Il sonno della politica genera mostri di Bruno Manfellotto L’Espresso, 13 maggio 2016 Candidati improbabili, faccendieri, infiltrazioni mafiose. I partiti non riescono a selezionare la classe dirigente. E il potere del leader non è una risposta. In principio furono i nani e le ballerine. Ma almeno si limitavano a riempire salotti e kermesse di partito, non Camera e Senato. Poi sbarcò in Parlamento l’allegra Compagnia del Cavaliere, con annessi di cappio e mortadella e digressioni notturne genere bunga-bunga. Dopo ancora toccò agli impresentabili (copyright Rosy Bindi) - indagati imputati condannati - e molti ce l’hanno pure fatta in barba a codici etici, dignità e buon gusto. E ora, come titola "l’Espresso", siamo al Gran Circo degli improvvisati, dei faccendieri, dei senza arte né parte che affollano le liste delle prossime amministrative. Fenomeno nel quale, ancora una volta, spicca la Capitale. Aldilà degli schieramenti, è come se partiti e movimenti avessero rinunciato a selezionare classe dirigente, cioè i loro testimoni, o non ne abbiano più le capacità, o non ci siano donne e uomini all’altezza disposti a rischiare e a tentare l’avventura. Perché? Proviamo a rispondere, anche con l’aiuto di Emanuele Macaluso, un politico di lunghissimo corso che ne ha viste di tutti i colori. Il vecchio leader, 92 anni ancora brillanti e combattivi, ieri migliorista del Pci e oggi senza tessera in tasca, non lascia passare giorno senza annotare, scrivere e quindi riflettere su ciò che vede intorno a sé, fedele anche in questo all’insegnamento togliattiano. Non avendo più un giornale che ospiti i suoi corsivi - da sempre firmati em.ma. Macaluso "posta" le sue riflessioni su una pagina Facebook. Adesso un distillato della sua fatica quotidiana è anche su carta, in un libro appena edito da Castelvecchi che fin dal titolo svela quale sia il filo che lega un anno di pensieri: "La politica che non c’è". E che spiega molto di quel che è successo, "l’imbarbarimento di ceti e persone che non hanno più una visione dei problemi della nazione, dell’interesse generale, dei drammi che attraversa l’umanità". Travolti da tangentopoli e poi dalla Grande Crisi, i partiti si sono alleggeriti, se non sciolti come neve al sole delle inchieste giudiziarie e dell’incapacità di trovare nuovi linguaggi. Il risultato, scrive Macaluso, è un sistema spappolato, devitalizzato, sul quale l’antipolitica si è avventata con successo dispiegando demagogia a piene mani. Con l’aggravante che, trovando campo libero, mafie e criminalità si sono infilate pure negli ingranaggi della macchina pubblica. I partiti, troppo deboli e balbettanti per arginare l’ondata, hanno rinunciato a scegliere con cura i propri rappresentanti, limitandosi a dialogare con un fedele e ristretto cerchio magico, e troppo spesso delegando di fatto parte del potere di nomina a potentati, lobby, interessi locali - ai "santuari", come li chiama Macaluso - lasciando che a vincere sia il populismo o l’affarismo modello Tempa Rossa. "La politica che vediamo è soltanto la miseria della politica", commenta sconsolato em.ma. Al declino, i partiti hanno cercato rimedio scimmiottando la ricetta berlusconiana che esalta solo il Capo, insomma non provando nemmeno a ricostruire quel tessuto di partecipazione e presenza nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, quell’abitudine al confronto che era tipico della stagione precedente, ma facendo il contrario, cioè puntando tutto sul leader che parla direttamente ai potenziali elettori: "Ma i partiti personali reggono fino a un certo punto, soprattutto se sono di destra, dato che la concezione che la destra ha del popolo è quella di usarlo". È il "sonno della politica" che lascia deperire la democrazia e che angustia Macaluso. Non soltanto lui. Nostalgia? Rimpianto per un mondo che non c’è più? Forse. E se ne comprendono bene i perché. Ma illustri studiosi ci dicono addirittura che non ci sia più niente da fare, che indietro non si torna, e che la forma partito assomiglierà sempre più, ed esclusivamente, a macchina del consenso, a un comitato elettorale al servizio del leader. Resta però un problema che va al di là della scelta tra partecipazione diffusa e filosofia dell’uomo solo al comando: la lettura e la comprensione di fenomeni complessi, e soprattutto di ciò che in proposito l’elettorato sente e chiede. Bisogna essere in trincea, sì, ma anche interrogarsi con mente libera sui populismi e su ciò che li genera, cioè disagio economico, abissali divari sociali e paure dell’immigrazione. Che si chiamino partiti o no, nessuno sembra oggi in grado di capire fino in fondo. E di trovare risposte. I superstiti dell’Apocalisse di Ezio Mauro La Repubblica, 13 maggio 2016 "I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto la scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema". È possibile provare a ragionare sul sistema politico italiano e i suoi rapporti con la giustizia senza scadere nel derby quotidiano e miserabile tra Pd e Cinque Stelle sugli indagati, le sospensioni dagli incarichi e le dimissioni? Diciamo subito che quel derby il Pd lo ha perso platealmente, perché il numero di amministratori di quel partito coinvolti in inchieste giudiziarie dovrebbe da solo far capire all’intero gruppo dirigente che c’è nella principale forza della sinistra un problema di selezione delle cosiddette élite grande come una casa, secondo solo al problema della nuova permeabilità clamorosa di quel mondo alla corruzione. I grillini, che pensavano di fischiare comodamente dagli spalti nella partita tra la politica e la magistratura, si trovano improvvisamente in campo mentre i fischi oggi sono per loro, impreparati e incapaci di gestire l’incoerenza patente tra i doveri pretesi dagli altri e le indulgenze domestiche. Ecco perché l’avviso di garanzia al sindaco di Parma Pizzarotti, dopo i casi di Livorno e di Quarto, offre l’occasione per una riflessione fuori da ogni polemica sul triangolo tra la legalità, la politica e l’antipolitica. È un triangolo che dovrebbe avere una base comune, e condivisa: la legalità. In un sistema democratico trasparente nelle procedure e nei controlli, la legalità dovrebbe essere una condizione preliminare dell’agire politico, insieme con l’onestà dei suoi attori. In questo Paese si è trasformata invece in un vero e proprio programma politico da parte del movimento grillino, assorbendone ogni identità, proprio a causa delle forme di illegalità diffusa che le inchieste giudiziarie hanno portato alla luce nei partiti tradizionali insieme con la disonestà di molti amministratori pubblici, generosamente distribuiti in tutto lo schieramento partitico. Questo fa sì che il triangolo entri in crisi: da un lato, la politica dei partiti si chiude sulla difensiva, maledice a bassa voce i magistrati ritenendoli intrusi abusivi, incredibilmente incapace di rispondere alla sfida del malcostume corruttivo con misure interne (forte pulizia, selezione rigorosa, guardia alta) e con provvedimenti di legge che raccolgano l’allarme sociale per la diffusione di pratiche illegali e stabiliscano subito contromisure efficaci. Dall’altro lato, l’antipolitica delega ai magistrati (che non devono e non vogliono esercitarlo) il compito di realizzare quel rinnovamento del sistema che è incapace di attuare in proprio. In più tende a identificarsi esclusivamente con la legalità considerandola un suo schema privato e non una pre-condizione di buon funzionamento dell’intero sistema, da rivendicare e pretendere per tutti. Il risultato è la spoliazione di ogni altro carattere "politico", come se la legalità fosse un programma, un progetto, una politica, e non il metodo indispensabile di ogni buon amministratore. Si potrebbe dire che la bandiera dell’onestà rappresenta comunque un passo avanti e una buona garanzia di base, nelle attuali condizioni del Paese. In realtà è una condizione indispensabile, ma non sufficiente, in quanto rischia di ridurre la politica ad una sola dimensione, di non chiederle altro, di accontentarsi di ciò che è già dovuto ai cittadini e alla comunità che si governa. La modernità, insieme con la costituzionalizzazione dell’intero universo politico-culturale nei Paesi occidentali aveva superato la concezione della politica come scontro tra Bene e Male, usandola anzi come strumento di neutralizzazione dei conflitti. Oggi si rischia una neutralizzazione della politica perché il sistema viene additato dai nuovi populismi come interamente colpevole, completamente colluso, totalmente complice e dunque definitivamente perduto. Non resta che aspettare l’ora "x" in cui "Dio sputerà sulla candela" e si spegnerà la luce su questa Seconda Repubblica, in attesa dell’avvento politico del Redentore. Ovviamente è uno schema che getta a mare (insieme con le responsabilità dei corrotti e con l’incapacità dei partiti storici di reagire all’ondata di corruzione che li sommerge, dopo aver sradicato il sistema) anche le speranze nella democrazia, la fiducia nelle sue risorse, la capacità soprattutto di distinguere e di graduare i giudizi, che dovrebbe essere il compito di chi fa politica, oltre che di chi fa informazione. Siamo ormai al fascio di ogni erba, purché sia o sembri erba cattiva: e se un po’ di grano finisce in mezzo al loglio non importa, si fa buon peso. Lo prova il turbine mediatico di dichiarazioni che ha inseguito l’avviso di garanzia per un possibile abuso d’ufficio in una nomina al teatro al sindaco di Parma Pizzarotti, a cui si fa pagare tutto il conto del banchetto polemico imbastito per mesi su ogni apertura d’inchiesta e su ogni arresto, quasi senza distinzione. Seguono, da parte dei Cinque Stelle, dichiarazioni imbarazzate da vecchi sottosegretari democristiani, per prendere tempo nell’incapacità di garantire in proprio ciò che si pretende meccanicamente da ogni indagato degli altri partiti. Tutto questo è inevitabile quando si scommette sulla crisi del sistema a fini di profitto politico: che succede quando la crisi coinvolge (sia pure in minima parte) chi la alimenta, soffiando sul peggior fuoco con quella che Croce chiamava la "feroce gioia" contro le istituzioni? Qual è il segno culturale che questo atteggiamento porta nelle istituzioni, e nel rapporto tra le istituzioni e i cittadini, già consumato dalla crisi di legalità che rischia ogni giorno di più di diventare crisi di legittimità? Cioran definisce il reazionario come "un profittatore del terribile, il cui pensiero irrigidito per calcolo calunnia il tempo". Certamente questa scommessa sul peggio avviene in un luogo politico che non appartiene alla storia della sinistra anche se ne mima i linguaggi e i codici, raschiandone efficacemente l’elettorato. Non c’è infatti nessuna rappresentanza sociale di interessi, nessuna tutela di diritti, nessuna attenzione di classe ai più deboli, nessuna costruzione culturale in questa delega della politica al disvelamento del malaffare altrui, che annulla ogni soggettività e qualsiasi autonomia dell’antipolitica, ridotta appunto ad accontentarsi di essere "anti". Tutto si tiene in questo mondo chiuso della diversità che si mangia la politica: la cabala informatica spacciata come trasparenza, l’idolo blog venduto come partecipazione diffusa, il rifiuto degli "altri", anche quando propongono una buona legge. Com’è evidente, in questo schema il problema democratico non è la radicalità delle accuse che vengono rivolte al sistema dei partiti, e ancor più ai corrotti, che in alcuni casi meriterebbero giudizi ancora più severi: il problema è il sentimento di "alterità", che consente ai Cinque Stelle di vivere in un immaginario altrove dove non sono permesse contaminazioni, accordi, concorsi nelle decisioni utili al Paese e condivisioni di responsabilità, ma conta solo marcare la diversità sperando in questo modo di ereditare il sistema. Ereditieri del collasso del sistema, più che soggetti attivi del cambiamento: è la riduzione della politica alla sola dimensione di denuncia, tribunizia, nel senso degli antichi Tribuni che parlavano a nome di tutto il popolo, apostrofando il potere. Mentre nella concezione liberale dello Stato moderno il fondamento morale pubblico non risiede nel sentimento etico soggettivo (naturalmente necessario) ma nel rispetto di regole e procedure stabilite per tutti nell’interesse di tutti. Distinguere (perché non è vero che "così fan tutti"), pretendere il rispetto della legge, lavorare perché il sistema politico salvi se stesso rientrando nel rispetto della legalità, invece di scommettere sul suo affondamento. Rispettare le istituzioni anche quando l’offerta politica è modesta e la disaffezione allo Stato è alta. I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto questa scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema, che dovrebbe interessare a tutti gli attori, di maggioranza e di opposizione. L’alternativa è continuare a vivere nel presunto "altrove" aspettando l’Apocalisse prossima ventura, per delegarle la cancellazione del sistema invece di usare la politica per cambiarlo. Solo che l’Apocalisse è il libro "di coloro che si pensano come superstiti" e come tale è il rifiuto della politica, la rinuncia al cambiamento, un gesto di superbia. E poi, cosa succede quando i superstiti sono coinvolti? Sfida Orlando-Davigo sui corrotti, ma il Csm è la partita chiave di Errico Novi Il Dubbio, 13 maggio 2016 Il guardasigilli: "L’Anm vuole altre norme sul malaffare? Certi giudizi sono sommari". Dire che tra governo e magistrati si sia instaurata la pace è davvero troppo. Non si può andare oltre il concetto di tregua armata. Lo dimostrano le considerazioni del ministro Orlando fatte a Londra e nell’intervista di ieri al Corriere della Sera, e le nuove dichiarazioni di Piercamillo Davigo. Il primo prefigura un rinnovamento su almeno tre punti: seria autodisciplina delle toghe nelle loro esternazioni pubbliche, riforma del Csm e riorganizzazione degli uffici dove si prescrivono più processi. Un bel programma. Il presidente dell’Anm a sua volta torna a proporre una diagnosi spietata: "La giustizia in Italia funziona molto male ma noi magistrati ne abbiamo pochissima responsabilità", dice a una manifestazione organizzata dal Tribunale di Lecce. Sostenere che il problema sono le ferie dei giudici, "è un insulto grave". Il male oscuro sta nel "numero elevatissimo di procedimenti". La Cassazione per esempio definisce "100mila processi l’anno a fronte dei 1.000 della Francia". Col risultato di "contrasti inconsapevoli tra le Sezioni, che consentono poi a chiunque di trovare un precedente che gli dia ragione: in questo modo la Suprema corte assicura solo disordine". Il leader del sindacato dei giudici rilancia l’allarme poche ore dopo, al termine dell’incontro con il presidente del Senato Pietro Grasso: "Servono riforme ma anche risorse". Non ci vogliono nuove regole su magistrati e politica, invece: "Sono già tutte nel codice etico", non esiste dunque una questione di "legittimità", al massimo di "opportunità". A proposito di riforme, quella della prescrizione dovrebbe prevederne la cessazione "se non con l’esercizio dell’azione penale, quanto meno con la sentenza di primo grado". Un modo non proprio dialogante per riaprire il confronto col ministro della Giustizia. Il quale respinge l’idea pure rilanciata da Davigo di nuove norme anticorruzione: "Certi giudizi un po’ sommari non sono probabilmente fondati", dice Orlando al termine del vertice svolto a Londra proprio sulla corruzione. Un certo latente nervosismo tra i magistrati, consiglieri del Csm compresi, si spiega anche con l’imminente riforma dell’organo di autogoverno, annunciata per l’estate dal guardasigilli sempre nell’intervista al Corriere. Il "disegno di legge organico" dunque ci sarà, "a partire dal sistema elettorale". È il cuore di tutte le battaglie tra politica e magistratura. Le correnti sono in guardia. Orlando aspetterà che il Csm approvi in una delibera il parere sulla "Relazione Scotti", ossia le conclusioni della commissione ministeriale presieduta dal giudice Luigi Scotti e consegnata già nel mese di marzo. Vi si propone di eleggere i togati del Csm attraverso un sistema a doppio turno, primo round con l’uninominale, ballottaggio aperto alle liste ma anche al voto disgiunto. All’interno di una componente assai radicata come "Area" le preoccupazioni riguardano soprattutto la dimensione dei collegi: se fossero troppo piccoli, prevarrebbero le micro-reti di relazioni piuttosto che un "chiaro progetto di autogoverno". È un’argomentazione forte questa, proposta dalle correnti a difesa della loro funzione. Rispetto a simili, decisivi aspetti, gli ingranaggi delle nomine e lo stesso intervento dei giudici nella campagna referendaria si riducono a meri orpelli. Ieri è saltata la riunione sul codice di autoregolamentazione del Csm: se ne parla la settimana prossima. Probabile che si arrivi a un vademecum scritto. Ma varrà solo per i membri del Consiglio superiore. Tutte le altre toghe d’Italia saranno libere di misurarsi con la propria coscienza, come ha detto Davigo. La giustizia alla sfida arretrati e processo telematico di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 13 maggio 2016 Lo stock delle cause pendenti inizia ad alleggerirsi, ma l’informatizzazione delle procedure giudiziarie rimane lenta e soggetta alle resistenze dei giudici. Il giudice al quale non garba il processo civile telematico perché non può fare le orecchiette al video, il ministero che esulta per l’obiettivo di un solo anno di durata di una causa civile in tribunale, e i computer della giustizia civile isolati per una settimana in Sicilia e Calabria: sembrano fare a pugni, e invece sono notizie tutte vere e tutte - a dispetto delle apparenze - in fondo collegate l’una all’altra. Pochi giorni fa il Guardasigilli ha nuovamente presentato numeri sui progressi della giustizia civile. Nel susseguirsi di annunci e comunicazioni e consuntivi e bilanci, che una volta erano saggiamente scanditi una volta sola all’anno, si coglie uno scivolamento anche dei decisori pubblici verso urgenze autolegittimanti solitamente più evidenti nelle compagnie private, ormai divorate in Borsa dall’ansia di presentare al mercato conti trimestrali sempre più appetibili per gli azionisti. Ecco, anche il consenso politico sembra aver bisogno di "trimestrali" continue. Ma al netto di questa logica di (comprensibile) marketing politico, è anche vero che Orlando nutre l’altrettanta legittima aspirazione di non vedere ignorate, o sottovalutate nella generale tendenza a enfatizzare solo gli aspetti negativi, gli oggettivi miglioramenti della cura ricostituente imposta alla giustizia civile. Ad avviso del ministro, infatti, grazie a un miliardo e 657 milioni di risorse aggiuntive nel 2015- 2017, lo stock di arretrato, già sceso da 5,9 milioni di fascicoli del 2009 ai 4,4 milioni del 2015, alla fine del 2016 abbatterà quota 4 milioni, e il tempo medio del totale degli affari civili di primo grado (già abbreviatosi dai 547 giorni del 2013 ai 427 del 2015) raggiungerà i 367 giorni. Questa tendenza positiva non è un miraggio, pur se incuriosisce la scelta metodologica di sorta di proiezione statistica di arretrato e tempi medi effettuata "sul primo quadrimestre 2016 su un campione statisticamente rappresentativo di 40 Tribunali italiani", e anche se non del tutto significativo è un dato che non disaggreghi i vari (e molto diversi tra loro) tipi di cause civili. Già gli avvocati dell’Associazione nazionale forense, ad esempio, fanno notare che i dati ministeriali di aprile sono "il completamento del percorso di mappatura analitica dei procedimenti civili pendenti iniziato con il rapporto di ottobre 2014 e aggiornato con quelli del’11 agosto e del 30 settembre 2015"; e che nel 2015 la durata media dei "procedimenti contenziosi" in Tribunale è stata di 3 anni, di un anno e 9 mesi per le materie di lavoro, e di 2 anni e 3 mesi in Corte di Appello. Server guasti. Quasi a voler dare però ragione al ministro, quando lamenta che anche negli operatori della giustizia allignino spesso resistenze culturali al cambiamento (vorticoso nel civile, dove tutti e tre i gradi sono passati per legge obbligatoriamente dalla carta al telematico), a Busto Arsizio un giudice civile di un’opposizione a un decreto ingiuntivo telematico ha pensato bene di scrivere in una ordinanza che voleva gli allegati depositati in carta, anziché telematicamente, perché altrimenti non era possibile "per questo giudice sottolineare ed utilizzare brani rilevanti dei documenti, nonché piegare le pagine dei documenti così da averne pronta disponibilità quando riflette sulla decisione"- Remora discutibile, nella quale riecheggia però l’esasperazione (questa condivisa da tantissimi magistrati e cancellieri) per la mancante o carente assistenza tecnica agli uffici nella quotidianità degli intoppi pratici. Come la settimana di guasto nella sala server di Messina che ha prodotto l’interruzione - denunciata dagli avvocati per i disservizi a cascata - di alcuni sistemi informatici utilizzati dagli uffici giudiziari dei distretti di Palermo, Caltanissetta, Messina, Catanzaro e Reggio Calabria. "Nel corso di pochi giorni sono stati completamente riattivati e nessun deposito telematico effettuato è andato perduto", ha gettato acqua sul fuoco via Arenula; ma che non sia stato proprio un crash da nulla lo dimostrano i presidenti di molti Tribunali che in quei giorni hanno vergato ordinanze d’urgenza per tornare ad autorizzare in via provvisoria i depositi cartacei a causa del protratto collasso informatico. Sindaci in rivolta: "arriva un avviso di garanzia e sei un delinquente" di Giacomo Losi Il Dubbio, 13 maggio 2016 La lettera contro lo stillicidio mediatico-giudiziario. I toni sono (apparentemente) pacati, le parole misurate, centellinate, ma il messaggio è chiaro e forte: i sindaci dicono basta e chiedono "rispetto". La lettera dei primi cittadini di centrosinistra e centrodestra (Enzo Bianco, Antonio Decaro, Giuseppe Falcomatà, Daniele Manca, Roberto Scanagatti, Bruno Valentini, Guido Castelli, Umberto Di Primio, Paolo Perrone) arriva nelle ore in cui le agenzie battono la notizia dell’avviso di garanzia al sindaco di Livorno Pizzarotti. L’ennesimo che colpisce un sindaco nelle ultime settimane. Ed è la goccia che fa traboccare il vaso. A quel punto la lettera, che verosimilmente era stata preparata nei giorni caldi del contestatissimo arresto del sindaco di Lodi, viene spedita alla stampa e diffusa urbi et orbi. Ed è un vero e proprio grido d’allarme: "Il Sindaco di Lodi è stato arrestato (ed è tuttora in carcere) indagato per turbativa d’asta. Nell’ordinanza si afferma che il vantaggio che configurerebbe un elemento della condotta illegittima consisterebbe nel consenso ricevuto e generato da un’azione amministrativa. Ovviamente non entriamo nel merito dell’indagine - scrivono i sindaci. Nel nostro patrimonio culturale ed istituzionale c’è il rispetto convinto e profondo della Magistratura che deve fare il suo corso rapidamente per accertare la verità dei fatti". Ciò detto, i sindaci non ci stanno allo stillicidio mediatico-giudiziario: "Il sindaco di Livorno ha ricevuto un avviso di garanzia per una vicenda amministrativa dell’Azienda per i rifiuti della sua Città guadagnando prime pagine di giornali per un’indagine appena avviata". Infine l’affondo: "Troppe volte vicende giudiziarie diventano oggetto di scontro politico indipendentemente e ben al di là dell’oggetto dell’indagine". Poi la richiesta: "Chiediamo al Presidente della Repubblica, al Parlamento, al Governo, alla magistratura di considerare che la reputazione dei Sindaci, la loro capacità di governare i nostri Comuni, il rispetto per questo ruolo, sono un bene prezioso che va salvaguardato nell’interesse del buon funzionamento della nostra democrazia". "Stanno criminalizzando la politica. Basta gogne" di Paola Sacchi Il Dubbio, 13 maggio 2016 Intervista a Guido Castelli, il sindaco di Ascoli Piceno promotore dell’appello. "Piena fiducia e rispetto della magistratura", ma vogliamo "rispetto anche per noi sindaci". E basta "gogne", per tutti anche, naturalmente, "per i colleghi dei Cinque Stelle, rispetto ai quali abbiamo posizioni distantissime". Guido Castelli (Forza Italia), sindaco di Ascoli Piceno sintetizza così il senso di una dirompente lettera-appello al Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Primo firmatario, il sindaco (Pd) di Catania Enzo Bianco, già ministro dell’Interno dei governi D’Alema-Amato. Accanto alla firma di Castelli, Bianco e molti altri sindaci del Pd, c’è anche il primo cittadino di Lecce Paolo Perrone (Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto). Sindaco Castelli, è una critica bipartisan contro la magistratura dopo la raffica di inchieste e arresti? No, è una critica anche alla politica, ai governi nazionali che da cinque anni, da quando la crisi è esplosa hanno chiesto ai sindaci sforzi che, non noi, ma addirittura il primo presidente della Corte dei conti ha definito sproporzionati. I Comuni sono stati massacrati. È stata data loro la possibilità di aumentare le tasse, ma di queste tasse è lo Stato che ne ha beneficiato. La crisi ha profondamente logorato la loro possibilità di corrispondere alle attese dei cittadini perché I Comuni sono di fatto commissariati. E le inchieste giudiziarie? Prima mi faccia dire: il sindaco di Licata ha avuto la casa bruciata per le sue azioni contro l’abusivismo edilizio e ogni anno c’è una media di 850 atti di intimidazione nei confronti dei sindaci. Va Bene? Va malissimo, ma ci risponda sulla critica alla magistratura. Ci sono stati eccessi? La magistratura giustamente deve indagare, valutare, ispezionare tutto. Tuttavia bisogna tutelare la reputazione dei sindaci... Siete vittime anche della giustizia? No, della burocrazia, sulla quale poi la magistratura valuta. C’è una responsabilizzazione inusitata delle leggi italiane che porta a uno stress amministrativo sul quale poi interviene la magistratura. Ma, scusi, nel caso dell’arresto del sindaco di Lodi, Simone Uggetti, voi stessi scrivete a Mattarella stigmatizzando quanto c’è scritto nell’ordinanza. E cioè, come voi dite, che "il vantaggio, che configurerebbe un elemento della condotta illegittima, consisterebbe nel consenso ricevuto e generato da un’azione amministrativa". Reato di consenso politico? Esatto, lo ha denunciato benissimo Emanuele Macaluso, il quale ha detto una cosa che fa esattamente il paio con quanto dicevo sul danno alla reputazione dei sindaci. Si è ritenuto vantaggio indebito il fatto di aver prodotto, grazie a una certa azione amministrativa, consenso per la propria maggioranza. È questo è un po’ come se si criminalizzasse lo stesso esercizio della politica. Ma il consenso, ovvero la riconciliazione tra comunità e amministratori è un fatto di per sé positivo non fraudolento o pernicioso. Altrimenti mettiamo i prefetti. Lei di Fi si trova con Bianco del Pd. Come nasce questa unione? Se mi posso permettere, è Bianco che si ritrova con me, perché questa scelta neo-centralista di assoggettare i sindaci ai voleri di Roma, l’ha compiuta al meglio proprio Matteo Renzi. Però, scusi, non può essere sempre tutta colpa di Renzi, le restrizioni nascono con vari governi anche con quelli di Silvio Berlusconi. O no? È vero. Sulla riduzione delle risorse iniziò con la crisi del 2009 Giulio Tremonti (ministro dell’Economia di Berlusconi), però c’è una norma che perfeziona questo tipo di atteggiamento verso i sindaci. Questa norma è la riforma dell’articolo 119 voluta da Renzi, tant’è che io sono uno di quelli che dirà no al referendum di ottobre. Non per le ragioni note e consuete ma perché questa rivisitazione dell’articolo 119 consacra il neocentralismo nei confronti delle autonomie. Anche se il M5s non è mai stato tenero con voi e con il Pd, il sindaco Nogarin è stato messo alla gogna? Ormai in Italia quasi tutti i sindaci sono messi alla gogna. C’è un clima di insofferenza che riguarda anche chi come noi prima rappresentava il lato migliore della filiera istituzionale, la futura classe dirigente del Paese. Una prova etica per i Cinque Stelle di Marco Imarisio Corriere della Sera, 13 maggio 2016 Oggi 13 delle 17 amministrazioni M5S, da Parma a Livorno, hanno problemi con le procure. Per la classe dirigente che deve re-inventarsi dopo l’era di Grillo e Casaleggio, è l’occasione di ripensare un giustizialismo che hanno applicato agli altri. Le prossime elezioni amministrative sono considerate uno spartiacque nella storia del Movimento 5 Stelle. La posta in gioco è alta, ma la creatura che fu di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio arriva male a questo appuntamento decisivo, avvolto nell’incertezza sulla strada da prendere nel futuro prossimo. Le inchieste giudiziarie che hanno colpito i sindaci di due roccaforti pentastellate come Livorno e Parma, entrambi accusati di reati connessi alla loro