Il regime è aperto, in cella solo per la notte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2016 L’Unione Camere Penali ricorda che è previsto dalla riforma penitenziaria. Si utilizzano casi di cronaca per delegittimare il "regime aperto". È questo il senso della denuncia dell’Unione delle camere penali attraverso il proprio "Osservatorio Carcere". L’Unione camere penali spiega in un comunicato - che il ritrovamento di apparecchi cellulari all’interno di alcuni istituti di pena, è servito quale pretesto per mettere in discussione il "regime aperto", che consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori da quella che impropriamente viene indicata quale "cella", ma che la norma (art. 6 Ordinamento penitenziario) definisce "locali destinati al pernottamento". Le Camere penali ricordano che il predetto regime, applicato solo da poco, non è una concessione fatta dall’amministrazione penitenziaria ai detenuti, ma rappresenta quanto prevede la legge. Una circolare del Dap del 18 luglio 2013 spiega il concetto di "carcere aperto". È un chiaro riferimento all’art. 6 della Riforma penitenziaria del 1975 che definisce le celle come luogo di pernotto, intendendo che la vita del detenuto debba normalmente svolgersi al di fuori di esse. È anche l’occasione per puntualizzare come il mandato principale assegnato all’Amministrazione sia quello di creare le condizioni per un "trattamento penitenziario conforme a umanità e dignità" ponendo, come punto focale della propria azione, la centralità della persona detenuta e la garanzia dei diritti fondamentali, affinché i principi dell’art. 27 della Costituzione relativi alla presunzione di non colpevolezza degli imputati e di finalizzazione della pena alla rieducazione del condannato possano trovare adeguata realizzazione. Questo tipo di regime, inoltre, ha l’obiettivo di responsabilizzare le guardie penitenziarie e non confinarle in un ruolo di mera custodia. Il regime aperto, attraverso la sorveglianza dinamica, in pratica, garantisce l’apertura delle celle per otto ore al giorno. II modello di sorveglianza dinamica fonda i suoi presupposti su di un sistema che fa della conoscenza del detenuto il fulcro su cui deve poggiare qualsiasi tipo di intervento trattamentale o di sicurezza adeguato. Sempre la circolare del 2013, però, spiega che coerentemente con questa esigenza - da intendersi come utilizzo e condivisione delle conoscenze disponibili e incessante lavorio di accrescimento di esse - il primo passaggio nella realizzazione delle condizioni che consentono la sorveglianza dinamica deve consistere nella differenziazione degli istituti, per graduare in relazione alla tipologia giuridica e, prima ancora, al livello di concreta pericolosità dei soggetti. Inoltre è necessario che, con questa diversa organizzazione, gli agenti non rimangano più da soli a svolgere complicate e a volte rischiose operazioni né assumano responsabilità eccedenti rispetto ai compiti loro affidati. Infatti il regime aperto prevede l’intervento degli operatori appartenenti ad altre professionalità, o anche dei volontari, all’interno degli spazi. Sempre il Dap spiega che le conoscenze sui detenuti, però, risulterebbero fortemente limitate ove il perimetro della loro vita rimanesse confinato nei pochi metri quadri della cella o del corridoio così come avviene in troppi istituti. Occorre, quindi, realizzare una diversa gestione e utilizzazione degli spazi all’interno degli istituti distinguendo tra la cella - destinata, di regola, al solo pernotto - e luoghi dove vanno concentrate le principali attività trattamentali (scuola, formazione, lavoro, tempo libero) e i servizi (cortili passeggio, alimentazione, colloqui con gli operatori), così creando le condizioni perché il detenuto sia impegnato a trascorrere fuori dalla cella la maggior parte della giornata. Ed è qui che nasce il problema. Negli istituti penitenziari c’è carenza di operatori sociali, educatori e altre professionalità non in divisa. L’Unione delle camere penali, nel denunciare l’inutilità e la gravità di quest’ulteriore aggressione ai diritti dei detenuti, confida, invece, che il "regime aperto" sia davvero applicato in tutti gli istituti di pena e soprattutto sia riempito di contenuti, di quelle attività previste, sin dal 1948, dalla nostra Costituzione e non sia ridotto - come oggi - al solo passeggio nei miseri corridoi di un padiglione. Prescrizione lunga, governo verso la fiducia di Liana Milella La Repubblica, 14 maggio 2016 Renzi è disponibile "a mettere la fiducia sulla prescrizione". Non entra nei dettagli tecnici che dividono da mesi la sua maggioranza ed è convinto che "la prescrizione non sia il problema della giustizia". Tuttavia lancia un segnale politico netto sui tempi in cui dev’essere approvata la legge perché "l’importante è che si decida velocemente". Il premier spiazza i suoi che stanno lavorando al Senato sul processo penale, un ddl monstre di 44 articoli. Emendamenti fissati in commissione Giustizia per il 25 maggio, intesa tecnica ancora in alto mare. Ma ora, dopo la promessa del Guardasigilli Andrea Orlando - "Approveremo la legge entro l’estate" - c’è quella del premier. Una fiducia tutta da studiare, ma che impone un’accelerazione al dibattito parlamentare. Renzi lo ammette, "non conosco i dettagli tecnici", ma come sulle unioni civili dà un segnale politico, toccherà poi ai senatori cucire il testo. Per parte sua Renzi è convinto che "la prescrizione non sia il problema della giustizia", lui insiste sui tempi, "su quanto occorre per andare dalle indagini al processo, perché ci sono termini che a volte non vengono rispettati e noi vogliamo renderli perentori". Il contrasto tra politica e giustizia? Il premier è netto: "Non siamo per riaprire questa polemica, ma diciamo ai giudici, fate i processi. La priorità è che i tribunali facciano le sentenze". Gli chiedono, ma lei incontrerebbe Davigo? Renzi: "Non ho alcun problema a vedere lui, Morosini, Scarpinato, ma la mia opinione è che non è vero che tutti i politici sono ladri". Un Renzi senza freni, pronto a confermare la nomina di Marco Carrai ("Se accetterà c’è un ruolo per lui nella mia squadra, ma se accetta dovrà fare un blind trust per le sue aziende". E il veto degli Usa? "Se qualcuno pensa che Obama si preoccupi dello staff di palazzo Chigi deve farsi vedere da uno bravo". A sorpresa su Banca Etruria: "Questa storia dei truffati…c’è gente che prendeva il 7% quando chi porta i soldi prende l’uno". Da Renzi a Grasso e Davigo. Una toga in carica, Pier Camillo Davigo presidente dell’Anm e la sua giunta, e Piero Grasso, il presidente del Senato ed ex magistrato. Si vedono per un’ora. Clima disteso ("Con lei non dobbiamo spiegare niente"), conferenza stampa assieme. Grasso mette un punto fermo dopo gli altolà alle toghe sul referendum, "la dialettica e la libertà di espressione sono patrimoni della nostra democrazia che dobbiamo difendere e tutelare". Paletti di Davigo sulla prescrizione, "deve cessare, se non con l’esercizio dell’azione penale, quanto meno con la sentenza di primo grado". Poi una considerazione sul clima generale della politica verso i giudici: "Mi sembra che sia migliorata negli ultimi giorni". Infine il referendum: "Abbiamo già un codice etico con tutte le misure, c’è un’area di legittimità e una di opportunità". La notte buia di politica e giustizia di Generoso Picone Il Mattino, 14 maggio 2016 "La notte delle vacche nere". Qualche giorno fa, davanti a una platea di imprenditori e studenti di Avellino, Raffaele Cantone, il magistrato che presiede l’Autorità nazionale Anticorruzione, ha citato l’espressione che Friedrich Hegel utilizzò nella prefazione alla "Fenomenologia dello Spirito". Nessun vezzo filosofico per l’uomo a cui ormai - malgrado lui - si rivolgono tutti, dalle amministrazioni ingarbugliate ai condomini litigiosi, dagli operai in cassa integrazione ai cittadini vittime delle buche sull’asfalto, per avere una soluzione, una risposta, un atto di Giustizia. Cantone è decisamente il primo ad avere la consapevolezza di trovarsi nello scomodissimo tabernacolo dell’eterna religione della Legalità, della mistica del Giusto che alla maniera di un Angelo sterminatore interviene, opera, ristabilisce l’equilibrio del senso, riparte e aspetta la prossima chiamata. Così, di fronte al catastrofismo dei giudizi e all’assolutismo delle valutazioni, davanti al teorema lapideo del "tutti ladri", comprende che è facile ritrovarsi con il risvolto "nessuno ladro". Cioè, "la notte delle vacche nere": Hegel si schierava in difesa della ragione, della conoscenza distinta, della parola. Insomma, quella ragione che Raffaele Cantone evocava per evitare il rischio del buco nero dove ogni energia positiva è risucchiata in un vortice senza fine e senza speranza: avvertiva che un messaggio tanto liquidatorio provocasse esiti terribili specie nelle giovani generazioni, negli studenti seduti in platea che avevano con tanto entusiasmo partecipato al progetto di Confindustria e Libera per combattere la corruzione. "Tell on it!", "Corruzione. Io la riconosco e la combatto". È venuta da lui la raccomandazione più preoccupata nell’interpretazione di questi tempi sbandati, culmine di un ventennio che ha visto progressivamente arretrare il livello di legalità nel campo di una larga parte dell’azione politica ed amministrativa - non tutta perché non c’è mai notte in cui tutte le vacche appaiono nere - e simultaneamente avanzare nella convinzione dell’opinione pubblica che soltanto il potere giudiziario dovesse riuscire a governare. È legge madre della fisica, ogni spazio vuoto è presto occupato da un altro corpo, specie se quello che cede si rivela malato e fortemente slabbrato: in spregio alla più semplice architettura democratica, al primato della politica si è gradatamente sostituito quello della Giustizia. Certo, l’intreccio perverso di cattiva politica e affarismo arrembante, la commistione di corruzione e gestione della cosa pubblica per fini privati, il sistema più o meno occulto di drenaggio di ricchezze a favore di partiti, l’insieme di fatti, comportamenti e azioni rubricati nel capitolo di "Tangentopoli" ha finito per rivelare l’entità di un fenomeno di proporzioni tanto estese da risultare incontrollabili facendo risaltare che la cultura della legalità, in fondo, non aveva radici né profonde né estese nel tessuto nazionale, quasi che nella disaffezione alle regole si specchiasse l’autobiografia di un Paese, che la famiglia, il gruppo, la fazione prevalessero ciclicamente sulla fedeltà allo Stato e in quel quadro risiedesse l’autentico grumo del carattere identitario dell’Italia. Se ne potrebbe discutere a lungo. Resta il dato inossidabile di una cronaca che consegna quotidianamente il racconto di episodi di corruzione, peculato, voto di scambio in nuce. Tre giorni dopo il dibattito con Cantone, ad Avellino l’inchiesta sull’Azienda Città servizi ha portato all’arresto domiciliare del suo manager e ad altri provvedimenti di divieto di dimora per una storiaccia di carte di credito svolazzanti, televisori e auto utilizzate per sé, spazi e luoghi pubblici impiegati per fini assolutamente e anche mediocremente personali. La corruzione che diventa sistema e se tutti non osservano più il rosso al semaforo allora bisogna intervenire sull’apparecchio?, come aveva notato l’ex presidente del Consiglio, Ciriaco de Mita. Oppure, come ha replicato il procuratore aggiunto di Avellino, Vincenzo D’Onofrio, fatti che sistemici o no devono assolutamente essere perseguiti e mai accettati neanche in punta di paradosso teorico? La ragionevolezza porterebbe a fermare i giri della polemica e a riflettere. Per esempio: i sindaci delle maggiori città italiane, esponenti dal Pd al M5S, si lamentano di non poter più amministrare con la spada di Damocle dell’avviso di garanzia - nel lessico giustizialista: condanna accertata - e con il loro grido di dolore affermano che così si spegne tutto. La democrazia, innanzitutto. L’ex primo cittadino di Venezia, Massimo Cacciari, ribatte con il tono ultimativo del filosofo che ormai è troppo tardi, che bisognava pensarci in questi 20 anni, che allora si sarebbe dovuto mettere mano a un serio progetto di decentramento e autonomia da cui far nascere una nuova classe dirigente. Allora si sarebbe dovuto aprire un attrezzato confronto politico, senza pasticci e ipocrisie. Non ora, ora è soltanto patetico. Chiusa la partita, quindi? "La notte in cui tutte le vacche sono nere", ricorderebbe Cantone. E se per illuminarla si provasse a uscire dal vicolo cieco della contrapposizione dei Poteri per recuperare l’agibilità