Carceri, love rooms: arriva lo spazio per gli affetti anche in Italia? Adnkronos, 16 maggio 2016 Potrebbe finalmente essere la volta buona dopo decenni di tentennamenti e proposte a vuoto: a breve le carceri italiane potrebbero essere dotate di "spazi per la cura degli affetti", tradotte giornalisticamente come "love rooms", e mettere la parola fine alla "pena accessoria di fatto" della negazione della sessualità dei detenuti. Lo spunto è contenuto nel ddl che delega il governo a effettuare "modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena", in questo momento in discussione nella commissione Giustizia del Senato. All’art. 31 del provvedimento in esame, e che "se tutto va bene - dice all’Adnkronos il relatore, Felice Casson, ex magistrato e ben conscio delle condizioni carcerarie per la sua lunga esperienza di inquirente - potrebbe essere approvato in aula prima della pausa estiva" è la lettera "n" ad aprire la strada alle love rooms. Il governo viene delegato alla "previsione di norme che considerino i diritti e i bisogni sociali, culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi specifici delle persone detenute". "Anche in questo campo - dice Casson - siamo molto arretrati rispetto al resto d’Europa. E non da poco tempo: già negli anni 80, dunque nel dopo Franco, andai per interrogatori nelle carceri spagnole di massima sicurezza, e lì venni a conoscenza di luoghi dedicati ai rapporti affettivi dei detenuti. In altri paesi questa è una condizione in atto da molti anni, e consentire la cura dei rapporti affettivi è fondamentale nell’ambito della pena come rieducazione, in piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione". Una negazione, quella della vita sessuale e affettiva del detenuto, sia esso uomo o donna, che viene dalla notte dei tempi ma che nella storia recente della civile Europa appartiene sempre di più al passato. "Sui 47 Stati del Consiglio d’Europa sono ad oggi 31 quelli che, sotto varie forme che a volta cambiano anche all’interno dello stesso paese - dice Mauro Palma, recente presidente del collegio del Garante del detenuto - autorizzano le visite affettive ai detenuti": cioè la possibilità di avere spazi e tempi fuori dall’onnipresente controllo carcerario, per ottenere l’intimità negata dalle condizioni ristrette. Una lista piuttosto lunga, che comprende i paesi da noi considerati di altra e inarrivabile civiltà come quelli del nord Europa: Olanda, Danimarca, Germania, Belgio, Francia; ma anche quelli che più ci somigliano come Spagna e Portogallo. "Senza contare tutti quelli dell’Est, che tradizionalmente - dice Palma - consentono le visite affettive, seppure in condizioni che proprio romantiche non sono. Le condizioni migliori che ho visto - prosegue Palma, che a lungo è stato presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, e di carceri ne ha visitate parecchie - prevedono anche un luogo per bambini e la possibilità di passare un intero weekend all’interno del carcere; le situazioni peggiori, comunque sempre meglio di niente, sono quelle in cui la stanza è squallida e la relazione in quelle condizioni non è certo una favola d’amore. Love rooms esistono anche nelle carceri di massima sicurezza, dove le condizioni prevedono, dopo l’intimità, l’ispezione completa al detenuto". Di questo argomento si è trattato anche nei recenti Stati generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una due giorni all’interno del carcere romano di Rebibbia, unanimemente riconosciuto come uno dei meno afflittivi istituti di detenzione italiani e comunque ancora sprovvisto di spazi per l’intimità, con una discussione nel sesto tavolo tematico, coordinato dall’ex deputata e segretaria radicale Rita Bernardini, in cui si è discusso di "mondo degli affetti e territorializzazione della pena" e della necessità di prevedere "modifiche normative volte ad introdurre il nuovo istituto giuridico della "visita", che si distingue dal "colloquio", già previsto dalla normativa, poiché garantisce al detenuto incontri privi del controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza". Ecco, è tutto qui: spazi resi intimi grazie all’assenza del controllo audiovisivo del sistema carcerario come fino a oggi l’Italia ha conosciuto. "Quando nel 2000 si tentò di inserire nel regolamento queste visite - testimonia Palma - il Consiglio di Stato, e giustamente, disse no. Chiedendo però nello stesso momento delle modifiche alla normativa vigente, che non lo consente. È solo una legge, ed è anche banale ricordarlo, a poterne modificare un’altra, non un regolamento". L’opposizione al principio delle visite, sintetizza il Garante, "parte da un principio tutto sommato logico, quello che recita ‘potremmo potenziare i permessì. Questa logica però ha tre controindicazioni, di cui una sostanziale. La prima è che i permessi sono dei premi, e non possiamo considerare le funzioni fisiologiche come dei premi; la seconda è che i permessi possono essere dati solo a chi sconta condanne definitive e quindi vengono esclusi i detenuti in custodia cautelare, che può anche essere lunga; poi c’è la controindicazione più oggettiva, cioè che per alcuni reati c’è l’ostatività a concedere permessi, quindi una quota di popolazione carceraria ne verrebbe esclusa". La chiave, ripete diverse volte Palma, è considerare la vita sessuale come parte integrante dell’esistenza umana, mentre nel nostro Paese un malinteso senso morale tende a spingerla ai margini, lontano dall’ovvietà quotidiana che riguarda tutti gli uomini e le donne. La necessità c’è, "anche per rendere meno esplosiva la vita del carcere", gli esempi non mancano: quello che manca è dunque la norma e la convinzione della sua quasi banale ordinarietà. "Credo quindi che il problema vero sia costruire questi spazi e questi tempi - chiosa Palma - con un sistema di rigoroso rispetto, sia di chi in carcere lavora per non farlo diventare ‘ gestore di situazioni improprie, e sia delle modalità con posti dove coltivare una relazione affettiva che siano rispettosi, non dimentichiamolo, anche del partner libero". E per chi è single? "Si usano le stesse attenzioni usate per i colloqui - risponde Palma: la richiesta di colloquio può essere fatta da chiunque, il detenuto deve solo dire che è d’accordo, e l’amministrazione autorizza dopo un minimo di accertamento in cui peraltro i precedenti del richiedente non sono significativi". Insomma, la coscienza dell’ordinamento appare essere matura per questa riforma, la norma manca ma si stima ancora per poco, il tempo delle love rooms sembra essere venuto. "Noi, come ufficio del Garante non possiamo fare proposte -conclude Palma-; ma dopo la delega devono essere scritti i decreti delegati e l’idea degli Stati generali era quella di fornire idee a chi dovrà scriverli. In questo caso potremmo dare opinioni, ma non scrivere le norme, e siamo pronti a dare tutto il supporto per questo". Entro l’estate i detenuti potrebbero cominciare a vivere la propria sessualità di Augusto Parboni Il Tempo, 16 maggio 2016 Anche le donne e gli uomini rinchiusi nei penitenziari italiani potrebbero incontrarsi con i partner negli "spazi per la cura degli affetti". Tradotto, "love rooms", dove poter trascorrere qualche ora senza telecamere che inquadrano ogni movimento e ascoltano ogni parola. Questi locali potrebbero addirittura essere creati nelle carceri di massima sicurezza. Dopo oltre 30 anni di proposte andate a vuoto, adesso la possibilità che tutto ciò si possa realizzare è contenuta in un ddl che delega il governo a effettuare "modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché l’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena", in questo momento in discussione nella commissione Giustizia del Senato. L’Italia risulta ancora tra i pochi Paesi europei a non aver stabilito norme al riguardo. Su 47 nazioni dell’Ue, infatti, 31 hanno già modificato le leggi per permettere ai detenuti di avere incontri durante la detenzione. Addirittura in alcuni Paesi il partner può trascorrere anche un week end interno nel penitenziario. L’intimità di un detenuto potrebbe dunque non essere più negata. Anzi. Potrebbe diventare un elemento per aiutare la rieducazione nei penitenziari. Ecco alcune delle nazioni dove già esistono le "love rooms": Olanda, Danimarca, Germania, Belgio, Francia, Spagna e Portogallo. Poi ci sono anche alcuni Paesi dell’Est, ma qui le stanze non sarebbero proprio "romantiche". "Anche in questo campo - ha affermato il relatore, Felice Casson, ex magistrato e ben conscio delle condizioni carcerarie per la sua lunga esperienza di inquirente - siamo molto arretrati rispetto al resto d’Europa. E non da poco tempo: già negli anni 80, dunque nel dopo Franco, andai per interrogatori nelle carceri spagnole di massima sicurezza, e lì venni a conoscenza di luoghi dedicati ai rapporti affettivi dei detenuti. In altri paesi questa è una condizione in atto da molti anni, e consentire la cura dei rapporti affettivi è fondamentale nell’ambito della pena come rieducazione, in piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione". "Quando nel 2000 si tentò di inserire nel regolamento queste visite - ha detto Mauro Palma, attuale Garante per i detenuti - il Consiglio di Stato, e giustamente, disse no. Chiedendo però nello stesso momento delle modifiche alla normativa vigente, che non lo consente. È solo una legge, ed è anche banale ricordarlo, a poterne modificare un’altra, non un regolamento". E ancora: "La chiave - ripete diverse volte Palma - è considerare la vita sessuale come parte integrante dell’esistenza umana, mentre nel nostro paese un malinteso senso morale tende a spingerla ai margini, lontano dall’ovvietà quotidiana che riguarda tutti gli uomini e le donne". E i single? "Si usano le stesse attenzioni usate per i colloqui - spiega Palma - la richiesta di colloquio può essere fatta da chiunque, il detenuto deve solo dire che è d’accordo, e l’amministrazione autorizza dopo un accertamento in cui peraltro i precedenti del richiedente non sono significativi". L’ex Garante dei detenuti Angiolo Marroni: "la sessualità non è peccato" di Augusto Parboni Il Tempo, 16 maggio 2016 Non crede che si riescano ad aprire le "love rooms", ma lo spera da anni. Angiolo Marroni, ex Garante dei detenuti, da sempre è favorevole agli incontri intimi tra chi sta scontando una pena in carcere e il partner. Perché non crede che si possano realizzare? "In Italia ci sono ancora troppi pregiudizi sulle questioni sessuali. L’argomento viene ancora visto come peccaminoso, il sesso è considerato una cosa sporca, di cui non si deve neanche parlare con i bambini". Secondo lei il Vaticano ha influito fino ad oggi su queste scelte? "Sì, penso che abbia influito in questi anni, ma allo stesso tempo vedo come si sta comportando l’attuale Pontefice, ha una mentalità molto aperta, spero che questa questione sia risolta il prima possibile". Cosa comporta la privazione della sessualità nei penitenziari? "Nella maggior parte dei casi distrugge le famiglie perché quando manca il sesso per 10/15 anni il rapporto quasi sempre si distrugge. Sono pochissimi i casi in cui si attende che il compagno esca dal carcere per riprendere il rapporto". Ha mai visto una "love rooms? "Sì in Spagna. Un detenuto che conoscevo ha concepito il figlio proprio in un carcere spagnolo, prima di essere poi trasferito in un penitenziario italiano". Come funzionano? "È uno spazio dove due persone possono avere comodamente rapporti sessuali. Sono gli stessi istituti penitenziari a consegnare, ad esempio, preservativi e carta igienica". Quale può essere la frequenza degli incontri? "Una volta a settimana e gli incontri durano un’ora". Quali sono le carceri dove, secondo lei, potrebbe essere più fattibile la creazione di questi spazi? "Sicuramente quelle che si trovano del Lazio, poiché sono le più vivibili d’Italia e soprattutto perché le direzioni sono spesso al femminile, hanno mentalità molto più aperte". Ma se il detenuto si trova in una città diversa rispetto a quella dove si trova la sua famiglia, quale può essere la soluzione? "Basta applicare la legge" Si spieghi meglio. "Esiste già la territorialità per i detenuti, che dovrebbero poter scontare la pena nelle carceri che si trovano vicine alle famiglie. Conosco una donna che ha il marito detenuto ad Asti e lei vive a Lecce. È una famiglia che non ha possibilità economiche, quindi più di una volta ogni sei mesi non può permettersi di andare a trovare il marito. La legge c’è, bisognerebbe quindi soltanto applicarla". Il sindacalista della Polizia penitenziaria Donato Capece: "faremo le barricate" di Silvia Mancinelli Il Tempo, 16 maggio 2016 "Ci metteremo di traverso per evitare che questo provvedimento diventi realtà, siamo disposti a manifestare a oltranza. Non vogliamo passare per guardoni di Stato!". Daniele Capece, segretario generale del Sappe, non ci sta e promette una fiera opposizione alle stanze del sesso in carcere. Perché questa netta presa di posizione? "Gli istituti penitenziari non sono postriboli. Gli stessi detenuti, quando per la prima volta si parlò