attività di amministratori, e le annesse polemiche sulla doppia morale di M5S, garantisti a casa propria, feroci altrove, evidenziano gli effetti di una mutazione in corso che rischia di fermarsi nella palude delle prese di posizione dettate dalla convenienza spicciola. Il troncare, sopire, sminuire le proprie contraddizioni operato in questi giorni da Luigi Di Maio e dagli altri membri del direttorio, equivale al mantenimento di una presunta rendita di posizione. Non muoversi, stare il più possibile fermi, far passare la piena per giungere senza troppi danni alle urne. È una scelta anche legittima, ma di corto respiro, che evidenzia le crepe nel muro di M5S. Le ipotesi di reato che hanno raggiunto Filippo Nogarin e Federico Pizzarotti non rappresentano peccati mortali o infamanti. Sarebbero anche una ghiotta occasione per definire una volta per tutte cosa rappresenta davvero quell’enigma chiamato Codice etico, per rimodellare un estremismo giustizialista che al dunque viene declinato con gli avvisi di garanzia degli altri. Invece è stato scelto uno sterile gioco al rimpiattino con il Pd e le altre forze politiche sul rispettivo numero di acciacchi giudiziari, fingendo di scordare il fatto che oggi 13 delle 17 amministrazioni controllate da M5S hanno problemi con le procure. Al netto della presunzione di innocenza, per chi ambisce a governare l’Italia si pone un discreto problema di classe dirigente, confermato dal fatto che la seconda forza politica del nostro Paese schiererà solo 250 liste proprie su 1.300 Comuni che voteranno il prossimo giugno. La mancanza di chiarezza si traduce in un immobilismo dove ognuno dice la sua, creando danni ulteriori. I silenzi, gli imbarazzi, le polemiche appena accennate sulla tempistica della magistratura e le dichiarazioni sull’attacco delle procure, già sentite dall’intero arco costituzionale negli ultimi anni, non aiutano la rivendicazione della propria diversità. L’immobilismo appare oggi l’unico modo di tenere in equilibrio due anime inconciliabili tra loro, è un riflesso del contrasto interno tra ortodossi e governativi, che si riflette anche sul direttorio, il nuovo organo di autogoverno del movimento. L’appartenenza alle diverse fazioni sembra avere un peso anche nella gestione delle proprie disavventure. All’ortodosso Nogarin indagato a Livorno, solidarietà e copertura garantista. Nei confronti di Federico Pizzarotti, il sindaco di Parma inviso alla base pura e dura, si registra qualche presa di distanza, qualche distinguo. E così la giustizia e il giustizialismo cavalcati nell’ultimo decennio diventano un’arma a doppio taglio, una insidia che va ben oltre l’esito delle prossime elezioni amministrative. La colpa di questa opacità, di un appannamento che confina con l’imbarazzo, ricade sui nuovi vertici del direttorio, chiamato a gestire la sua prima prova di maturità, finora con scarsi risultati. Gianroberto Casaleggio non c’è più, e si sente. Suo figlio Davide ha messo in chiaro il suo ruolo tecnico di gestore del software aziendale, Beppe Grillo appare sempre più distante. Nei momenti difficili, erano stati i due fondatori a dare sferzate, a prendere decisioni anche impopolari presso la base. Quel M5S è finito. Adesso tocca alle giovani leve del direttorio. Ma per affermarsi come nuova e credibile classe dirigente, hanno il dovere della chiarezza, a cominciare dal tema della giustizia. Sono loro che devono spiegare cos’è oggi e cosa davvero vuole diventare il Movimento Cinque stelle, ai loro militanti, e magari anche al Paese, visto che è della seconda forza politica italiana che si parla. Anche a costo di cambiare rotta su alcuni principi fondamentali. La professione dell’onestà può essere conciliata con una svolta se non garantista almeno di maggiore equilibrio. Naturalmente professata con tutti, non solo con se stessi. Non c’è niente di male nel cambiare idea. Specialmente se quelle di prima, per quanto applaudite, erano sbagliate. M5S, dal giustizialismo alle garanzie: la parabola dei fedeli di Beppe di Mario Ajello Il Messaggero, 13 maggio 2016 La scoperta del garantismo è sempre una buona notizia. Chiunque riguardi. Ora per una sorta di nemesi riguarda i 5 Stelle che sembrano avere scoperto improvvisamente, sotto i colpi delle inchieste che li investono, Montesquieu e Beccaria. E le loro critiche antiche ma modernissime ai divieti esorbitanti, ai castighi sproporzionati, ai giudizi arbitrari. "Mi raccomando, non fate i forcaioli!", è il grido del contrappasso. È il paradosso che anima i grillini una volta passati da inflessibili accusatori dell’intera classe politica ad amministratori alle prese con la difficoltà di governare le diciassette città in cui vinsero alle ultime elezioni comunali. Chissà se siamo davvero all’approdo, da parte di un movimento abituato a umori opposti, all’idea che le fondamenta dello Stato di diritto poggiano sul terreno del garantismo penale. Di sicuro, la bufera che si sta abbattendo sui sindaci grillini fornisce una lezione di carattere generale. E cioè che in Italia le questioni giudiziarie non devono essere usate né come elementi di lotta politica né come elementi di invidia sociale. Un Paese a cui manca una cultura condivisa sulla giustizia, e sulle regole e sui limiti che la riguardano, non può che generare tifoserie, mostri e alla fine clamorosi ribaltamenti come quello in corso. Gli alfieri della purezza "manipulitista" e i paladini della presunzione di colpevolezza (degli altri) si trovano nella condizione dei giustizialisti finiti sotto giudizio. Questo è uno dei rovesciamenti a cui vanno incontro i partiti populisti, nati per stare all’opposizione, quando sono chiamati a governare. E pensare che i Vaffa Day erano una sorta di festival della mostrificazione giudiziaria. Il grido "se uno è indagato deve lasciare" è stato il grande mantra ideologico. Quando ad Alfano è arrivato un avviso di garanzia per abuso d’ufficio, come quello piovuto su Pizzarotti, Luigi Di Maio ha scritto un tweet: "Se ne vada via entro cinque minuti" (25 febbraio 2016, ore 21,34). Adesso invece il lessico s’è ribaltato. Quasi che il grillismo abbia scoperto l’idioma che ai loro occhi odorava di mastellismo: "Bisogna prima vedere le carte... No allo strapotere della magistratura...". Di più, come dice Virginia Raggi: "No agli avvisi di garanzia usati come manganelli". Sembra passato un millennio rispetto al tempo, vicinissimo, in cui non pareva azzardato metaforicamente accostare i grillini alle "tricoteuses" della rivoluzione giacobina, le vecchiette parigine che trascorrevano le loro giornate ricamando in piena letizia e tranquillità sotto la ghigliottina su cui salivano gli altri. Il grido "onestà-onestà-onestà" è risuonato sempre e anche ai funerali di Casaleggio. Ed è stato respinto con perdite lo storico Aldo Giannuli, considerato un consigliere politico di Grillo, quando ha cercato di avanzare presso il leader una posizione così: "I parlamentari dovrebbero essere più coraggiosi nel difendersi dall’oltranzismo delle procure". Alla luce delle novità, questa impostazione eretica verrà ripresa in considerazione? A proposito di eretici, la nemesi dei 5 stelle è plurima. Comprende anche il fatto di dover difendere dai giudici un tempo eroi il primo simbolo del governo grillino, il sindaco Pizzarotti, poi diventato più o meno un traditore della causa agli occhi degli ortodossi e dei vertici pentastellati. E ancora. Per uno scherzo del destino, l’avviso di garanzia a Pizzarotti piove proprio nel giorno in cui nove sindaci di destra e di sinistra scrivono una lettera pubblica, per dire che il rischio di un’indagine giudiziaria è diventato purtroppo connaturato al mestiere del governare. I grillini, in un altro momento, avrebbero chiamato i carabinieri o scatenato gli inquisitori contro gli autori di tale bestemmia. Adesso non lo farebbero più. E magari si metteranno a leggere i libri di Benedetto Croce, il quale potrebbe insegnargli questo: "L’onestà politica coincide con la capacità politica". Inchieste e politica. Le garanzie e le forzature del sistema di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 13 maggio 2016 Il caso di due sindaci di M5S sotto inchiesta nel giro di pochi giorni colpisce l’opinione pubblica, specie alla luce della storia di questo movimento. Ma le richieste di dimissioni di pubblici amministratori che ricevono un avviso di garanzia per il reato di abuso d’ufficio segnalano un effetto improprio che vede questo atto adottato all’avvio di una indagine proprio perché il cittadino possa esercitare il diritto di difesa. Considerato spesso atto dovuto, in quanto scatta nel momento in cui vi sia un’accusa, anche solo una denuncia, che richieda qualche accertamento, l’avviso di garanzia rischia così di tradursi in un preannuncio di condanna e di produrre pertanto nell’opinione pubblica una indelebile lesione all’onorabilità della persona anche qualora questa risulti poi innocente, talvolta nemmeno rinviata a giudizio. L’effetto distorsivo non tocca più solamente la persona, ma anche l’istituzione e dunque incide sull’andamento delle istituzioni se l’annuncio di una possibile azione penale, che l’avviso di garanzia esprime, diventa causa di sostanziale e anticipata decadenza dall’esercizio di una funzione elettiva di rappresentanza politica. Una decadenza anticipata ottenuta attraverso le dimissioni del titolare della funzione. È chiaro l’interesse di preservare la pubblica amministrazione da reati corruttivi o che altrimenti ne strumentalizzino l’azione. Ma è altrettanto chiara l’esigenza di garantire che chi esercita correttamente le funzioni pubbliche non sia soggetto ad un sovraccarico di rischi per ipotesi di reato che prevedono condotte dai confini troppo larghi, se non addirittura indeterminati. La funzione dell’Amministrazione è quella di agire, anche con l’esercizio di una corretta discrezionalità nella ponderazione degli interessi in gioco. Ogni provvedimento, pur adottato nel pubblico interesse, può arrecare vantaggi ad alcuni o pregiudizi ad altri senza che questo debba essere ricondotto e valutato necessariamente sotto la lente dell’abuso di ufficio. Altrimenti non solamente si sottoporrebbe la pubblica amministrazione ad un permanente test giurisdizionale penale, mentre è indiscutibile la tutela dinanzi al giudice amministrativo. In tempi remoti non mancava il caso di qualche sindaco che inviava preventivamente tutte le delibere al pretore del luogo, per un improprio esame preventivo "di garanzia", o meglio per acquisire una immunità da incursioni penali. Si determinerebbe l’effetto non voluto di una "amministrazione difensiva", che rinuncia ad assumere decisioni quando si può prefigurare un qualche rischio, anche solo di denuncia, o peggio di una amministrazione che copre furbescamente con aggravi procedurali le proprie determinazioni. Come assicurare un equilibrato rapporto tra giurisdizione penale e amministrazione? Come garantire l’efficacia e speditezza della prima, secondo principi di trasparenza e buon andamento, e non coprire chi inquina l’azione amministrativa? Anzitutto prevenendo, mediante una opportuna organizzazione amministrativa, la selezione dei pubblici funzionari che ne assicuri competenza ed imparzialità, la semplificazione delle procedure e un controllo pubblico e diffuso assicurato dalla pubblicità degli atti e dalla trasparenza, appunto, dell’attività. Sul piano penale, destinato giustamente a colpire ogni atto corruttivo, possono essere auspicati due livelli di azione. Sul piano legislativo delimitare le condotte che, assunte ora sotto il troppo ampio cappello dell’abuso d’ufficio, hanno un effettivo rilievo penale. Alcuni hanno invocato una "assicurazione" contro i rischi dell’amministrare. Purtroppo, e giustamente, non coprirebbero il rischio di un processo penale, ma solamente la rifusione delle spese di difesa in caso di assoluzione. Sul piano processuale sono state prefigurate ed adottate nel tempo diverse misure per tentare inutilmente di depotenziare l’improprio effetto di annuncio di una azione penale e di una possibile futura condanna. Un rimedio di fatto potrebbe essere praticato riconducendo l’avviso di garanzia alla sua naturale funzione ed escludendo che determini effetti istituzionali, almeno fin quando non sia supportato da elementi che connotino la gravità dei fatti e la densità delle prove di colpevolezza. Saremmo in linea con le garanzie costituzionali, che devono riguardare tutti i cittadini, anche gli amministratori pubblici. Fermare la magistratura militante di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 13 maggio 2016 Gli argomenti fuffa con cui i pm giustificano il proprio protagonismo. Facendo seguito a un primo commento del caso Morosini, può essere utile passare in rassegna le principali argomentazioni avanzate da alcuni magistrati per giustificare il loro impegno nella campagna referendaria relativa alla riforma costituzionale. Ma, nel farlo, ometterò riferimenti nominativi a questo o a quell’esponente del mondo giudiziario che ha ritenuto di dover prendere posizione nel dibattito pubblico. Ciò per evitare confronti personalistici, nel convincimento che la fondatezza delle opinioni manifestate sia da vagliare anche a prescindere dalla notorietà personale, dalla autorevolezza o dal carisma mediatico di quanti sono intervenuti. Richiamo, innanzitutto, il percorso argomentativo che pretende di collocarsi in un orizzonte di riflessione di respiro particolarmente ampio. Che cioè non solo abbraccia la missione della giurisdizione nel quadro costituzionale e nella contingente cornice politica domestica, ma - dilatando al massimo il campo di osservazione - si spinge sino a includere le tendenze politico-economiche emergenti nello scenario globale. Viene da rilevare subito che esisterebbe, in ogni caso, una grande sproporzione di scala tra il potere d’intervento della magistratura italiana (e, più in generale, la complessiva capacità di incidenza del sistema politico-istituzionale nostrano) e le pericolosissime minacce, in termini di involuzioni autoritarie e di eccessi liberistici, che si paventa derivino dall’attuale modo d’atteggiarsi del capitalismo mondiale. Sicché, non risulta affatto chiaro per quali ragioni una riforma costituzionale volta a rafforzare la governabilità del sistema italiano, con temuto ridimensionamento del ruolo del Parlamento, dovrebbe provocare - come automatico e ineluttabile effetto - una deriva del nostro sistema