a una proposta per il bene comune che giusto dalle città diventi pensiero lungo di una prospettiva per il Paese? Se si sollevasse dal fango la bandiera stinta della politica e proprio dall’ambito minimo di riferimento si provasse a ridarle significato? Se si ponesse mente al pericolo che pure la Storia ci indica nelle società dove l’incendio del populismo ha trascinato nel rogo ogni diritto e ogni legge, ogni sovranità e ogni libertà, allora una via d’uscita sarebbe ancora possibile. Il reato di caporalato va esteso alle imprese di Antonio Sciotto Il Manifesto, 14 maggio 2016 Il terzo rapporto Flai-Cgil. Aumentano le ispezioni ma anche i braccianti sfruttati: in Italia sono ormai 430 mila. La Rete del lavoro di qualità non decolla: solo 300 le aziende iscritte. Il sindacato chiede nuove norme e più controlli. Il ministro dell’Agricoltura Martina: "Presto una legge contro le aziende colpevoli". Si avvicina l’estate e a causa delle alte temperature i pericoli per chi lavora nei campi, spesso già in condizioni bestiali, si moltiplicano: l’anno scorso almeno quattro braccianti hanno perso la vita nei mesi più caldi, e da allora - se non altro - le ispezioni sono aumentate. Ma il fenomeno dello sfruttamento e del caporalato riguarda più persone rispetto al 2015 (almeno 30/50 mila in più), e il sindacato chiede di estendere la responsabilità penale di questo reato alle imprese: il ministro Maurizio Martina, ospite ieri alla presentazione del Terzo rapporto su agromafie e caporalato della Flai Cgil, ha detto di essere d’accordo sul punto: alle parole, però, adesso dovrebbero seguire i fatti. Secondo il rapporto Flai sono almeno 430 mila i lavoratori - sia italiani che stranieri - vittime del caporalato, e circa 100 mila di loro vivono in condizione di grave sfruttamento e disagio abitativo (in capanne, container, tende spesso senza servizi igienici e riscaldamento, acqua corrente o elettricità). Come detto, risultano essere dai 30 mila ai 50 mila in più rispetto alla precedente rilevazione, ma si deve aggiungere che le ispezioni sono cresciute del 59% nell’ultimo anno, con questo esito: più del 56% degli addetti trovati nelle aziende agricole sono parzialmente o totalmente irregolari, 713 i fenomeni di caporalato registrati. Il settore è ad alta infiltrazione mafiosa: le organizzazioni criminali non solo arrivano a controllare, in alcuni casi, lo stesso giro di caporali, ma sempre più spesso rilevano le imprese in difficoltà per ripulire i soldi. Il business dell’agromafia e del caporalato muove in Italia qualcosa come 14-17,5 miliardi di euro, ovviamente sporchi. Quasi il 50% dei beni sequestrati o confiscati alle mafie sono proprio terreni agricoli (30.526 su 68.194). Notevole anche il volume d’affari della contraffazione: quella agroalimentare costituisce il 16% del totale e vale un miliardo di euro. Pane, vino, carne e pesce i prodotti più esposti. Le condizioni di lavoro dei braccianti non sono migliorate e sono paragonabili a uno stato di schiavitù: mancata applicazione dei contratti, un salario tra i 22 e i 30 euro al giorno, inferiore del 50% rispetto a quanto previsto dai contratti, orari tra le 8 e le 12 ore di lavoro. E poi c’è il ricorso al cottimo, nonostante sia esplicitamente escluso dalle norme di settore, la violenza (nel caso di Ragusa emerso l’anno scorso, anche sessuale), il ricatto, la sottrazione dei documenti, l’imposizione di alloggio e altri beni di prima necessità, il trasporto effettuato dagli stessi caporali. Alcuni passi avanti, spiega Ivana Galli, la nuova segretaria della Flai Cgil (eredita il posto che per otto anni è stato di Stefania Crogi), sono stati fatti, come l’istituzione della Rete per il lavoro agricolo di qualità: ma su un potenziale bacino di 100 mila aziende, risultano iscritte per ora appena 300. C’è poi un disegno di legge in attesa di approvazione, per il momento fermo: "È il ddl governativo 2217 "Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura" - spiega Galli - Ma mancano dei pezzi importanti e rimangono delle criticità: non è stato ancora calendarizzato in Aula e comunque crediamo che il testo definitivo debba prevedere quale requisito per le aziende che si iscrivono alla Rete lo stare in regola con l’applicazione dei contratti nazionali e dei contratti provinciali; piani per l’accoglienza dei lavoratori stagionali; confisca di quanto ottenuto attraverso sfruttamento e lavoro nero". La richiesta politica più importante riguarda però l’estensione del reato di caporalato - il 603 bis, introdotto nel 2011 dopo le battaglie del sindacato - alle imprese che vi fanno ricorso. "Sono d’accordo con voi - ha spiegato il ministro dell’Agricoltura Martina, rivolgendosi a Ivana Galli e alla segretaria della Cgil Susanna Camusso. Bisogna cambiare il modo in cui si guarda al caporalato, e fissare le imprese dritte negli occhi, chiamandole a una assunzione di responsabilità. Perché ci sono imprenditori onesti, ma altri non lo sono, e danneggiano i lavoratori e la leale concorrenza". Martina ha aggiunto di non essere "soddisfatto del risultato della Rete per il lavoro agricolo di qualità", e ha assicurato che l’impegno per migliorare le condizioni del settore, insieme ai ministri del Lavoro, degli Interni e della Giustizia, è "costante": "Aumentiamo le ispezioni e riorganizziamo le norme penali. Sollecitiamo il Senato perché l’iter del ddl riparta". L’ex Sindaco Rocco Femia: 5 anni di gogna e di galera, ma la giunta non era mafiosa di Simona Musco Il Giorno, 14 maggio 2016 "A casa mia la parola ‘ndrangheta non è mai entrata. Non sono mai stato mafioso e mai lo sarò". Per la Dda di Reggio Calabria, Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa, è un mafioso che ha vinto le elezioni con i voti del clan Mazzaferro. Ma dopo cinque anni di carcere è tornato a casa, ribadendo quanto da sempre urlato: "sono innocente". È una decisione forte quella presa giovedì dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, che ha accolto l’istanza degli avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino: nonostante due condanne a dieci anni in primo grado e in appello, l’ex sindaco arrestato con l’operazione "Circolo Formato" è stato rimesso in libertà. L’annullamento della condanna di uno dei suoi assessori, Francesco Marrapodi, scrivono i giudici reggini, "esponente politico messosi a disposizione della cosca Mazzaferro in occasione della competizione elettorale del 2008, nominato assessore nella giunta presieduta dal Femia Rocco - soggetto con posizione sostanzialmente analoga a quella dell’istante", costituirebbe "elemento sopravvenuto suscettibile di valutazione nel giudizio in ordine alla persistenza delle esigenze cautelari". I due politici erano stati arrestati il 3 maggio 2011 assieme ad altri due membri della giunta e una trentina tra presunti boss e gregari dei clan di Gioiosa. Ma il castello di accuse a carico di Marrapodi, il 27 aprile scorso, è crollato: lui, che aveva scelto il rito abbreviato beccandosi due condanne 6 anni e mezzo per concorso esterno, si è visto annullare senza rinvio la condanna in Cassazione, chiudendo i conti con la giustizia. Le motivazioni della condanna in appello dei due politici erano molto chiare: "Francesco Marrapodi ha accettato e voluto candidarsi con la lista dei Mazzaferro e con Rocco Mazzaferro ha trattato ed è sceso a patti", si leggeva sull’ex assessore ai lavori pubblici. E l’ex sindaco Femia era un "uomo dei Mazzaferro" o anche "interfaccia" del boss. La cosca avrebbe puntato sulle elezioni per risalire la china dopo esser stata sopraffatta dal clan rivale, gli Aquino, e aveva bisogno di appoggi politici per mettere le mani sull’economia del paese. Ora, però, la Cassazione ha messo in discussione il quadro accusatorio, annullando con rinvio anche la posizione degli altri coimputati accusati di associazione mafiosa. E oggi, dopo 5 anni in una cella, "tra scarafaggi e topi", Rocco Femia ribadisce quanto detto sin dall’inizio: "la mia amministrazione ha sempre agito nella legalità". Hakim Nasiri: "non sono un terrorista, mio padre è stato ucciso dai talebani" di Simona Musco Il Dubbio, 14 maggio 2016 "In carcere piangevo e mi chiedevo: perché sono qui? Non riuscivo a darmi una risposta. E dicevo: potete anche cacciarmi, uccidermi ma io non ho fatto niente. Io sono venuto qui per fare cose buone, non sono questa persona". Hakim Nasiri, il 23enne afghano fermato martedì con la pesante accusa di terrorismo internazionale su rischiesta della Dda di Bari, da giovedì è di nuovo libero. Il gip di Bari, Francesco Agnino, ha constatato l’insussistenza di gravi indizi a suo carico: non c’era nessuna cellula jihadista in città pronta a preparare attentati, bensì solo alcuni trafficanti di immigrati. Ma non lui, Hakim, che nemmeno con quelle accuse, scrive ancora il gip, c’entra niente. Anche Zulfiqar Amjad, il 24enne pakistano fermato lo stesso giorno a Milano è stato scarcerato, mentre resta in cella l’altro afghano 29enne Gulistan Ahmadzai. Il giovane messo in libertà a Bari, affiancato dal suo legale Adriano Pallesca, ripercorre in inglese gli ultimi cinque anni di vita, dalla fuga dal suo paese, dopo che i talebani hanno ucciso suo padre, fino all’arresto e alle tre notti in cella, trascorse tra lacrime e preghiere. Le forze dell’ordine, sei mesi fa, avevano sequestrato il suo cellulare, dove erano presenti foto e video giudicati prove della sua militanza jihadista. "Sono venuti da me in borghese, mi hanno chiesto il mio nome e mi hanno arrestato", racconta quasi mangiandosi le parole. Il gip ha ritenuto insussistenti le accuse mosse dai pm Roberto Rossi e Pasquale Drago ? che hanno già preannunciato ricorso -, escludendo "la sussistenza di un gruppo impegnato in attività di ricerca, selezione, riproduzione di documenti idonei a diffondere l’idea terroristica" e parlando, tutt’al più, di "appartenenza al mondo dell’integralismo islamico, mentre non è provata la aspirazione e disponibilità, in procinto di attuazione, a dare concreto contributo al terrorismo di matrice islamica". A convincere gli inquirenti che si trattasse di un terrorista sono state quelle foto con un mitra in mano, il selfie con il sindaco di Bari, uno scatto in cui mostrava il dito medio al poster di Malala e un video all’interno di un centro commerciale. "Quel mitra era di plastica, era un gioco. Un anno e mezzo fa lavoravo in un negozio a Londra e il mio datore di lavoro mi disse di fare una foto", racconta. E Malala, semplicemente, "non mi piace". Così, di ritorno da Milano a Bari, ha deciso di fare una foto "scherzosa" e nulla più. Così come la foto con il sindaco Antonio Decaro, durante una manifestazione. "Ho visto che tutti facevano la foto, l’ho fatta anche io. Era un personaggio importante, volevo mostrarla agli amici". Il video all’interno del supermercato, infine, era di un amico che stava per fare rientro in Afghanistan e voleva mostrare ai suoi connazionali cosa faceva in Italia: "shopping". "Sono arrivato in Italia cinque anni fa - racconta il giovane. Quando i carabinieri mi hanno chiesto della foto con il fucile ho detto: se ci sono problemi cacciatemi ma questa è una pistola di plastica. Ho fatto delle foto dei miei viaggi, come fanno tutti, a Milano e a Roma. Che male c’è?", si domanda ancora. E poi racconta dei suoi tre giorni in cella. "Io non sono niente, sono venuto qui per fare una vita buona. Mio padre è stato ucciso dai talebani. Avrebbero ucciso anche me e mia madre mi ha spinto a partire. Sono venuto qui per lavorare, per me ogni azione violenta va censurata, che venga da un cristiano o da un musulmano non cambia", aggiunge. E l’avvocato Pallesca, che lo segue sin dal suo arrivo in Italia, è sicuro che si tratti di una brava persona. "Non ci sono prove di un collegamento con una rete terroristica, non ci sono tracce di indottrinamento. Nel 2011 - racconta il legale - ha chiesto protezione internazionale ma gli è stata negata. Così è andato in Inghilterra, per poi tornare in Italia dopo tre anni, dove ha ripresentato domanda di protezione. La commissione sta valutando la sua posizione ma ora la pratica è sospesa per via delle indagini", spiega. E poi parla di lui come di una "persona mite" e dalla grande "apertura mentale": "Lo conosco da 5 anni e capita che vada a pregare Allah in un centro d’ascolto cristiano. Ma basterebbe guardarlo in faccia per capire". Dell’Utri ricoverato per problemi cardiaci. Il suo avvocato "soffre il senso d’ingiustizia" di Errico Novi Il Dubbio, 14 maggio 2016 Il medico lo ha visto male. Non la solita aria sofferente, c’era qualcosa di diverso. Così l’altro ieri dall’unità