di sex room, si dissero contrari: le loro compagne dovrebbero entrare dopo aver passato i controlli sfilando di fatto davanti agli altri col rischio di passare per quello che non sono". Ma non crede sia un diritto, anche per chi è recluso in carcere, intrattenere un rapporto intimo con il proprio partner? "Per quello esistono i permessi premio, durante i quali è possibile vivere la propria affettività come meglio si crede. Ma poi chi non ha una fidanzata cosa fa, chiede una prostituta? Chi li controlla questi? Il detenuto si chiude lì dentro da un minimo di 12 a un massimo di 24 ore e non c’è nessuno che possa verificare cosa realmente accada tra quelle mura". Il problema, quindi, è più lavoro per gli agenti della penitenziaria? "Non tanto quello, quanto piuttosto il fatto che ad oggi manca la cultura per realizzare l’idea. Alla fine tutto, a partire dall’originale principio dell’affettività che ha ispirato la proposta, si traduce nel fare sesso e basta. Qui siamo fuori da ogni logica". In che senso? "Chi commette un reato in Italia si ritrova con un lavoro retribuito, con la cassa integrazione e ora anche con il sesso in carcere. Si rischia di far passare l’idea che convenga delinquere". Il carcere non è abbastanza duro? "La pena non consiste solo nella privazione della libertà, ma anche in tutto quello che ne consegue. Dietro le sbarre li facciamo lavorare, mangiare, bere, dormire, li curiamo. Ogni detenuto costa 170 euro al giorno. Insomma, se uno commette un reato dovrà capire che non gli conviene rientrare in carcere?". Può accadere, tuttavia, che reprimere gli istinti sessuali e l’affettività possa rivelarsi dannoso. Non crede? "Mantenere i rapporti con la famiglia, con i figli è un conto. Ma da qui a dire che affettività è uguale a sesso, no. Non ci siamo. La pena deve essere più educativa, severa. Quando ci si dimentica dei reati che hanno commesso le persone recluse, ci si dimentica anche delle loro vittime. Non tutti hanno diritto a una seconda opportunità. Gli stessi "sex offender" ci chiedono spesso aiuto, consapevoli che se rimessi in libertà tornerebbero a far del male. Per loro due sono le scelte: castrazione chimica o carcere a vita. Quelli che ammazzano o picchiano le donne che diritto hanno all’affettività?". Quindi c’è qualcuno tra i detenuti che potrebbe aver diritto alla sex room? "No, possono già godere dei permessi premio". Legnini: "la Severino legge da rivedere". Nel mirino la decadenza dopo il primo grado di Luca Rocca Il Tempo, 16 maggio 2016 Nel corso di un forum sulla giustizia organizzato dal Mattino di Napoli, infatti, Legnini, dicendosi d’accordo con il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone che aveva definito quella norma "buona ma perfettibile", ha affermato: "La decadenza dopo la sentenza di primo grado è una scelta non sufficientemente meditata, da cambiare". E così la legge voluta nel 2012 dal ministro del governo Monti Paola Severino torna a far parlare di sé, così come già aveva fatto nei mesi precedenti, quando in ballo c’era la sospensione di politici "eccellenti" condannati non in via definitiva. In quelle occasioni, però, la norma ha dimostrato la sua debolezza, se è vero che alcuni amministratori sono stati spazzati via per un sentenza non ancora passata in giudicato, e altri si sono "salvati" con ricorsi e controricorsi. Nella seconda categoria rientra, ad esempio, l’ex sindaco di Salerno e attuale governatore della Campania Vincenzo De Luca. Nel gennaio del 2015, infatti, De Luca, in quel momento candidato alle primarie del Pd per la presidenza della Regione, viene condannato in primo grado per abuso d’ufficio. L’inchiesta è quella sulla nomina di un project manager per il progetto di un termovalorizzatore. Pochi giorni dopo giunge il decreto di sospensione, subito cassato dal Tar che accoglie il primo ricorso del sindaco. Di nuovo primo cittadino, De Luca, che già mesi prima aveva definito la Severino "un’autentica oscenità" da cancellare, torna a criticarla: "Se la possono impacchettare con il fiocco e la carta argentata e metterla in frigo". E, a chi gli fa notare che candidarsi alla presidenza della Regione con quella spada di Damocle sulla testa è troppo rischioso, replica: "A me non fa né caldo né freddo che ci sia la legge Severino. Quando interviene, un minuto dopo interviene il Tar che mi reinsedia nei poteri gli eletti". Ed è lo stesso De Luca a parlare di "scandalosa legge ad personam", per il semplice fatto che gli amministratori decadono dopo una sentenza di primo grado, mentre lo stesso effetto per deputati, senatori e ministri si ha solo con una condanna definitiva (come per Silvio Berlusconi). Quando nel maggio del 2015 il MoVimento 5 Stelle ricorre ancora al Tar per sancire l’incandidabilità di De Luca, in corsa come governatore, i giudici amministrativi rigettano il ricorso. Intanto la Cassazione stabilisce che a pronunciarsi sulla questione sarà, d’ora in poi, il giudice ordinario, mentre De Luca, ormai eletto presidente della Campania, torna a puntare il dito contro la norma parlando di "aborto di diritto" e invitando il Parlamento a modificarla. Poche settimane dopo, però, arriva la seconda sospensione, stavolta dalla carica di governatore. Ma il 2 luglio 2015 il Tribunale di Napoli accoglie ancora un suo ricorso e lo rimette in sella. Si passa, così, di ricorso in ricorso, fino a che a mettere la parola fine alla vicenda ci pensa, il 5 febbraio 2016, la sentenza di assoluzione in appello che taglia la testa a toro e "salva" definitivamente il governatore. Percorso perfettamente parallelo è quello seguito da una seconda inchiesta, quella sul sindaco di Napoli Luigi De Magistris, condannato a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio in relazione all’inchiesta Why Not da lui condotta nelle vesti di pm. Anche in questo secondo caso, fra un ricorso e l’altro presentato dal primo cittadino per non perdere la poltrona, a risolvere definitivamente l’inghippo giunge l’assoluzione in appello. Ma mentre De Luca e De Magistris la fanno franca, non va così a molti consiglieri regionali e sindaci, e nemmeno all’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, che nel 2014 subisce una condanna in primo grado a sei anni per abuso d’ufficio e falso e si dimette prima che la sua decadenza venga formalizzata. Corruzione. Il 12% delle tangenti confessate va ai giudici di Davide Maria De Luca Libero, 16 maggio 2016 Secondo Piercamillo Davigo, il nuovo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, la corruzione in Italia non è mai stata elevata come oggi: "I politici non hanno smesso di rubare, hanno solo smesso di vergognarsi". La stragrande maggioranza degli italiani sembra essere d’accordo con lui. Secondo un sondaggio realizzato da Ixè, l’88 per cento degli italiani ritiene che la corruzione sia aumentata nel corso degli ultimi vent’ anni: dai tempi di Tangentopoli, il malcostume non avrebbe fatto altro che raggiungere livelli sempre più alti. C’è anche chi pensa di conoscere la cifra esatta di quanto è costa la corruzione al nostro Paese: 60 miliardi l’anno, una cifra che di recente hanno ripetuto sia Marco Travaglio che il procuratore Roberto Scarpinato - anche se, a dire il vero, non si capisce mai se questi 60 miliardi sono il valore di tutte le tangenti pagate in un anno o il costo "indiretto" della corruzione. A volte il quadro dipinto sul malaffare italiano è così fosco che viene da chiedersi se il nostro Paese non si sia fatto prendere da una specie di "paranoia della corruzione". Secondo l’enciclopedia Treccani, Tangentopoli, "più che da uno scambio individuale tra corrotto e corruttore", era caratterizzata da: "Sistemi di corruzione allargata, con scambi molteplici, complessi e sistematici, tra cartelli di imprese private, clan di uomini politici e amministratori pubblici, intermediari e, talvolta, boss mafiosi". Per quanto anche oggi ci imbattiamo quasi ogni settimana in nuovo caso giudiziario, è davvero difficile sostenere che ci troviamo di fronte a sistemi di "corruzione allargata" con "scambi molteplici, complessi e sistematici". Nelle inchieste che hanno coinvolto sindaci nelle ultime settimane, quelli di Lodi, Livorno e Parma, per il momento non si parla nemmeno di un euro di tangenti. Gli scandali di corruzione vera e propria, dove sono coinvolte cifre importanti, sono più rari. Tra i più discussi degli ultimi anni ci sono quello di Expo e l’inchiesta "Mafia Capitale", in cui funzionari pubblici hanno ricevuto diverse centinaia di migliaia di euro di tangenti, forse intorno al milione, per favorire la vincita di appalti a società e cooperative - in entrambi i casi parliamo di affare per un valore di milioni, per Expo probabilmente intorno ai 200, anche se sono numeri al momento molto incerti. Quasi in un unico caso negli ultimi dieci anni si è verificata una corruzione di grandezza superiore: il Mose di Venezia, un’opera da più di 5 miliardi per la quale sono stati pagati probabilmente più di 20 milioni di tangenti nel corso di circa un decennio. Sono tutti casi spiacevoli e da condannare, sui quali c’è da sperare che la giustizia riesca ad agire rapidamente in modo da scoraggiare ulteriore malaffare. Ma sono anche storie che impallidiscono di fronte a quello che venne scoperto all’inizio degli anni Novanta, quando a personaggi di primo piano nel governo vennero sequestrate quelli che oggi sarebbero decine e decine di milioni di euro ottenuti in maniera fraudolenta. Un caso per tutti: la cosiddetta "maxi tangente Enimont", pagata a numerosi politici da un’importante società chimica, ammontò secondo i magistrati a più di 150 milioni di euro di oggi: una cifra che ridimensiona quasi tutti gli scandali degli ultimi 20 anni. E si tratta soltanto di uno dei numerosi casi di corruzione scoperti nel periodo di tangentopoli. A segnalare che le cose sono cambiate, e in meglio probabilmente, c’è anche una misurazione indiretta, quella del costo delle opere pubbliche. All’epoca di Tangentopoli fece scandalo il fatto che la metropolitana di Milano fu costruita pagando un prezzo al chilometro tra le due e le quattro volte superiore a quello che si pagava nel resto d’Europa. Negli ultimi dieci anni, le metro di Roma e Milano sono costate come la media europea, o poco più. Un esame dei singoli casi, insomma, sembra smentire la tesi di Davigo che non è supportata nemmeno da dati più scientifici. I "60 miliardi di corruzione", di cui si sente spesso parlare, non sono altro che una cifra, letteralmente, inventata. E per quanto riguarda le classifiche internazionali sulla corruzione? Si sente spesso parlare della Ong anti-corruzione Transparency International, che ha assegnato all’Italia il 66esimo posto mondiale nella sua classifica della "percezione della corruzione", il livello più basso in Europa. Ma questa classifica, come dice il nome stesso: "percezione della corruzione", deve essere presa con estrema cautela perché non si basa su dati concreti o su misurazioni statistiche, ma soltanto su un semplice questionario che viene inviato a un pool di "esperti" - giornalisti, dirigenti, operatori di Ong. I risultati ottenuti con questo complesso questionario sono stati spesso criticali anche da importanti riviste internazionali. Ma in questi studi piuttosto discutibili si trovano anche delle informazioni interessanti. Oltre ai questionari, infatti, Transparency Intemational realizza anche dei sondaggi di opinione - non analisi complesse e soggettive, ma semplici risposte "sì" o "no" ad alcune domande. Ad esempio, nel 2013 Transparency International ha chiesto agli intervistati se avevano mai dovuto pagare una tangente per ottenere un servizio pubblico. Il risultato è sorprendente: con il 5 per cento di persone che hanno risposto di sì, l’Italia è uno dei paesi più in basso nella classifica, al livello di Germania e Paesi scandinavi e molto sotto la Svizzera, in cui il 9 per cento degli intervistati ha detto di aver pagato almeno una tangente. Sono numeri confermati anche da una delle più importanti indagini statistiche sulle opinioni degli europei: l’Eurobarometro realizzato dalla Commissione Europea. Alla domanda "Conosci qualcuno che ha preso tangenti?", nel 2013 soltanto i19 per cento degli italiani ha risposto "sì". In questa classifica fanno meglio di noi soltanto Irlanda, Malta e Regno Unito. Più in basso ci sono Paesi come Austria, Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca. Risultati non molto diversi anche alla domanda "Negli ultimi 12 mesi ti è capitato o hai assistito a un caso di corruzione?": soltanto il 6 per cento degli italiani ha risposto di sì, lo stesso numero dei francesi, più basso di quanti hanno risposto "sì" in Austria, Belgio e Paesi Bassi. È possibile che gli italiani siano più reticenti a rispondere in maniera onesta a questa domanda, ma il quadro che emerge da questi sondaggi non è certo quello del "Paese più corrotto d’Europa". Ma la sorpresa più grande che emerge da questi sondaggi, e più amara per Davigo, è quella contenuta in un’altra domanda del sondaggio realizzato nel 2013 da Transparency International. Al 5 per cento di italiani che, come abbiamo visto prima, ha ammesso di aver pagato bustarelle, l’Ong ha chiesto anche a quale organo della pubblica amministrazione abbiano versato una tangente, lasciando una scelta tra numerosi settori, come quello sanitario, fiscale, educativo e così via. Il vincitore di questa piccola classifica, con il 12 per cento di rispondenti che dichiarano di aver pagato una bustarella, è proprio quello giudiziario. Anche nel giudizio camerale valido il legittimo impedimento del difensore di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 11 marzo 2016 n. 10157. Il legittimo impedimento del difensore assume rilevanza anche nei procedimenti in camera di consiglio e, in particolare, nel giudizio camerale di appello ex articolo 599 del Cppdopo il rito abbreviato svolto in primo grado. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 10157 dell’11 marzo 2016. Un nuovo orientamento - La Cassazione ritiene di adottare, superando un diverso, pur maggioritario orientamento giurisprudenziale (validato anche dalle sezioni Unite: sentenza 8 aprile 1998, Cerroni), una interpretazione "costituzionalmente orientata" del combinato disposto degli articoli 127, comma 3, 443, comma 4, e 599 del Cppin forza della quale deve attribuirsi rilievo al legittimo impedimento del difensore anche nei procedimenti in camera di consiglio. Secondo la Corte, l’interpretazione patrocinata esclude alcun dubbio di costituzionalità della disciplina normativa, se intesa in senso opposto, risultando pienamente conforme al dettato degli articoli 24e 111 della Costituzione. Ragioni di ordine logico-sistematico - Tale interpretazione, si sostiene, è imposta anche da ragioni di ordine logico-sistematico. In particolare, la formulazione dell’articolo 127, comma 3, del Cpp, secondo cui i difensori sono sentiti "se compaiono", non preclude certamente, ma anzi favorisce, l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore è facoltativa, ma il difensore ha comunque il diritto di comparire: cosicché, ove il difensore non compaia, senza addurre alcun legittimo impedimento, il procedimento ha senz’altro corso, senza che la mancata comparizione del difensore determini l’obbligo di provvedere ex articolo 97, comma 4, del Cpp, né alcuna altra conseguenza processuale; per converso, ove invece il difensore rappresenti tempestivamente il proprio impedimento a comparire e documenti un legittimo impedimento, a sostegno della richiesta di rinvio, il giudice è tenuto, in presenza di tutte le condizioni di legge, a disporre in tal senso. Conforto ulteriore la Corte di legittimità lo trae anche dalla disciplina dell’udienza preliminare, laddove l’articolo 420, comma 1, del Cpp prevede, pur essendosi in presenza di procedimento camerale, la partecipazione necessaria del difensore dell’imputato, tanto da ammettere rilievo, ai sensi del comma 5 dell’articolo 420-ter del Cpp, al legittimo impedimento del difensore: se la partecipazione del difensore è considerata di rilievo indefettibile in relazione a una fase processuale nella quale l’oggetto della decisione consiste esclusivamente nello stabilire la fondatezza o no della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, preordinata soltanto a un eventuale rinvio a giudizio dell’imputato e quindi a una decisione in rito, secondo il ragionamento della Cassazione non può non considerarsi un’aporia che, quando l’oggetto della decisione sia costituito dal merito della regiudicanda, l’udienza possa svolgersi senza la partecipazione del difensore di fiducia, quando questi rappresenti un proprio assoluto legittimo impedimento. Sussiste lo stalking anche se le molestie non sono commesse in un luogo pubblico di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 24 marzo 2016 n. 12528. Il reato di stalking si configura anche se le molestie non sono commesse in un luogo pubblico. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 12528 depositata dalla quinta sezione penale il 24 marzo 2016. La differenza tra le due fattispecie incriminatrici - Le condotte di molestia rilevanti ai sensi dell’articolo 612-bis del Cp, stante la diversità tra tale fattispecie incriminatrice e quella di cui all’articolo 660 del Cp, non devono essere necessariamente commesse in luogo pubblico, aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, come previsto dal tenore letterale dell’articolo 660 del Cp. A supporto la Corte ha evidenziato che la fattispecie delle molestie si pone come del tutto distinta, autonoma e concorrente rispetto al reato di atti persecutori, da cui non viene assorbita per la diversità dei beni giuridici tutelati e per la diversa struttura del reato. Sotto il primo profilo, si rimarca che, mentre nella contravvenzione sono tutelati la quiete privata e l’ordine pubblico, nel delitto il bene protetto è quello della libertà individuale. Sotto l’altro profilo, quello strutturale, si sottolinea che le due fattispecie pur potendo avere un nucleo strutturale comune, costituito, nel caso, dalla condotta molesta, si differenziano perché nel delitto di atti persecutori tale condotta si deve inserire in una sequenza idonea a produrre uno degli eventi di danno tipizzati dalla norma incriminatrice (alterazione delle proprie abitudini di vita; perdurante e grave stato di ansia o di paura; fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva), eventualmente affiancandosi anche ad altre tipologie di condotte minacciose o lesive. Ciò che, secondo la Corte, spiega come nella contravvenzione di cui all’articolo 660 del Cp, la rilevanza dell’ordine pubblico quale bene da tutelare rende necessario che le molestie siano commesse in un luogo pubblico o aperto al pubblico, oltre che con il mezzo del telefono, mentre la tutela apprestata dall’articolo 612-bis del Cpalla libertà individuale prescinde e non si estende ad alcuna dimensione pubblicistica, per cui dalla sfera di operatività del reato esula del tutto la tutela dell’ordine pubblico, con la conseguente irrilevanza dell’essere le condotte moleste, nel caso di cui all’articolo 612-bis del Cp, commesse o no in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Il caso esaminato - Da queste premesse, la Cassazione, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha annullato con rinvio la sentenza che aveva mandato assolto l’imputato dal reato di atti persecutori sostenendo erroneamente che le plurime condotte moleste addebitate all’imputato (invio di messaggi epistolari e per posta elettronica) per assumere rilievo a titolo di stalking avrebbero dovuto essere necessariamente commesse in luogo pubblico o aperto al pubblico o con il mezzo del telefono, come preteso dal paradigma normativo della fattispecie contravvenzionale di cui all’articolo 660 del Cp. Massa: il ministro Orlando in visita al carcere "l’arte è inclusione" di Melania Carnevali Il Tirreno, 16 maggio 2016 È stata presentata nella Casa circondariale apuana la rassegna artistica che coinvolgerà tutti i detenuti di Italia. Dare all’arte un’altra funzione: quella di essere il cordone ombelicale alla realtà. Lei che invece è sempre servita per evadere da quella realtà, dai suoi connotati materialisti e pragmatici. No, per una volta l’arte servirà per appigliarsi alla vita. È questo l’obiettivo principale di "Arte dal carcere: verso il futuro", una rassegna di arti visive per detenuti promossa dal tribunale di Massa, in collaborazione con la casa di reclusione apuana, l’associazione Amici del museo Ugo Guidi Onlus e l’associazione Aics solidarietà di Massa Carrara, e che riguarderà tutti i carceri italiani. Il progetto è stato elaborato da Enrica Frediani e presentato ieri nel carcere di Massa alla presenza del ministro alla Giustizia, Andrea Orlando. Ma non solo: dal procuratore capo, Aldo Giubilaro, al sindaco di Massa, Alessandro Volpi, per arrivare al vescovo, monsignor Giovanni Santucci, erano presenti tutte le autorità civili, militari e religioso. Perché in fondo è da qui, da Massa, che parte un progetto pilota che punta tutto alla cultura come mezzo di inclusione sociale. Perché, come ha detto il vescovo, "non si possono abbassare le mura del carcere, ma si possono alzare le gambe dei carcerati". E l’obiettivo di questa rassegna, come ha spiegato la presidentessa del tribunale di Massa, Maria Cristina Failla, è proprio questo: allungare le gambe dei detenuti, permetter loro di avere occhi sul mondo durante la loro detenzione. "Serve - commenta una Failla emozionata - per creare un mondo parallelo, che sia davvero il collegamento tra il dentro e il fuori, dal momento che queste persone fuori ci torneranno. Abbiamo pensato che il linguaggio dell’arte fosse quello giusto". In cosa consiste questa rassegna? In sostanza vengono invitati tutti i detenuti di Italia a creare opere d’arte. Queste poi verranno inviate a una commissione tecnica formata da esperti e presieduta da Donatella Failla, direttrice del Museo d’arte orientale Edoardo Chiossone di Genova e professoressa di storia dell’arte dell’Asia orientale, sempre a Genova. La commissione valuterà i lavori dei detenuti (a titolo gratuito) che poi saranno esposti nel tribunale di Massa. "È anche un modo - continua la presidentessa del tribunale - di abbellire i nostri corridoi bianchi e spogli". L’iniziativa prevede una collaborazione con Poste italiane a cui è stato richiesto uno speciale annullo filatetico celebrativo della rassegna. La vignetta verrà disegnata da uno dei detenuti scelto dalla commissione esaminatrice. Un progetto salutato con favore dallo stesso ministro alla Giustizia. "Abbiamo avviato un progetto - commenta davanti ai detenuti Orlando - per ripensare il carcere, soprattutto l’organizzazione del tempo all’interno del carcere. Vogliamo abbattere quel modello che tende alla passività, a lasciare il detenuto a far niente tutto il giorno. Crediamo che il tempo debba essere impiegato per la futura reintegrazione nella società. E questa rassegna è un esempio". E poi il monito agli enti locali. "Devono avere più coraggio di fronte a possibili polemiche - incalza - e lanciare progetti di impiego dei detenuti nella realizzazione di opere pubbliche. A Milano - continua - lo hanno fatto con Expo ed è stato interessante, sia per i detenuti, sia per la società che beneficia del loro lavoro". L’inaugurazione della rassegna, con la selezione delle opere selezionate, avverrà il 6 novembre, giornata che Papa Francesco ha dedicato alla Misericordia. Tolmezzo (Ud): il Garante dei detenuti Pino Roveredo promuove il carcere Il Messaggero Veneto, 16 maggio 2016 Il carcere di Tolmezzo è tra i migliori e più attivi per le iniziative formative dedicate alla rieducazione dei detenuti. Parola del garante con funzioni di garanzia per le persone private della libertà personale Pino Roveredo, che ha partecipato giovedì al pranzo galeotto "Anin a mangjâ denti" nel carcere carnico e osserva: "C’è un ordine che ti sorprende". Di questo carcere (che visitò per la prima volta tre anni fa, quando ancora non era di alta sicurezza) Roveredo sottolinea l’attività scolastica: "molte persone ci sono entrate se non analfabete, quasi. La scuola è uno stimolo essenziale per reggere la vita carceraria, ti dà l’ambizione, ti consente di riempire il tempo e sentirti rivalutato. Molti detenuti a Tolmezzo hanno conseguito il diploma o anche la laurea". Per chi ha di fronte a sé una prospettiva di fine pena si tratta di pensare anche a un reinserimento sociale e morale. In ogni caso è un piccolo riscatto ottenere un diploma, appassionarsi alla lettura, alla cultura. Per lui grande merito va riconosciuto alla direttrice del carcere, Silvia Della Branca: "ci mette - dice di lei - una grande attenzione e passione nel suo lavoro. Se questo carcere è diverso da altri, lo si deve anche a questa donna e al suo straordinario lavoro". Al pranzo con i detenuti cucinato da una parte di essi, dopo un corso di formazione professionale, c’erano autorità, magistrati di sorveglianza, personale educativo e polizia penitenziaria. Roveredo ha apprezzato molto il lavoro dei detenuti. "Descrivono il cibo, come lo hanno preparato e non si tratta di piatti banali, fanno le cose con cura, vedi - rileva - che sono emozionati: per loro è come un esame di scuola. E non ti chiedi cosa hanno fatto per essere lì". Roveredo ha condiviso coi detenuti il suo ultimo libro, "Mastica e sputa", parlando del tema dell’isolamento, ma anche della speranza. "In questo libro parlo molto del tempo - osserva - e per chi ha davanti l’ergastolo è il problema più profondo". Alghero: il carcere chiude? i sindacati di Polizia penitenziaria "ci diano subito risposte" di Gian Mario Sias La Nuova Sardegna, 16 maggio 2016 Uilpa, Sinappe, Osapp e Uspp scrivono al provveditore: è urgente un incontro Le segreterie dopo la paventata chiusura: così morirà anche il progetto pilota. Con una lettera rivolta al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano al capo del Dipartimento per l’attività penitenziaria e all’ufficio Relazione sindacali dello stesso dipartimento, Uilpa, Sinappe, Osapp e Uspp scendono in campo a difesa del carcere di