democratico, tale da impedire addirittura alla stessa magistratura di salvaguardare efficacemente i diritti fondamentali dei cittadini e, in particolare, di quelli appartenenti alle fasce più deboli. A prescindere dall’obiezione dell’involversi del ragionamento in una manifesta petizione di principio, le valutazioni pessimistiche relative alla paventata riconversione oligarchica del potere mondiale hanno natura politica, e poco hanno a che fare con la dimensione strettamente costituzionale (a meno che non si sia convinti della impossibilità di distinguere tra diagnosi politica su scala internazionale e approccio costituzionale, ma allora proprio questa ritenuta indifferenziabilità di piani di osservazione fornirebbe la conferma delle valenze "politiche", e non soltanto costituzionali, della campagna referendaria!). Quanto poi alla missione strategica che si ritiene i nostri padri costituenti avrebbero affidato alla magistratura, e cioè il compito di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo, diciamo che si tratta di un assunto abbastanza ardito proprio sul versante costituzionale. Non c’è bisogno di essere costituzionalisti di mestiere per sapere che gli artefici della nostra Costituzione concepirono la Corte costituzionale proprio perché diffidavano dal consegnare il controllo di costituzionalità nelle mani della magistratura comune. Lungi dall’avere una qualche legittimazione costituzionale, la tesi che vorrebbe assegnare alla magistratura penale prioritariamente il compito di esercitare un controllo di legalità sul potere politico ha, in realtà, una genesi riconducibile alla cultura giudiziale dei magistrati di sinistra e, in particolare, di quelli appartenenti a Magistratura Democratica. Si tratta, com’è evidente, di una tesi che presta il fianco a non poche obiezioni, ma che risulta coerente con l’attenzione privilegiata che gli iscritti a Md tradizionalmente rivolgono alle dinamiche politiche. Rispetto all’ulteriore argomento posto a fondamento giustificativo dell’impegno referendario, e cioè il fatto che il giudice sia tenuto a interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione, anche questa volta ci troviamo di fronte a una mancanza di connessione logico-giuridica: la riforma costituzionale concerne infatti la seconda parte della Costituzione relativa all’organizzazione statuale, mentre lascia intatti i diritti fondamentali e tutti i princìpi invocabili ai fini di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle leggi. Dove sta, allora, il problema? Forse, nella preoccupazione emotiva che il rafforzamento dell’esecutivo comporti, anche come messaggio simbolico, una limitazione delle libertà fondamentali e una svalutazione dei diritti sociali. Ma vi sono approcci argomentativi sviluppati in un orizzonte di riflessione meno generale e impegnativo, e dunque più interessati alle ragioni concrete delle polemiche contingenti. Così, si è da parte di qualcuno osservato che, se la riforma costituzionale ha assunto valenze politiche anche in termini di consenso o dissenso all’attuale governo, la colpa sarebbe tutta di Renzi per avere impropriamente voluto includere la revisione della Costituzione nella contesa politica, mentre ai magistrati impegnati contro la riforma starebbe a cuore soltanto la questione costituzionale in sé considerata. Questo modo di ragionare è capziosamente formalistico: a magistrati interessati più alla sostanza delle cose, che al rispetto di formali regole di deontologia, non dovrebbe sfuggire che l’avvenuta politicizzazione - piaccia o non piaccia - della campagna referendaria conferisce (oggettivamente) il ruolo di attori politici anche a quanti vorrebbero avversare la riforma sulla base di (soggettive) motivazioni di ordine puramente costituzionale. Da parte di altri si è obiettato che non pochi magistrati italiani sono stati attivi protagonisti della precedente campagna referendaria del 2006, schierandosi pubblicamente, senza che ciò - a differenza di oggi - sollevasse alcun problema di legittimità o di opportunità. E si aggiunge, più o meno maliziosamente, che questa militanza sarebbe stata tollerata forse perché alla sinistra di allora faceva comodo avere la magistratura progressista alleata contro Berlusconi, mentre l’attuale sinistra al governo non gradirebbe l’opposizione politica di questa stessa magistratura. Fondata o meno, una simile obiezione rimane circoscritta pur sempre nell’ambito delle valutazioni politiche, e non tocca ancora il piano delle argomentazioni costituzionali. Lo toccherebbe, invece, se si volesse anche sostenere che la tolleranza manifestata nel recente passato abbia avuto l’effetto di legittimare costituzionalmente, in chiave per così dire di Costituzione materiale, la partecipazione di singoli magistrati o di gruppi associativi alla battaglia referendaria. Sennonché, ribadendo quanto ho osservato nel mio precedente articolo, non basta un precedente atteggiamento di tolleranza "di fatto" a dare vera copertura costituzionale alla militanza attiva dei magistrati: se fosse decisiva la "forza normativa del fattuale", se fosse sufficiente riuscire a occupare uno spazio per rendere (costituzionalmente) legittimo questo spazio, che bisogno più si avrebbe di una Costituzione scritta? Inoltre, è diffuso il rilievo che la militanza magistratuale sarebbe giustificata dal fatto che le competenze professionali dei giudici sarebbero utilissime per affrontare i problemi giuridici connessi alla riforma costituzionale. Sennonché, anche qui, il mestiere di magistrato ordinario (di merito o di legittimità) di per sé non conferisce alcuna speciale competenza nell’ambito del diritto costituzionale; e se ne ha una riprova considerando - come è già stato osservato - che non risulta che i magistrati finora intervenuti nel dibattito abbiano fornito contributi originali, in termini di analisi o di proposta, ai lavori di riforma. Non si è, infine, mancato di obiettare che è preferibile consentire ai magistrati una leale battaglia di idee professate a viso aperto e col coraggio di esporsi, piuttosto che costringerli a un impegno referendario timoroso e manifestato in modi ambigui o sotterranei. Questo tipo di argomentazione perde di vista che non è in questione il profilo etico di una eventuale militanza referendaria, per cui il viso aperto sarebbe da preferire al sotterfugio. In ballo vi è qualcosa di diverso e di molto importante, che attiene alla natura stessa della funzione giurisdizionale vista con gli occhi dei cittadini. I magistrati militanti, infatti, trascurano che la loro militanza risulta alquanto sgradita a una parte consistente del popolo italiano, la quale vede appannata l’immagine di terzietà che il giudice dovrebbe riuscire sempre a preservare. Prescrizione e intercettazioni. Per colpire qualche furbetto sacrificano i diritti dei singoli di Giorgio Oldoini Libero, 13 maggio 2016 Ai tempi in cui la maggioranza dei Magistrati possedeva una cultura liberale, la Cassazione affermava che "il fondamento della prescrizione è costituito dall’esigenza della certezza dei rapporti giuridici, che non possono restare troppo a lungo sospesi, con il pericolo che sia reso impossibile o notevolmente più difficile la prova, allorché sia decorso un notevole periodo di tempo". Per queste ragioni, la prescrizione impone di velocizzare l’attività giudiziaria e riduce il potere ricattatorio dei sicofanti. Tanto maggiore è l’inefficienza dell’Istituzione, tanto minori devono essere i termini di prescrizione: è questo l’unico modo per tutelare il cittadino contro lo Stato. Gli italiani sono evasori fiscali incalliti e il rinvio dei termini di prescrizione degli accertamenti è diventato una costante in materia tributaria. Nessuno pensa a riformare le burocrazie e le istituzioni che non rispettano i tempi della legge. È più semplice trasferire la responsabilità sulla "società" civile, un’operazione che non viene avvertita come tale dalle stesse élites, cui si deve la disfatta della cittadella del diritto. Le categorie forensi entreranno in sciopero per tre giorni, sostenendo che la riforma della prescrizione allunga i processi e che le intercettazioni all’italiana costituiscono un abuso e non tutelano la dignità della "persona". Questa battaglia di civiltà è persa in partenza, perché non sono in gioco questioni di diritto, bensì principi di natura ideologica. L’ideale secondo cui la libertà individuale rappresenta il maggior fine politico è un antico retaggio storico. Si possono fare venti consultazioni popolari sull’indipendenza della magistratura, senza alcun risultato pratico, com’è accaduto in passato. Si possono fare mille referendum sulle intercettazioni, chiedendo di adottare la legislazione americana, che tutto continuerebbe come oggi. L’inefficienza, la supponenza degli addetti "ai lavori", la mediocrità dei leader politici, impediscono che le intercettazioni siano eseguite secondi canoni di civiltà. Il principio "ideologico" ormai vincente è che, dinanzi ai fenomeni di corruzione che riguardano i "furbetti" di tutte le categorie sociali, i diritti della "persona" debbano essere sacrificati nell’interesse di tutti. Anche se l’esperienza di "Mani pulite" ha dimostrato che dopo un periodo di "terrore", la moralità pubblica peggiora, si insiste nell’affermare che serve una "stretta". Perché non pensare a una prescrizione, uguale per tutte le categorie e tutte le situazioni, di una ventina d’anni? Perché non prendere in considerazione la necessità di una "stretta" permanente? In questo modo la propensione a delinquere dei cittadini diminuirebbe e così i reati: i solerti magistrati avrebbero il tempo di colpire tutto e tutti. Per farlo, non si può andare troppo per il sottile, bisognerà accettare una casistica elevata di errori professionali dei magistrati, ringraziarli ed escludere ogni loro responsabilità. La dottrina dell’essenziale dignità dell’individuo è denunciata alle folle plaudenti come il marchio indelebile dei "disonesti". Graziano Cioni, il giustizialista pentito di Annalisa Chirico Il Foglio, 13 maggio 2016 "Per me la legalità era un vessillo. Dopo 8 anni di processo ingiusto e un’assoluzione dico: che puttanata". Cioni, ex assessore a Firenze, si confessa con il Foglio. "Non solo i magistrati: è un sistema che va cambiato" Graziano Cioni mi accoglie in un noto bar in piazza della Signoria. "Esiste forse un ufficio più bello?", lo sceriffo di Firenze non ha perso l’ironia. Si accomoda sulla sedia, intrattiene i camerieri, poi alza lo sguardo e fissa la Torre di Arnolfo, in cima a Palazzo Vecchio, antica sede dei Priori delle Arti e culla del potere comunale. I Cioni, come lo chiamano qui, osserva i passanti, lancia un’occhiata su ambo i lati della piazza, poi punta il dito verso una stradina laterale: "In quel punto, di tanto in tanto, si piazzano gli ambulanti. Oggi non ci sono, meglio così". L’aspetto baldanzoso di un tempo è solo un ricordo, ì Cioni è un uomo ritratto nel corpo e nello spirito. "Viviamo un’autentica barbarie. Io ero un giustizialista convinto, che puttanata il giustizialismo. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie, la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione. La sinistra ha difeso i magistrati a prescindere dalla ragione e dal torto. Li abbiamo resi intoccabili". Cambia todo en este mundo, cantava Mercedes Sosa. "Cambia tutto, è vero. Io sono cambiato, non so più chi sono. Quando ti capita una storia come la mia, che ti toglie il sonno e la salute, ti rendi conto che non si può ammazzare un innocente". Cioni è stato deputato e senatore per tre legislature, nel solco del Pci- Pds-Ds, quando il Partito pretendeva la ‘p’ maiuscola. "Sarà stata pure ideologia, non lo nego, ma all’epoca il Partito era una famiglia, ti faceva commettere alcuni errori ma ti riempiva l’esistenza. C’era la passione per un’idea, l’ardore di chi voleva rivoluzionare il mondo, Ho-chi-min, Che-Guevara". Cioni, torniamo all’oggi: dopo un’assoluzione in primo grado e una condanna in appello, la Cassazione ha messo la parola fine perché il fatto non sussiste. "Eppure per qualcuno resto un condannato. L’altra sera su La7 quel Di Battista, come si chiama, quello dei 5 stelle, mostra una piovra tentacolare che si estende sull’Italia intera. In corrispondenza della Toscana compare un nome, il mio, e accanto si legge condannato. Mi prende un colpo. Il conduttore non lo corregge. Li ho querelati. Non ci sto più a prendere schiaffi". Graziano Cioni nasce, settant’anni or sono, a Pontorme, frazioncina dell’empolese, da mamma Cesarina e papà Bruno, confezionista lei e cenciaio lui. "A scuola usavo i libri fotocopiati. Quando si consumavano i gomiti dell’unica giacca che possedevo, la mamma la rattoppava, non potevamo comprarne un’altra. Lei confezionava impermeabili a domicilio, il che voleva dire che se la fabbrica chiudeva la prima a essere licenziata era lei. Il sabato mia sorella mi portava davanti al bar Italia di Empoli: mi appostavo davanti alla vetrina e osservavo la gente che mangiava il gelato, non avevamo i soldi per comprarlo. Anni dopo, quando il Partito mi mandò per la prima volta in Unione sovietica, dissi a un compagno: posso fermarmi dal gelataio? Lui rispose: il gelataio è lo stato". Il piccolo Cioni non arriva alla licenza media. "A casa non c’erano soldi, non me ne importava una sega di studiare. Cominciai come commesso in una cartolibreria nel centro di Empoli. Un giorno il figlio del proprietario mi strappo’ la ramazza dalle mani per mostrarmi come dovevo spazzare. Te tu sai come si spazza? Gli dissi io. E allora fallo tu. Li mandai al diavolo". Un caratteraccio proverbiale, quello del Cioni. "E meno male, sennò sarei già morto". Cessata prematuramente l’esperienza da commesso, i Cioni s’improvvisa cenciaio insieme al babbo. "Un lavoraccio, si stava seduti per terra a sfilare le stoffe per poi rivenderle e farci pochi quattrini. D’inverno si soffriva un freddo pungente, la mamma mi aveva cucito un paio di guanti senza dita e un copricapo che lasciava scoperti naso e occhi. I geloni ti divoravano. A diciassette anni avevo un’unica certezza: quella vita non era la mia". A Pontorme il ragazzo designato per l’incarico di segretario dei giovani comunisti è gay: quando i maggiorenti scoprono la "devianza" sessuale, cercano una soluzione alternativa, e la trovano nel Cioni notoriamente etero. "Il giorno prima mi chiamarono e mi dissero: domani tu sarai eletto. Fui sostanzialmente un ripiego per scongiurare