di affermare a livello Onu il Diritto alla Conoscenza come nuovo diritto umano, che è cosa ben diversa dal Diritto alla Verità e dal Diritto all’Informazione. È la differenza che passa tra i tempi dei verbi passato, presente e futuro. Il Diritto alla Verità è rivolto al passato, alle vittime di ingiustizie a cui offrire il dono della memoria e, se possibile, una giusta riparazione. Il Diritto all’Informazione è fondamentale per il presente, per il pieno esercizio della libertà di espressione, di opinione e di controllo dell’operato dell’autorità pubblica nel momento in cui le cose accadono. Il Diritto alla Conoscenza riguarda soprattutto il futuro, la formazione delle alternative possibili nei processi decisionali che devono essere dibattuti apertamente con le opzioni e le alternative politiche a confronto per meglio orientare le scelte politiche e prevenire decisioni sbagliate. L’iniziativa "Iraq libero" lanciata da Marco Pannella come alternativa alla guerra in Iraq è il miglior esempio per spiegare cosa intendiamo per Diritto alla Conoscenza, come pure è perfetta quell’assonanza francese tra connaissance (conoscenza) e co-naissance (conascita) che ricorda sempre Marco per spiegare la forza creativa propria del dialogo, del nuovo che possiamo, appunto, far nascere insieme. La sua proposta di esilio per Saddam e di amministrazione transitoria dell’Onu, se fosse stata dibattuta pubblicamente, avrebbe potuto evitare la decisione disastrosa di intervento militare presa nelle segrete stanze di Washington e Londra, le cui conseguenze paghiamo ancora oggi. Un rene per sopravvivere: i rifugiati nelle mani dei trafficanti di organi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 maggio 2016 Siria. La denuncia di medici e media indipendenti: tra i 18-20mila profughi costretti a vendere i propri organi per qualche migliaio di euro. Ma il mondo parla di soluzioni politiche che non esistono. A Yasser un rene lo hanno preso al Cairo. In cambio ha avuto 3mila dollari, briciole per sopravvivere nella fuga dalla Siria in guerra. Era scappato poco prima da Homs, per ritrovarsi senza soldi in Egitto: "Non avevo denaro, non riuscivo a trovare un lavoro. La mia sola scelta era vendere il rene sinistro. La peggiore decisione della mia vita". A raccogliere la storia di Yasser è il Syrian Independent Media Group (Simg), ombrello di agenzie indipendenti che raccontano la guerra civile siriana e i suoi effetti: le morti in mare, i bambini schiavi, le donne abusate. E il traffico di organi, un fenomeno che si diffonde pericolosamente sia in Siria che nei paesi di arrivo dei rifugiati. I profughi, disperati, vendono cornee e reni. Dietro stanno reti criminali che operano localmente per trasferire gli organi nel più vasto mercato mondiale. Difficile dare numeri certi. Hussein Nofal, capo del dipartimento di medicina forense all’Università di Damasco, ci prova: 18-20mila siriani hanno venduto un organo negli ultimi quattro anni. La maggior parte di loro vive nei campi profughi in Libano e Turchia, nelle zone siriane di confine e nelle province di Aleppo e Idlib, dove il territorio è controllato dai gruppi islamisti. I prezzi, aggiunge Nofal, variano: se il rene viene venduto in Turchia, si riescono ad ottenere anche 10mila dollari; in Iraq non più di mille. A volte è la capitale siriana il centro di smistamento: a Damasco non è raro trovare sui muri poster che invitano a donare organi per curare malati in fin di vita, riporta il Simg. La migliore delle coperture per il mercato nero, difficilmente tracciabile dalle autorità perché per la legge siriana la donazione di organi è del tutto legale. Succede, però, che i trafficanti vengano individuati: circa venti denunce sono finite davanti alle corti di Damasco negli ultimi anni, casi mai visti prima della guerra civile. Ancora peggiore è la situazione dove non esiste più un’autorità riconosciuta, dove lo Stato si è eclissato: "Un dermatologo mi ha chiesto di vendere gli organi dei prigionieri pro-governativi a Idlib - racconta il dottor, Awran (il nome è inventato) - Diceva che tanto sarebbero stati comunque giustiziati". Il denaro ricavato dalla