Alghero. L’intera galassia sindacale del corpo di polizia penitenziaria manifesta le proprie preoccupazioni per le notizie apparse nelle scorse settimane sui giornali e per la presa di posizione del parlamentare Mauro Pili, il primo a denunciare il rischio che la casa di reclusione di via Vittorio Emanuele possa essere chiusa per lasciare il posto a un centro di accoglienza per i profughi. "L’amministrazione penitenziaria ha smentito le affermazioni di Pili, che però ha "smentito la smentita" dell’amministrazione e in seguito alla visita ispettiva compiuta da parlamentare ha raccolto e diffuso dei dati dai quali emerge una situazione a dir poco allarmante, che corrobora la tesi da lui sostenuta sulla chiusura dell’istituto", è la denuncia delle organizzazioni sindacali. "Stando alle informazioni, a fine anno ci dovremmo trovare a gestire 26 detenuti - proseguono i sindacati - e l’interrogazione parlamentare sull’esito della sua visita all’istituto non ha ancora trovato risposta". A quella del leader di Unidos ha fatto seguito anche l’interrogazione di Nicola Molteni della Lega. "La chiusura è stata nuovamente smentita nella riunione con i sindacati regionali", dicono le segreterie territoriali. "Ricordiamo che Alghero è sede di un progetto "pilota" che offre attività sperimentali, dall’offerta formativa dell’istituto alberghiero ai corsi universitari di diverse discipline". Ebbene, "dobbiamo evidenziare il decadimento del progetto, i macchinari professionali della tipografia sono stati "misteriosamente regalati" al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, e ora abbiamo appreso della volontà di "liberarsi" anche dei macchinari della falegnameria", prosegue la denuncia contenuta in un documento firmato dalle quattro organizzazioni sindacali. "Constatiamo infine che ad Alghero non stanno più arrivando detenuti aderenti al progetto pilota, se non in casi assai rari". I rappresentanti delle guardi carcerarie chiedono un incontro "per essere informati sulle intenzioni per la gestione dell’istituto di Alghero". Milano: detenuto 28enne tenta di impiccarsi in Tribunale, è salvo di Franco Vanni La Repubblica, 16 maggio 2016 L’uomo era in attesa del processo per direttissima per furto. Era stato arrestato con un connazionale mentre rubavano delle maglie in negozio in corso Buenos Aires. Un detenuto di 28 anni ha cercato di uccidersi nella camera di sicurezza del Tribunale di Milano, in attesa del processo per direttissima per furto. Il giovane ha cercato di impiccarsi utilizzando un maglione, ma l’intervento della polizia locale ha evitato il peggio. Il 28enne, marocchino incensurato, era stato arrestato in corso Buenos Aires e aveva poi passato la notte all’ufficio arresti della polizia locale in via Pietro Custodi. Assieme a un connazionale ventenne, era stato sorpreso a rubare alcune maglie in un negozio di abbigliamento. Quando gli agenti di polizia locale, giunti con l’arrestato in Tribunale, si sono accorti che l’uomo aveva legato un maglione alle sbarre e che stava usando una manica a mò di cappio, immediatamente sono entrati nella gabbia e lo hanno immobilizzato, per evitare il peggio. Sono stati gli stessi uomini della polizia locale a chiamare poi il 118, intervenuto con un’ambulanza e un’auto medica. Visitato sul posto, il 28enne è risultato essere sano. Tutti i parametri vitali sono risultati normali. Per questo, è stato condotto nell’aula delle direttissime assieme all’altro giovane arrestato con lui, per l’udienza di convalida dell’arresto. Gli agenti di polizia locale presenti al momento del tentativo di suicidio hanno riferito al comando di piazza Beccaria che si sarebbe trattato "di un gesto più che altro dimostrativo, dettato dalla frustrazione di essere stato colto sul fatto a rubare". Varese: tavola rotonda in carcere, giornalisti e detenuti a confronto varesenews.it, 16 maggio 2016 La tavola rotonda organizzata dalla Casa circondariale per creare un dialogo fra parti che finora non si erano mai incontrate. Un incontro positivo che non si ferma qui. Spesso, per i giornalisti, gli arrestati sono nomi, iniziali, a volte solo un’età e una nazionalità di qualche burocratico comunicato stampa. Spesso, per gli arrestati e le loro famiglie, quegli articoli sono verità che non si possono lasciare alle spalle neanche dopo aver scontato la pena. Sabato, nel carcere di Varese, giornalisti di cronaca nera e persone detenute si sono incontrati per confrontarsi proprio su questi temi: come nasce un articolo su un arresto o su altri reati cosiddetti "minori"? Fino a dove il diritto di cronaca non si scontra con i diritti di una persona arrestata? A confronto con Italo, Will, Antonio e Isamele, detenuti nella casa circondariale dei Miogni, i giornalisti che ogni giorno raccontano la provincia e la città di Varese: Simona Carnaghi della Provincia di Varese, Paolo Grosso della Prealpina, Roberto Rotondo di Varesenews e Monica Terzaghi di Telesettelaghi. Con loro Maria Mongiello, a capo dell’area educativa dell’istituto, Sergio Preite di Enaip, Magda Ferrari e Emanuela Giuliani volontarie nella redazione del giornale "7m2 news" per l’associazione Assistenti carcerati San Vittore Martire e la giornalista Ilaria Sesana come moderatrice. Con loro altre volontarie che in carcere si occupano della distribuzione di abbigliamento ai detenuti e delle funzioni religiose. Quello che è nato è stato un confronto schietto e onesto sul ruolo del giornalista chiamato a decidere come e se raccontare un fatto, sui rapporti all’interno di una redazione, sulle scelte dei dettagli da inserire o no in un articolo (è rilevante il nome dell’arrestato? e l’etnia?), sul diritto di rettifica. Un dialogo, preparato dai detenuti in circa tre mesi di lavoro, che si è rivelato utile per tutte e due le parti coinvolte. I giornalisti "di nera" - a cui raramente capita di raccontare i tanti progetti che le carceri (Varese inclusa) organizzano - hanno potuto conoscere anche un po’ della vita quotidiana dei detenuti. A Varese ci sono 65 persone, numero che consente una vita migliore rispetto al passato quando si dormiva in tre in una cella. Ma le condizioni della struttura, fatiscente e con pochi spazi, abbassano drasticamente la qualità di vita di questa comunità che vive alle porte del centro città. Struttura senza un futuro certo, in bilico fra la possibilità di essere chiusa definitivamente e le promesse di una ristrutturazione. Il pomeriggio si è concluso con una promessa reciproca: non lasciare che questa occasione di dialogo si chiuda con queste due ore, ma continuare il confronto e provare a mettere nero su bianco qualche "regola" utile a chi fa il lavoro di giornalista e fondamentale per chi, di quegli articoli, è "attore" principale. Varese: i giornalisti nel carcere "ecco che cosa mi hanno chiesto i carcerati" di Simona Carnaghi La Provincia, 16 maggio 2016 Un incontro faccia a faccia tra giornalisti e detenuti. Un faccia a faccia tra chi scrive e chi spesso è soggetto (talvolta purtroppo oggetto) di quegli stessi pezzi. Giornalisti, detenuti in un incontro che mette le une di fronte alle altre in realtà semplicemente otto persone. Per un confronto che, alla fine, si è rivelato estremamente utile per entrambe le parti. Un’altra visuale - Certo lo è stata per i giornalisti invitati alle 14 di ieri ai Miogni per un faccia a faccia arrivato al termine di un progetto che ha visto una parte della popolazione carceraria analizzare articoli di giornale relativi a fatti di cronaca nera e di cronaca giudiziaria sotto la lente di ingrandimento della Carta di Milano, adottata dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nel 2013 e che sul fronte deontologico pone dei precisi limiti ai quali i cronisti devono attenersi. Il faccia a faccia che ha visto presenti Paolo Grosso del quotidiano La Prealpina, Monica Terzaghi, direttore di Telesettelaghi, Roberto Rotondo, del quotidiano online Varesenews e corrispondente per Varese de Il Corriere della Sera, e della nostra Simona Carnaghi, e quattro detenuti che saranno per tutela della privacy indicati esclusivamente con nome di battesimo senza alcun cenno alla loro storia "giudiziaria" ovvero Italo, Antonio, Will e Ismael, ha visto Maria Mongello, responsabile dell’area educativa dei Miogni, sottolineare, nella presentazione, come "la Carta di Milano non tutela tutti i detenuti, ma si rivolge a chi ha già iniziato un percorso rieducativo e di reinserimento". Qui siamo all’inizio: siamo al momento dell’arresto. Che non è una sentenza di condanna e come tale non deve mai essere trattata. E sono stati Will, Italo, Antonio e Ismael a intervistare i quattro giornalisti sul come alcune decisioni vengano prese all’interno di un giornale, sul perché talvolta le notizie vengano "drogate" con l’utilizzo di termini roboanti, sul perché di alcuni arrestati vengono pubblicati i nomi e di altri no. E soprattutto se, nella redazione di un giornale, ci si ponga il problema, prima di scrivere un titolo o un pezzo di garantire la dignità dell’arrestato salvaguardando anche i familiari della persona di cui si sta scrivendo. Rilievi esatti, precisi, puntuali, mediati dalla giornalista Ilaria Sesana, da Sergio Preite dell’Enaip, di Emanuela Giuliani presidente dell’associazione assistenti carcerati San Vittore Martire e Magda Ferrari, volontaria nella redazione "9 metri quadri news", il quadrimestrale realizzato in seno al carcere dei Miogni dagli stessi detenuti. L’incontro ha di fatto sottolineato come raggiungere un equilibrio tra il diritto di cronaca e il diritto alla salvaguardia della dignità del detenuto può essere raggiunto. "9 metri quadri news" - Se è infatti vero che i quotidiani locali varesini di norma non pubblicano il nome e cognome di arrestati per reati ordinari e tutti si lavora per garantire massima tutela ai minori, quindi anche ai figli dei protagonisti dei fatti di cronaca, è altrettanto vero che talvolta i fatti vengono presentati con toni roboanti, quali blitz e assalto riferiti, come citato quale esempio concreto da Italo, ad una rapina in un supermercato del valore di 700 euro. Lo stesso vale per la verifica delle notizia: un giornalista lo fa cercando sempre di chiudere il cerchio. Scegliendo fonti qualificate che, non sempre però, anzi quasi mai, vogliono "dare la notizia", mentre il cronista, e in questo l’online ha ulteriormente pigiato il piede sull’acceleratore, ha un lasso di tempo molto, molto stringato per poter consegnare un pezzo. E vi è l’obbligo per il giornalista di dare la notizia. Un confronto che ha portato, alla fine, ad una proposta concreta. Una proposta concreta - Se la Carta di Milano non tutela la tipologia di detenuti ai Miogni, l’idea è quella di creare una mini Carta di Varese, mettendo i quattro cronisti che ieri hanno preso parte alla tavola rotonda e i detenuti a discutere in cerca di quel famoso equilibrio tra cronaca e tutela della dignità del detenuto di cui si parlava prima. La proposta ha raccolto soltanto consensi e sul tavolo ci sono già quattro punti da sviluppare affinché possano essere inseriti nella Carta di Varese. Il primo riguarda l’opportunità della pubblicazione di nomi e cognomi degli arrestati. Il secondo riguarda un più consapevole e corretto utilizzo della terminologia da parte del cronista. Quindi c’è la questione rettifica: molti detenuti hanno visto raccontate un modo inesatto le loro storie, oppure si sono visti assolvere senza che sui giornali comparisse una riga. Infine il punto forse più delicato ed attuale: la possibilità di contestualizzare il quadro sociale entro il quale avviene l’arresto. Molto spesso, infatti, un arresto per furto nasconde non un criminale ma tanta fame. Nasconde un contesto di disagio, di difficoltà, non un incallito criminale. L’idea è quella di confrontarsi continuando il percorso iniziando ieri pomeriggio. E il prossimo numero di 9 metri quadri news sarà monografico su questo faccia a faccia: con in pagina impressioni di detenuti e giornalisti. Bollate (Mi): "InGalera", il ristorante della prigione più stellata d’Italia di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 16 maggio 2016 A Bollate, alle porte di Milano, da fine ottobre è stato inaugurato il primo e unico ristorante realizzato in un carcere (in Galles, a Cardiff, c’è The Clink), aperto al pubblico, in cui lavorano nove detenuti, seguiti da uno chef e un maître professionisti. Stasera andiamo a cena "InGalera". Sì, nel ristorante della prigione più stellata d’Italia, quella di Bollate. Qui, alle porte di Milano e vicino agli ex padiglioni di Expo, da fine ottobre è stato inaugurato il primo e unico ristorante realizzato in un carcere (in Galles, a Cardiff, c’è The Clink), aperto al pubblico, in cui lavorano nove detenuti, seguiti da uno chef e un maître professionisti. Imparano ricette di alta cucina: pappardelle di castagne con ragù di cervo, scaloppa di branzino in crosta verde, rollé di salmone marinato all’aneto. Aiutocuochi, lavapiatti e camerieri sono detenuti che hanno scontato un terzo della condanna, quindi hanno diritto all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, cioè