sanitaria di Rebibbia si è deciso di trasferire Marcello Dell’Utri all’ospedale Sandro Pertini. L’ex senatore sconta una pena a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa: adesso si trova presso il reparto di Unità Coronarica dell’ospedale romano. "È vigile, presente a sé stesso", dice l’avvocato Giuseppe Di Peri, che assiste il cofondatore di Forza Italia insieme con i legali Bruno Nascimbeni e Andrea Saccucci. "L’ho visto, tornerò a trovarlo domani (oggi per chi legge, ndr). Ancora non è possibile accertare la natura del malessere. Dell’Utri vive con quattro stent, mercoledì ha cominciato a non sentirsi bene e lo hanno portato al pronto soccorso del carcere: si tende a escludere l’infarto, si parla di sospetta occlusione". Effettuato subito un elettrocardiogramma, riferisce Di Peri, "appena possibile verrà eseguito un esame coronarico". Dell’Utri si trova nel padiglione Medicina protetta del Pertini, riservato ai pazienti detenuti. Senso d’ingiustizia - La sofferenza cardiaca dell’ex braccio destro di Silvio Berlusconi risale a prima dell’estradizione dal Libano. Dell’Utri ha scontato i primi 22 mesi nel carcere di Parma, dove fu condotto il 13 giugno 2014. Domenica era passato a Rebibbia. "Un trasferimento concesso in seguito a una nostra richiesta e non a ragioni di salute", spiega Di Peri, "certo nelle sue condizioni lo stato detentivo, per giunta in Alta sicurezza, è un fattore aggravante. Dell’Utri sta peggio da quando è arrivata la sentenza su Bruno Contrada. Quella con cui la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha annullato la condanna di quest’ultimo, inflitta per lo stesso reato contestato a Dell’Utri, concorso esterno. Il senso di ingiustizia lo fa stare fisicamente male". I giudici di Strasburgo hanno stabilito che l’ex numero due del Sisde non poteva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa: quel reato infatti è stato "tipizzato" dalla giurisprudenza italiana dal 1994. I fatti imputati a Contrada erano antecedenti. "Quelli per i quali è stato condannato Dell’Utri arrivano fino al ‘92". Eppure la Corte d’Appello di Palermo ha respinto l’incidente di esecuzione presentato dagli avvocati proprio sulla scorta della sentenza Contrada. "È l’aspetto che lo amareggia di più", dice Di Peri, "e che credo pesi molto sulle sue condizioni di salute". In questi mesi "Dell’Utri ha curato moltissimo l’alimentazione, ma non è servito: le sofferenze cardiache permangono". Già nel 2014 i difensori dell’ex senatore azzurro presentarono ricorso alla Corte europea. Il caso Contrada ha consentito poi di irrobustire l’istanza. "Ma prima che il giudizio venga calendarizzato passeranno anni". Il paradosso è che alla fine del procedimento davanti ai giudici della Cedu, Dell’Utri otterrà sicuramente un pronunciamento uguale a quello dell’ex vertice del Sisde. Ma per allora avrà anche finito di scontare la condanna. Contrada, per ottenere l’annullamento da Strasburgo, ha atteso 7 anni. Esattamente la durata della pena di Dell’Utri. Una situazione assurda: potrebbe risolverla solo un provvedimento di clemenza. Che i familiari però, finora, non hanno chiesto. Familiari in ambasce - Sono stati gli stessi giudici palermitani a convenire che "la posizione di Dell’Utri è identica a quella di Contrada, dal punto di vista sostanziale e temporale: ciononostante non hanno accolto la richiesta di annullamento né ovviamente quella di scarcerazione", osserva Di Peri, "hanno sostenuto che la strada per applicare il principio sancito a Straburgo non poteva essere quella dell’incidente di esecuzione. La situazione ha prostrato molto Dell’Utri". L’ex senatore, che ha 74 anni, ha chiesto il trasferimento nel carcere romano di Rebibbia giacché nella Capitale vive la maggior parte dei suoi congiunti. Il figlio Marco, innanzitutto, affermato cineasta, e il fratello gemello dell’ex senatore, Alberto. Il primo è a Cannes, il fratello a sua volta si è trovato in uno stato di grande agitazione: avrebbe voluto correre al Pertini ma la visita sarebbe stata impossibile. Anche in caso di condizioni di salute difficili e di trasferimento in ospedale serve sempre il permesso del Tribunale. Permesso che potrà essere chiesto solo lunedì alla riapertura degli uffici. Dell’Utri d’altronde è in regime di alta sicurezza, cosa inevitabile visto il titolo di reato. Il cofondatore del partito che ha avuto la maggioranza relativa dei voti in Italia non può vedere i familiari nemmeno dopo un attacco di cuore. Niente prescrizione se c’è l’ergastolo Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 12 maggio 2016, n. 19756. Il delitto punibile in astratto con la pena dell’ergastolo, commesso prima della modifica dell’articolo 157 del Codice penale (legge ex Cirielli, 251/2005) non si prescrive, neppure nel caso del riconoscimento di una circostanza attenuante dalla quale derivi l’applicazione di una pena temporanea. Le Sezioni unite risolvono i dubbi in proposito, chiarendo che nel sistema definito dall’articolo 157, nel testo originario, la previsione normativa dell’ergastolo segna il confine dell’istituto della prescrizione: in esso include, come spartiacque ideale, la classe dei reati costituita dalle contravvenzioni e dai delitti punibili con la multa e la reclusione. Ed esclude a priori i delitti punibili con l’ergastolo. Roverto Cobertera di nuovo in sciopero della fame di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 14 maggio 2016 La verità per Roverto Cobertera non può più aspettare. Sembra incredibile che la stragrande maggioranza dei detenuti si dichiari innocente e qualcuno storce il naso. Eppure, i dati e i numeri ci confermano che molte delle persone che vengono arrestate, in seguito sono ritenute innocenti. Si può essere condannati e mandati in carcere per tanti motivi: per scelte di vita sbagliate, per difetti caratteriali, per cattiveria, per sopravvivenza, per amore, per ignoranza, per solidarietà, per ingiustizia sociale, per depressione, e per tante altre cose che abitano l’animo umano. Roverto è stato condannato un po’ per tutti questi motivi, ma è anche vittima lui stesso di un errore giudiziario: egli si è sempre dichiarato innocente dell’omicidio per cui è stato condannato all’ergastolo. E per dimostrarlo è disposto a lasciarsi morire di fame. Dopo la ritrattazione del suo accusatore, reo confesso di quell’omicidio, ha iniziato diversi digiuni, che gli sono costati un paio di ricoveri in ospedale. Da diversi mesi, i suoi legali hanno presentato la richiesta di revisione del processo, ma se i tempi della giustizia italiani sono lunghi quando ti condannano, lo sono ancora di più quando devono ammettere che si sono sbagliati. L’altro giorno, durante l’ora d’aria, ho incontrato Roverto, molto segnato nel fisico da questo nuovo sciopero della fame. Nei suoi occhi ho visto la tristezza, la sofferenza, la disperazione e la rabbia perché i giudici non gli hanno ancora fissato l’udienza per decidere la revisione del suo processo. Mi ha confidato che non vuole più continuare a vivere da colpevole, ma vuole morire da innocente. Ho tentato di convincerlo che è troppo presto per morire. Lui ha sorriso. E ha scrollato la testa. Poi mi ha risposto che, probabilmente, è troppo tardi per non farlo. A mia volta, mi sono chiesto: che posso fare per Roverto Cobertera? Credo di poter fare ben poco. Forse, però, potete fare qualcosa voi del mondo libero. E lancio un appello alla società civile per indirizzare al Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Brescia un’email a questo indirizzo ca.brescia@giustizia.it o una cartolina a questo indirizzo postale Via Lattanzio Gambara, 40 -25121 Brescia, con scritto: "Si sollecita pronuncia su richiesta di revisione per Roverto Cobertera". Grazie a tutti quelli che si attiveranno per fare sentire fuori e dentro la voce di Roverto, perché lui non ne ha più. Friuli Venezia Giulia: approvato documento per l’assistenza sanitaria nelle carceri Il Piccolo, 14 maggio 2016 La Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia ha recepito, attraverso una delibera proposta dall’assessore alla Salute Maria Sandra Telesca, le Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari per adulti, implementazione delle reti sanitarie regionali e nazionali, adottando nel contempo il documento che definisce La rete sanitaria regionale per l’erogazione dell’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari. Viene individuato per ciascuna Azienda sanitaria un servizio di sanità penitenziaria che eroga l’attività garantendo la continuità assistenziale. L’organizzazione dell’offerta assistenziale prevede la presa in carico della persona detenuta, la gestione integrata e la continuità delle cure, dal momento dell’ingresso in struttura penitenziaria, durante la permanenza, nel caso di trasferimento e al momento del rilascio. In tutti gli Istituti penitenziari della regione è garantita inoltre la presa in carico dei detenuti tossicodipendenti e alcoldipendenti, attraverso l’attività del personale dei servizi per le dipendenze aziendali. Particolare attenzione viene garantita alle persone con disturbi mentali attraverso appropriati interventi e tutte le possibilità di cura e di promozione della salute mentale. Liguria: Garante del detenuti; qualcosa si muove... dopo appena 10 anni di Laura Arconti Il Dubbio, 14 maggio 2016 Nel sito della Regione Liguria con data 1° marzo 2006, si annuncia la presentazione della proposta di legge n. 51/2006, di Cristina Morelli e Carlo Vasconi, per l’istituzione dell’ufficio del garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. L’avvenimento era già stato annunciato, durante una conferenza stampa del gruppo dei Verdi in Regione insieme all’Associazione radicale Adelaide Aglietta, con la seguente dichiarazione: "La proposta mira alla creazione, presso il Consiglio regionale, di un nuovo organo di garanzia per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e cioè detenuti negli istituti penitenziari o negli istituti penali per minori nonché stranieri collocati nei centri di prima accoglienza e di assistenza temporanea. L’obiettivo è quello di contribuire a trasformare le carceri da luoghi di punizione a sedi di riabilitazione". Mancano successive notizie circa l’iter della proposta: presumibilmente non è mai stata posta in discussione, poiché solo nel gennaio 2013 (sette anni dopo) la Capogruppo IdV e presidente della commissione Pari Opportunità richiama l’attenzione sull’emergenza carceri in Liguria, invocando l’urgenza dell’istituzione del Garante. Questa iniziativa non ha altro effetto che di provocare la protesta del segretario generale del Sappe, il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, che dichiara: "Le priorità penitenziarie della Liguria sono ben altre che istituire il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Passano altri tre anni e finalmente, il 20 gennaio 2016, il consigliere Gianni Pastorino (Rete a sinistra) presenta la Proposta di legge n. 17 per "l’Istituzione del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". La proposta Pastorino è molto precisa e dettagliata: rivela un precedente studio delle altre leggi regionali, con il dichiarato scopo di ottenere l’assenso e la condivisione del Consiglio in tutte le sue parti. Innovativo il metodo di elezione, a scrutinio segreto mediante i voti dei tre quinti dei Consiglieri assegnati alla Regione, in luogo dei consueti due terzi richiesti dalle altre Leggi regionali. Il 25 febbraio 2016 la proposta di legge ha iniziato il suo percorso legislativo con il passaggio alla prima commissione del Consiglio Regionale (Affari Generali, Istituzionali e Bilancio). Il 15 marzo è stato inviato alla Commissione un "Testo Unificato" con alcune variazioni migliorative: si tratta ovviamente di una base di discussione, suscettibile di mutamenti, ma l’iter della legge è monitorato con attenzione dallo staff di Pastorino, presentatore della proposta di legge, e dal gruppo consiliare "Rete a Sinistra". Il 5 maggio l’esame del testo in Commissione risulta in fase avanzata, ma restano da mettere in calendario numerose audizioni: tre esperti (due professori universitari ed una psicologa), alcuni rappresentanti delle Istituzioni (amministrazione penitenziaria, carcere di Marassi, casa circondariale della Spezia, ministero della Giustizia) e infine numerose Associazioni che hanno chiesto di partecipare alle audizioni. Fra le associazioni che hanno proposto di essere ascoltate non mancano le ben note: Antigone, Amnesty International, la Veneranda Compagnia di Misericordia, la Compagnia delle Opere e la Comunità di San Benedetto. Di fronte a