vendita, aggiunge il medico, sarebbero serviti all’acquisto di equipaggiamento medico e al sostegno dei gruppi armati di opposizione: "La zona in cui lavoravo era controllata dallo Stato Islamico. Lì ho visto molti cadaveri a cui mancavano gli organi interni, soprattutto il fegato e il rene sinistro. Una volta ne ho visto uno a cui mancava la vescica". L’ennesimo dramma nel dramma: un popolo costretto alla diaspora, sfruttato da trafficanti di uomini e relegato nell’oblio dai governi occidentali. L’assenza di risorse per l’accoglienza e l’astrattezza di una soluzione politica che non sia schiava degli interessi esterni mettono i rifugiati all’angolo, obbligandoli a rischiare la vita e la dignità per sopravvivere alla miseria. Eppure in Europa, dove le potenze internazionali si incontrano per discutere la questione siriana, non si parla della vita quotidiana dei rifugiati. Il negoziato di Ginevra, in teoria, dovrebbe ripartire dopo il 20 maggio ma le precondizioni continuano a pesare sul dialogo. Per smussarle oggi a Vienna si incontreranno i 17 paesi dell’International Syria Support Group. Capitanati da Stati Uniti e Russia, i governi europei, quelli del Golfo, la Turchia, l’Iran e la Cina sono chiamati a gettare le basi per cessate il fuoco più ampi e stabili e quindi per la discussione sulla transizione politica. Gli ostacoli restano gli stessi - il futuro del presidente Assad e le opposizioni legittimate a prendere parte al negoziato - così come rimane uguale l’approccio occidentale alla conferenza di pace: dentro i salafiti di Ahrar al-Sham, alleati militari di al Qaeda, e fuori i kurdi di Rojava, di nuovo esclusi dal tavolo di Ginevra. Libia. Sì alle armi per il governo di Tripoli. E l’Italia addestrerà le loro truppe di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 17 maggio 2016 Le decisioni prese alla conferenza di Vienna presieduta da Kerry e Gentiloni. Armi, ancora armi alla Libia, che è un Paese già straripante di missili, mitra, bombe, munizioni di ogni tipo e calibro saccheggiati nel 2011 dagli arsenali del Colonnello Gheddafi e poi comunque importati dagli attori regionali interessati a difendere le milizie loro alleate. Che sia una buona idea è ancora tutto da provare. Chi assicura non cadranno ancora una volta nelle mani sbagliate? Non è chiaro. Ma certo ci credono gli Stati Uniti, l’Italia e molti dei Paesi occidentali che ora sostengono il nuovo governo di accordo nazionale, il cui premier Fayez al Serraj si è insediato a Tripoli tra infinite difficoltà dallo scorso 30 marzo. A Vienna padroni di casa ieri sono stati il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Per circa due ore assieme a Serraj hanno messo a punto gli ultimi dettagli del nuovo piano che vorrebbe porre fine al caos e rafforzare il nuovo governo di unità nazionale a Tripoli. Quindi l’annuncio: nessuno è disposto a inviare in modo stabile e continuato le proprie truppe in Libia, ma sono in via di definizione i meccanismi che permetteranno di sospendere o modificare le sanzioni Onu, in modo da poter sostenere militarmente il nuovo esecutivo. "Abbiamo bisogno del vostro aiuto per affrontare l’Isis. Per noi si tratta di una sfida vitale. Speriamo nella vostra assistenza nell’addestramento ed equipaggiamento delle nostre truppe", ha dichiarato ai giornalisti Serraj. "Nell’immediato futuro presenteremo la lista delle nostre richieste". "Siamo pronti a rispondere positivamente alle richieste del legittimo governo libico. Combattere l’Isis è anche tra le priorità dei nostri interessi nazionali e lo faremmo in ogni caso", ha risposto Kerry. Molto simili i toni di Gentiloni, il quale ha ribadito che l’Italia sarà "attenta" ai bisogni espressi da Serraj. "Abbiamo detto che siamo pronti a rispondere a richieste del governo libico sull’addestramento delle loro forze - ha confermato il titolare della Farnesina. Se ce lo chiederanno siamo pronti a collaborare. Sono i libici che devono essere in prima linea per combattere il terrorismo e i trafficanti di esseri umani. Loro non vogliono interventi stranieri, vogliono assumersi questa responsabilità". A questo fine Italia, Stati Uniti, larga parte del