a uscire dal carcere per lavorare. Fondamentale è l’alleanza con la sezione che l’Istituto Alberghiero Paolo Frisi di Milano ha aperto nel carcere (a giugno ci saranno le prime maturità). I lavoratori di InGalera hanno fine pena lunghi, oltre il 2020, quindi reati gravi, ma questa scelta è il modo per investire su una formazione di qualità che garantisca un lavoro al termine del tempo delle sbarre. Insomma, uomini che hanno sbagliato, e molto, ma che si stanno conquistando una seconda possibilità. I 52 coperti sono proprio dentro il carcere: si entra dalla guardiola, ma non si lascia il documento, basta aver prenotato (chiuso la domenica sera). A pranzo la formula proposta è il "quick lunch" (12 euro il piatto unico), mentre il costo della cena alla carta varia dai 30 ai 40 euro, con vini di qualità delle differenti regioni. Tavolo d’angolo con vista cortile, sbarre alle finestre, ogni dettaglio è curato: tovaglie di lino e posate di alta qualità la sera, simpatiche tovagliette di carta a mezzogiorno con le foto delle prigioni d’Italia e del mondo (San Vittore, Regina Coeli, Dorchester). Non manca l’ironia: i muri sono decorati con le locandine di film ambientati in carcere, da "Fuga da Alcatraz" a "Il miglio verde", mentre il menù propone le vongole fujute (scappate) o le pennette al 41 bis. Un ristorante così non si improvvisa. È l’evoluzione, grazie al supporto di PwC (network di servizi di revisione e consulenza legale e fiscale), dell’esperienza che la cooperativa "Abc-la sapienza in tavola" ha avviato a Bollate nel 2004: servizi catering per dare lavoro ai carcerati. La sfida è stata proporre un’offerta di alta qualità, in grado di competere nel mercato del settore, non soltanto nel mondo del sociale. Per questo Abc garantisce ai clienti posate d’argento, porcellane di pregio e camerieri in livrea con bottoni d’oro e guanti bianchi. Silvia Polleri, sessantacinquenne che ha appena ricevuto l’Ambrogino d’oro, racconta come ha deciso di fondare la cooperativa: "Per anni avevo gestito un catering per la Milano bene, coccolavo la buona borghesia e mi occupavo di bon ton. Quando ho terminato quest’attività, mia cugina, educatrice a Bollate, mi ha fatto una proposta un po’ "osé": impiegare nei servizi i carcerati". Da allora Abc ha dato lavoro a 350 persone e rifornito clienti ordinari e vip, compresi buffet al Palazzo di Giustizia. In occasione dell’apertura di InGalera, al bando per i primi due posti, i candidati sono stati oltre 90: "Succede ogni volta che dobbiamo assumere", puntualizza Silvia, "e il dato dimostra la fame di lavoro che c’è dietro le sbarre". L’impiego dei detenuti fa risparmiare la stessa collettività: "Ovviamente", spiega la presidente di Abc, "paghiamo i contributi, mentre la direzione trattiene una parte dello stipendio, poco più di 100 euro mensili, come "quota di mantenimento carcere"". Soprattutto, una formazione professionale e occupazioni di lavoro serie sono un vero investimento per combattere la recidiva. Il carcere italiano, infatti, applica male la funzione assegnatagli dall’articolo 27 della Costituzione, la "rieducazione del condannato": produce il 68,5% di recidivi, cioè i detenuti che, usciti dal carcere, commettono nuovamente reati, mentre a Bollate, grazie a progetti come InGalera e il catering di Abc, la percentuale scende al 17%. Lo ha detto anche l’assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, Marco Granelli, inaugurando il ristorante: "Se una persona che ha sbagliato esce dopo la pena con una professionalità e una vita possibile davanti, cambiato dentro, lui ci guadagna, ma la città avrà un cittadino in più e un delinquente in meno. Questo è un contributo alla sicurezza vera della nostra città e alla dignità umana". Campobasso: l’azienda agricola dell’Istituto scolastico che dà lavoro ai detenuti di Assunta Domeneghetti primonumero.it, 16 maggio 2016 Gli abitanti di Vazzieri la usano come fosse un negozietto di quartiere: ma quella in cui ogni giorno vanno a comprare frutta e verdura in realtà è una scuola. Una scuola molto particolare, che ha al suo interno una datatissima azienda agricola d’istituto nata negli anni Cinquanta e attiva, ininterrottamente, da allora. La struttura scolastica in questione sorge a Viale Manzoni ed è diretta dalla preside Rossella Gianfagna. Ha un nome lunghissimo: Istituto professionale servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale, fa capo al "Pilla" ed è coordinato dal professor Antonio Santopolo. È stato lui oggi, 14 maggio, giornata dedicata alla Festa di Primavera (un momento d’incontro tra studenti, insegnanti e titolari di aziende agricole che si celebra da quattro anni), a farci da Cicerone tra orti, serre e vigneti. "Abbiamo cinque ettari di terreno nel cuore della città, ho visto i quartieri di Vazzieri e San Giovanni crescerci attorno, ma questo polmone verde non è mai cambiato da quando esiste la scuola. Qui abbiamo meleti e pereti, c’è la vigna da cui produciamo Montepulciano, Trebbiano e l’anno prossimo anche la Tintilia, ricaviamo un po’ di olio, ci sono gli animali e la serra in cui crescono fiori e piantine. Per un istituto tecnico di questo tipo l’azienda agricola funziona come un laboratorio all’aperto in cui i ragazzi fanno attività pratica al pari degli altri laboratori che sono parte del programma scolastico". Quello dell’azienda agricola però, frutta anche soldi alla scuola che tiene a stipendio un paio di persone e riesce a reinvestire i guadagni per comprare le attrezzature e i concimi. "In più, avendo aderito a un programma della casa circondariale di via Cavour, offre una possibilità d’integrazione col tessuto sociale cittadino a tre detenuti che ogni mattina, dalle 8 alle 13, vengono ad aiutarci occupandosi principalmente dell’orto". Gli stessi che vendono i prodotti della linea Green Schoool, il marchio della scuola, ogni giovedì mattina durante il mercato della Coldiretti di Piazza Municipio. I tre ragazzi in questione erano presenti anche stamattina assieme ad altri due detenuti che si occupano di lavori di ristrutturazione al "Pilla" di cui l’Ipsasr fa parte. Augusta (Sr): detenuto ma anche artista, ha realizzato l’attrezzistica di "Elisir d’Amore" di Michela Italia nuovosud.it, 16 maggio 2016 L’Elisir d’Amore (produzione Yap, regia di Enrico Stinchelli, che andrà in scena il 29 maggio a Città della Notte) ha visto la collaborazione della Casa di reclusione di Augusta. Vincenzo Scuderi ha realizzato tutta l’attrezzeria disegnata dalla scenografa Tiziana Armellini. Lui ama l’arte, dipinge sempre, si è laureato all’Accademia delle Belle arti con un tesi sull’iconografia bizantina ottenendo un 106/110. Vincenzo, per motivi legati alla sua condizione carceraria non potrà vedere la messa in scena dello spettacolo ma la gloria, che merita, può arrivare anche grazie ad un articolo che racconta la sua esperienza. Ci parli della sua passione per l’arte. Quando hai iniziato a dipingere? Che tecnica preferisci? Cos’è per lei l’arte e chi è il suo pittore preferito? "Dipingo da sempre, ma quando sono "cresciuto" ho staccato, per tanti motivi, per poi riprendere da 15 anni circa. Mi piacciono molte tecniche ma quelle che preferisco sono l’acquerello e l’olio da circa dodici anni ho scoperto una tecnica a me sconosciuta, ma che si usa nell’iconografia bizantina, sulla quale ho discusso la tesi di laurea. Per me l’arte ha un grande valore, anzi tanti valori, perciò l’arte mi fa uscire spesso dagli schemi senza che ciò possa farmi incorrere in situazioni spiacevoli. Il mio pittore preferito Claude Monet, ma senza che ciò possa oscurare minimamente i grandi del Rinascimento". Qual è i tuo sogno nel cassetto legato all’arte? "Riuscire a lasciare ai posteri anche una sola opera che faccia ricordare in modo positivo un uomo qualunque come me". Sei appassionato anche di teatro? "Da circa 6 anni faccio parte di una compagnia teatrale attiva dentro la casa di reclusione di Augusta "Voci dal palcoscenico" dove oltre a recitare piccole parti mi occupo delle scenografie e da quel che mi si dice lo faccio in modo discreto". Com’è stata per lei questa collaborazione? "Collaborare per quest’opera teatrale è stata un’esperienza nuova e vorrei tanto continuare su questa strada collaborando a un altro spettacolo in un prossimo futuro. Ho conosciuto alcune persone anche se sono passate molto velocemente". Mi descriva quali materiali ha utilizzato e come ha realizzato i leccalecca giganti. "Per realizzare questi gadget ho utilizzato carta di giornali, cartone, colla vinilica, carta gommata, colori e tanta pazienza. Per realizzare i leccalecca ho cominciato con il prendere due dischi di cartoni, su uno ho incollato dei bicchieri da caffè (usati) usando la vinilica e bloccandoli con della carta gommata e poi ho incollato su l’altro disco di cartone. Con del giornale arrotolato e quindi appiattito (a mò di cintura) ho rivestito le estremità dunque vi ho incollato un tubo di cartone creando così il bastoncino, infine ho ricoperto tutto con una miscela di colla acqua e carta di giornale. Ho lasciato asciugare ed ho colorato il tutto". Qual è il lavoro di cui è più orgoglioso? "Il quadro che serbo nel cuore si ispira un po’ a Chagall. È onirico, metaforico, surreale. È verde su verde, contiene dei simboli di Catania: gli archi della Marina, l’elefante, l’obelisco, il Fortino. Nel quadro ci siamo anche io e mio figlio, ci teniamo per mano e siamo liberi come un palloncino. Mio figlio è in sedia a rotelle ma grazie al suo cavallo può volare". Droghe: Serpelloni, i reati e le responsabilità di Riccardo De Facci (vice presidente Cnca) Il Manifesto, 16 maggio 2016 L’arresto dell’ex zar antidroga Giovanni Serpelloni ora dirigente dell’Asl 20 ma fino al 2014 a capo del Dipartimento Politiche antidroga (Dpa) della Presidenza del consiglio dei ministri e uomo di fiducia degli onorevoli Giovanardi e Gasparri, è qualcosa di più di una chiamata di responsabilità del singolo. Molte delle associazioni e realtà impegnate nel sistema di intervento sulle dipendenze, tra cui il Coordinamento delle comunità di accoglienza, Forum droghe, Antigone ed altre, avevano da anni segnalato oltre ad un indirizzo ed un approccio ideologico e fortemente proibizionista alla questione droghe, anche chiare irregolarità e forzature ideologiche nella gestione dei fondi di quegli anni del dipartimento antidroga. Parliamo di alcune decine di milioni di euro del fondo nazionale antidroga in gestione al Dpa diretto dal dott. Serpelloni. Malgrado questo, non solo il governo Berlusconi con il sottosegretario Giovanardi lo vollero fortemente a capo del Dipartimento, ma i successivi governi Monti e Letta con il ministro Riccardi lo mantennero nell’incarico fino alla decisione di sostituzione, su proposta del sottosegretario Del Rio, del governo Renzi. Nel corso della sua permanenza in carica e sotto la responsabilità politica del sottosegretario Giovanardi, le politiche ed il posizionamento italiano anche in campo internazionale sulle droghe hanno toccato il suo punto più estremo in una direzione proibizionista e ciecamente punitiva. Di tale politica il dott. Serpelloni è stato fiero scudiero e rappresentate: basti citare le posizioni oltranziste sulla "riduzione del danno" e sull’approccio punitivo che obbliga alla cura; oppure il posizionamento internazionale in alleanza con gli Stati più reazionari e proibizionisti. Il Sert e le comunità di recupero vennero in quel periodo escluse dal confronto tecnico-politico (basti ricordare la gestione orientata della conferenza nazionale del Dpa sulle droghe di Trieste), perché non allineate e vennero totalmente tagliate fuori dalla gestione di ricerche o progetti nei fondi nazionali destinati. A conferma delle denunce e dei nostri dubbi ora apprendiamo dalla Guardia di Finanza che, secondo l’accusa, in questo caso non solo Serpelloni e soci avrebbero preteso una percentuale sulle somme incassate e poi direttamente 100 mila euro, a nome dell’Asl 20, dalla società assegnataria di fondi pubblici destinati all’assistenza e alla manutenzione del software che avrebbe dovuto raccogliere in tutta Italia i dati dei servizi per le dipendenze, pena la revoca dell’incarico (calcolate l’impatto, la diffusione e la dimensione di un progetto come questo, se pensiamo che sono quasi 200 mila le persone dipendenti in Italia). Oltre a ciò, non soddisfatti, la successiva gara di assegnazione di tale progetto sarebbe risultata, dalle indagini, essere turbata ed assegnata ad una società compiacente, i cui soci amministratori risultano a loro volta indagati nel medesimo procedimento e che risultano, casualmente, coinvolti anche in successivi progetti assegnati dal Dipartimento nazionale. Tale vicenda, pur nei suoi risvolti personali, ci sembra finalmente riaprire, purtroppo ancora tramite la magistratura, uno squarcio su uno dei periodi più critici ed oscuri della storia italiana in tema di droghe. Periodo in cui l’Italia, con la legge Fini Giovanardi, decise di punire soprattutto con il carcere il consumo di sostanze stupefacenti, con l’illusione di pene che