tanta buona volontà collaborativa, era inevitabile un commento di finta ingenuità ma di reale malizia: l’insinuazione ha invece ricevuto una cortese ma ferma risposta. L’interlocutore, il funzionario del gruppo consiliare presentatore della Legge, ha dichiarato: "garantisco che vigileremo sulla assoluta trasparenza delle procedure". Con questo auspicio, ci si augura che i risultati delle commissioni siano rapidi e condivisi. Per il ministero, la Regione Liguria è praticamente "lettera morta": né più né meno come la Calabria e la Basilicata, le altre Regioni che non hanno ancora né il Garante, né la legge che ne istituisca le funzioni. La pubblicazione di questo Dossier fornirà notizie all’Ufficio del Garante Nazionale. Abruzzo: Garante dei detenuti; il sottosegretario Chiavaroli spinge per la Bernardini rete8.it, 14 maggio 2016 Il sottosegretario alla Giustizia considera inconcepibile il ritardo della Regione nel nominare il Garante, figura non politica, ma istituzionale e di vitale importanza e indica in Rita Bernardini il profilo perfetto. Da 100 giorni sottosegretario al Ministero della Giustizia, la senatrice pescarese Federica Chiavaroli ha subito indirizzato nel mondo dei penitenziari italiani il suo maggior interesse, in particolare visitando tutte le carceri abruzzesi. Nella lunga intervista rilasciata alla trasmissione "In Cronaca", in onda anche questa sera alle 20.15, il sottosegretario parla della necessità di una radicale riforma in questo settore e di come sia importante garantire nuove opportunità per chi ha sì sbagliato, ma necessita comunque di una seconda chance, citando realtà all’avanguardia come, ad esempio, il carcere di Lanciano dove un imprenditore ha deciso di aprire all’interno un laboratorio nel quale lavorano, regolarmente assunti, 4 detenuti e sul fatto che la Regione non abbia ancora sciolto le riserve per quel che riguarda la nomina del garante dei detenuti: "È inconcepibile che la Regione non abbia ancora formalizzato la nomina del garante - dice la Chiavaroli - parliamo di una figura non politica, ma istituzionale che deve monitorare le attività all’interno dei penitenziari e segnalare eventuali situazioni. Rita Bernardini é la figura migliore e non capisco quali possano essere i problemi all’interno del Consiglio Regionale". Piacenza: carcere, il Sappe replica all’articolo di Alfredo Mantici su "Panorama" Ristretti Orizzonti, 14 maggio 2016 Egregio dottor Mantici, ciò che a nostro avviso un giornalista non dovrebbe mai fare, seppur involontariamente, è assecondare la volontà di chi vuole nascondere i fatti. Lei è proprio sicuro che la smentita fatta dalla direzione del carcere di Piacenza sia fondata? Io al suo posto sarei molto più cauto, soprattutto se avessi letto la replica fatta dal sindacato. Infatti, il procuratore aggiunto di Bologna ha aperto un fascicolo sul caso e la prossima settimana saremo sentiti dalla Digos, alla quale forniremo ogni utile elemento, per accertare come sono andate le cose. Quando l’iter procedurale sarà concluso magari ne riparleremo. Altra cosa che un giornalista non dovrebbe mai fare, senza voler dare consigli non richiesti, è di lamentarsi della pubblicazione delle notizie, soprattutto quando sono vere. D’altra parte, senza quelle notizie, anche lei non avrebbe potuto scrivere il suo pezzo. Questo lo dico sia da sindacalista sia da pubblicista. Diversamente da lei nessuno ha riscontrato panico nell’opinione pubblica, per la notizia della rivolta nel carcere di Piacenza, anche perché fino a quando stanno in carcere la gente può stare tranquilla, il problema si pone quando escono fuori. Lei scrive di colluttazione tra detenuti e agenti, ma ciò non corrisponde al vero, perché la rivolta è stata sedata senza alcun contatto fisico, dopo una lunga trattativa, durata circa tre ore. Se lei avesse letto attentamente la notizia riportata dai sindacati avrebbe senz’altro compreso che nessuno di noi ha lanciato un allarme terrorismo islamico nelle carceri italiane, a seguito dei fatti di Piacenza, ma ci siamo limitati a riportare le frasi di qualche detenuto. Nella replica alla smentita della direzione abbiamo scritto che tali frasi sono documentate in atti, ma questo forse le è sfuggito. Ciò non vuol dire che un allarme in tal senso non ci sia, visto che dei circa diecimila detenuti di fede islamica presenti nelle carceri italiane (che non pensiamo assolutamente siano tutti estremisti, ma tutt’altro!) più di trecento sono monitorati, per aver dato segnali di adesione quantomeno ideologica all’estremismo; altri venti sono detenuti in una sezione speciale di un carcere in Calabria, per essere stati condannati per reati di terrorismo, ovvero per avere dei procedimenti in corso. Circa la gravità dell’accaduto siamo qui a confermarlo: si tratta di un fatto di una gravità estrema, perché queste persone non solo si trovano in un Paese dove hanno commesso dei reati per i quali sono in carcere, luogo in cui ci costano circa 130 euro al giorno, ma si permettono anche di danneggiare i beni dello Stato che noi cittadini dovremo provvedere a far riparare o sostituire. Se lei ritiene che ciò non sia grave, quando usciranno dal carcere, li porti a casa sua e lasci che distruggano i suoi beni, almeno quelli non dovremo contribuire a ripararli noi. Cordialmente. Dott. Giovanni Battista Durante Segretario generale aggiunto Sappe Gorizia: l’appello della sorella di un detenuto alcolista "da mesi abbandonato in cella" di Roberto Covaz Il Piccolo, 14 maggio 2016 "Non sono solo i gay ad avere problemi. Mio fratello senza alcuna assistenza". "Da quasi sei mesi stiamo lottando per la totale inesistenza di supporti assistenziali, per la totale inattività rieducativa, per l’assenza di supporto medico e per il totale abbandono da parte delle assistenti sociali". Un appello alle istituzioni prima che una denuncia quella che giunge alla redazione de Il Piccolo dalla sorella di un detenuto nel carcere di Gorizia. Uno sfogo che trae origine dai problemi che investono la sezione omosessuali, unica nel Triveneto. "Non sono solo gli omosessuali ad avere problemi in via Barzellini", è il senso di quanto afferma la donna. Scrive la sorella del detenuto in una lettera dai toni pacati dai quali, tuttavia, traspare una profonda disperazione: "Dopo una ventina di giorni dalla carcerazione di mio fratello che ha problemi di alcol abbiamo chiesto al dottor Segatori (psichiatra dell’Ass) di poter incontrare mio fratello in carcere per poter iniziare un percorso riabilitativo. La nostra richiesta è stata accolta. Il 19 novembre 2015 Segatori ha un colloquio con mio fratello. Il contenuto del colloquio è sintetizzato in una relazione. Mio fratello mi ha riferito che l’esito del colloquio è stato positivo. Mi aspettavo qualche novità in merito ma sono passati giorni, settimane e mesi senza alcuno sviluppo. Ho chiesto notizie all’assistente sociale ma non ho avuto risposte. A metà aprile il giudice ha negato gli arresti domiciliari perché mio fratello aveva rifiutato il percorso al Sert. L’avvocato difensore contatta l’infermeria del carcere ed ecco che "magicamente", e dopo mille scuse, compare la valutazione positiva del dottor Segatori in cui è spiegato che mio fratello accettava il percorso al Sert. Hanno riferito di aver perso la relazione. E questa si chiama assistenza garantita? Mio fratello da quattro mesi ha problemi ai denti ma non ha mai visto un dentista. Questa è assistenza garantita? Chi ha problemi di dipendenza di droghe viene "curato" con metadone o Sanax: questa è assistenza garantita? A parte un incontro di gruppo questi detenuti non hanno un percorso riabilitativo né di risocializzazione, vivono nella totale sporcizia e abbandono. Non sto assolutamente difendendo chi, come mio fratello, ha sbagliato e di conseguenza merita il carcere ma sto parlando a loro nome portando la verità di cosa succede in carcere". Un aspetto in particolare intende chiarire la signora: "Non accuso certo gli agenti della polizia penitenziaria che sono in numero esiguo e fanno del loro meglio facendo anche doppi turni". A margine della vicenda specifica va ricordato come sulla sezione omosessuali, come già detto, ci sono versioni contrastanti. Da una parte - agenti - si ammette che i detenuti non godono degli stessi servizi garantiti agli altri per motivi organizzativi, dall’altra - radicali ad esempio, reduci da una recente visita in via Barzellini - si certifica una situazione più che accettabile. Pisa: la diocesi tira dritto "la casa di accoglienza per detenuti aprirà in autunno" di Mario Neri Il Tirreno, 14 maggio 2016 La Caritas: in arrivo tre sacerdoti dehoniani per gestirla Ma il progetto deve ancora essere depositato in Comune. "A Calci arriveranno tre sacerdoti dehoniani, che dal prossimo autunno si occuperanno anche di "Misericordia Tua", la struttura d’accoglienza per favorire il reinserimento sociale di chi esce dal carcere voluta dalla diocesi come opera segno del giubileo straordinario della Misericordia". Ad annunciare l’arrivo in Valgraziosa dei tre religiosi dell’ordine francese è stato mercoledì don Emanuele Morelli, direttore della Caritas diocesana di Pisa durante l’incontro tenutosi all’ex convento dei cappuccini "Fra certezza della pena e percorsi di recupero: la giustizia riparativa e il reinserimento sociale dei detenuti". E la notizia è un segnale preciso. La Diocesi pisana non ha nessuna intenzione di rinunciare al progetto per la realizzazione di una casa d’accoglienza per detenuti ed ex detenuti a Sant’Andrea. Un’ipotesi che fin da dicembre scorso, quando la Caritas presentò il progetto per la prima volta, ha suscitato le polemiche dei residenti della zona. "Nessuno ci garantisce che i detenuti non siano una minaccia per la nostra sicurezza", uno dei motivi del no. I tre padri dedicheranno la loro quotidianità alla casa famiglia riservata ai detenuti del Don Bosco che sorgerà nella canonica di Sant’Andrea a Lama. Fra loro ci sarà sicuramente anche padre Elio Dalla Zuanna, fino al prossimo settembre assistente spirituale nazionale delle Acli e, a tutti gli effetti al servizio della comunità calcesana. "Cerchiamo di pensare a una casa tra le case - ha continuato don Morelli - si tratta di una realtà dove è fondamentale guardare oltre e noi percepiamo che è altrettanto fondamentale incoraggiare questi cammini di riabilitazione". Per iniziare le attività, i frati dovranno attendere che il progetto di ristrutturazione della canonica riceva il via libera della Soprintendenza e quello del Comune di Calci. "La nostra valutazione riguarderà solo gli aspetti urbanistici - dice il sindaco Massimiliano Ghimenti. Ma per ora il progetto non ci è ancora stato presentato". Alghero: Pili (Unidos); bloccata chiusura carcere, quaranta nuovi detenuti in tre giorni sassarinotizie.com, 14 maggio 2016 "Con una retromarcia su tutta la linea il Ministero della Giustizia, dopo la denuncia di dieci giorni fa, decide di inviare 40 nuovi detenuti nel carcere di Alghero. Salta per aria il piano di chiudere il carcere e di trasformarlo in centro di accoglienza. Dopo la denuncia di una totale e inesorabile smobilitazione con l’80% del carcere vuoto, con detenuti ormai ridotti ad un numero esiguo, il ministero é stato costretto a ribaltare la strategia messa nero su bianco due anni fa con lo svuotamento di colpo del carcere. Strategia franata dinanzi alla denuncia circostanziata e verificata nei singoli dettagli con la visita ispettiva nella struttura carceraria di Alghero". Lo ha detto il deputato sardo di Unidos Mauro Pili che dieci giorni fa aveva presentato un’interrogazione circostanziata sulla smobilitazione e aveva effettuato una visita ispettiva nell’istituto. "Per il momento - dice Pili - i piani maldestri del ministero della Giustizia sono saltati. Da oltre un anno non veniva mandato più nessun detenuto e il carcere era vuoto per gran parte della struttura, con celle da 4 letti utilizzate per un solo detenuto. Un carcere destinato ad esaurirsi nella sua funzione nel giro di pochi mesi". "Il piano di chiuderlo è, però, saltato per aria dopo la denuncia circostanziata formalizzata con la mia interrogazione parlamentare che ha svelato i numeri di un carcere di fatto senza detenuti e il subdolo progetto di portarlo ad esaurimento. Non si spiega diversamente il cambio di rotta repentino del ministero. Una volta scoperto il piano il Ministero per correre ai ripari negli ultimi tre giorni sono stati trasferiti ad Alghero ben 26 detenuti e altri 13 ne sono arrivati stamane. Mercoledì ne sono arrivati 7 da Oristano, ieri 11 da Sassari, 4 da Oristano e 4 da Nuoro e altri 13 stamane