l’insostenibile vergogna di un omosessuale". Nel pieno del ‘68 Cioni diventa funzionario di partito. "La mia prima moglie non mi vedeva mai. Ero sempre in giro, all’epoca non c’erano i cellulari e sparivo per giorni. Bisognava andare ovunque, essere ovunque. Il Partito pagava poco, perciò la domenica portavo la famiglia a pranzo da mia madre. Mangiavamo pollo e burischio, e facevamo il pieno di vettovaglie per il resto della settimana. L’acqua corrente non c’era, la trasportavamo nelle brocche. Per vedere qualche minuto di televisione in bianco e nero pagavamo cento lire alla Casa del popolo. La domenica, dopo pranzo, papà accendeva la radio e ci faceva ascoltare ì Grillo canterino prodotto dalla sede Rai di Firenze. Era un programma irriverente con le storie di sora Alvara e del Gano di san Frediano". Gano chi? "È il latin lover fiorentino, lo sciupafemmine del romanzo Le ragazze di san Frediano di Pratolini. Il Gano è quello sempre pronto alla conquista colla sigaretta ‘n bocca e con quell’aria di non-scialance che l’ha fatto conoscere dappertutto". Ì Cioni è un tripudio di amarcord e consonanti aspirate, un instancabile racconta storie; la coppia seduta al tavolo accanto lo riconosce e sorride. Nella seconda metà degli anni Settanta il leader della Federazione giovanile comunista si chiama Massimo D’Alema. "Il più intelligente di tutti. A parte lui, il resto della nostra classe dirigente peccava di autoreferenzialità. Veltroni? Uno che s’intende di cinema e di Africa, disse una volta Cossiga". Nel 1976, all’indomani del terremoto in Friuli, Michele Ventura, segretario di Federazione del Pci fiorentino, invita Cioni al ristorante Il Cavallino in piazza della Signoria: "La direzione nazionale chiede che uno di noi vada nelle zone terremotate per rivitalizzare il Partito, ho pensato a te". "Da buon militante io risposi: quando parto? A Gemona trascorsi un anno e mezzo tra i superstiti. All’inizio nessuno mi rivolgeva la parola, dopo tre mesi tutti mi adoravano. Mi sistemai in una roulotte, una Laika 6000, parcheggiata sotto l’unico muro rimasto in piedi. Un ex frate salesiano domandò: chi è l’idiota che ha piazzato qui la roulotte? La sposto subito, risposi io. Tre giorni dopo una scossa di assestamento fece crollare il muro". I terremoti nella vita sono più d’uno. "E pure quando passano - prosegue Cioni - e le scosse telluriche paiono cessate, le macerie restano sul campo". Anni Duemila, Cioni è assessore alla Sicurezza nella giunta guidata da Leonardo Domenici, gode di un’enorme popolarità e scalda i motori per la corsa a sindaco. "Un giorno entrai nella stanza di Domenici, stava facendo un solitario al computer, come al solito. Gli dissi: Leonardo, mi voglio candidare alle primarie per sindaco. Ti faranno a pezzi, tu fai paura, mi rispose lui senza alzare lo sguardo". 18 novembre 2008, un avviso di garanzia gli viene recapitato nell’ambito dell’inchiesta sulla urbanizzazione della piana di Castello. "Il giorno prima avevo festeggiato il mio compleanno. Il giorno dopo fu l’inizio della fine". Al centro dell’inchiesta c’è il progetto ‘Sviluppo a nord-ovest’ nell’area a ridosso dell’aeroporto. Alla fine degli anni Ottanta il Pci prepara una mega variante per edificare 4 milioni di metri cubi ma il progetto viene bloccato all’ultimo da Achille Occhetto. Vent’anni dopo la giunta Domenici ci riprova: il piano prevede uno stadio, un parco divertimenti, un mix di immobili pubblici e privati, inclusa la nuova sede della Provincia guidata da un giovane Matteo Renzi. La proprietà fa capo alla Fondiaria di Salvatore Ligresti. Secondo la procura di Firenze, Cioni avrebbe favorito gli interessi di Ligresti ricevendo in cambio un aiuto sulla carriera di uno dei suoi figli (dipendente di Fondiaria), una casa ad affitto scontato per un’amica e alcune migliaia di euro come sponsorizzazione. Otto anni di processo e un’assoluzione definitiva che non restituisce la vita strappata. "Accusato di un reato infamante come la corruzione, non potevo che dimettermi. Non credo nei complotti ma sono incuriosito dalle circostanze". Le prove mancano, i finanziamenti provenienti da Fondiaria sono stati impiegati per una campagna sulla sicurezza stradale e per acquistare i climatizzatori destinati a un centro anziani. "Bilancio e urbanistica erano le sole materie di cui non mi ero mai occupato da assessore. Ho partecipato a una sfilza di udienze in tribunale, mi sembrava di vivere una vita non mia: com’è possibile che io mi trovi qui? Proprio io che in passato avevo denunciato due soggetti che avevano tentato di corrompermi. In tribunale ho visto sfilare decine di persone, convocate in qualità di testimoni, che non avevo mai incontrato prima". A Cioni gli inquirenti contestano il rapporto privilegiato con Fausto Rapisarda, braccio destro di Ligresti scomparso due anni fa. "Io chiedevo soldi a tutti. Era il mio compito: portavo avanti decine di iniziative sociali in favore di anziani, barboni, disabili. Qualcuno mi chiamava i Padre Pio. Raccoglievo contributi finalizzati a migliorare la vita delle persone normali. Che cosa deve fare un politico se non questo?". Con ogni probabilità oggi finirebbe indagato per traffico di influenze. "Pura follia. Se hanno armi spuntate, è difficile che i politici possano servire gli altri oltre che se stessi. Io le scale della Federazione le ho sempre salite poco. Io stavo tra la gente, per questo ero amato e odiato. Al momento delle elezioni ero sempre il più votato". Le iniziative contro lavavetri e mendicanti: lei ha sdoganato il tema della sicurezza a sinistra. "La sicurezza non appartiene a questo o a quel partito, la sicurezza è buon senso. I lavavetri aggredivano le donne che portavano i bambini a scuola. I mendicanti alimentavano un racket: ogni mattina un furgoncino li scaricava e poi passava a ritirarli la sera, come fossero un pacco. L’Arci e la sinistra ortodossa mi fecero la guerra, la gente ancora oggi mi ringrazia". A ogni tornata elettorale lei faceva il pieno di preferenze. "Mi adoperavo per tutti. Sa quante volte ho trovato un lavoretto a un disoccupato? La porta del mio ufficio era sempre aperta, fuori c’era la fila. Non me ne vergogno. Se uno ti chiede qualcosa che puoi fare, perché negarla? A me non riesce dir di no". Gli ultimi otto anni sono scanditi dai processi, dal secondo matrimonio naufragato, dal "paziente inglese", il morbo di Parkinson, che in certe giornate storte non gli consente di uscire di casa. I cinque figli, anzi quattro, gli stanno vicino. "Nel 1996 Valentina è rimasta uccisa in un incidente stradale. Aveva 26 anni. Tutti mi rompono i coglioni con la storia che sono dalemiano. Sapete chi fu il primo che bussò alla porta di casa mia? Il signor D’Alema. Si era fatto la strada da Roma fino alla campagna di Empoli per abbracciarmi". Cioni fa una pausa, abbassa lo sguardo e prende fiato. "Io resto ateo e comunista. Ma dopo la morte di mia figlia ho cominciato a pormi il problema dell’aldilà. Non sa che cosa darei per poterla rincontrare un giorno". Non c’è spazio per le parole, silenzio. "Se non fosse stato per i miei figli che in questi anni mi hanno detto: papà, devi reagire, non devi mollare, io mi sarei chiuso in casa e mi sarei lasciato morire di vergogna. A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione?". Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono. Luglio 1992, Camera dei deputati, in occasione del voto di fiducia al governo Amato il leader socialista Bettino Craxi chiama in correità tutto il Parlamento per l’inchiesta Tangentopoli dichiarando "spergiuro" chi avesse negato di aver fatto ricorso al finanziamento illecito dei partiti. Cioni assiste silente a pochi metri da quello scranno. "Ricordo ogni istante di quel discorso. Craxi è uno dei pochi statisti che l’Italia abbia avuto. Averlo lasciato morire da reietto a Hammamet è una vergogna che ci portiamo sulla coscienza". 1992, lei da che parte stava? "Io ero un anti craxiano di ferro. Votai per l’autorizzazione a procedere, oggi non lo rifarei. Pensavo che lui avesse torto. A distanza di diversi anni, ho capito che avevamo torto noi, lui aveva ragione". All’epoca lei ignorava i canali di finanziamento del Pci attraverso "l’oro di Mosca"? "A Firenze il Partito si reggeva sul tesseramento e sulle feste dell’Unità. Che a livello nazionale arrivassero soldi dall’Urss, era qualcosa che s’immaginava. Oggi è una verità storica". Lei ha militato tra gli antiberlusconiani duri e puri. "Per certi versi lo sono ancora, le leggi ad personam le ha fatte e io l’ho contrastato. Penso però che il processo Ruby sia la prova di un accanimento sfacciato nei suoi confronti: chi se ne frega di chi si scopa, peraltro se le pagava lui. Sapessero quello che facevo io a Firenze" (ride). Cioni è tra i fondatori dell’Italia dei valori. "Fui incaricato dal Partito di seguire l’iniziativa di Antonio Di Pietro, lo ricordo come un uomo autoritario. Che vuole che le dica, ero un giustizialista, che puttanata il giustizialismo". Qual è il pensiero di un neofita del garantismo? "Le carriere di pm e giudici vanno separate. L’assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado ma il pm è ricorso in appello. Così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera. Perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare? E poi c’è l’equilibrio dei poteri. Io non ne faccio una questione di singoli magistrati: è il sistema che va riformato. Nel corso di un’udienza in tribunale ho sentito dire da un magistrato: grazie a noi si è evitata l’ennesima cattedrale nel deserto. Queste considerazioni si addicono forse a una toga?". All’indomani dell’assoluzione definitiva D’Alema le ha inviato un sms? "No, non l’ho sentito. Mi ha telefonato il premier e l’ho ringraziato. Ho capito sin dall’inizio che era la scarpa giusta per Firenze. Dopo di me, s’intende. Quando Renzi contesta il Primo maggio o l’articolo 18, io non lo seguo, al referendum costituzionale voterò contro. Tuttavia gli riconosco le qualità del politico di razza". I fiorentini al potere lei li ha conosciuti giovanissimi. "La Boschi l’ho incontrata quando animava il comitato elettorale di Ventura, avversario di Renzi. Al governo, dopo un’iniziale diffidenza, è riuscita a piacermi, lo scivolone su Casa Pound poteva evitarlo. Luca Lotti me lo ricordo bene: è uno dei pochi cavalli pregiati di questo governo. Di lui Renzi può fidarsi. Bonifazi, il tesoriere, è uomo di retrovia, fa un lavoro necessario lontano dai riflettori. Conosco suo padre, Pci come me, da quando era segretario amministrativo dell’azienda di gas e acqua a Empoli. Ogni tanto glielo dico a Francesco: dovresti dormire di più…". S’intuisce che l’ex apparatcik dalemiano è incuriosito dal nuovo corso renziano. "La giustizia va riformata, è un’urgenza e mi auguro che il governo agisca". I Cioni compulsa lo smart-phone, con l’indice fa scorrere i messaggi: "In questi anni vissuti da imputato e pensionato forzoso Facebook mi ha tenuto compagnia. Ho oltre 5 mila amici e ogni giorno scrivo un’opinione". Tra le foto con Kofi Annan e Maria Grazia Cucinotta, sul social network ì Cioni si descrive così: "Uno che, nonostante tutto, crede che la vita, unica e irripetibile, sia una cosa meravigliosa". La vera Antimafia di Massimo Adinolfi Il Mattino, 13 maggio 2016 Un ripensamento sulle ragioni dell’Antimafia è stato avviato già da qualche tempo, e forse sarebbe utile condurlo a partire dalla parole che il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, ha speso all’inizio di quest’anno, in un’occasione solenne, l’inaugurazione dell’anno giudiziario: "C’è stata forse una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia". "All’auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di anti-mafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l’antimafia nulla avevano e hanno a che vedere". E più avanti: "La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari; ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". Se ricordo queste parole, è perché aiutano a capire. La conferma che i clan camorristici stavano progettando di attentare alla vita del Capo della Procura di Napoli - avevano già preparato l’esplosivo, e condotto sopralluoghi, e studiato abitudini di vita e di lavoro di Giovanni Colangelo - dimostra che cosa ancora oggi significhi, purtroppo, condurre a fondo un’azione di contrasto nei confronti della criminalità organizzata. Che cosa significa condurre inchieste, catturare latitanti, spiccare arresti, disporre confische. Che cosa significa mettere in discussione anche certi codici culturali, chiedendo per esempio alle madri di togliere i loro figli dalla strada, spiegandogli che la strada della delinquenza conduce, nel migliore dei casi, al carcere, e in molti altri casi al cimitero. D’altronde il clamore suscitato dalle raffiche di kalashnikov sparate contro la caserma dei carabinieri di Secondigliano è in realtà in un rapporto di proporzione inversa alla forza del radicamento territoriale: meno è forte, più ha bisogno di gesti plateali per affermarsi. Il che dimostra per un verso la fluidità della scena criminale napoletana - che non ne diminuisce affatto la pericolosità ma può anzi persino accentuarla - ma per l’altro anche l’incisività dell’azione che le forze dell’ordine sono venuti in questi mesi conducendo. Colangelo e i suoi pm stanno dando fastidio; una lotta alle mafie condotta con questa determinazione, con questa tenacia, produce effetti, ottiene risultati. La storia delle mafie è la storia della debolezza dello Stato, nel senso che la prima non ci sarebbe stata se non ci fosse stata la seconda. Dove dunque è effettivo l’esercizio dei poteri pubblici, lì sono le mafie a indebolirsi, e sono dunque costrette a reagire. E così torniamo al discorso del procuratore Lo Voi. Alla necessità di "sostenere e supportare coloro che fanno, anziché quelli che dicono di fare". Forse è sin troppo facile mettere Giovanni Colangelo tra coloro che fanno, e che dunque vanno sostenuti e supportati, mentre è più difficile togliere sostegno e supporto a quelli che dicono - dicono soltanto - di fare. Però è necessario, per dare forza ai primi proprio togliendola ai secondi. C’è stata in passato un’Antimafia che ha scosso omertà, paure e silenzi, e portato una nuova consapevolezza nella società italiana, strappandola a sottovalutazioni di comodo, e anche ai pregiudizi locali, al folclore e all’antropologia d’accatto. C’è stata un’Antimafia che ha contribuito a spostare