avrebbero dovuto obbligare alla cura, con la loro durezza, migliaia di consumatori e tossicodipendenti. E invece, non ci fu alcun risultato reale, nessun aumento degli accessi nel sistema di cura e si ottenne invece un sovraffollamento che ancora scontiamo. E con l’incarcerazione di migliaia di giovani consumatori, il traffico e il consumo di droghe è invece in questi anni aumentato e sempre più complesso. Contemporaneamente, con una direzione del Dpa ideologica, accentratrice e orientata politicamente nei finanziamenti e nelle ricerche in maniera anacronistica, si è interrotto un dialogo tra servizi pubblici, privato sociale no profit, regioni, ministeri e società civile che sta alla base di un sistema, quello dei consumi, abusi e dipendenze, che sempre più appartiene alle riflessioni sociali sulle politiche giovanili e sul modello di futuro che vogliamo. Un dibattito che è attuale e aperto perfino negli Stati Uniti. Memori di tutto ciò, vorremmo ricordare a questo governo quanto sia necessario recuperare in tempi ristretti su questi temi una delega e una guida politica istituzionale, ancora assente da anni, e una accelerazione su questioni legali e legislative. Come la revisione della legge 309 sulle droghe e la convocazione, tanto attesa, della conferenza nazionale sulle droghe, essendo passati ormai 15 anni da quella di Genova della ministra Turco. Passi necessari per cancellare definitivamente i residui di governi che sul tema delle sostanze hanno provocato danni enormi alle persone ed ad uno di migliori sistemi di risposta d’Europa. Pena di morte: la Pfizer dice basta, mai più farmaci per l’iniezione letale di Vittorio Zucconi La Repubblica, 16 maggio 2016 Il boia è solo, con la siringa vuota davanti alla sua vittima. Ora che anche la Pfizer, l’ultima signora di Big Pharma a cedere, si è autoesclusa dal business della morte inflitta con i suoi farmaci, nei 32 Stati americani che ancora applicano la pena capitale l’illusione dell’esecuzione "umana" crolla. E i vecchi fantasmi - sedie elettriche, camere a gas, cappio, plotoni di esecuzione - ritornano. Nessuna casa farmaceutica, europea o americana, venderà più gli anestetici chirurgici (tranquillanti, sonniferi, miorilassanti) che formavano i cocktail letali iniettati con gli stantuffi nelle vene del morituro legato alla barella. Per ottenerli, gli Stati che ancora si ostinano a usarli dovranno farseli preparare da farmacisti che mescoleranno privatamente e spesso illegalmente gli ingredienti o, colmo del paradosso, tentare di ottenerli per contrabbando da India o Cina. Dunque dovranno violare la legge per applicare la più infame tra le leggi. La Pfizer, che preferisce essere celebre nel mondo per le sue pilloline azzurre, gli antibiotici, i chemioterapici, gli antinfiammatori, le statine e il catalogo di prodotti che ne fanno la quarta casa farmaceutica del mondo con quasi 50 miliardi di dollari in incassi lordi annui, ha citato ragioni etiche per il suo rifiuto: "La nostra società lavora per migliorare e salvare la vita dei pazienti e dunque obietta decisamente contro l’uso dei suoi prodotti per iniezioni letali". I grossisti, così come i dettaglianti del suoi medicinali saranno sottoposti a "stringenti controlli" per garantire che i suoi farmaci non siano più venduti agli Stati che li userebbero per le esecuzioni o al governo, che ancora contempla il patibolo per reati di valenza federale. Scelta etica e insieme scelta di marketing perché la morte, associata al nome dell’azienda, è bad business, un pessimo affare che i ricavi e i profitti non giustificano più. Lo scorso anno, 28 condanne sono state eseguite, la cifra più bassa dal 1999 e meno di un millesimo dei 2.943 detenuti nei bracci della morte, dove, in attese che ormai oltrepassano i 15 anni, è più probabile morire di morte naturale che legati alla barella con le flebo nelle vene. Un volume di affari che, per il numero dei giustiziati e per il modesto costo di comunissimi farmaci, dal Propofol (l’anestetico che uccise Michael Jackson), al Sodio Thiopenthal al Curaro, non vale l’imbarazzo di essere agenti di morte. Come medici e infermieri che non possono partecipare alle esecuzioni, se non per certificare il decesso. Resta il ricorso a farmacie galeniche, dove si mescolano gli ingredienti attivi, oppure al contrabbando, con il rischio di vedere partite di questi medicinali importati dall’Asia bloccati e sequestrati dalla Dogana in Texas e Arizona, perché privi dell’autorizzazione dell’agenzia americana del farmaco, la Fda. Per continuare a pompare il cocktail letale, le autorità penitenziarie di Stati come Texas, Arkansas e Virginia sono costretti ad andare underground, di fatto da pusher di veleni, perché anche l’Associazione americana dei farmacisti ha proibito ai propri appartenenti di prepararli. Lo ha vietato dopo che, era il 2014, nel penitenziario di Lucasville in Ohio, un agente di custodia, frettolosamente addestrato, schiacciò i pulsanti che dalla sala di controllo cominciarono a pompare la miscela sperimentale e artigianale nelle vene di Dennis McGuire, condannato per violenza sessuale e omicidio. Dietro la finestra che separa la barella dai testimoni, la figlia del condannato chiamata a testimoniare vide il padre emettere un lungo sospiro e addormentarsi, come vorrebbe il protocollo. Ma solo in apparenza. Pochi secondi più tardi, il condannato si scosse. Il petto e il ventre si gonfiarono. Il corpo tentò di divincolarsi dalle cinghie di cuoio che lo tenevano legato alla barella, mentre dalla bocca uscivano grida, gorgoglii e suoni che la figlia, e gli altri testimoni, descrissero come "disumani". Dennis McGuire impiegò 25 minuti per morire. Fu allora che gli Stati decisi a resistere pensarono di rispolverare i vecchi arnesi di supplizio. Oggi si scopre, con un brivido, che la giusta decisione delle grandi casi farmaceutiche come la Pfizer non è necessariamente una buona notizia oppure un’accelerazione verso l’abrogazione del patibolo, costituzionalmente accettabile. Nello Utah, il presidente dell’assemblea legislativa, dopo avere ripetuto che "se c’è la pena di morte deve esserci un fottuto metodo per eseguirla", ha riesumato il plotone di esecuzione, come scelta per il giustiziando, usata nel 2010 da Ronnie Lee Gardner per morire. In Virginia, il governatore democratico McAuliffe, grande alleato di una Hillary Clinton che non si è pronunciata completamente contro la pena capitale, è riuscito a mettere il veto e a bloccare la decisione del Parlamento locale di reintrodurre la sedia elettrica. Ma l’Oklahoma sta considerando la possibilità di ricostruire le camere a gas su scala più ampia, chiudendo il condannato in una camera stagna dove pompare azoto puro invece di ossigeno fino alla morte, in stile Auschwitz, con gas diverso. E in tre Stati, Delaware, Washington e New Hampshire, l’irreperibilità dei farmaci introvabili ha fatto ricordare che la forca non era mai stata bandita. In Alabama e Tennessee, nei sotterranei dei penitenziari rimane invece a raccogliere polvere Old Sparky, la vecchia "spara scintille", la sedia elettrica. Silenziosamente, pazientemente, in attesa di futuri passeggeri per l’ultimo viaggio. Troppi rischi, l’Italia ci ripensa: no all’invio di soldati in Libia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 maggio 2016 Gli italiani non saranno per ora mandati a difendere Onu e esecutivo. Possibili le azioni di truppe speciali. Tutto l’impegno sulla diplomazia. Il contingente militare che dovrà garantire la sicurezza della sede Onu in Libia arriverà dal Nepal. In attesa che la situazione si stabilizzi, l’Italia non prevede l’invio di soldati. La conferma è arrivata in queste ore, alla vigilia del vertice di Vienna che dovrà studiare un percorso di sostegno al governo guidato da Fayez Serraj. Troppo alti sono i rischi, troppo forte il pericolo che i reparti stranieri diventino bersagli di attacchi. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi decide dunque di tenere la linea che aveva già anticipato nelle scorse settimane spiegando che "di fronte alle pressioni per andare in Libia abbiamo scelto una strada diversa". L’impegno del nostro Paese segue il percorso della diplomazia, non a caso la Farnesina ribadisce in una nota che "obiettivo prioritario rimangono l’unità e la stabilizzazione della Libia" e di questo discuteranno in Austria dalle delegazioni guidate dal segretario di Stato Usa John Kerry e dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. I report dal campo - In vista del decreto di finanziamento delle missioni all’estero che dovrà essere approvato questa settimana, si sono intensificate le consultazioni tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e i ministri competenti. Sono stati analizzati i report dei comandi delle forze armate e dell’intelligence proprio per avere un aggiornamento sulla situazione libica che tenesse conto degli equilibri politici dopo l’insediamento del nuovo governo e soprattutto della possibile minaccia fondamentalista nei confronti dei reparti militari stranieri. Le informative confermano una instabilità ancora molto evidente, ribadiscono l’alta probabilità che soldati provenienti da Europa e Stati Uniti potrebbero essere vissuti come veri e propri invasori, quindi esposti a ritorsioni, pur muovendosi in una cornice voluta dall’Onu. E dunque il governo decide di non rischiare. Rimane la possibilità, prevista da un provvedimento firmato dallo stesso Renzi, di utilizzare nuclei speciali per missioni segrete. Ma per quanto riguarda gli altri compiti di vigilanza e addestramento la scelta è quella di prendere tempo. Il ruolo del Colle - Era stato proprio l’inviato delle Nazioni Unite, il tedesco Martin Kobler, a sollecitare l’impiego di truppe per la sorveglianza della nuova sede che sarà spostata da Tunisi a Tripoli. Una mossa concordata con Serraj che doveva rappresentare il primo passo per un ingresso degli stranieri nel Paese in maniera graduale e "poco visibile", come del resto era stato chiesto dal nuovo premier libico proprio nel timore che ciò potesse aizzare ulteriormente gli oppositori interni. I primi a rispondere sono stati i Nepalesi e a questo punto saranno loro i primi ad arrivare in Libia. La possibilità che anche l’Italia fosse subito in prima linea è stata riesaminata dallo stesso Renzi con il capo dello Stato Sergio Mattarella. Come ha più volte detto pubblicamente, il premier non è mai stato un sostenitore di interventi militari senza una cornice di sicurezza effettiva. Lo stesso presidente della Repubblica ha sempre sottolineato la necessità di muoversi soltanto di fronte a una richiesta esplicita del governo libico. E alla fine si è concordata una linea di prudenza. L’Italia continuerà a sostenere il governo Serraj e in questa fase si concentrerà in modo particolare sull’impegno umanitario. L’obiettivo rimane quello di ottenere il comando del contingente internazionale, ma ciò potrà avvenire - in accordo con gli altri Paesi alleati nella coalizione - soltanto quando si sarà stabilizzata la situazione. Anche tenendo conto che i contingenti italiani sono già impegnati su vari altri fronti. L’Isis in Iraq - Si sta potenziando la presenza in Iraq a sostegno dei Paesi impegnati nei raid contro le postazioni dell’Isis. "Abbiamo cercato di concentrare i militari nelle aree che riteniamo più inerenti alla nostra sicurezza", conferma la titolare della Difesa Roberta Pinotti in un’intervista a Sky. Sono 800 i soldati di stanza tra Erbil, Bagdad e Kuwait City. A loro si aggiungeranno presto altri 130 uomini del personal recovery e i 450 addetti alla protezione dei lavori della diga di Mosul. Per quanto riguarda gli equipaggiamenti, a Erbil è arrivato un elicottero che si aggiunge ai quattro già presenti e ai Mangusta. Si tratta di un velivolo che avrà come missione il recupero dei soldati dispersi oltre le linee nemiche. I sommergibili che difendono l’Italia di Francesco Grignetti La Stampa, 16 maggio 2016 La Marina da oltre un anno pattuglia silenziosamente con quattro mezzi U212 le coste libiche per intercettare le comunicazioni e localizzare gli jihadisti. Decisivo il ruolo anti-scafisti. Nascosti sotto il pelo dell’acqua, invisibili e in continuo movimento, da oltre un anno quattro sommergibili della Marina militare italiana svolgono davanti alle coste libiche un compito di importanza strategica: controllano le comunicazioni che si scambiano - tra di loro e via etere - singoli o gruppi terroristi o potenzialmente eversivi. Potendo così seguire mosse, spostamenti e piani. È un’operazione coperta dal più stretto riserbo, i cui dettagli non possono essere rivelati anche quando consente di acquisire informazioni di grande utilità per la sicurezza nazionale. I sommergibili sono parte integrante della missione Mare Sicuro, affidata dal governo alla Marina, che da tredici mesi vede 900 marinai pattugliare il Mediterraneo centrale, al largo delle coste del Nord Africa e in particolare della Libia. "L’operazione - recita l’unico comunicato ufficiale della Marina militare, risalente allo scorso anno - prevede missioni da svolgere, a