da Sassari. In totale nel giro di 4 giorni 39 nuovi detenuti. Di questo ministero - ha concluso Pili - non c’è da fidarsi è, dunque, indispensabile mantenere guardia altissima". Foggia: reinserimento dei detenuti, promosso l’Atelier dell’Ausilio tra Lucera e Cerignola immediato.net, 14 maggio 2016 Atelier dell’Ausilio: promosso. È positiva la prima verifica del progetto di inserimento sociale dei detenuti, in corso a Lucera, pronto a completare il percorso sperimentale e a trasformarsi in una piccola azienda, con tutti i requisiti industriali e professionali, a costo zero per la collettività. In una conferenza stampa a Bari, in Consiglio regionale, è stato fatto il punto dell’esperienza: tre detenuti e quattro soggetti in esecuzione penale esterna impegnati nella sanificazione, riparazione e magazzinaggio di ausili protesici per disabili, dalle stampelle alle carrozzine. È un esempio di attuazione concreta del principio costituzionale che vuole la pena destinata alla riabilitazione del condannato e al suo reinserimento nella società, ha osservato il presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, che ha detto di apprezzare "in modo sincero e non retorico" un’iniziativa di alto valore sociale, tra le azioni più qualificanti dell’Ufficio del Garante regionale delle persone private della libertà. Da questa "sperimentazione pionieristica", può nascere una strategia da estendere all’intera Puglia. Sono azioni importanti di recupero di chi ha sbagliato e si avvia al reinserimento socio lavorativo, ma puntano anche a rendere dignitosa la condizione di chi sconta in carcere. "In attesa di un miglioramento generale della detenzione - ha aggiunto Loizzo - è necessario dedicare attenzione alla sanità carceraria, con riguardo in particolare ai detenuti soggetti a patologie psichiatriche". Va rafforzata la medicina penitenziaria - l’esempio è il potenziamento del centro clinico e diagnostico della casa circondariale di Bari, dove le attrezzature attendono spazi adeguati - anche per dare segni di operatività che contrastino la tendenza neo-centralista in atto, di avocare la materia sanitaria allo Stato, sottraendola in tutto o in parte alla competenza delle Regioni. Introdotti dal Garante Pietro Rossi, hanno preso la parola rappresentanti della Regione e dell’amministrazione penitenziaria. Atelier dell’Ausilio è una misura intelligente di riabilitazione, che riduce il rischio sociale della recidiva, ha fatto presente il consigliere regionale Marco Lacarra. "Un’iniziativa di inserimento sociale unica in Italia, che ha tanti significati, tutti socialmente utili", ha notato il consigliere segretario Giuseppe Turco e che "si coniuga bene con la proposta di legge avanzata dal gruppo La Puglia con Emiliano in Consiglio regionale. Un progetto di legge che disciplina proprio il riuso di ausili protesici, affidati a imprese sociali dopo i necessari interventi di ripristino funzionale. La sperimentazione in Capitanata, infatti, sta dimostrando che si può fare, che l’esperienza avrà un futuro, ha fatto presente il direttore del Dipartimento regionale della salute Giovanni Gorgoni. Si tratta di accompagnarla impiegando tutti gli strumenti normativi, per estenderla all’intero territorio regionale. Il progetto, hanno spiegato Pietro Rossi e Paolo Tanese (presidente della cooperativa sociale Escoop), associa un’attività industriale ad una socio-lavorativa ed entrambe convergono nel settore sanitario, restituendo funzionalità a materiali che altrimenti finirebbero rottamati anche per piccole avarie. In un’officina nel carcere di Lucera e in un deposito nella zona industriale di Cerignola, sono occupati con contratti regolari sette condannati. L’impresa si finanzia con il lavoro e non grava sulla comunità civile. Anzi assicura alla sanità pubblica un risparmio significativo, provvedendo al recupero di ausili protesici a ciclo completo: dal ritiro a domicilio alla sanificazione, lavaggio, riparazione, sanificazione, fino alla consegna, sempre a domicilio. Al 31 marzo 2016 erano 1066 gli ausili acquisiti, 605 dei quali già pronti, per un valore commerciale di 208mila euro. L’Asl committente risparmia il 70%, per questo si stima un’economia complessiva di 9milioni 300mila euro all’anno, per il bilancio sanitario regionale, con la creazione potenziale in tutta la Puglia di 93 posti di lavoro che si finanziano da soli, ancora una volta a costo zero per i pugliesi. Palermo: il presidente del Senato Grasso visita il carcere minorile "potete ricominciare" Agi, 14 maggio 2016 "Ho fatto il magistrato per 43 anni e quando ero ragazzo ho visto una Palermo allagata dal sangue. Servizio, impegno e responsabilità servono a chi si deve creare un futuro. Questi concetti mi hanno accompagnato sempre nella mia vita". Lo ha detto il presidente del Senato, Pietro Grasso, durante la sua vita al carcere Malaspina, a Palermo, incontrando i giovani detenuti. Prima di incontrare i ragazzi, il presidente ha visitato la struttura. Con lui il sindaco Leoluca Orlando e l’arcivescovo Corrado Lorefice. "Ho avuto dei momenti difficili - ha proseguito- dopo il maxiprocesso la mia vita è cambiata. Prima andavo in Tribunale in motocicletta, ma da 30 anni la mia libertà si è attenuata, oggi possiamo dire che è più vigilata. Questa è stata la mia esperienza. In 43 anni quanti detenuti, imputati, ho avuto modo di incontrare, ma vi posso garantire senza mai da parte mia esprimere un giudizio morale, senza mai un giudizio etico, guardando sempre alla persona con la sua dignità. Anche se aveva commesso un delitto non dimenticavo che dietro c’era una persona. Poi ho riscontrato che questo era un principio che aveva anche Giovanni Falcone". Quindi, rivolgendosi ai ragazzi, ha aggiunto: "Voi avete una grande occasione che vi può far sentire integrati o pronti all’integrazione completa. Avete una grande opportunità, mi raccomando non perdete questa occasione, avete tutte le opportunità per ricominciare". "Spero che questi incontri - ha detto al termine della visita Grasso - possano avvicinare questi ragazzi alle istituzioni, a fargli capire che abbiamo fiducia in loro e mi auguro che questa fiducia sia reciproca. Devono comprendere che hanno una opportunità in questo periodo, l’opportunità di acquisire un lavoro e una professionalità e di inserirsi nella società appena usciranno da qui". Per Grasso "questo è molto importante; l’avvicinarsi dei Palazzi delle istituzioni ai giovani detenuti deve diffondersi sempre più. Ad esempio, per il 20 giugno è in programma nell’Aula del Senato un coro di detenuti del carcere di Bologna che si esibiranno insieme a volontari e musicisti, tutti di etnie e religioni diverse, tutti parte dello stesso gruppo. Mi pare che questo possa essere un esempio di integrazione - ha aggiunto - di vicinanza agli ultimi, a coloro che hanno sbagliato ma per dare loro delle opportunità". Palermo: la coop dei giovani detenuti del Malaspina produrrà biscotti agrumi Ciaculli ilfattonisseno.it, 14 maggio 2016 I mandarini di Ciaculli, feudo della vecchia mafia di Michele Greco, diventano strumento per il reinserimento dei giovani detenuti. Una società cooperativa di cui saranno soci lavoratori i minori del carcere Malaspina di Palermo, infatti, produrrà un biscotto agli agrumi prodotti nello storico quartiere che sarà immesso nella rete commerciale nelle prossime settimane. L’esperimento parte da un programma di rieducazione e riabilitazione dei giovani detenuti per l’integrazione nel mercato del lavoro dei ragazzi e coinvolge alcuni dei 31 giovanissimi detenuti della comunità. La ricetta dei biscotti, che saranno venduti con il marchio "cotti in flagranza" è stata elaborata in esclusiva dallo chef Giovanni Catalano. La materia prima, il mandarino, proviene invece dal terreno coltivato dalla comunità di Padre Antonio Garau, bene sequestrato alla mafia a Ciaculli. Il forno per la nuova produzione è stato donato al carcere Malaspina dall’associazione nazionale magistrati. "Vogliamo reinserire i ragazzi, che sono stati condannati per reati molto gravi e far capire loro che c’ è una vita fuori da qui, convertire la pena da scontare in un progetto educativo che dia loro la possibilità in un secondo momento di scegliere una strada, un futuro", spiega il direttore del Malaspina Michelangelo Capitano, "il binario che percorriamo è quello dell’alfabetizzazione e della formazione professionale, anche con progetti di orticoltura". Bologna: "c’è un liberante"; Catalin, detenuto giurato di Cinevasioni, è libero di Ambra Notari Redattore Sociale, 14 maggio 2016 La notizia è arrivata durante la fase delle votazioni del Festival del cinema in carcere in corso in Dozza: Catalin, romeno di 42 anni, ha ottenuto la semilibertà. Vendemmiati (direttore artistico Cinevasioni): "Una notizia bellissima. Prima di andarsene, ha chiuso le operazioni di voto". Il 14 gran finale con l’annuncio del vincitore alla presenza dell’attrice Claudia Cardinale. Erano passate le 18, la giuria di Cinevasioni era riunita per decidere le votazioni dei due film in concorso, "Revelstoke - Un bacio nel vento" e "Lo chiamavano Jeeg Robot". Con la giuria, la regista Enza Negroni della Der, Documentaristi Emilia-Romagna, una delle insegnanti del laboratorio di cinema CiakinCarcere. "A un certo punto è arrivato un agente, e ha recitato la formula ufficiale: "C’è un liberante". Significa che un detenuto era libero, e quel detenuto era Catalin, uno dei nostri giurati del festival. C’è chi ha applaudito, chi l’ha abbracciato, chi piangeva. Tutti erano emozionatissimi": Filippo Vendemmiati, giornalista, regista e direttore artistico di Cinevasioni, il primo Festival del cinema in carcere - in calendario alla Dozza fino a domani - raggiunto al telefono tra le due proiezioni di oggi, sembra ancora incredulo della notizia che ieri ha travolto la kermesse. Catalin, romeno di 42 anni, detenuto in Dozza, studente di CiakinCarcere, protagonista de "La sfida", la sigla del festival, nonché giurato, è libero. Nel corso di un’udienza mattutina il giudice aveva deciso per la semilibertà: Catalin potrà risiedere presso un parente - molto probabilmente andrà a vivere dal fratello - libero di vivere una vita normale, libero di uscire tre ore al giorno. Dopo 4 anni in carcere, prima a Opera (Milano), poi a Bologna, Catalin torna a essere un uomo libero, con qualche mese d’anticipo rispetto al previsto. "Prima di lasciare la Dozza, Catalin ha votato, concludendo così il suo compito da giurato - spiega Vendemmiati -. Non potrà più essere presente alle proiezioni, ma ha svolto il suo lavoro egregiamente, con estrema serietà e rigore. Naturalmente siamo felicissimi della notizia, la prima edizione di Cinevasioni non poteva portare esito migliore". Ultimo appuntamento del festival, domattina, con la proiezione del film fuori concorso "Non essere cattivo" di Claudio Caligari. Al termine, consegna dei diplomi agli studenti del Corso CiakinCarcere, e annuncio del film vincitore di Cinevasioni 2016, che sarà premiato con la Farfalla di Ferro, una scultura disegnata dal pittore Mirko Finessi e costruita dalla Fid - Fare Impresa in Dozza, l’officina metalmeccanica all’interno del carcere, nella quale lavorano insieme detenuti e lavoratori metalmeccanici in pensione. Madrina dell’evento, l’attrice Claudia Cardinale. Napoli: carcere femminile di Pozzuoli, le detenute si trasformano in top model di Elisabetta Froncillo Il Mattino, 14 maggio 2016 Chiudere gli occhi ed immaginare di non essere più in un penitenziario ma in un castello, dove vivere la propria favola, con abiti scintillanti, in attesa di trovare non tanto il principe azzurro ma sua maestà Libertà. È il sogno di "È moda", il progetto di reinserimento sociale al suo terzo anno nella casa circondariale femminile di Pozzuoli. Qui le detenute si trasformano in top model, grazie alla P&P Academy di Anna Paparone e all’impegno della commissione Pari Opportunità del Comune di Pozzuoli. Seguono corsi di portamento e poi debuttano nella moda. Quella moda che unisce culture e tendenze e abbatte ogni diversità. Con una sicurezza ritrovata. Da trasportare, magari, anche nella vita una volta fuori da quelle sbarre. A testa alta e a passo deciso verso nuovi orizzonti. Così come hanno sfilato ieri all’interno del carcere indossando gli abiti di Impero Couture. Inneggiando alla libertà, la stessa dipinta dall’Art Studio sulle spalle di un’indossatrice: le inferriate di una cella si aprono sul golfo e fanno respirare l’aria di una nuova vita. La speranza di farcela. Ancora una volta. La stessa speranza cantata insieme a Gigi Finizio, ospite dello spettacolo che ha