Consiglio di sicurezza i 15 Paesi che partecipano ai colloqui si muoveranno per facilitare una soluzione Onu che sblocchi l’embargo e garantisca gli aiuti militari necessari. In questo senso va anche l’intenzione di avviare il dialogo con il generale Khalifa Haftar, uomo forte del governo di Tobruk, che grazie all’aiuto di Egitto ed Emirati Arabi Uniti negli ultimi tempi sta rilanciando in modo indipendente l’offensiva contro l’Isis. Se le milizie di Misurata infatti stanno perdendo terreno, da Bengasi per contro i miliziani sono avanzati alcune decine di chilometri verso Sirte. "Haftar potrebbe rivelarsi un alleato importante nella guerra contro il terrorismo. Ma occorre che prima riconosca l’autorità del governo di Serraj", dice Gentiloni. L’Italia dunque non si tira indietro. Bensì intende rilanciare il governo Serraj. Se la situazione dovesse migliorare sul terreno, non è neppure esclusa una riapertura delle sedi diplomatiche europee a Tripoli nel medio periodo. "Noi, come del resto americani, tedeschi inglesi o francesi non intendiamo inviare le nostre truppe a garantire le eventuali istituzioni Onu che dovessero aprire nel Paese", ha chiarito Gentiloni. "Stiamo però valutando in assonanza con i maggiori partner europei di riaprire la nostra ambasciata e i nostri soldati ci serviranno per garantirne la sicurezza". Quando? "Dipende dalla situazione sul terreno. Potrebbe accadere già nei prossimi mesi". Libia. "Sconfiggeremo l’Isis da soli. Senza navi né truppe straniere" di Fayez Serraj (Traduzione di Rita Baldassarre) Corriere della Sera, 17 maggio 2016 Il premier di Tripoli: il modo per scoraggiare gli scafisti è assicurarsi che la Libia sia sicura. "Dopo oltre un anno di trattative, abbiamo un governo legittimo, riconosciuto". La Libia sta uscendo da un lungo periodo di crisi. Dopo oltre un anno di trattative, oggi abbiamo ristabilito un governo legittimo, riconosciuto dalla comunità internazionale, e fondato sul rispetto degli accordi politici della Libia (LPA) siglati il 17 dicembre del 2015. Siamo tornati sul sentiero giusto e abbiamo imboccato la giusta direzione. Abbiamo reinsediato il governo e ricomposto le nostre istituzioni disgregate, dall’Azienda nazionale del petrolio alla banca centrale libica e all’autorità libica per gli investimenti. Stiamo lavorando per risolvere la crisi monetaria e per reimmettere liquidità nel nostro sistema bancario, in modo da alleviare le difficoltà che gravano sui nostri concittadini. La Libia oggi ha un governo che ha ripreso in mano la situazione. Abbiamo un programma ben definito che mette al primo posto le questioni della sicurezza, della riconciliazione nazionale, della ripresa economica e dello sviluppo, oltre a giustizia sociale, riforme istituzionali e cooperazione internazionale. La Libia ha disperatamente bisogno di una nuova rete di servizi pubblici fondamentali, e il nostro primo compito sarà quello di farli ripartire. A cominciare dalla sicurezza, allo scopo di salvaguardare l’unità e la sovranità della Libia. Sarà questo il caposaldo di ogni progresso politico ed economico. Abbiamo varato la ristrutturazione delle nostre forze armate, con la creazione della guardia presidenziale, indispensabile per assicurare il funzionamento del governo e delle istituzioni vitali. Abbiamo stabilito una sede operativa speciale situata tra Misurata e Sirte, che a breve sarà seguita da un quartier generale per coordinare tutti gli interventi. Saranno queste le prime pietre che seppelliranno i nostri nemici comuni, i terroristi. E come i nostri partner avranno modo di scoprire a Vienna, la comunità internazionale oggi può contare su un alleato affidabile, riconosciuto e sostenuto da tutto il popolo libico, pronto a riprendere gli scambi commerciali con il resto del mondo. Tuttavia, sia la Libia che la comunità internazionale dovranno adottare un approccio realistico alla situazione odierna. Ci vorrà parecchio tempo per risollevarsi dalle lotte e dalle divisioni. Non dimentichiamo che la comunità internazionale ha responsabilità ben precise nei confronti della Libia. Dopo il 2011, il mio paese è stato abbandonato. Ciò ha consentito a molti