l’attenzione anche oltre il terreno stretto della repressione penale, e a individuare quella invisibile linea, varcata la quale i soldi cattivi diventano buoni e non si lasciano più acchiappare. Ma c’è stata e c’è anche un’Antimafia burocratizzata, routinaria, un’Antimafia di carta, un carrozzone inutile o peggio un centro di gestione di affari e consenso e potere: formatosi sia per semplice inerzia che per preciso calcolo e interesse, per guadagnare posizioni o per fare affari. E invece "antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere; gran parte del resto è sovrastruttura": è ancora il pensiero di Lo Voi, e non è un pensiero vuoto, o banalmente retorico. Sono proprio le risultanze investigative di queste ore a dimostrarlo: quando gli inquirenti scoprono che i clan questa distinzione la sanno fare molto bene, e non perdono tempo appresso alla sovrastruttura, che non spaventa nessuno, ma mettono nel mirino e provano a smantellare la struttura dello Stato che funziona, allora vuol dire che una netta demarcazione va di nuovo tracciata. Per mettere risorse dove servono, e togliere l’acqua dove nuota invece l’Antimafia delle parole. Bossetti, un processo scontato. Oggi la richiesta d’ergastolo di Angela Di Pietro Il Tempo, 13 maggio 2016 Ultime, cruciali udienze del processo più mediatico degli ultimi quindici anni. Con molta probabilità il dieci giugno prossimo la Corte di Assise di Bergamo emetterà la sua sentenza nei confronti di Massimo Bossetti, l’operaio mingherlino di 45 anni accusato di avere seviziato ed ucciso, il 26 novembre di sei anni fa, la piccola ginnasta Yara Gambirasio. È prevista per oggi, intanto, la requisitoria del pubblico ministero Letizia Ruggieri: la richiesta di ergastolo nei confronti del biondino dallo sguardo enigmatico è prevedibile, persino per gli agguerriti avvocati difensori. "Massimo Bossetti è preparato al peggio, ma deciso a dimostrare finché vivrà la sua innocenza. Non è particolarmente preoccupato per una eventuale condanna, lo è di più perché i giornali hanno pubblicato le sue lettere inviate a Luigina, una detenuta del carcere di Bergamo" ha detto ieri Claudio Salvagni, il legale dell’imputato, aggiungendo imperativamente di non essere agitato per la requisitoria di oggi. "Sarei agitato se fossi il pubblico ministero - ha dichiarato ai giornalisti - e comunque l’esito è ovvio: richiesta di ergastolo, non potrebbe essere altrimenti". Salvagni, insieme al collega Paolo Camporini, nell’arringa prevista per il 20 ed il 27 maggio prossimi chiederà l’assoluzione in virtù del secondo comma: in poche parole la vecchia insufficienza di prove. Soliti argomenti, per la Difesa: l’inattendibilità dell’esame del dna, i kit rovinati, le prove a suo dire troppo fragili. Letizia Ruggieri, che oggi dovrà peraltro motivare l’omicidio di Yara Gambirasio, insomma spiegare quali spinte emotive malate abbiano armato il presunto assassino, è la vera protagonista di questa indagine. È stata lei a disporre la sofisticata ricerca di "Ignoto uno", l’uomo cioè a cui appartiene il dna trovato sul cadavere della ragazzina nei campi sfatti e grigi di Chignolo d’Isola. Colpita più volte dall’accusa di aver speso soldi pubblici per sottoporre ad analisi genetiche diciottomila persone, ha creduto fino in fondo al suo progetto investigativo. Se quei soldi non fossero stati spesi, probabilmente gli investigatori non sarebbero mai arrivati all’insospettabile Massimo Bossetti, il glaciale carpentiere marito di una bellissima donna e padre di tre figli, sempreché venga acclarata la sua colpevolezza. I punti forti dell’Accusa sono riassumibili in cinque punti: il dna di Bossetti sui leggins e sugli slip di Yara; la compatibilità del tessuto trovato sugli abiti della vittima con quello dei sedili del furgone del suo presunto assalitore; gli smaniosi giri del Fiat Iveco dell’imputato intorno alla palestra della tredicenne, la sera della scomparsa; le testimonianze che sgretolano il suo alibi e le ricerche pedopornografiche partite dal computer dell’accusato. Dopo dieci mesi e mezzo di udienze l’esito di questo processo sembra essere scontato, salvo colpi di scena dell’ultima ora. Ad aggravare la posizione dell’imputato, le insinuazioni rivolte da quest’ultimo nei confronti del collega Massimo Maggioni, indicato come possibile autore dell’omicidio e l’accusa rivolta a protagonisti e figuranti di questa inchiesta giudiziaria. "Hanno mentito tutti", ha sentenziato l’uomo, in termini frettolosi ed inopportuni, anche davanti all’evidenza dei fatti. In questi giorni tuttavia l’operaio sembra più teso per la sua corrispondenza hard con una detenuta che per la conclusione del processo. A Marita Comi, che davanti alle telecamere ed ai giudici ha difeso a spada tratta il marito (chissà se per convinzione o per solidarietà) non deve aver fatto piacere sapere che l’uomo che ha sposato rivolge pensieri e profferte a sfondo erotico ad un’altra donna. Il contenuto delle lettere è stato pubblicato dai giornali. Marita Comi, che ha cercato di scagionare il padre dei suoi figli arrivando ad autoaccusarsi di aver compiuto ricerche a sfondo erotico nel pc di casa, non ha gradito l’affronto. Contestualmente al processo finirà anche un matrimonio? Farmaci per la pressione, ansiolitici: il detenuto malformato rimane in carcere diritto.it, 13 maggio 2016 Sindrome ansioso-depressiva per il detenuto, obbligato ad assumere dosi notevoli di ansiolitici e antidepressivi. A completare il quadro, poi, anche una patologia che ha provocato malformazioni alle dita delle mani e dei piedi. Condizioni psico-fisiche precarie, ma, nonostante tutto, l’uomo è obbligato a rimanere in carcere. Per i giudici non vi è alcuna lesione alla sua dignità. Lo ha affermato la Corte di Cassazione, sez. I Penale, con la sentenza n. 19795 depositata il 12 maggio 2016. Gli Ermellini hanno rigettato l’ipotesi del "differimento della pena" che a quella della "detenzione domiciliare". Le "condizioni di salute" del detenuto sono sì precarie, ma non tali da essere incompatibili con il "regime carcerario". L’uomo era affetto da una sindrome "ansioso-depressiva in trattamento con ansiolitici ed antidepressivi". Tuttavia, lo stato fisico del detenuto è stato ritenuto sostanzialmente "buono", e anche "le malformazioni alle mani e ai piedi" non gli impediscono comunque di "svolgere in modo autonomo gli atti essenziali della vita quotidiana e di relazione". Secondo il legale, invece, il "quadro patologico" del detenuto era da ritenersi "gravissimo" e non compatibile col carcere atteso che lo stesso soffre di "epatite" e assume "dosi massicce di ansiolitici" e "quattro farmaci per la pressione". Gli Ermellini, però, hanno affermato che "la carcerazione" del suddetto detenuto non può considerarsi "contraria al senso di umanità" perché non vi è nessun "scadimento fisico" che gli neghi, all’interno del carcere, un minimo di "dignità umana". Di conseguenza, è negata definitivamente la possibilità di un "differimento della pena" o dell’applicazione della "detenzione domiciliare". Mafia, per la Cassazione Totò Riina è pericoloso anche al 41bis affaritaliani.it, 13 maggio 2016 La Cassazione conferma il parere del Tribunale di Sorveglianza: Riina ancora pericoloso. Anche se sottoposto da tempo al 41 bis, il detenuto Totò Riina, il "capo dei capi" di Cosa Nostra, continua a essere talmente pericoloso che non ci sono motivi che possano giustificare una disapplicazione del carcere duro. È il ragionamento seguito dai giudici della prima sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza numero 19811/16. Per i magistrati della Suprema Corte bene ha fatto il tribunale di sorveglianza di Roma nell’aprile del 2014 a bocciare il reclamo che la difesa di Riina aveva presentato contro il decreto del novembre del 2013 firmato dal ministro della Giustizia che prorogava il regime del carcere duro. Per il collegio "l’ordinanza impugnata dà conto, esponendo una copiosa serie di precisi riferimenti ai dati desumibili da tutti gli atti disponibili, della specifica valutazione circa la elevatissima pericolosità sociale di Riina e, con un ragionamento adeguato, perviene, in considerazione della mancanza di elementi significativi atti a denotare il venir meno della capacità del detenuto di mantenere i contatti con la cosca mafiosa di appartenenza, alla conclusione del carattere attuale di tale capacità e, quindi, della permanenza dei presupposti per l’applicazione della norma in discussione". Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna di Riina al pagamento delle spese processuali e di 1000 euro alla Cassa delle ammende. Market abuse, sì alle doppie sanzioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2016 Corte costituzionale - Sentenza 102/2016. La Corte costituzionale lascia sopravvivere il doppio binario penale-amministrativo per il market abuse. Ieri sono state depositate le motivazioni della decisione con la quale, lo scorso 8 marzo, la Consulta ha giudicato inammissibili le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione. La Corte, con la sentenza n. 102 scritta da Giorgio Lattanzi e Marta Cartabia, non è entrata nel merito dei diversi punti sollevati, fermandosi a un esame preliminare. La Cassazione, con due ordinanze di rimessione, aveva contestato la corrispondenza costituzionale delle norme che prevedono due livelli di tutela, penale e amministrativa, per le condotte relative agli abusi di mercato. Questioni sollevate alla luce del rispetto del principio di ne bis in idem come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima, infatti, il 4 marzo 2014 con la sentenza Grande Stevens ha censurato la disciplina italiana sul punto, attribuendo natura sostanzialmente penale alle sanzioni amministrative stabilite per l’illecito di manipolazione del mercato dal Tuf, a causa della gravità dall’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e dalle conseguenze delle sanzioni interdittive. La medesima pronuncia sottolineava poi la mancanza di un meccanismo che interrompe il secondo procedimento nel momento in cui il primo è concluso con pronuncia definitiva. Per la Consulta la prima questione posta dalla Cassazione, centrata sull’articolo 187 bis del Tuf, è inammissibile perché non rilevante nel procedimento penale in corso. La stessa persona sottoposta al giudizio penale, infatti, era già stata sanzionata in via definitiva da Consob. Ora, osserva la Corte costituzionale, "l’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’articolo 187-bis del citato decreto non solo non consentirebbe di evitare la lamentata violazione del ne bis in idem, ma semmai contribuirebbe al suo verificarsi, dato che l’autorità giudiziaria procedente dovrebbe comunque proseguire il giudizio penale ai sensi del precedente articolo 184, benché l’imputato sia già stato assoggettato, per gli stessi fatti, a un giudizio amministrativo divenuto definitivo e benché, in considerazione della gravità delle sanzioni amministrative applicate, a tale giudizio debba essere attribuita natura "sostanzialmente" penale, secondo l’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo". Il fatto che la sanzione amministrativa andrebbe revocata all’esito di un’eventuale verdetto di incostituzionalità non ha peso per la Consulta che, invece, ricorda come si tratterebbe di vicende attinenti la sanzione amministrativa, prive di rilevanza per la Cassazione chiamata a giudicare e quindi estranee al procedimento penale. Con la seconda questione, posta in via subordinata, la Cassazione sollecitava una pronuncia additiva con la quale nell’articolo 649 del Codice di procedura penale, sul divieto di doppio giudizio, andrebbe inserito anche il caso in cui l’imputato sia già stato giudicato, con provvedimento irrevocabile per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo al quale attribuire natura penale sulla base delle conclusione della Corte dei diritti dell’uomo. Su questo punto, la Consulta avverte che l’esito sarebbe una sostanziale incertezza sulla risposta sanzionatoria che l’ordinamento collega alle condotte di manipolazione del mercato sulla base della "circostanza aleatoria" del procedimento definito più rapidamente. L’intervento chiesto alla Corte costituzionale, infatti, non determinerebbe un ordine di priorità tra i diversi procedimenti in maniera tale che il divieto del secondo scatterebbe al momento della definitività del primo. Ma in questo modo se è vero che si porrebbe rimedio ai singoli casi concreti, resterebbe tuttavia in piedi la violazione strutturale da parte dell’ordinamento del divieto di ne bis in idem. Divieto di frequentare scuola e casa degli alunni per l’insegnante violenta di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 12 maggio 2016 n. 19852. Pienamente legittima la misura cautelare dell’interdizione di frequentare certi luoghi, per l’insegnante di sostegno che ha maltrattato alunni portatori di gravi handicap. A precisarlo la Cassazione con la sentenza n. 19852/2016. Alla base della decisione una vicenda in cui un’insegnate di sostegno presso una scuola milanese aveva maltrattato due minori. Comportamenti molto gravi, e che consistevano nel divieto di andare al bagno, nella mancata spiegazione su argomenti non recepiti, nel colpire gli arti inferiori e come se non bastasse nell’averli presi a parolacce. E se questo è già di per sé grave nei confronti di alunni normodotati diventa del tutto inconcepibile se la condotta è perpetrata nei confronti di soggetti epilettici. E sulla base di queste imputazioni all’insegnante era stato vietato di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalle persone offese tra i quali la scuola, con la prescrizione di mantenere una distanza dalle persone di 500 metri, con l’interdizione di comunicare con le persone offese attraverso qualsiasi mezzo informatico. L’appello - L’insegnate condannato, tuttavia, ha proposto appello contro la sentenza rilevando come fosse illegittima l’ordinanza cautelare con la quale si faceva divieto di frequentare certi luoghi senza però una specifica determinazione. E sul punto la stessa Corte ha ricordato che in materia di misure cautelari personali è illegittima l’ordinanza che dispone ex articolo 282-ter cpp, il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa senza determinare specificamente i luoghi oggetto di divieto, considerato che, in tal caso, all’indagato non è consentito - ferma restando la necessità che egli non si accosti fisicamente alla persona offesa ovunque la possa intercettare - di conoscere preventivamente i luoghi ai quali gli è inibito l’accesso in via assoluta, in quanto frequentati dalla persona offesa luoghi che pertanto, devono essere specificamente indicati. Le spiegazioni della Corte - Sulla questione tuttavia - è scritto nella decisione - la riscontrata erroneità dell’ordinanza cautelare non determina l’inefficacia della disposta misura né la sua nullità radicale che conseguono alle sole ipotesi tassativamente previste dalla legge e che determina una illegittimità emendata attraverso l’intervento del Tribunale del riesame che ha individuato quali luoghi ai quali è inibito l’avvicinamento, le rispettive abitazioni di residenza e la comune scuola frequentata dalle persone offese. Intercettazioni, utilizzabilità per altri reati nell’ambito dello stesso procedimento Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2016 Prova penale - Intercettazioni disposte per uno dei reati previsti dall’articolo 266 cod. proc. pen. Utilizzabilità per altri reati nell’ambito dello stesso procedimento - Utilizzazione subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’articolo 270 cod. proc. pen. Qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento per uno dei reati di cui all’articolo 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili, senza alcun limite, per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, mentre nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso "ab origine", l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’articolo 270 cod. proc. pen., e, cioè, l’indispensabilità e l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 22 dicembre 2015 n. 50261. Prova penale - Intercettazioni disposte per un reato fra quelli previsti dall’articolo 266 cod. proc. pen.