tenuto per le "cucciole", così come sono state ribattezzate le ospiti del carcere dall’organizzatrice dell’evento, Anna Paparone. E con loro Finizio ha cantato diversi pezzi, fino a concludere con "Un fammi riprovare": ancora una volta un inno al voler tentare di essere diverse nella società in cui tutte le loro, prima o poi, torneranno. Televisione. Il viaggio di Tg1-Dialogo all’interno di Regina Coeli Il Dubbio, 14 maggio 2016 "Carcere e vita". È il tema della puntata di Tg1-Dialogo in onda questa mattina su Rai1 dalle 8,20, dopo l’edizione del Tg1 delle 8.00. A cura di Piero Damosso e con il commento di Padre Enzo Fortunato, direttore della rivista San Francesco, questa volta la rubrica con il montaggio di Angela Bomarsi propone un viaggio all’interno del vecchio carcere di Regina Coeli, nel cuore di Roma, dove martedì scorso è stata aperta la Porta Santa del Giubileo della misericordia, voluta anche all’interno delle carceri da Papa Francesco che ha più volte detto: "Nessuno può essere considerato irrecuperabile. La speranza e il perdono di Dio sono per tutti. Ciò non significa svalutare la giustizia, chi sbaglia dovrà scontare la pena, ma questo non è il fine, è l’inizio". Tg1-Dialogo propone storie di detenuti, la sfida del lavoro, del reinserimento sociale e della pena che deve tendere alla rieducazione del condannato, come afferma l’articolo 27 della Costituzione italiana. Sulla giustizia riparativa, la testimonianza di Giovanni Ricci, il figlio del maresciallo Domenico Ricci ucciso dalle Br nella strage di via Fani. Giovanni Ricci racconta il suo dolore che invece di trasformarsi in odio e rabbia si è aperto all’incontro con alcuni ex terroristi. Televisione. I cinici mercanti di accuse che fecero morire Tortora di Andrea Pamparana Il Dubbio, 14 maggio 2016 Oggi su Canale5 uno speciale dedicato al presentatore morto 28 anni fa. Il caso Tortora, il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese. Sono passati 28 anni dalla morte, il 18 maggio, del giornalista e presentatore. "Speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un’illusione". Così, con un filo di voce, pochi giorni prima della fine, Enzo Tortora si rivolse all’amico Leonardo Sciascia. E lo scrittore siciliano suggerì l’epigrafe posta sul monumento funebre di Tortora al Cimitero Monumentale di Milano. Una colonna spezzata simbolo della Storia della colonna infame, di Alessandro Manzoni, con la scritta "Che non sia un’illusione". All’interno l’urna con le sue ceneri, cremato per sua volontà con una copia dell’opera di Manzoni e gli occhiali, che spesso dimenticava. "Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi". Così disse nell’aula bunker del carcere di Poggioreale dove si svolse il processo di primo grado. Il 17 settembre 1985 fu condannato a dieci anni di carcere. "Un cinico mercante di morte", lo definì il Pubblico ministero Diego Marmo nella sua requisitoria finale. Un trafficante di stupefacenti, uno che aveva lucrato sui soldi raccolti a Portobello, la sua celebre trasmissione, prototipo di ogni format televisivo da allora ad oggi, per i terremotati dell’Irpinia, un vero e proprio affiliato alla Nuova camorra organizzata guidata dal boss Raffaele Cutolo. L’idea di parlare di nuovo di questo scempio compiuto su un galantuomo in uno Speciale del Tg5 (questa sera in seconda serata su Canale 5 col significativo titolo, Quella "giustizia" che uccise un galantuomo), mi è stata data una domenica pomeriggio, all’entrata della bellissima mostra sui Macchiaioli al Chiostro del Bramante a Roma, dall’amica Francesca Scopelliti, l’ultima compagna di Enzo Tortora. Ho proposto al mio direttore Clemente Mimun di occuparcene e la risposta è stata lapidaria: "Fallo". Francesca ha raccolto alcune vecchie lettere che Tortora le scrisse dal carcere di Bergamo. In una afferma che quello che gli stavano facendo era un "delitto di Stato". Questo intenso scambio epistolare diventerà presto un libro, il titolo suggerito dallo stesso Tortora, "Cento di questi giorni, o forse mia cara sarebbe più giusto dire, mille di questi giorni". Scorrendo le immagini di repertorio da utilizzare per lo Speciale, ascoltando le vecchie interviste a Tortora di Giorgio Bocca e Federico Bini, guardando le sequenze registrate durante il funerale, a Milano, con tante persone semplici in lacrime, la rabbia e lo sdegno di una signora contro i giornalisti che avevano fatto di Tortora un mostro da gettare in prima pagina, la trattenuta commozione di Franca Rame e di tanti protagonisti dello spettacolo e della tv, mi sono sovvenute alla memoria molteplici sensazioni, ricordando quel periodo così pieno di fatti e tragedie che hanno investito spesso l’Italia. Il terremoto in Irpinia, le Brigate rosse, il rapimento e la liberazione sotto pagamento di un riscatto da parte dello Stato con le Br di Giovanni Senzani e la mediazione di Cutolo e della camorra. Nello Speciale ripropongo anche le immagini in bianco e nero di una bellissima e bravissima Mina che canta facendo ballare i quattro re della tv di allora, Mike Bongiorno, Corrado, Pippo Baudo e Enzo Tortora. "Tortora è stato massacrato, fu uno scempio, Enzo è stato ucciso", mi ha detto Pippo Baudo, ancora oggi dopo tanti anni commosso nel rievocare i suoi primi passi da star della tv proprio con Enzo Tortora, già avviato a una carriera formidabile. Ho incontrato alcuni colleghi che in questi anni hanno seguito la vicenda Tortora: Gianluigi Nuzzi, che a diciassette anni, giovane studente che sognava questo mestiere, frequentava casa Tortora in via dei Piatti, a Milano; Vittorio Pezzuto, scrittore ed ex segretario dei Radicali, autore di un libro inchiesta molto utile, Applausi e Sputi; il collega Valter Vecellio, vecchio militante radicale, che introduce il tema di un possibile movente della macchinazione contro Tortora a causa proprio della trattativa tra Stato e camorra per il rapimento di Cirillo, nel pieno del business miliardario del post terremoto in Irpinia e Basilicata; il direttore di questo giornale Piero Sansonetti, che mette ancora una volta il dito nella piaga purulenta del rapporto tra giornalismo e magistratura; l’avvocato Raffaele Della Valle, del quale rivediamo il pianto liberatorio il giorno in cui Tortora, in appello, fu completamente assolto; Rita Bernardini, storica militante radicale, che ci parla del Tortora politico, dell’intenso rapporto con Marco Pannella, della invenzione da parte dei due di un termine mai attuale come ora, giustizia giusta. Lo Speciale Tg5 si conclude con uno spezzone in bianco e nero, tratto da una puntata di Portobello, protagonisti alcuni bambini di una banda che cercava cappelli da bersagliere. "Io sono innocente - disse Enzo nell’aula bunker rivolgendosi ai giudici del Tribunale. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi". Molti, troppi, non lo furono. I prossimi traguardi delle libertà di massimo russo La Stampa, 14 maggio 2016 Sappiamo tutto della differenza tra i tassi di interesse dei titoli di Stato italiani e quelli degli altri vicini europei. Misuriamo ogni variazione del debito e del prodotto interno lordo. È ora di guardare con la stessa attenzione a un altro spread, quello dei diritti. È bello dirlo subito dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili. Proprio quando è stato raggiunto un risultato è importante guardare alla tappa successiva. Serve a spostare ogni giorno più in là la frontiera di quel che ci rende individui liberi e responsabili. Mettiamoli in fila, i prossimi traguardi. A cominciare da una legge sul fine vita. A dieci anni dal caso di Piergiorgio Welby, a sette dalla vicenda di Eluana Englaro, siamo pronti per abbattere il tabù che ancora ci impedisce, rubando le parole a Emma Bonino, "di vivere liberi fino alla fine". In Europa solo Irlanda, Polonia e Paesi balcanici non hanno una normativa che permetta all’individuo di disporre di sé. Si tratti di eutanasia passiva (nella grande maggioranza degli Stati), attiva (nei Paesi Bassi), o di suicidio assistito (in Svizzera). Oltre il 60% degli italiani si è già espresso a favore: come sempre accade su questi temi, la società è più avanti del legislatore. È ora di sancire per legge quel che la tacita ipocrisia che accomuna medici e famiglie già prevede da tempo in reparto, come chiunque di noi ne abbia avuto esperienza ha potuto toccare con mano. Dal marzo scorso un testo è incardinato a Montecitorio. È il momento di farlo camminare. Dalla Camera al Senato, dal termine della vita al suo inizio: lo ius soli, ovvero la concessione della cittadinanza a chi nasce in Italia, è fermo a Palazzo Madama. Per i Paesi dove vige da tempo, come gli Stati Uniti, si tratta di una delle spinte più forti e di maggior successo all’integrazione degli immigrati. Parte determinante dell’idea che ognuno abbia diritto alla ricerca della propria felicità. E se pensate che questo sia un concetto buono per l’altra sponda dell’Atlantico siete fuori strada, perché il primo ad esprimerlo fu un filosofo napoletano del ‘700, Gaetano Filangieri. Da lui lo riprese Benjamin Franklin per inserirlo nella dichiarazione di indipendenza americana. Da rivedere è anche la disciplina delle adozioni, a cominciare dalla cattiva gestione che dilata i tempi e fa attendere anni le coppie che abbiano già ricevuto il decreto di idoneità, per continuare con la necessità di semplificare il percorso a ostacoli delle procedure internazionali, e terminare con la facoltà di adottare, da parte dei gay, il figlio del partner, stralciata per ora dalle unioni. Ci sono altre norme di civiltà che chiamano la politica a schierarsi, scardinando le tradizionali divisioni tra partiti: la regolamentazione dell’uso delle droghe leggere, presentata alla Camera l’estate scorsa da 220 parlamentari di diversi schieramenti; i femminicidi, con la dichiarazione automatica di indegnità a succedere per un uomo che ammazzi la madre dei suoi figli; la legge contro l’omofobia. Tuttavia, bisogna aver chiaro che la gazzetta ufficiale da sola non basta. Non esiste legge più potente della coscienza civile, della cultura e dei comportamenti individuali di rispetto, che chiamano in causa tutti noi ogni giorno. Un’agenda dei diritti. È questa la vera identità di un Occidente smarrito e timoroso. Il nostro pensiero forte, l’antidoto migliore contro fanatici e integralisti. Con il Pil dei diritti e della responsabilità non ci sono sconfitti, né perdenti. Guadagniamo tutti, nessuno escluso, senza paura. Per ritrovare la passione e ricordarci, che - oltre ai conti e alla sicurezza - sono anche altre le ragioni che ci tengono insieme. Pena di morte: Pfizer blocca l’uso dei suoi farmaci per le iniezioni letali di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 14 maggio 2016 Il colosso farmaceutico si unisce ad altre 20 compagnie americane ed europee che hanno già adottato restrizioni: "Facciamo prodotti per salvare e migliorare le vite". I farmaci servono per salvare una vita, non per toglierla. Questo principio etico, al centro del dibattito americano da almeno sei anni, è ora un dato di fatto. Anche la Pfizer, una delle più grandi industrie farmaceutiche del mondo, rinuncia alla fornitura di iniezioni letali utilizzate negli Stati Uniti per eseguire le condanne a morte. A questo punto, come riferisce al New York Times Maya Foa, portavoce di Reprieve, l’organizzazione di Londra che studia le attività di questo settore in collegamento alla difesa dei diritti umani, si chiude l’ultimo spazio sul mercato. La decisione di Pfizer segue quella di altre 20 società statunitensi ed europee. Diversi Stati, come l’Arizona, l’Oklahoma, l’Ohio che hanno già dovuto risparmiare la vita dei detenuti, proprio per mancanza di dosi letali di barbiturici, approvate dalla Fda, la Federal drug administration. Pfizer ha sede a New York ed è una delle principali "blue chip" quotate a Wall Street, con un fatturato di oltre 50 miliardi di dollari e con 110 mila dipendenti in tutto il mondo. L’azienda ha diffuso un comunicato per spiegare la sua posizione: "Pzifer fa prodotti per migliorare e salvare la vita dei pazienti ed è fortemente contraria all’impiego dei suoi farmaci per confezionare iniezioni letali usate per le esecuzioni capitali". Il passo, molto importante, non segna però la fine della pena di morte negli Stati Uniti. Nel Paese la massima punizione è prevista nel codice di 32 Stati: alcuni di loro fanno ricorso alla sedia elettrica o alla camera a gas. Altri, come Georgia, Missouri e Texas hanno ottenuto composti di barbiturici da farmacie con laboratori artigianali in proprio che preparano sostanze non controllate dalla Fda. Tuttavia, proprio