paesi di intervenire nei nostri affari interni e di trascinarci dove oggi ci troviamo. Come libici, però, anche noi dobbiamo intraprendere una seria autocritica e adottare una nuova condotta. Anziché comportarsi con senso di responsabilità, la nostra classe politica si è lasciata travolgere dalle beghe interne, portando il paese allo sfacelo. Dai primi passi esitanti verso la democrazia, avviati nel 2011, siamo ripiombati nella violenza e nel disordine di oggi dopo la frammentazione dell’unità nazionale. L’Isis non è il nostro nemico principale, bensì le divisioni che dilaniano il nostro paese. Questi ultimi cinque anni di guerra cruenta ci insegnano che quando i libici non riescono a lavorare uniti, coloro che vogliono distruggere il nostro paese si aprono con la forza una strada verso il potere. L’unità nazionale è l’arma più efficace contro questi seminatori di odio e di violenza. Il terrorismo sarà sconfitto dalle nostre forze armate, sotto il comando del governo civile, non per mezzo di milizie rivali che si combattono per contendersi la supremazia politica. Vorrei ricordare ai nostri amici che sarà il popolo libico a sconfiggere l’Isis, senza nessun intervento militare straniero. Non chiediamo l’invio di truppe di terra, bensì sostegno e assistenza tramite l’addestramento e la revoca dell’embargo per l’invio di armi in Libia. Non ha senso limitare i nostri sforzi quando ci accingiamo ad affrontare lo scontro finale contro un nemico spietato ma vulnerabile. Chiedo pertanto la revoca immediata delle sanzioni delle Nazioni Unite, che hanno congelato i depositi libici all’estero. Oggi abbiamo urgente bisogno di queste risorse per sconfiggere il terrorismo. Capisco perfettamente che molti paesi europei sono fortemente preoccupati per le conseguenze dell’immigrazione e del traffico illegale di esseri umani dalla Libia, e noi faremo di tutto per metter fine a queste irregolarità. Ma il modo migliore per scoraggiare gli scafisti è assicurarsi che la Libia sia un paese stabile e sicuro, a cui le riforme economiche sapranno restituire prosperità e benessere. È questa l’unica soluzione possibile sul lungo periodo, non l’invio di navi e truppe straniere. Egitto: la farsa della giustizia egiziana, 152 condannati in 10 minuti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 maggio 2016 Ai manifestanti del 25 aprile dai 2 ai 5 anni di prigione. In galera anche i presunti assassini del francese Lang, ma la corte non spiega le torture. Approvato ieri il disegno dei legge sui media. Quando vuole il regime egiziano è rapidissimo: alla magistratura del Cairo sono bastati 10 minuti per chiudere i processi contro 152 indagati di violazione della legge anti-terrorismo. Processi di massa senza rispetto per gli standard di equità contro chi è sceso in piazza contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Dei 1.277 arrestati dal 15 al 25 aprile, spesso preventivamente, 152 sono stati condannati domenica alla prigione: 51 a due anni, 101 a cinque. Tutti dovranno pagare una multa di 100mila sterline egiziane (10mila euro). I dubbi delle associazioni per i diritti umani sono più che legittimi. Gli dà voce il National Council for Human Rights (Nchr), agenzia statale: i giudici hanno emesso i verdetti troppo velocemente per un processo equo. "Ad un singolo giudice sono stati assegnati i casi delle proteste a Dokki e Agouza - spiega Ragia Omran del Nchr - Non ha avuto neanche il tempo di controllare prove e difese. 50 avvocati hanno parlato davanti alla corte per sei ore e presentato oltre 60 documenti, ma il giudice ha deliberato in soli 10 minuti. Non penso che abbia avuto modo di assorbire tutte le informazioni. È umanamente impossibile". Insomma, aggiunge Omran, l’impressione è che "la decisione fosse già stata presa". Resta in sospeso la pena per altri 400 manifestanti, mentre veniva condannata a 6 mesi la giovane attivista Sana Seif (sorella di Alaa Abdel-Fattah e Mona Seif) per insulti alla magistratura. Sempre domenica è stato prolungato di 15 giorni l’ordine di detenzione dei giornalisti Badr e al-Saqqa, arrestati il 1° maggio nel raid della polizia nel sindacato della stampa e