- Utilizzabilità per i restanti reati dello stesso procedimento - Sussistenza. In tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’articolo 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui dall’attività di captazione emergano gli estremi e, quindi, la conoscenza, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso "ab origine", l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’articolo 270 cod. proc. pen., e, cioè, all’indispensabilità e all’obbligatorietà dell’arresto in flagranza. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 14 ottobre 2015 n. 41317. Prova penale - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione in altri procedimenti - Diverso procedimento - Nozione di "identico procedimento". In tema di intercettazioni di conversazioni, la nozione di identico procedimento, che esclude l’operatività del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270 cod. proc. pen., prescinde da elementi formali come il numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato, ma implica una valutazione di tipo "sostanziale", con la conseguenza che il procedimento è considerato identico solo quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato, alla base dell’autorizzazione, e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 24 giugno 2015 n. 26693. Prove - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Utilizzazione in altri procedimenti - Nozione di "diverso procedimento". Ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270, comma primo, cod. proc. pen., nel concetto di "diverso procedimento" non rientrano le indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova viene predisposto, né tale nozione equivale a quella di "diverso reato", sicché la diversità del procedimento deve essere intesa in senso sostanziale, non collegabile al dato puramente formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 18 dicembre 2014 n. 52503. Veneto: nelle carceri della Regione solo il 14% dei detenuti lavora venetoeconomia.it, 13 maggio 2016 Solo 14,65% dei detenuti nelle carceri venete lavora alle dipendenze di cooperative o imprese. Troppo poco secondo l’associazione Nessuno tocchi Caino, legata al Partito Radicale, la cui rappresentante Maria Grazia Lucchiari ha incontrato l’11 maggio 2016 l’assessore regionale al sociale Manuela Lanzarin. L’assunto di base è che fra i detenuti che lavorano durante la detenzione la recidiva è minore, "su dieci detenuti che sviluppano la loro professionalità con orari e ritmi di lavoro solo tre ritornano a delinquere e quindi in carcere" afferma l’associazione. Ma quanti sono i detenuti che in Veneto hanno la possibilità di lavorare? Sono 305 i detenuti nelle carceri del Veneto che hanno la possibilità di seguire attività presso cooperative o imprese convenzionate, su una popolazione totale di 2081 reclusi: la percentuale è del 14,65%. Nalla casa di reclusione di Padova il numero maggiore: 129, pari al 22%. In termini percentuali è il carcere femminile di Venezia a segnare il picco veneto con il 39% delle detenute che lavora. Segue Belluno con 30 lavoratori pari al 31% del totale. Poi c’è la casa di reclusione di Padova, seguito da Treviso (30 lavoratori) e Verona (73 lavoratori) a pari quota con il 15% di progetti di inserimento lavorativo. Numeri molto bassi al carcere maschile di Venezia (9 lavoratori, solo il 4%) e in quello di Vicenza (7 lavoratori, il 3% appena). Nessun inserimento lavorativo a nella casa circondariale di Padova né nel carcere di Rovigo. Nonostante la legge "svuota-carceri" che nel 2014 ha mitigato il problema del sovraffollamento - rispondendo così alla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo che nella sentenza "Torreggiani" che ha rilevato trattamenti "inumani e degradanti" nelle patrie galere - rimane una situazione di eccesso di detenuti rispetto alla capienza degli edifici carcerari. Anche in Veneto. Celle sovraffollate a Verona (144%), a Vicenza (138%), a Venezia nel carcere maschile (130%), a Belluno (109%), al circondariale di Padova (183%) dove 174 persone sono alloggiate in una struttura che ha una capienza regolamentare di 95 posti. "Nel 2015 nel carcere di Verona si sono verificati 108 atti di autolesionismo, la forma estrema di comunicazione quando nessun’altra è possibile, quando il recluso attende mesi per incontrare un educatore, la figura centrale che ha il ruolo di osservazione e trattamento della persona" si legge nella denuncia di Nessuno tocchi Caino. "Nelle carceri venete 32 educatori hanno in carico 2018 persone - prosegue il rapporto -, così accade che un educatore deve seguire 95 detenuti come al circondariale di Verona o alla reclusione di Padova. A Belluno i 95 reclusi del penitenziario hanno un solo educatore. Sono 1410 gli agenti di polizia penitenziaria effettivamente in servizio nei penitenziari veneti". La presenza di stranieri nelle carceri venete è molto importante: il 68% Padova circondariale, 64% a Belluno, 61% a Verona, 60% a Vicenza, 59% a Venezia maschile, 50% a Venezia femminile, 44% a Treviso, 41% a Rovigo, 38% a Padova reclusione. I problemi sanitari non mancano: dalla TBC ai disturbi della personalità e del comportamento, dai disturbi mentali alcol-correlati ai disturbi affettivi psicotici trattati con la somministrazione di farmaci ansiolitici, antidepressivi, ipnotici e sedativi. In particolare sui disturbi psichici si concentra il rapporto dell’associazione del Partito Radicale. A Vicenza l’80% dei reclusi soffre di patologie che richiedono la presa in carico del medico con conseguente fruizione delle terapie. Tra le note positive l’Icat al circondariale Due Palazzi di Padova, che ospita 36 detenuti, con ampi spazi per la custodia attenuata degli alcol e tossicodipendenti dai 18 ai 40 anni. I tossicodipendenti nelle carceri venete sono 712 (il 34%). Toscana: Garante detenuti, dalla Regione parere positivo alla relazione sull’attività 2015 gonews.it, 13 maggio 2016 Parere positivo a maggioranza alla relazione annuale 2015 del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Franco Corleone. Lo ha espresso questa mattina la Commissione Sanità e sicurezza sociale, presieduta da Stefano Scaramelli. Hanno votato a favore tutti i gruppi, tranne Lega nord e Forza Italia che si sono astenuti. Alla fine della relazione, Scaramelli ha annunciato che la commissione effettuerà, entro l’estate, un sopralluogo in alcune carceri della Toscana. In programma ci sono visite a Lucca, Porto Azzurro e successivamente Volterra. "Questa mattina sono emerse questioni importanti, che la commissione deve analizzare e su cui deve vigilare - ha detto Scaramelli, a partire dalla maggiore incidenza di malattie e problemi psichiatrici nella popolazione carceraria giovane e dai protocolli adottati in caso di tossicodipendenza. Verificheremo la situazione nelle prossime visite". Corleone infatti ha delineato un quadro esaustivo per quanto riguarda le questioni legate alla sanità e alla sicurezza sociale in carcere. Alcuni dati: la popolazione carceraria anche in Toscana è in flessione, sebbene negli ultimi mesi si sia registrato un nuovo leggero aumento nelle presenze: al 31 marzo 2016 i detenuti in Toscana erano 3mila 344 (in Italia 53mila 495). Ma, ha avvertito il garante, "la fine dell’emergenza dovuta al sovraffollamento non ha risolto il problema di fondo dello stato delle carceri, dovuto non solo ai metri disponibili per ogni detenuto, ma anche alle condizioni di vita quotidiana, al lavoro, alle attività culturali e di studio, ai servizi sanitari, all’alimentazione, alla possibilità di relazioni educative e familiari". Fra le molte criticità segnalate dal Garante, l’alta percentuale dei detenuti tossicodipendenti in Toscana, soprattutto in alcuni istituti (a Massa il 38.4 per cento, a Lucca il 50,4 per cento). Corleone ha spiegato che esistono alcuni casi di difficoltà all’accesso all’affidamento in comunità terapeutica; così come esistono delle discrepanze nei sistemi di classificazione, da cui derivano trattamenti e conseguenze giuridiche diverse: in alcune carceri quasi tutti gli assuntori di sostanze stupefacenti sono classificati come dipendenti, in altre no. Un ulteriore problema è dato dai detenuti con problemi psichiatrici. Anche qui la situazione è molto diversa da istituto a istituto: spesso sono tenuti insieme agli altri, o in sezioni che hanno parametri detentivi e non sanitari. Corleone ha inoltre ricordato che, riguardo agli ospedali psichiatrici giudiziari, a Montelupo, che doveva essere chiuso più di un anno fa, sono ancora presenti 18 internati toscani e due umbri, più una decina tra liguri e sardi. Il Garante ha ribadito l’opportunità di aprire un’altra Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive) provvisoria, oltre a quella esistente di Volterra, in attesa della struttura definitiva. Paolo Sarti ha sottolineato la necessità di impegnarsi per migliorare lo stato delle carceri, "una vera e propria battaglia di civiltà". Andrea Quartini ha posto l’accento sull’importanza della prevenzione per la salute, della formazione degli agenti di custodia, del fatto che quando viene fatto un buon lavoro di recupero diminuiscono i casi di recidiva. Piacenza: a proposito della presunta "rivolta jihadista" nel carcere di Alfredo Mantici Panorama, 13 maggio 2016 La notizia di una ribellione islamica ha innescato un diffuso allarme sul terrorismo nelle carceri. Ma come sono andate le cose veramente? Lunedì 9 maggio le redazioni di molti giornali italiani sono entrate in agitazione quando un sito piacentino, libertàonline.it, ha diffuso una notizia "bomba": nel carcere di Piacenza, il giorno prima, una decina di detenuti di origine maghrebina si erano ribellati e "inneggiando all’Isis e alla jihad" avevano ingaggiato una furiosa colluttazione con gli agenti della polizia penitenziaria e devastato il braccio in cui erano rinchiusi, provocando danni per circa 20.000 euro. La notizia è stata immediatamente rilanciata a livello nazionale con titoli di forte effetto del tipo Rivolta dei detenuti a Piacenza. Inni ad Allah e ai tagliagole dell’Isis (Il Giornale). La "rivolta islamica di Piacenza" ha immediatamente provocato la reazione dei sindacati della polizia penitenziaria che, per bocca del segretario aggiunto del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), Giovanni Battista Durante, hanno chiesto "l’immediato intervento" del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in quanto "i fatti avvenuti sono di una gravità estrema e forse potevano essere evitati". Quello che in realtà poteva essere evitato era di lanciare un allarme terrorismo islamico nelle carceri italiane, con tutto il corredo di pensose riflessioni preoccupate sulla presenza dell’ISIS nei nostri istituti penitenziari, attendendo la verifica ufficiale dell’accaduto. Infatti, nella stessa giornata del 9 maggio, la direzione del carcere ha diffuso un comunicato secco e stringato che smentiva lo scoop e che merita di essere citato integralmente, anche se sulla gran parte degli organi di stampa che avevano lanciato l’allarme è stato minimizzato se non ignorato: "In data di ieri si sono verificati gravi disordini in una sezione ordinaria di media sicurezza della struttura piacentina ospitante 17 detenuti, che ha riportato danni strutturali e all’impiantistica ad oggi non quantificati e che comunque resta funzionante e di cui non si prevede la chiusura. Promotori dei disordini 3 detenuti che, lamentando le condizioni di restrizione, hanno tentato di fomentare gli altri […] che non si sono lasciati coinvolgere. Risulta priva di ogni fondamento la notizia riportata di inneggiamento all’Isis e non si è registrato alcun riferimento al terrorismo di stampo jihadista". Parole chiare dette da un organo ufficiale che forse avrebbe avuto tutto l’interesse a calcare la mano sull’accaduto, per ricevere, di fronte alla "minaccia dell’Isis", più risorse umane e finanziarie. La realtà è che la notizia di una protesta, anche violenta, di tre detenuti in un carcere periferico è riuscita per un paio di giorni a generare panico, senza che se ne sentisse la necessità, in un’opinione pubblica continuamente bombardata da informazioni vere, verosimili o del tutto false, in tema di terrorismo internazionale e di offensive del Califfato contro il nostro Paese. È vero che i giornali debbono vendere copie e che le tv debbono attirate spettatori per vincere la battaglia dell’auditel, ed è altrettanto vero che per farlo spesso ricorrono a forzare un po’ i toni. Tuttavia un buon giornalismo non dovrebbe cercare quotidianamente di fomentare le paure del pubblico con notizie prive di solidi legami con la realtà. Due giorni dopo la presunta