grazie alla scarsità di iniezioni letali, il numero delle esecuzioni è calato drasticamente negli Stati Uniti, passando dal picco di 98 a 25 nel 2015, secondo i dati raccolti dal Death Penalty Information Center. Vedremo se la decisione presa oggi da Pfizer avrà un riflesso anche sul confronto elettorale. Per i repubblicani, in particolare, la pena capitale fa parte della strategia per garantire la sicurezza. Donald Trump, almeno per ora, non ne ha fatto un tema portante della sua corsa verso la Casa Bianca. Migranti, Austria sospende muro al Brennero. Frontex: in Italia più arrivi che in Grecia di Paolo Gallori La Repubblica, 14 maggio 2016 I lavori della più volte minacciata barriera anti-migranti dalla parte austriaca al Passo del Brennero sono stati sospesi. Lo si apprende direttamente all’area di servizio Rosenberger, dove il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, incontra il suo omologo austriaco Wolfgang Sobotka al Brennero, due settimane dopo il primo faccia a faccia chiarificatore. Alcune settimane fa, in quell’area era stato rimosso parte del guard-rail per fare spazio alla costruzione di una barriera lunga 370 metri. "La soluzione dell’Italia è netta, severa, chiara e semplice - dichiara il ministro Alfano: abbiamo lavorato per impedire che i migranti arrivassero al Brennero e lavoreremo per dissuaderli. Chi pensa di venire qui per passare in Austria verrà riportato in Italia. I migranti devono sapere che avranno fatto una fatica vana. Noi siamo un grande Paese, con una grande cuore ma anche con regole giuridiche certe. Quindi siamo noi e non i migranti a decidere dove devono essere accolti". Gli fa eco Sobotka: "L’Italia è pronta a fare la sua parte e a dare il suo contributo, così come faremo noi. La cosa più importante è che ci siano delle misure che possano ridurre l’immigrazione illegale. È importante che la Ue migliori le infrastrutture dei Paesi che si fanno carico dei migranti, ma migliori anche la vita degli stessi migranti. Spero di poter continuare questa cooperazione con il ministro Alfano e che al Brennero ci sia un continuo afflusso di turisti e non solo di profughi. Non deve essere più possibile passare il confine come illegali". Andando oltre le dichiarazioni di piena sintonia, da fonti europee si apprende che l’Ue ha bloccato il tentativo dell’Austria di ottenere una sorta di permesso preventivo per introdurre controlli di frontiera al Brennero, in deroga a quanto previsto dal trattato di Schengen. Il Consiglio Ue ha dato ieri il via libera alla proposta della Commissione che consentirà a Germania, Austria, Svezia, Danimarca e Norvegia di mantenere per altri sei mesi solo ed esclusivamente i controlli già in atto alle frontiere interne all’area Schengen. In questo contesto, a quanto si è appreso, Vienna, sostenuta dalla Germania, aveva chiesto che nel testo della proroga venisse inserita una formula che permettesse l’applicazione di nuovi controlli, se necessario, anche ad altre frontiere (in primis quella con l’Italia e quindi al Brennero) senza dover seguire tutta la procedura preventiva prevista da Schengen. Ipotesi che è stata bocciata senza appello dai servizi giuridici del Consiglio, ma anche dalla Commissione europea, che l’hanno giudicata non compatibile con il diritto comunitario. Suonano come un monito a non alimentare tensioni simili a quelle innescate dalla vicenda del Brennero le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in visita al contingente italiano della missione Unifil in Libano: "Quanto avviene in Siria ha un impatto immediato, oltre che sulla regione, sull’intera Unione Europea, a iniziare dalla questione dei rifugiati. Su questo argomento si è aperto nell’Unione un dibattito dai toni talvolta sconsiderati, appartenenti a un passato remoto d’Europa e che, invece, qualcuno vorrebbe riproporre, dimenticando le tragedie che ha provocato". Abbassare i toni e lavorare da Europa, chiede Mattarella. Ma intanto le nuove stime di Frontex sui flussi rimettono ufficialmente l’Italia al centro del dibattito e delle preoccupazioni. Secondo l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Ue, lo scorso aprile il numero degli arrivi in Italia ha superato, per la prima volta dal giugno del 2015, quello degli arrivi in Grecia: 8370 contro 2700, con Atene alleggerita del 90% rispetto al mese precedente dopo lo sbarramento della pista balcanica ottenuto con l’accordo tra Ue e Turchia. Ancora Alfano dal Brennero frena gli allarmismi: "A questa mattina l’arrivo dei migranti è pari -13,7% rispetto allo scorso anno che era già inferiore rispetto al 2014. Noi non ci facciamo allarmare, abbiamo un flusso dalla Libia che produce migranti in Europa e che assieme alla Ue stiamo cercando di affrontare". Una nuova invasione dalla riva sud del Mediterraneo lungo la rotta che conduce alle nostre coste, è il fantasma evocato nei giorni del braccio di ferro sulla minacciata chiusura del Brennero da chi sta dalla parte dell’Austria. Ma da un paio di giorni dalla stessa Germania giungono esortazioni a non lasciare sola l’Italia. Ultimo in ordine di tempo, il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, che in un’intervista all’Handelsblatt ha ribadito: "I trafficanti troveranno nuove rotte. E noi dovremo mostrare solidarietà all’Italia. L’Austria dovrebbe sostenere l’Italia, invece di stabilire al Brennero, una delle frontiere più intrise di significato emotivo d’Europa, nuovi controlli". Ieri il vicecancelliere Sigmar Gabriel aveva avvertito sul "grande pericolo che il Mediterraneo diventi di nuovo un cimitero" e, ancora in riferimento all’atteggiamento di chiusura austriaco, aveva detto che "l’Italia non può essere lasciata sola". Anche il Papa ritorna sulla dramma in corso. "Al di là dell’immediato e pratico aspetto del fornire aiuto materiale a questi nostri fratelli e sorelle, la comunità internazionale è chiamata a individuare risposte politiche, sociali ed economiche di lungo periodo a problematiche che superano i confini nazionali e continentali e coinvolgono l’intera famiglia umana" è l’appello rivolto da Francesco, dopo aver ricordato il suo viaggio a Lesbo nell’udienza ai partecipanti alla Conferenza internazionale promossa dalla Fondazione Centesimus Annus dedicata alla "iniziativa imprenditoriale nella lotta contro la povertà. Emergenza profughi, la nostri sfida", in corso in Vaticano. I muri non possono essere la risposta "di lungo periodo" che Francesco reclama. Da Pozzallo, dove incontra gli studenti nell’ambito di "Sabir, festival diffuso delle culture mediterranee", lo conferma la presidente della Camera Laura Boldrini: "Il muro è il fallimento della politica. La storia insegna che una civiltà è grande quando include senza paura di perdere la propria identità. Spero che l’Austria ci ripensi e prevalga il buonsenso, anche perché se era una manovra elettorale ha fallito". Boldrini va oltre la questione del Brennero, richiamando l’Europa a guardarsi allo specchio: "Non è possibile che abbia una popolazione di 500 milioni di persone e non riesca a gestire l’arrivo di un milione di rifugiati, che sono lo 0,2% degli abitanti del Vecchio Continente". Ancor più duro il j’accuse che Medici senza frontiere rivolge alla Ue, venuta meno alle proprie "responsabilità, morali e legali" firmando l’accordo con Ankara, negoziato con l’ex primo ministro Davutoglu e adesso messo in discussione e usato come arma di ricatto dal presidente turco Erdogan, indisponibile a modificare, come richiesto dall’Ue, la legge antiterrorismo che oggi gli consente di mettere nel mirino le testate e i giornalisti scomodi ma pronto a reclamare che i turchi viaggino in Europa senza visto. La Ue, accusa Msf, "ha delegato alla Turchia il prendersi cura" dei profughi siriani "e la compensa sia dal punto di vista economico che politico, affinché blocchi l’arrivo delle persone sulle coste europee e accetti quelle deportate dalla Grecia". L’accordo, inoltre, crea un pericoloso precedente: ogni Paese può "comprare una via d’uscita nel fornire asilo". Infine l’appello ai leader dell’Europa "perché rispondano in modo umano al più vasto spostamento forzato di esseri umani degli ultimi decenni, invece di abusare dei fondi destinati agli aiuti per nascondere la sofferenza oltremare". Da Palermo, il presidente del Senato, Pietro Grasso, parte dalle incertezze sulla tenuta dell’accordo Ue-Turchia per dire che l’Italia è rimasta "l’unico Paese che con le sue coste non può che accogliere questi rifugiati. Penso che l’Europa dovrebbe al più presto intervenire per darci la possibilità dell’accoglienza e del mantenimento dell’ integrazione e di poter dare tutto quello che il diritto internazionale e il dovere etico mondiale presuppone". Da Lampedusa a Calais e Ventimiglia le città di frontiera si alleano sui migranti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 14 maggio 2016 Una rete dell’accoglienza ai profughi promossa dai comuni in prima linea. Che hanno firmato un patto di reciproca assistenza. Damien Careme è arrivato a Lampedusa con un cd pieno di filmati. A Giusi Nicolini e ad Enrico Ioculano, a Spyros Galinos e Ada Colau, collegati in videoconferenza, ha mostrato come ha fatto a rendere dignitosa la vita nel campo di rifugiati di Calais. E sul molo Favaloro, dalla gente di Lampedusa, impegnata proprio quella notte nell’assistenza a 120 migranti appena sbarcati, ha "imparato" come si fa il primo soccorso. Lampedusa, Pozzallo, Riace, Ventimiglia, Calais, Lesbo, Barcellona. Eccola la rete dell’accoglienza dei sindaci di frontiera, un patto di reciproca assistenza siglato dai primi cittadini delle zone di confine come risposta di chi lavora nella difficile trincea di questa migrazione epocale all’Europa che alza i muri. Un patto che verrà rilanciato oggi a Pozzallo dal Festival Sabir sulle migrazioni che si concluderà domenica con una grande marcia per dire "no ai muri, sì all’accoglienza". La "rete" lanciata da Lampedusa conta già più adesioni di quel che si pensava. "Basta pensare che tra i firmatari del patto c’è anche Barcellona - dice Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa. Anche se in Spagna non stanno affrontando la nostra emergenza, hanno ugualmente deciso di stanziare un contributo di 300 mila euro per le Ong che lavorano da noi. E hanno dato la disponibilità a mandare esperti di ambiente a Lesbo per aiutare nello smaltimento della enorme quantità di rifiuti lasciati dalle centinaia di sbarchi degli ultimi mesi". La prima e la seconda accoglienza, due realtà difficili al momento non comunicanti in Italia. È anche sul meccanismo di redistribuzione dei migranti che i primi cittadini in trincea vogliono incidere. A Ventimiglia, dove la tensione si è finalmente allentata dopo mesi in cui centinaia di migranti in condizioni drammatiche hanno vissuto accampati per strada o sugli scogli, il sindaco Ioculano dice: "Noi vogliamo essere riconosciuti come interlocutori privilegiati dalle istituzioni. Faccio un esempio. I prefetti convocano ai tavoli i sindaci dei capoluoghi. Ma loro cosa ne sanno? Una gestione a monte dei flussi e un impegno diretto delle amministrazioni locali per la distribuzione dei migranti è fondamentale. Non è possibile che, solo perché ai bandi delle prefetture risponde questo o quell’altro, ci siano comuni che non ospitano nessuno e comuni con troppi migranti". A Riace, ad esempio, i migranti non sbarcano ma si fermano. E il sindaco Mimmo Lucano che Fortune ha incluso tra i 50 uomini più potenti del mondo, spiega: "L’Europa si esprime a parole. Per noi parlano le realtà che abbiamo costruito. E dimostrano che scegliere le ragioni dell’umanità è più gratificante ma anche più conveniente. Io l’ho fatto da questo luogo semi abbandonato da cui tutti andavano via e che ora ha ritrovato la speranza disintegrando le barriere dell’odio e del pregiudizio". Nella rete i sindaci sperano molto anche per risolvere il problema dei minori non accompagnati. "A Pozzallo non abbiamo più dove metterli - dice Luigi Ammatuna - potremmo redigere una mappa delle disponibilità e garantire loro una sistemazione adeguata". Sulla nuova rotta che passa per l’Egitto l’ombra della crisi tra Italia e il Cairo di Giuliano Foschini e Vladimiro Polchi La Repubblica, 14 maggio 2016 Dopo la chiusura dei Balcani, percorsi alternativi. E il sospetto: "È la vendetta di Al Sisi". Non è stato un caso. L’arrivo in Sicilia dei barconi con centinaia di siriani è la prima rappresentazione di un fronte nuovo e delicato che potrebbe rendere molto calda l’estate dell’immigrazione italiana. Un fronte che, politicamente, mostra due facce: quella della nuova