accusati dal ministro degli Esteri di voler assassinare il presidente. Resta prevista per oggi l’assemblea generale della stampa che potrebbe discutere del disegno di legge sui media approvato ieri dal governo: 230 articoli che danno vita a due nuove autorità (i cui membri saranno scelti congiuntamente da presidente, parlamento e sindacato) e cancellano le sentenze di condanna legate al lavoro giornalistico (tra cui, in teoria, quelle contro lo scrittore Ahmed Naji e il membro del sindacato Mohammed Ali Hassan). Un modo per mettere una pezza alla crisi con la stampa? Si vedrà. Di certo quella legge non è stata discussa con il sindacato. Ormai la follia repressiva del regime di al-Sisi supera qualsiasi barriera, di buon senso o timore per le reazioni internazionali: ogni critica è punita con una surreale severità. La stessa severità non si riscontra fuori: venerdì Il Cairo ha ottenuto dagli Usa l’acquisto di missili per sottomarini dal valore di 143 milioni di euro. Una strategia nello stile parigino con Hollande che il mese scorso ha siglato con l’Egitto 10 memorandum di intesa e 30 accordi commerciali. In quell’occasione il caso di Eric Lang, cittadino francese morto per le botte ricevute in una stazione di polizia nel 2013, non ha avuto spazio. E se per le proteste interne in 10 minuti si sforna una sentenza, per Lang ci sono voluti tre anni. E la convinzione che giustizia non sia stata fatta: domenica sei persone sono state condannate a 7 anni per la morte dell’insegnante francese. Si tratta dei detenuti con cui condivideva la cella e che lo avrebbero picchiato per un litigio - dice il procuratore - sulla luce accesa. Il caso è tornato sulle pagine dei giornali dopo l’assassinio di Giulio Regeni. Se per tre anni la magistratura egiziana era ferma al palo, in poche settimane ha scovato i colpevoli, gli stessi accusati sommariamente nel 2013 e poi lasciati liberi. Nessuna spiegazione sui segni di torture trovati sul corpo di Lang. Al-Sisi balla da solo: è accusatore, giudice e boia, padrone di un sistema di poteri paralleli ma interconnessi che nelle mani dell’ex generale si realizzano. In tale contesto di controllo pervasivo, paranoia e repressione istituzionalizzata, anche una lunga serie di incendi scalda il clima. A dare voce alle "teorie complottiste" della gente è il quotidiano governativo al-Ahram: c’è chi dice che dietro gli incendi che colpiscono da settimane hotel, negozi e case ci sia un governo intenzionato a nascondere (letteralmente) sotto la cenere la questione Tiran e Sanafir. Gli ultimi incendi si sono verificati nel villaggio di Damietta (il fuoco da una fattoria si è allargato agli edifici vicini) e in una scuola di Sharqeya. Prima era toccato al quartier generale del governatorato del Cairo ad Abdeen e al mercato popolare di al-Attaba: 3 morti, 91 feriti, 236 negozi danneggiati. Qui a al-Attaba la rabbia di artigiani e piccoli commercianti è esplosa. I media, dicono, non dicono la verità: dietro c’è la mano di un incendiario, qualcuno - lo Stato - interessato ad allontanare i piccoli venditori dal centro del Cairo o a far spegnere l’attenzione sulle proteste anti-governative. Pakistan: nell’ospedale italiano dove curano le donne sfigurate dall’acido di Valeria Mazza Corriere della Sera, 17 maggio 2016 Era mezzanotte nel villaggio di Rahim Yar Khan, nel sud del Punjab. Samreen, 21 anni, era a letto con i suoi tre figli. S’è svegliata di soprassalto, il tempo di vedere il marito avvicinarsi con una bottiglia in mano. Non può raccontare quello che è successo dopo. Le ustioni causate dall’acido che lui le ha versato sul petto e sul viso non le permettono di parlare con chiarezza. Grazie al quarto intervento in tre mesi, però, può almeno girare il collo e guardarti in faccia. "Si era sposata a 16 anni per volere di nostra madre, ma voleva una vita diversa per i suoi figli, voleva mandarli a scuola. Il marito era disoccupato. Le proibiva tutto, anche di uscire di casa. Ha tentato di ucciderla per togliersi ogni responsabilità", dice la sorella Rubina, in piedi al suo capezzale. Una lacrima scivola sui lineamenti sfigurati, Samreen chiede come stanno i suoi bambini. Il