tutela degli interessi nazionali, con attività di presenza, sorveglianza e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale". È il termine "sorveglianza" a implicare l’uso dei sottomarini. La missione Mare Sicuro fu varata nel febbraio del 2015 quando venne accertata la presenza di terroristi dell’Isis a Sirte, la città sulla costa che aveva dato i natali a Gheddafi. Avere i terroristi che si affacciano sul Mediterraneo costituisce una minaccia diretta alle piattaforme petrolifere off-shore dell’Eni, al gasdotto che congiunge la Libia all’Italia, e alle nostre coste. Da quel momento, tredici mesi fa, la Marina militare non ha mai mollato la presa nell’azione di sorveglianza verso le coste libiche. A questo scopo, determinanti sono stati i due sommergibili della nostra flotta, classe U212, che sono un fiore all’occhiello della tecnologia italo-tedesca della navigazione in immersione, del combattimento e soprattutto della guerra elettronica. Ci sono state ironie, in passato, sulla presenza dei nostri sommergibili al largo della Libia. La Difesa ha risposto al le critiche sottolineando quanto sia stato importante il loro apporto per seguire alcune navi-madre cariche di migranti, bloccate in alto mare prima che facessero scendere il carico umano sulle carrette che trainavano e che poi avrebbero lasciato andare alla deriva verso le nostre coste. Il ministero guidato da Roberta Pinotti non ha parlato invece di quanto i sommergibili - si sono alternati lo "Scirè" e il "Salvatore Todaro" - siano stati preziosi per monitorare le comunicazioni del nemico. Poco nota, e addirittura coperta da segreto militare quanto ai dettagli, è la capacità dei nostri sommergibili nelle funzioni "Esm", l’acronimo dell’Alleanza atlantica per "Electronic Support Measures" ovvero misure di sostegno elettronico. Le "Esm" includono capacità di intercettare, localizzare, registrare e analizzare fonti. Si tratta della frontiera più avanzata dell’impiego dei sommergibili: non più la guerra dei siluri, come avveniva nel secondo conflitto mondiale, ma la guerra elettronica. Grazie alla capacità di navigare senza poter essere rilevato, questo tipo di sottomarini - la classe U212, costruita da Fincantieri e Howaldtswerke, di cui si sono dotati le marinerie italiana, tedesca e israeliana, è eccellente, anche se costa carissima, nell’ordine di 1 miliardo di euro ad esemplare - non soltanto è in grado di sfuggire al controllo degli altri, ma di spiare le comunicazioni nemiche arrivando sotto-costa, rimanendo in immersione per lunghi periodi. Con 4 ufficiali e 23 sottufficiali a bordo, propulsione a idrogeno, celle a combustibile che producono ossigeno, ogni tipo di apparecchiatura elettronica, oltre al tradizionale carico di siluri, lo "Scirè" e il "Salvatore Todaro" - a cui da un anno si sono aggiunti il "Romeo Romei" e il "Pietro Venuti" - tengono sotto controllo i miliziani dell’Isis "taciti ed invisibili", come solo i sommergibili. possono fare. Cacciare l’Isis non basta per scongiurare il caos di Paolo Mieli Corriere della Sera, 16 maggio 2016 Sconfiggere gli jihadisti si sta rivelando qualcosa di maledettamente complesso. Un gioco di specchi dove i successi rischiano di trasformarsi in disfatte. Peggio, dove neanche riusciamo a immaginare quale possa essere considerata una vittoria definitiva. Ci siamo (forse). Il colonnello americano Steve Warren, portavoce della coalizione anti Isis, ha spiegato che lo "Stato di emergenza" dichiarato nella città di Raqqa è da interpretare come l’inequivocabile segnale del fatto che gli uomini di Al Baghdadi si sentono prossimi alla resa dei conti. Cioè al giorno in cui sono destinati a soccombere. Ed è evidente - ha aggiunto - che, se cadrà la "capitale siriana" del Califfato, andrà in pezzi una parte rilevantissima della costruzione statuale degli jihadisti. Nabil El Fattah ex direttore del Centro di Studi strategici di Al Ahram del Cairo ha più volte illustrato come la penetrazione di Daesh in Iraq e poi in Siria non si spieghi solo con la forza militare messa in campo. Almeno agli inizi, i miliziani islamisti sono stati visti dalle popolazioni sunnite dell’Iraq come una sorta di armata di liberazione in grado di proteggerli dal potere sciita imperante a Bagdad. E a Damasco. Nei territori conquistati, Isis ha poi messo in piedi un suo welfare, creato ministeri, forze di polizia. Governava, insomma. Con il terrore, certamente, ma anche con il consenso. L’ex direttore dell’Economist Bill Emmott da ciò ha tratto la conclusione che negli ultimi tre anni lo Stato Islamico ha avuto un grande potere di attrazione proprio perché è riuscito a rendersi credibile come potenza, e in particolare come una forza capace di affermarsi militarmente. Alla stregua di uno Stato vero e proprio, che oggi governa ampie aree di territorio in Siria, Iraq e, persino, in Libia. Il suo successo nel conquistare la città di Mosul in Iraq e Raqqa in Siria ha agito come fonte di ispirazione per molti musulmani, in Medio Oriente, ma anche in Africa o in Europa. Lo Stato Islamico non è attraente solo per la sua ideologia o per la religione. Lo è nelle fantasie dei musulmani di Siria e Iraq, per i quali starebbe facendo l’effetto che la creazione di Israele, e poi la sua agguerrita difesa, fecero per quelle degli ebrei in Palestina. Perciò - seguendo il ragionamento di Emmott - se ora crollasse, sarebbe come se Israele in quanto Stato non fosse sopravvissuto alla guerra del 1948-49. Un’autentica catastrofe. Ma è questo quel che sta davvero accadendo? Secondo una mappa pubblicata due mesi fa dal Washington Post, tra gennaio 2015 e metà marzo 2016 il Califfato ha perso circa un quinto del territorio che precedentemente aveva conquistato. Altre fonti dicono il 40 per cento. Il mito dell’invincibilità jihadista si è incrinato una prima volta (per merito dei curdi) al momento della perdita di Kobane. Poi, spalleggiato dai Sukhoi dell’aviazione russa, l’esercito di Assad, a fine marzo, ha riconquistato Palmira, che nell’estate 2015 - quando gli incappucciati dell’Isis avevano fatto saltare la tomba di Mohammed bin Alì e il tempio di Baal - era divenuta la città martire della cultura mondiale. E un concerto diretto da Valery Gergiev davanti a quel che restava delle rovine (con un discorso di Putin in prudente videoconferenza dalla sua residenza di Sochi) ne aveva celebrato la liberazione. Persa Palmira, l’Isis reagiva riconquistando Yarmuk a otto chilometri da Damasco, a danno del Fronte al Nusra, branca locale di Al Qaeda, i cui adepti - nel frattempo - erano passati quasi tutti con Al Baghdadi. E qualcosa di simile, probabilmente, poteva ripetersi ad Aleppo ma - onde evitarlo - siriani e russi avevano preventivamente scatenato un inferno sulla città attirandosi la riprovazione di tutto il mondo occidentale. Da quel momento si è iniziato a parlare di crisi dell’Isis, si sono diffuse notizie di crollo del reclutamento (dai duemila dei tempi d’oro alle duecento persone al mese), persino di diserzioni. Ma nel mondo islamico la percezione di queste difficoltà era precedente di almeno sei mesi. La ricerca annuale dell’Arab Youth Survey (su duecento milioni di ragazzi del mondo musulmano tra i 15 e i 24 anni) ha rivelato in aprile che la popolarità dell’Isis è in forte calo. Da tremila e cinquecento interviste individuali in sedici Paesi, emerge che il Califfato ottiene il consenso del 13%, con una discesa, in un anno, del 6%. E che, per di più, l’approvazione è sorprendentemente condizionata dalla "rinuncia della violenza". E dall’impegno alla costruzione - nelle terre conquistate - di un futuro "più stabile". Gilles Kepel sostiene che l’Isis è in difficoltà dai tempi degli attentati di Parigi (13 novembre). Allora tra le vittime c’erano anche dei giovani musulmani, ciò che è stato criticato persino nei circoli estremisti islamici. Un conto è infatti colpire obiettivi come Charlie Hebdo a cui poteva essere imputata l’irriverenza nei confronti di Maometto. Un altro è, invece, sparare nel mucchio. Questo per quel che riguarda il reclutamento. In più c’è adesso la perdita delle loro roccaforti. Fareed Zakaria enfatizza la notizia che quelli dell’Isis abbiano perso territorio, città, fonti energetiche, ma si pone la domanda: chi governerà quei territori una volta che saranno stati liberati? Ed è un punto importantissimo. Ammesso infatti che le informazioni provenienti dal Pentagono non siano frutto di propaganda atta a bilanciare le notizie dei successi di Putin e Assad a Palmira (in dicembre dagli Stati Uniti giunse la notizia che stava per essere liberata Mosul, la "capitale irachena" dell’Isis, e poi non se ne è saputo più nulla), la caduta di Raqqa e dell’intero Califfato sarebbero poca cosa se Stati Uniti e Russia non fossero preventivamente giunti a un accordo sul successivo controllo dell’intera area mesopotamica. E se la consegnassero a un regime di caos anarchico, Al Baghdadi e la sua organizzazione diventerebbero qualcosa di simile a quello che fu Al Qaeda ai tempi dell’Afghanistan: troverebbero rifugio nel deserto dello Yemen da dove riprenderebbero a ispirare attacchi in Europa. Poi, tra qualche mese, tornerebbero nelle terre che furono loro tra Iraq e Siria. Ne discende che sconfiggere l’Isis si sta rivelando qualcosa di maledettamente complesso. Un gioco di specchi dove i successi rischiano di trasformarsi in disfatte. Peggio, dove neanche riusciamo a immaginare quale possa essere considerata una vittoria definitiva. Cacciamo perciò gli jihadisti da Raqqa e Mosul (e anche, quando verrà il momento, da Sirte). Ma impegniamoci fin d’ora a prefigurare in che modo e da chi quelle città - assieme alle terre che le circondano - dovranno poi essere governate. Quando l’Italia ci abbandona: oltre 3.000 italiani detenuti all’estero, a volte ingiustamente di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 16 maggio 2016 Come vi sentireste se un giorno foste costretti ad assistere sullo schermo del vostro telefonino, di nascosto e grazie a una connessione internet semi-clandestina, il funerale di vostro padre? Come vi sentireste se ciò avvenisse dentro un carcere, dove ad esser scoperti sono dolori, a migliaia di chilometri di distanza? E come vi sentireste se, per anni, vi processate innocenti e chiedete almeno di poter scontare la pena vicino alla vostra famiglia? Pensate siano domande assurde, pensate che una tragedia del genere non vi possa mai capitare. E pensate, un po’ cinicamente ma in realtà è solo la vostra paura a parlare, che se succedesse alla fine è perché "me lo sono cercato". O meglio: "se l’è andata a cercare", perché tanto le tragedie succedono sempre agli altri. Eppure tutto questo non è un rischio ma una realtà: è la realtà che vivono oltre 3.300 cittadini italiani che si trovano a diverso titolo detenuti in un carcere o in una caserma fuori dal territorio nazionale. Tra queste storie c’è quella di Manolo Pieroni, che oltre ad essere una storia di speranza, di amore e di forza d’animo, è anche una storia di sfortuna e di sofferenza: quella di un giovane uomo della provincia di Lucca che decide di provare ad aprire un’attività ristorativa in Colombia, nella zona di Cali, ma che molla tutto per tornare in Italia quando apprende, oltre quattro anni fa, delle difficili condizioni di salute del padre. All’aeroporto della città colombiana Manolo ci arriva con un borsone, lo poggia sul nastro trasportatore e lo guarda mentre sparisce verso l’imbarco. Poi però un imprevisto: un controllo in più, i lucchetti del borsone aperti e la paura che qualcosa stia per succedere, il sudore che comincia a gocciolare dalla fronte. Nella valigia di Pieroni sono stati trovati oltre 7 chilogrammi di cocaina, che gli sono costati una condanna a 21 anni e 4 mesi di galera da scontare nell’inferno carcerario della Colombia, dove il sovraffollamento, la violenza e i cartelli criminali governano la vita quotidiana di decine di migliaia di persone detenute. Pieroni sostiene di essere vittima della "mula involontaria" e chissà se è vero, si chiedono molti: la mula involontaria è una realtà, spesso i trafficanti di droga infilano nei borsoni di ignari viaggiatori panetti di cocaina per poi fare una soffiata agli agenti della dogana aeroportuale. A quel punto è come giocare al gioco delle tre carte in un barrio di Bogotà: i doganieri controllano la valigia, scovano l’oro bianco in quantità e si concentrano tutti su quel controllo mentre sotto al naso si fanno passare il carico vero, in genere tre o quattro volte il volume di droga che verrà sequestrato. Il processo a Pieroni è stato ricco di inesattezze e dubbi passaggi giudiziari e l’assistenza che lo stesso ha ricevuto dall’ambasciata italiana di Bogotà è stata "ridicola": nessuna presenza alle udienze, nessun avvocato messo a disposizione o quantomeno segnalato alla famiglia, nessuna richiesta di chiarimento alle autorità colombiane. La prima volta che Pieroni è riuscito ad avere un contatto con l’ambasciata italiana era già stato condannato. Alla morte del padre, dopo anni di malattia, Pieroni è stato costretto a seguire il funerale di