politica dell’Unione europea, con la chiusura della rotta balcanica. E, forse, anche, quello dello scontro in corso tra il governo italiano ed egiziano sul caso Regeni. Gli avversari di Al Sisi lo avevano detto sin dal principio: "Si vendicherà facendo arrivare sulle coste italiane centinaia di migranti che fin qui aveva invece controllato". La previsione sembrava azzardata. Ma lo sbarco di queste ore sembra andare in quel senso. "I trafficanti, subito dopo la chiusura dell’accordo Ue-Turchia, si sono messi alla ricerca di rotte alternative, perché la domanda dei profughi che voglio raggiungere l’Europa resta altissima", spiega Christopher Hein, consigliere strategico del Cir (Consiglio italiano rifugiati). "L’esplosione della rotta mediterranea era prevedibile. Secondo le prime ipotesi, i siriani partono dalla Turchia (dove sono 2 milioni e 700mila), dal Libano (un milione e 48mila), dalla Giordania (642mila) e dalla stessa Siria. Evitano Israele, dove resta impossibile passare, entrano in Giordania via terra, si imbarcano sul Mar Rosso e arrivano in Egitto, nel Sinai. Poi dall’Egitto, partono per l’Italia. Una rotta via mare ben più lunga di quella dalla Libia e assai più pericolosa". Dal Viminale già fanno i conti con la nuova rotta: "Dei 31.258 migranti arrivati finora via mare nel 2016 il 90 per cento è partito dalla Libia. Dall’Egitto abbiamo contato poco più di 5 grandi imbarcazioni in quattro mesi". Ora l’arrivo dei siriani mette paura. "È un campanello d’allarme sulla tenuta dei controlli sulle coste egiziane". Eppure sempre dal ministero fanno sapere che la collaborazione tra le forze di polizia dei due Paesi resta buona: "Addestriamo agenti egiziani dedicati ai controlli di frontiere e abbiamo nostri operatori in Egitto. Non solo. Con il Cairo abbiamo un buon accordo bilaterale per la riammissione dei migranti economici". Circola solo un sospetto: "Non vorremmo che il caso Regeni e le tensioni tra i due Paesi spingessero le autorità egiziane a chiudere un occhio sulle partenze dalle loro coste". E proprio quello del tema immigrazione come conseguenza del rapporto teso tra i due Paesi, sin dal principio, era stato indicato come una delle possibili e peggiori conseguenze (accanto al discorso energetico, con gli interessi dell’Eni) del deterioramento dei rapporti tra Italia ed Egitto. La prima allerta dei servizi italiani era arrivata circa un mese fa quando avevano registrato partenze da zone non egiziane, ma fino a questo momento "controllate" dalle forze di polizia di Al Sisi. "È un segnale - avevano detto - che qualcosa si sta rompendo". Evidentemente non avevano tutti i torti. La nave in arrivo rappresenta effettivamente una novità. Da quando infatti i due Paesi, circa due anni fa, avevano firmato un accordo di reciprocità sul traffico di esseri umani, l’Egitto non era più un problema. La rotta era ben controllata grazie anche a un protocollo giudiziario che sembrava tenere e che aveva avuto anche una parentesi nera: il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Franco Roberti, aveva firmato con il collega del Cairo, Hisham Barakat, un accordo che permetteva la messa in rete dei dati degli scafisti. Un passo fondamentale per identificare i trafficanti di esseri umani. Ma qualche settimana dopo quella firma, Barakat rimase ucciso in un attentato terroristico organizzato dai Fratelli Musulmani. Esiste poi un secondo problema che riguarda, l’arrivo dei cittadini egiziani. I numeri sino allo scorso anno sono stati molto bassi ma negli ultimi mesi si sta registrando un incremento che preoccupa le Ong che monitorano i flussi. Li preoccupano soprattutto in relazione all’accordo che l’Italia ha con l’Egitto: il protocollo prevede infatti il rimpatrio. Ma, come ha sottolineato anche nei mesi scorsi il Viminale con una circolare, non prima che venga data la possibilità ai migranti di chiedere comunque l’asilo politico per motivi umanitari. Richiesta che viene quasi sempre rigettata dalle commissioni, ma comunque va garantita. "In sostanza - spiegano alcuni dei legali che seguono abitualmente i richiedenti asilo - stiamo rimandando indietro cittadini che scappano dal regime di Al Sisi, lo stesso che tollera la scomparsa di una persona al giorno e che, fino a prova contraria, ha nei suoi apparati la responsabilità della morte di Giulio. Come può l’Italia rimandare indietro oppositori politici in un paese dove i diritti civili non sono garantiti?". Una domanda, questa, che sentiremo ripetere più volte nei prossimi mesi. Pozzallo, l’hotspot per ragazzini soli di Carlo Lania Il Manifesto, 14 maggio 2016 Nella struttura ci sono 120 minori non accompagnati su un totale di 140 reclusi. Un hotspot per piccoli migranti. La fedeltà alle rigide regole imposte da Bruxelles e l’egoismo di alcune regioni possono portare anche a questo, un mega centro lungo la costa di Pozzallo, in provincia di Ragusa, occupato prevalentemente da minori non accompagnati. Giovani e giovanissimi che in questi giorni rappresentano la maggioranza della popolazione della struttura siciliana, 120 sugli attuali 140 migranti reclusi. Provengono da Marocco e Egitto (una trentina di egiziani sono arrivati tutti con lo stesso barcone) ma anche da Eritrea, Mali, Somalia. Praticamente tutti hanno fatto richiesta di asilo e adesso aspettano di essere trasferiti. "Vivere in queste strutture non è facile, si possono passare intere giornate senza fare niente", spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di palazzo Madama al termine di un sopralluogo nell’ex centro di accoglienza. "Il problema è che manca un sistema centralizzato in grado di coordinare i posti liberi nelle strutture di accoglienza sul territorio nazionale. Molte regioni - prosegue Manconi - dicono di non avere posti liberi perché non vogliono accoglierli, di conseguenza invece di restare nell’hotspot al massimo per 72 ore, come previsto, qualcuno ci resta anche quattro settimane". Servirebbe una banca dati centralizzata che raccogliesse le disponibilità delle strutture di seconda accoglienza per i minori. Invece non c’è e quindi tutto è affidato alla buona volontà delle prefetture, che in una sorta di autogestione si tengono in contatto aggiornandosi sui posti che si liberano in ogni regione. Gli hotspot sono il prezzo imposto dall’Unione europea a Italia e Grecia per la crisi dei migranti degli ultimi due anni e mezzo. L’idea di creare nuove strutture dove contenere l’ondata di migranti in arrivo venne alla Francia l’anno scorso e fu subito fatta propria dai leader dei 28 paesi membri. Chi arriva in Italia viene identificato e selezionato, dividendo i migranti economici dai rifugiati. L’anno scorso a Pozzallo sono sbarcati in 15 mila, un decimo esatto del totale degli arrivi del 2015. Dal 1 gennaio al 12 maggio di quest’anno, invece, ci sono stati 17 sbarchi, per un totale di 5.221 migranti, 4.505 uomini, 716 donne, 878 minori non accompagnati e 150 accompagnati. La maggior parte proviene dalla Nigeria (929), Gambia (515) Senegal (438), Eritrea (434), Guinea (439), Mali (326) e Marocco (237). Quello che era il centro di prima accoglienza il 19 gennaio di quest’anno è diventato il terzo hotspot italiano (su cinque). Viaggio di sola andata, probabilmente, visto che oggi appare davvero difficile un ritorno alle origini. E non senza problemi. A dicembre del 2015 Medici senza frontiere ha messo fine a ogni intervento nella struttura denunciando "le condizioni precarie e poco dignitose" in cui venivano accolti migranti e rifugiati dopo gli sbarchi. Il 27 aprile scorso un’altra organizzazione, Terre des Hommes, ha denunciato invece le condizioni di sovraffollamento del centro, tali da rendere "non possibile garantire un’attenzione specifica ai migranti più vulnerabili come mamme con bambini, donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati". E a marzo anche l’hotspot di Pozzallo, insieme a quelli d Lampedusa e Trapani, è finito in un dossier presentato al Senato da alcune associazioni riunite nel Tavolo nazionale asilo, tra cui Consiglio italiano rifugiati, Arci, Comunità di Sant’Egidio e Caritas, in cui si parla di "respingimenti arbitrari" e di "negazione dell’accesso alla procedura d’asilo e l’uso della forza per l’identificazione" delle persone. In questi giorni nell’hotspot la situazione è decisamente più calma, anche se non mancano le proteste, che riguardano soprattutto il cibo e la mancanza di posti sufficienti ad accogliere donne immigrate, ma anche il timore di molti migranti di essere rispediti nei paesi di origine. "Noi vogliano restare qui", dicono i cartelli scritti a penna e mostrati alle telecamere da molti giovani insieme alle ciabatte rotte. "We want to learn", vogliamo imparare, ripetono affollandosi contro le sbarre di ferro che circondano il centro. Cosa particolarmente positiva è la presenza di molte organizzazione umanitarie: Unhcr, Save the Children, Oim e Terre des Hommes lavorano all’interno dell’hotspot, mentre Emergency interviene soprattutto al momento degli sbarchi. Molti migranti e rifugiati presentano i segni delle violenze subite durante il viaggio verso l’Europa, soprattutto in Libia durante le settimane passate in attesa dell’imbarco. E non mancano i casi di donne che denunciano agli operatori di essere state vittime di violenza sessuale da parte di trafficanti di uomini. Nonostante sia una struttura chiusa, ai piccoli migranti viene concesso un permesso per uscire almeno per qualche ora. Verso sera è facile vederli mentre in gruppi fanno ritorno al centro. Prima di lasciarli entrare gli agenti e i militari che presidiano l’ingresso controllano i fogli identificativi rilasciati dalle prefetture e li perquisiscono. "Ma noi dall’Italia non vogliamo andarcene", fanno in tempo a ripetere prima che il cancello si chiuda alle loro spalle. Guatemala: Samuele Corbetta scrive dal carcere "grazie a tutti per la fiducia" casateonline.it, 14 maggio 2016 Torna a scrivere dal carcere alla comunità di Sirtori, Samuele Corbetta, il volontario detenuto in Guatemala dall’estate 2013, quando è stato condannato alla pena di otto anni per il reato di tentata violenza sessuale nei confronti di una bambina. Un’accusa che, seppur il giovane sirtorese abbia sempre respinto con forza, è stata confermata sino ad oggi in tutti i gradi di giudizio. Lo scorso novembre infatti, dopo mesi di attesa e trepidazione da parte di Samuele e dei suoi familiari, la Corte Costituzionale ha infatti bocciato la sentenza della Cassazione che nel 2014 aveva annullato la condanna a otto anni di carcere irrogata nei confronti del sirtorese, accogliendo di fatto il ricorso da parte dell’accusa. Samuele è ancora detenuto nel centro preventivo Para Hombres di Città del Guatemala. Proprio dall’istituto penitenziario ha voluto scrivere una lettera ai suoi concittadini di Sirtori, comune dal quale oltre dieci anni fa il giovane era partito per raggiungere l’America Latina, dedicandosi al volontariato presso una missione gestita dalle suore di San Gerolamo Emiliani. "Sono passati circa cinque mesi dall’ultima lettera e la situazione qui non è cambiata affatto. Con la mia famiglia si è deciso di non utilizzare ormai nessun ricorso, considerato che è solo una perdita di tempo e di denaro" scrive Samuele riferendosi alla vicenda giudiziaria che lo riguarda. L’idea del sirtorese e dei suoi genitori, Emiliana e Roberto - che lo hanno sostenuto sin dall’inizio, più che mai convinti della sua innocenza - è quella di lasciare che la sentenza diventi definitiva, per poter così usufruire della riduzione della pena. In questo modo, considerando che Samuele è detenuto in carcere ormai dal 2013, gli mancherebbe un anno e qualche mese per avere diritto a questa opzione. "Come sapete sto lavorando alla fabbricazione di profumi e in più sto insegnando italiano" prosegue il volontario di Sirtori nella sua missiva. "Non è facile per me, dato che non è un lavoro a cui sono abituato, però ce la metto tutta. E così il tempo passa!". La speranza di Samuele Corbetta è quella di poter presentare richiesta di riduzione della pena nel gennaio prossimo. La lontananza dalla sua casa e dai suoi affetti pesa e non poco al giovane, che può vedere i genitori non più di due-tre volte l’anno, quando si recano in Guatemala a fargli visita. L’ultima volta è stato per le vacanze di Natale. "Volevo ringraziare anche la comunità sirtorese, gli amici e non: grazie per la fiducia, l’appoggio morale a me e alla mia famiglia. Spero di rivedervi presto in Brianza, quando questa assurda esperienza sarà solo un ricordo dal quale uscirò a testa alta, più forte di prima come persona" ha concluso Samuele.