più piccolo, di due anni, è morto per le ferite. Lei non lo sa. "È in cura", mente la dottoressa per proteggerla. Samreen viene curata grazie all’Italia. La incontriamo all’Ospedale Nishtar di Multan. "Moderno centro per le ustioni pachistano-italiano", c’è scritto sul cartello azzurro più del cielo sulla facciata di mattoni rossi. Sotto, a caratteri più piccoli: "Centro di trattamento per le ustioni da acido". Multan è diventata famosa in Occidente perché qui ha studiato in una madrassa l’attentatrice di San Bernardino e perché nel 2012 vi fu rapito dai qaedisti il cooperante Giovanni Lo Porto. Gli abitanti continuano ad essere orgogliosi della loro città per il gran numero di santuari sufi, per le calzature khussa, la poesia bilu e l’antica città murata che il Politecnico di Milano sta restaurando. Il dottor Naheed Ahmed, chirurgo plastico 48enne dalla lunga barba che dirige questo centro ustioni, vede le cose da un altro punto di vista: Multan e con essa il sud del Punjab sono il luogo in cui si concentra la maggior parte degli attacchi con l’acido che avvengono in Pakistan. E la missione della sua vita è cambiare le cose. Nel 2001, Ahmed fondò un centro per le ustioni in uno scantinato senza strumenti né fondi. Nel 2005, il governo del Punjab cominciò finanziarlo, ma i soldi finirono presto. Nel 2009, è nato il Progetto della Cooperazione italo-pachistana, che lo ha co-finanziato al 51%, con quattro milioni di euro: è una di 45 iniziative di un programma di 70 milioni di euro nato con l’Accordo intergovernativo per la conversione del debito nei riguardi dell’Italia. Il dottore ci guida tra le sale che ospiteranno 72 posti letto e nel reparto di terapia intensiva che verrà inaugurato a giugno. La Ong italiana Smile Again dovrebbe pensare al training dei medici. Il dottor Ahmed è un mix di conservatorismo e modernità. Da una parte, sostiene che l’influenza occidentale e hindu sia responsabile di certi "mali" della società. "Fidanzarsi al di fuori delle nozze è normale per cristiani e hindu, ma da noi non lo era. È per questo che adesso vediamo uomini che gettano l’acido in faccia alle donne che non vogliono sposarli e viceversa". Dall’altra parte, ha affidato ruoli moderni alle donne. Ci presenta Razia Samad, 27 anni, e Arooj Khan, 25, le sue più giovani chirurghe plastiche: "Avere donne medico è importante in questa società conservatrice. Altrimenti, le vittime non denunciano gli attacchi, non vogliono mostrarsi a noi uomini". Razia ha due sorelle laureate in medicina ma hanno smesso di lavorare dopo il matrimonio. "Non penso a sposarmi per ora. Non è la mia priorità", dice la ragazza sistemandosi il camice bianco sul tradizionale shalwar kameez colorato. Secondo la Commissione per i diritti umani del Pakistan, gli attacchi con l’acido denunciati ogni anno in tutto il Paese sono tra i 150 e i 400. Solo a Multan ne vengono dichiarati una settantina, ma la maggior parte delle ustioni (400 - 500) sono presentate come incidenti domestici (è possibile che, in parte, lo siano visto che gas ed elettricità vengono erogati senza sicurezza). A volte sono le donne a usare l’acido contro gli uomini, ci spiega il dottore. In ogni caso, è una forma di vendetta che si è diffusa accanto a quella "tradizionale" di tagliare il naso o le orecchie ai nemici nelle faide. La legge del 2011 - che prevede fino a 14 anni di carcere - ha aumentato la consapevolezza ma, secondo lui, ha anche contribuito a pubblicizzarlo. "I casi sono aumentati infatti. Sono convinto che si debba educare la gente non solo sull’acido ma sui diritti. Ma in questa società feudale i latifondisti non vogliono che i braccianti siano istruiti. Lo so perché anch’io ero un ragazzo di villaggio. Se oggi sono un chirurgo, è solo grazie a Dio". Nel letto accanto a quello di Samreen, c’è una vedova di 35 anni: Naureen, madre di tre figli. Le ustioni sul suo volto sono recenti: è stato un pretendente, "un poco di buono, un drogato", racconta con un filo di voce. Mentre lei aspettava l’autobus per Lahore, lui si è avvicinato, le ha chiesto di sposarlo. Era l’ennesimo rifiuto, le ha gettato in faccia dell’acido. "Adesso rimarrai