nascosto, grazie ad uno smartphone introdotto clandestinamente in carcere e alla sua compagna che, in Italia, filmava la funzione. Spesso la disponibilità di un telefono è essenziale a resistere alla distanza, all’abbandono: il telefono rappresenta una speranza. Quando mi occupavo del complesso caso di Roberto Berardi, un imprenditore italiano arrestato, ingiustamente e rinchiuso in Guinea Equatoriale, mi capitava di scherzare con i suoi familiari: "Una telefonata allunga la vita" diceva spesso il fratello alludendo ai numerosi telefoni che Berardi riusciva a fare entrare di nascosto fin nella cella di isolamento nella quale era recluso. È stato imprigionato e malmenato per due anni e mezzo dagli uomini della peggiore dittatura di tutta l’Africa, dopo avere denunciato una truffa subita dal vicepresidente Nguema, tra i 15 casi di corruzione più clamorosi del mondo, noto criminale internazionale. Due anni e mezzo nei quali ha visto torturare quotidianamente gli altri detenuti, durante i quali ha subito egli stesso torture e trattamenti inumani e degradanti, isolamento prolungato e totale mancanza di assistenza da parte sia dei suoi carcerieri, "che volevano ammazzarmi" racconta a IBTimes Italia, sia da parte delle autorità italiane preposte, l’Ambasciata di Yaoundè in Camerun. Ambasciata che si è attivata solo quando la campagna stampa sul caso Berardi si era fatta incessante e, sopratutto, internazionale. Il caso è emblematico di come l’inazione e la scarsa preparazione della nostra diplomazia sul territorio possa spesso mettere a serio rischio l’incolumità delle persone, siano essere colpevoli o innocenti (come lo era Berardi e come è stato dimostrato). Nello stesso carcere infernale nel quale è stato detenuto Berardi per così tanto tempo si trovano oggi altri due cittadini italiani, Fabio e Filippo Galassi, padre e figlio che in Guinea erano dipendenti di una società italo-guineana di costruzioni. Accusati fumosamente di appropriazione indebita di beni della società, il cui socio di riferimento è il Presidente Teodoro Obiang, dopo un iter giudiziario discutibile nel corso del quale il loro avvocato ha demolito le accuse di appropriazione indebita e denunciato la diffusa corruzione ai più alti livelli del Paese, i due Galassi sono stati condannati a pene severissime (31 e 22 anni di carcere) che hanno gettato nello sconforto la loro famiglia e i loro amici. Uno sconforto, che diviene rabbia determinata, che prova in questi mesi anche la famiglia di Cristian Provvisionato, detenuto da 9 mesi in una caserma di Nouakchott, capitale della Repubblica Islamica della Mauritania. Provvisionato, che soffre di diabete, da mesi non assume insulina e si nutre di riso, ha perso molti chili ed è fortemente debilitato. I contatti con i suoi familiari sono sporadici e mai soddisfacenti, il fratello Maurizio è riuscito ad incontrarlo recandosi in Mauritania, ma è ancora in attesa che la magistratura mauritana fornisca non solo elementi di prova ma quantomeno un’accusa formale: Provvisionato era stato inviato dalla sua azienda in Mauritania l’estate scorsa per partecipare ad un meeting nel quale avrebbe dovuto presentare un prodotto ma quel meeting non si è mai tenuto e il connazionale è scomparso per quattro mesi prima che i mauritani rispondessero alle sollecitudini delle autorità italiane, che chiedevano notizie. Quattro mesi di buio e totale assenza di informazioni che si sono rotti con una notizia altrettanto ferale: il vostro familiare si trova in arresto in una caserma in Mauritania. Non c’è unicamente il caso, pure spinoso, dei due fucilieri di Marina Girone e Latorre: l’Associazione Prigionieri del Silenzio si occupa proprio di mantenere viva la memoria e la lotta dei cittadini italiani detenuti all’estero, sostenendo le famiglie nel complesso mondo delle istituzioni e della diplomazia italiana, ed è a conoscenza di centinaia di situazioni simili. Oltre 2.500 cittadini italiani sono detenuti in Paesi membri dell’Unione Europea, dove lo stato di diritto è spesso più garantito che in Italia, ma 161 di loro si trovano reclusi nei Paesi extra UE, poco meno di 500 nelle Americhe, 59 nella regione mediterranea e in Medio Oriente, 12 nell’Africa subsahariana e 75 in Asia e Oceania. E se pensiamo che un carcere negli Stati Uniti, con l’esperienza giudiziaria annessa, sia meglio di un carcere italiano ci sbagliamo di grosso: basti pensare al caso di Chico Forti, che da anni invoca la riapertura del suo processo (è stato condannato per omicidio) sostenuto da associazioni e istituzioni italiane, richieste che sbattono contro la sordità della giustizia americana, che pure non nega molte incongruenze nel processo che ha condannato Forti. Secondo la Convenzione di Strasburgo del 1983 gli italiani arrestati all’estero dovrebbero scontare la propria pena nei nostri penitenziari ma spesso questo non avviene, per mancanza di accordi bilaterali o altre difficoltà, e la nostra diplomazia non sempre riesce a farsi valere in queste situazioni. E a volte sembra addirittura remare contro. Tornando al succitato caso di Berardi, rientrato in Italia nel luglio 2015 dopo aver scontato quasi due mesi di più delle pena cui era stato condannato, le difficoltà e l’inazione diplomatica con cui è stata caratterizzata la sua vicenda dovrebbero fare da monito alle istituzioni, che dovrebbero rafforzare la propria diplomazia e, sopratutto, i propri protocolli. Ma molto importante è anche il lavoro di comunicazione e assistenza che l’Unità di Crisi della Farnesina attua nei confronti delle famiglie, loro sì sicuramente innocenti e ingiustamente colpite da una tragedia che è totalizzante e devastante: ho incontrato molte persone nel corso del tempo che, in Italia e spesso senza parlare nessun’altra lingua oltre all’italiano, hanno dovuto affrontare il dramma di un parente imprigionato all’estero. Spesso da soli e sostenendo spese da capogiro. Indipendentemente da ogni merito di colpevolezza o meno è chiaro che un’esperienza simile colpisce anzitutto i sentimenti di una famiglia, gli affetti, toccando corde che spesso fanno male. La Convenzione di Strasburgo va incontro proprio a questo tipo di esigenza ma ancora oggi fare valere i propri diritti non solo è difficile ma anche particolarmente oneroso. Si tratta, in ogni caso, di dover fare una battaglia che va ben oltre i meriti giudiziari delle accuse ai propri parenti: in molti casi i connazionali vivono situazioni di vera ingiustizia, è successo a Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni in India, liberati dopo anni di galera per non aver commesso il fatto (l’omicidio di un amico che era in viaggio con loro), o a Roberto Berardi (per il quale associazioni come Amnesty International, Open Society Foundation e Human Rights Watch si sono mobilitate anche oltre le proprie possibilità). Il nocciolo della questione è proprio questo: perché a pagare i reati che, si presume, siano stati commessi all’estero da qualcuno deve essere la sua famiglia? Mauritania: l’italiano in carcere da 8 mesi "Mattarella mi aiuti" Messaggero Veneto, 16 maggio 2016 Da otto mesi detenuto in una stazione di polizia in Mauritania, sofferente per il diabete, il milanese Cristian Giuliano Provvisionato scrive al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedergli "con tutto il cuore un intervento per farmi rientrare in Patria il più presto possibile". Nello scritto - fatto pervenire attraverso familiari - l’uomo ricostruisce la sua vicenda, spiegando di essere tenuto agli arresti "per reati mai commessi". Provvisionato racconta di essere stato mandato in Mauritania nell’agosto scorso dall’azienda per cui lavorava, che opera nel campo delle investigazioni private, per sostituire un altro italiano che doveva rientrare in Italia. Il compito doveva essere quello di fare una dimostrazione di alcuni prodotti di una società straniera al Governo mauritano. In realtà, scrive, "sono stato mandato con l’inganno per togliere da una brutta fine l’altro italiano", perché la società straniera aveva probabilmente truffato il Governo mauritano. Ora, si legge nella lettera, "il Governo mauritano si ostina a tenermi in detenzione anche davanti all’evidenza che sono parte lesa come loro in questa vicenda. È un fatto gravissimo: sono l’unico agli arresti mentre tutti i veri responsabili di questa truffa sono liberi". Provvisionato sottolinea che, nonostante tutti gli sforzi della Farnesina e dell’ambasciata italiana di Rabat, "c’è un muro da parte delle autorità mauritane che non vuole cedere". E invoca quindi l’intervento di Mattarella "contro questa gravissima ingiustizia. La prego - dice rivolto al capo dello Stato - di fermare tutto questo prima che si trasformi in una tragedia, ho già perso 25-30 kg, non posso curarmi come dovrei, non posso sostenere le giuste visite mediche per il diabete, inizio a temere seriamente per la mia salute". Brasile: intervista a Padre Graziola "il carcere è un’esperienza che svuota la persona" radiovaticana.va, 16 maggio 2016 Il Brasile è il quarto Paese del mondo con la più alta popolazione carceraria, che negli ultimi 20 anni è aumentata del 380%. Sul sistema carcerario del Paese incombe lo spettro della privatizzazione, che prevede penitenziari efficienti dati in gestione dallo Stato, in cui i detenuti vengono trattati in condizioni disumane. Bianca Fraccalvieri ne ha parlato con Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata nel grande Paese sudamericano, che esprime la preoccupazione della Chiesa locale. R. - Ci preoccupa per la questione della privatizzazione del sistema carcerario, ma in generale anche per una visione di società, perché quando si tocca la società e i pilastri di questa società, soprattutto riguardo ai programmi sociali, alle realtà sociali, e si arriva purtroppo alla prigione, si fa sì che le persone diventino non più persone, ma oggetti o soggetti di un commercio e di un sistema che esclude, scarta, e fa in modo che le persone non siano più persone. Quindi, le svuota. Il sistema carcerario ha questa caratteristica: svuotare e nascondere i problemi. Questo ci preoccupa e soprattutto in questo momento in cui abbiamo un governo che invoca Dio, la famiglia, i grandi valori, ma che di questi valori si serve solo per una questione commerciale e economica, non umana. Questo difende la pastorale: noi vogliamo la scarcerazione, vogliamo altri sistemi, altri motivi per costruire una società differente, una società di nuove relazioni. D. - Qual è oggi la situazione nelle carceri brasiliane? R. - La situazione è pessima, allarmante, di totale mancanza di umanità: la persona rimane marcata per tutta la vita, e quindi non c’è ritorno. Anche se la persona non tornerà in carcere, questo marchio, questo momento della sua vita, rimarrà per sempre. La mia esperienza riguarda giovani che oggi hanno una laurea, una vita, ma il momento che hanno passato in carcere - di uno, due, tre o più anni - resta sempre come qualcosa che fa sì che non riescano più a incontrarsi, come accadeva prima. Rimangono con la difficoltà di organizzare la vita, di sapersi e di sentirsi sicuri. C’è tutto questo mondo, perché il carcere svuota la persona: il grande male del carcere è quello di svuotare la persona, che non è più capace di dire: "Io sono il padrone di me stesso", la priva della capacità di disporre della propria vita, di organizzarla, perché la sua vita è organizzata da altri. La persona è come se fosse un robot - diventa un robot - e ciò incide sulla sua vita futura. E a volte può facilmente tornare al crimine. D. - La tortura è ancora una realtà? R. - Sì, la tortura è una realtà. Si dice che la polizia ancora picchi, e picchi forte, soprattutto quando ci sono le retate. Ma, come Pastorale, noi diciamo che la tortura è anche un "carcere disumano": quando c’è il sovraffollamento, quando manca il cibo di qualità e manca la salute che garantisca loro di poter vivere in questi luoghi. Perché se lo Stato imprigiona, deve garantire, secondo quanto sancito dalla Costituzione brasiliana, la vita di queste persone in carcere, e invece non lo fa. Ora sta privatizzando, vendendo: noi diciamo che sta "vendendo la disgrazia altrui a caro prezzo". D. - Papa Francesco è così vicino ai prigionieri: che cosa insegna alla Pastorale carceraria? R. - Più che insegnarci, ci incoraggia, perché la Pastorale fa questo cammino da più di 30 anni. E Francesco è per noi come la ciliegina sulla torta, che ci dice: "Andate avanti, questo è il cammino della Chiesa". È una Chiesa che è in uscita, che non ha paura di sporcarsi le mani, ma vive, ha i piedi impolverati, perché è vicina ai più dimenticati di questo mondo. D. - E di che misericordia hanno bisogno i prigionieri brasiliani? R. - La misericordia di qualcuno che cominci a guardarli con occhi diversi, non con gli occhi di chi li condanna, li esclude e gli dice: "Per quello che hai fatto ora devi pagare!". No, ma con gli occhi di chi dice: "Sì, hai fatto un errore, ma c’è una possibilità"; è quel "vai e non peccare più" che Gesù dice all’adultera, a Zaccheo, ai pubblicani e a tante persone, e che dice anche oggi a noi.