qui per sempre", mi ha detto. Samreen e Naureen hanno denunciato i responsabili, ma non sanno quanto resteranno in prigione. E difficile seguire l’esito del processo, e gli stessi interventi chirurgici, benché gratuiti, richiedono continui viaggi dal villaggio: molti sospendono il trattamento perché non riescono a pagare i trasporti. E anche perché - spiega il dottore - "pensano che quello che è accaduto sia la volontà di Dio". L’ospedale tenterà in futuro anche di offrire assistenza legale ed economica. Nella stanza entra un ragazzo, gli è stata mozzata la punta del naso. Subito si copre il volto per vergogna, e Samreen ride. "Lo trova ridicolo - spiega la dottoressa Razia - perché il suo naso può essere ricostruito, mentre il viso di queste donne no. Ma io sogno di restituire loro la bellezza. Inshallah, un giorno forse sarà possibile. Grazie alle nuove tecnologie". Belgio: dipendenti delle carceri in sciopero, detenuti senza cure mediche e visite familiari di Frank Iodice blastingnews.com, 17 maggio 2016 La situazione delle carceri belghe sembra creare un precedente senza paragoni in una Europa civile come quella che vuole disegnare Bruxelles. Da quindici giorni il personale carcerario belga è in sciopero. Nel frattempo, i detenuti non ricevono cure mediche, né le visite dei familiari a causa della mancanza di personale di sorveglianza e degli inservienti. Da tempo in Belgio ci si è posti il problema del sovraffollamento delle celle e dell’inadeguatezza del personale. Cosimo Agostino, delegato del sindacato Csgp e guardia carceraria a Forest, dice in un’intervista alla Rtbf che "c’è un sovraccarico di lavoro e (che) il personale non è formato". Nel frattempo si attendono gli esiti delle proteste contro la costruzione del nuovo mega carcere ad Haren, a nord di Bruxelles, una struttura mastodontica con la capienza di più di 1100 detenuti su una superficie di 18 ettari, che dovrebbe risolvere il problema del sovraffollamento. Le dieci associazioni che si sono opposte a questo progetto si sono espresse in questi termini: "Da quando abbiamo sentito parlare del progetto per il mega carcere, abbiamo continuato a chiedere spiegazioni ai funzionari eletti, ma non abbiamo mai ricevuto risposte chiare. Vogliamo preservare il carattere semi-rurale di Haren e il mega carcere lo impedisce". E hanno aggiunto: "Abbiamo accettato già molte infrastrutture (Nato, Ring, Sncb, Infrabel) che costringono un territorio che il nuovo piano generale di Bruxelles esplicitamente intende mantenere aperto". Le proteste fanno riferimento allo sfruttamento del territorio e al benessere dei cittadini che si vedrebbero affogati dall’ennesimo "mostro di cemento". Il mega carcere, pertanto, non risolverebbe il problema del sovraffollamento delle attuali strutture, ma ne provocherebbe di nuovi. Altro problema per il Belgio, su cui si sono sollevate non poche questioni, è la presenza sempre maggiore di jihadisti nelle carceri di tutto il Paese. Gran Bretagna: squadre speciali anti-sommossa nelle carceri per sedare maxi-risse Il Dubbio, 17 maggio 2016 La situazione sempre più problematica nelle carceri del Regno Unito è stata affrontata da un rapporto del comitato parlamentare sulla giustizia, che nei giorni scorsi ha ricevuto in audizione i responsabili delle prigioni di Inghilterra e Galles. Secondo i racconti riferiti ai deputati, contenuti nel rapporto e riportati ieri dal Guardian, le squadre speciali anti-sommossa devono intervenire ormai a cadenza quasi quotidiana per fronteggiare sommosse, tumulti, maxi-risse, tentativi di omicidio e di suicidio, in una situazione che pare essere sempre più incandescente anche per il sovraffollamento. Il ministro della Giustizia, Michael Gove, ha promesso un piano di riforma delle carceri, ma secondo il comitato servono interventi immediati e che non possono attendere i tempi della politica. Fra Inghilterra e Galles si contano oltre 85mila carcerati. Alcuni numeri sono allarmanti: nel 2015 si sono registrati 100 suicidi e almeno duemila principi di incendio causati dagli stessi detenuti. Il comitato ha anche sottolineato il problema, mai diminuito, della droga fra le sbarre.