rivolta islamista nel carcere di Piacenza, a Bari i carabinieri hanno arrestato, dopo sei mesi di indagini, tre immigrati afghani e spiccato un mandato di cattura contro due presunti complici, uno afghano e l’altro pachistano. Secondo gli inquirenti i cinque avrebbero costituito una cellula che, stando alla documentazione sequestrata, aveva iniziato gli studi preliminari (sopraluoghi, fotografie di possibili obiettivi, etc.) per un’ azione terroristica da ritenersi comunque ancora a uno stadio di preparazione embrionale. Anche in questo caso la notizia è stata diffusa a tinte molto forti e lontane dalla realtà. I cinque erano pronti a "colpire in Italia e Inghilterra" (quest’ultima per via di una foto scattata all’aeroporto londinese di Heathrow), mentre Bari è diventata il "crocevia del terrorismo internazionale". Vedremo il risultato dell’inchiesta sugli arrestati nel capoluogo pugliese e col tempo forse arriveremo a capire se veramente i cinque immigrati hanno tentato di costituire in Italia una temibile filiale del Califfato. Ma siamo sicuri che gridare continuamente "al lupo" islamista aiuti il nostro Paese ad affrontare con razionalità la minaccia del terrorismo internazionale? Milano: cimitero monumentale, l’accoglienza è affidata a tre detenuti di Claudia Zanella La Repubblica, 13 maggio 2016 I tre detenuti in servizio al Monumentale hanno la divisa del personale del cimitero. Grazie ad una borsa lavoro seguono un corso di formazione di sei mesi che sarà seguito da un contratto triennale con il Comune. Con alle spalle storie diverse, i tre detenuti sono molto soddisfatti. "È bello stare in contatto con la gente". "Deve girare intorno al Famedio e poi proseguire dritto". Spiega Medi, tunisino di 36 anni, a un turista con una mappa in mano che cerca un monumento. "In questo posto mi trovo immerso nella storia d’Italia e mi piace, è legata anche a quella del mio Paese". Medi è arrivato a Bolzano 18 anni fa e si è infilato in brutti giri. Questioni di droga, che lo hanno fatto finire in carcere. Negli ultimi anni ha intrapreso un percorso che lo ha portato a rimettersi in gioco. Dal 3 maggio, lavora insieme ad altri due detenuti di Bollate al cimitero Monumentale. "Amo questo lavoro perché è a contatto con la gente e sono in un luogo così carico di storia", sorride. I primi sei mesi saranno di formazione e i tre carcerati beneficeranno di una borsa lavoro del Comune. "Il numero dei detenuti coinvolti in tirocini è aumentato. Nel 2015 sono stati 120, mentre da inizio anno sono già 100, un ottimo risultato. Così garantiamo riscatto personale, recupero sociale e utilità pubblica", spiega Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali. Passato il periodo di formazione, si passerà all’attuazione del protocollo firmato dall’amministrazione penitenziaria e Comune e verranno assunti con un contratto triennale. Per il momento, indossando le giacche nere della divisa del personale del Monumentale, i detenuti lavorano all’accoglienza, dando informazioni ai turisti, e vigilano il cimitero, tenendolo in ordine. "Ogni tanto accompagno le guide. Ho scoperto tante cose interessanti sulle persone famose che sono seppellite qui", dice Albert, sessantenne albanese. Vive in Italia da 25 anni e fino a quando è finito in carcere ha fatto di tutto, dal meccanico al cameriere. Ma la sua più grande passione è la storia. Passa il tempo libero a leggere e a informarsi, studiando anche gli opuscoli nell’info point dove accoglie i turisti. Il suo lavoro prosegue in biblioteca, impara a riordinare il materiale dell’archivio. Ma se il Monumentale esercita il suo fascino su migliaia di turisti ogni anno, c’è chi vive a Milano e non l’ha mai visitato. Come Antonio, pugliese di 52 anni, di cui 49 passati a Milano. "Mi ha colpito molto il fatto che un cimitero possa dare emozioni così forti. Qui si sta a contatto con la storia, l’architettura e l’arte. Non avevo mai pensato a un cimitero come a un museo", racconta mentre gli si illuminano gli occhi. Una vita passata tra eccessi, droga e rapine. Poi il carcere, dove ha lavorato su di sé e sulle relazioni interpersonali, ma ha anche imparato le basi del restauro. Piacenza: Sappe; detenuto rumeno si conficca chiodo in testa agenparl.it, 13 maggio 2016 "L’altro ieri nel carcere di Piacenza un detenuto straniero, sembrerebbe di origine rumena, si è conficcato un chiodo in testa ed è stato immediatamente condotto in ospedale, dopo l’intervento della polizia penitenziaria, per essere curato. Il fatto è avvenuto nella stessa sezione dove si sono verificati i gravissimi fatti di rivolta dei giorni scorsi. Ricordiamo che si tratta di una sezione detentiva dove sono recluse 15 persone che si sono già rese responsabili di gravi gesti di violenza". Lo affermano, in una nota, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale della stessa organizzazione. "Apprendiamo con favore che ieri - proseguono i due sindacalisti della polizia penitenziaria -, un detenuto di origine magrebina, ristretto nel carcere di Piacenza, è stato espulso con provvedimento del magistrato di sorveglianza. Riteniamo che questa sia la strada da percorrere per i detenuti stranieri, i quali dovrebbero andare a scontare la pena nei paesi d’origine, anche per evitare che i costi di mantenimento, pari a circa 130,00 euro al giorno, ricadano sui cittadini italiani. Sarebbe quindi opportuno stipulare convenzioni bilaterali con i paesi d’origine e procedere immediatamente all’espulsione di coloro che commettono reati nel nostro Paese". Noto (Sr): i detenuti imparano a raccontarsi grazie a un laboratorio siracusatimes.it, 13 maggio 2016 Noto: "la mediazione, ovvero vincere il conflitto senza confliggere". Un laboratorio promosso dalla Cooperativa Sociale Leonardo di Pachino e dal Centro di Mediazione del Mediterraneo di Noto con protagonisti i detenuti. Dopo l’esperienza vissuta nel 2015 presso le scuole superiori di Pachino, anche quest’anno l’obiettivo dell’iniziativa è stato quello di promuovere la cultura della mediazione con i carcerati. Ogni lettera scritta da loro a conclusione del percorso, ha sottolineato che i temi affrontati durante il percorso (la comunicazione, l’ascolto, la gestione delle emozioni e la giustizia riparativa), sono stati ampiamente recepiti. L’equipe di lavoro costituita dall’avvocato Salvatore Grande, dall’Assistente Sociale Maria Micciulla, da Padre Giuseppe Di Rosa e dall’Assistente Sociale Assunta Rizza, con la partecipazione del professore Salvatore Cavallo e dell’esperto di giustizia riparativa Filippo Vanoncini, appositamente arrivato da Bergamo lo scorso mese, ha potuto verificare il senso del proprio operato e conserveranno gelosamente quelle lettere dal carcere che così raccontano: "grazie a voi ho capito che è possibile gestire le mie emozioni, soprattutto la rabbia; ho sperimentato l’ascolto senza cadere nel giudizio, ho cominciato a stare bene con me stesso, posso trovare punti di incontro positivo nelle relazioni con gli altri, posso affrontare le mie fragilità ritrovando me stesso e cercando il perdono". "Le lettere dal carcere - ha dichiarato Assunta Rizza, che gestisce la cooperativa Leonardo-, sono il risultato di un lavoro che ci sostiene e ci incoraggia a continuare nel percorso intrapreso consapevoli dell’importanza di offrire occasioni di crescita personali e di gruppo". Ciascuno dei detenuti ha ricevuto un attestato di partecipazione e 3 delle loro lettere sono state selezionate per vincere il premio "In memoria di Maria Betulla", istituto per ricordare chi, fino alla fine, ha creduto nella mediazione umanistica quale stile di vita e non solo un metodo di lavoro per gli specialisti, e che ha visto la partecipazione di Vincenzo Romeo e Lara Romeo, marito e figlia di Maria che hanno consegnato il premio in denaro ai 3 finalisti. Maria Betulla è stata ricordata da Padre di Rosa, responsabile del Centro di Mediazione, per avere lavorato, fino alla fine dei suoi giorni, per promuovere la cultura della mediazione nella città di Pachino con la dolcezza e la professionalità che l’hanno sempre contraddistinta. Un contributo speciale in questa esperienza è stato dato da Sandro Mortillaro, direttore della casa circondariale di Noto e l’educatore Ali Francesca, che hanno accolto l’iniziativa, riconoscendo il laboratorio come il primo passo che i detenuti possono fare per cominciare a ricostruire i legami con le proprie radici e la società che il reato ha spezzato. La cooperativa Leonardo e il Centro di Mediazione del Mediterraneo stanno già pensando al prossimo laboratorio per il prossimo anno. Pontremoli (Ms): detenute attrici al Teatro della Rosa per essere libere di Riccardo Sordi Il Tirreno, 13 maggio 2016 Questa sera e domani sera, al Teatro della Rosa, si terrà lo spettacolo "Mere Ubu Girl’s Circus" una rappresentazione diversa dalle altre perché le attrici coinvolte in scene non sono interpreti comuni ma si tratta delle giovani dell’istituto penale minorile femminile di Pontremoli. Inizio alle ore 21. Uno spettacolo che fa parte del progetto "Saran rose e fioriranno" che giunto al terzo anno continua a crescere e diventare sempre più importante per lo sviluppo e il percorso di recupero di queste ragazze. Un’iniziativa che è stata illustrata lunedì scorso nella sede del carcere alla presenza del sottosegretario alla giustizia, Cosimo Maria Ferri, del dirigente del centro per la giustizia Minorile del Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Massa Carrara Antonio Pappalardo, del direttore dell’istituto di Pontremoli Mario Abrate, del sindaco Lucia Baracchini, del regista dello spettacolo Paolo Billi e del vice direttore dell’accademia delle Belle Arti di Carrara Giovanni Chiapello. Un progetto che vede le giovani ospiti della struttura carceraria divenire attrici e questo lavoro, permette a loro di superare le tensioni interne, facilita l’espressione di sé, la comunicazione e l’aggregazione sociale. Insomma si tratta di un aiuto concreto a diventare una persona migliore creando un momento di importante incontro tra l’esterno e l’interno, tra le ragazze e la realtà sociale che le circonda. Un lavoro plurale che cerca di far emergere le ricchezze che ognuno possiede. Un concetto da cui è partita la riflessione del dirigente Pappalardo: "questo progetto suggella un percorso di collaborazione tra le detenute e la città. Un cammino che permette una comunione tra la città e l’istituto penitenziale". Il sindaco Lucia Baracchini ha invece voluto evidenziare il percorso di crescita compiuto da questo piano di lavoro che nel primo anno aveva visto aprire le porte del carcere alla città (infatti c’era stata una rappresentazione all’interno delle mura del penitenziario), nel secondo anno si era usciti dal perimetro della struttura carceraria con Pontremoli che aveva ad accolto le giovani attrici ed oggi si annuncia ancora più coinvolgente allargando i confini oltre la "Città del Libro". Infatti è prevista una "mini tournee" delle ragazze che il 20 maggio saranno di scena presso la Sala Garibaldi a Carrara. "È significativo - ha evidenziato il sindaco - di come questo progetto sia riuscito ad aprire le porte e allo stesso tempo ad abbattere le barriere. Questo significativo interscambio che ha coinvolto tanta parte della città ha permesso un dialogo costruivo che ha permesso la crescita sia delle giovani detenute ma anche di chi sta fuori, andando oltre a potenziali pregiudizi". Genova: quell’ordine imperfetto apre le porte del carcere di Resi Romeo La Repubblica, 13 maggio 2016 L’anteprima di "Padiglione 40-L’ordine imperfetto" ha avuto luogo la settimana scorsa in occasione dell’inaugurazione del Teatro dell’Arca all’interno del Carcere di Genova Marassi. Il teatro costituisce un evento unico nella storia carceraria e culturale europea, vanta 200 posti, è dotato di un palcoscenico perfettamente attrezzato ed è stato realizzato all’interno della cinta muraria del carcere dagli stessi detenuti interpreti degli spettacoli. In dieci anni di attività, l’Associazione Teatro Necessario Onlus ha messo in scena nove spettacoli presso i principali teatri della città. La nuova produzione, "Padiglione 40" di Fabrizio Gambineri e Sandro Baldacci è ospite fino a domenica al Teatro della Corte a conferma di una collaborazione nata molti anni fa e ora rafforzata, nel giugno scorso, con un importante protocollo d’intesa. Diretta dallo stesso Baldacci, la compagnia teatrale "Scatenati" propone un adattamento teatrale di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", avvalendosi del supporto di attori professionisti (Carola Stagnaro, Matteo Alfonso, Filippo Anania, Silvia Brogi e Francesca Pedrazzi). Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, nel 1982, sono rinchiusi i detenuti affetti da turbe e patologie psichiatriche, per questo isolati e senza prospettiva di una eventuale rieducazione sociale. Dediti ai soli svaghi di routine, quali la pallacanestro, la briscola oppure il Monopoli, gli ospiti dell’ospedale risultano scossi dall’arrivo dell’ultimo malato (Matteo Alfonso), ribelle alla violenza istituzionale, deciso a coinvolgere il gruppo a seguire in televisione i mondiali di calcio. Zittiti dalla impietosa e imperturbabile caposala (Carola Stagnaro) i degenti via via cambiano atteggiamento e provano ammirazione per le aspirazioni libertarie della new entry. Sulla scena-gabbia racchiusa da sbarre, i 23 interpreti agiscono disinvolti, attenti a scandire i flash di situazioni chiave, fatte di feste, elettroshock e fughe. Oltre alla buona linea registica, ormai consolidata all’interno del gruppo, Stagnaro e Alfonso hanno contribuito al buon esito dello spettacolo restituendo a modo l’autorità al potere che non si può scalzare e l’urto violento contro l’autorità. A sipario ancora chiuso, Sandro Baldacci ha voluto ringraziare Maria Milano, dallo scorso novembre alla direzione della Casa Circondariale di Marassi, e il suo predecessore Salvatore Mazzeo, fautore convinto del Teatro dell’Arca. Alla fine applausi per tutti. Lecce: una gara podistica nel penitenziario, con agenti e detenuti lecceprima.it, 13 maggio 2016 C’erano anche venti persone recluse a Borgo San Nicola al progetto d’inclusione realizzato dall’Olivetti e che s’è svolto con la collaborazione del Coni. Una giornata particolare per un’importante iniziativa. Sorpresa: una gara podistica nel penitenziario. Con agenti e detenuti. Una gara podistica all’interno del penitenziario di Borgo San Nicola sembra. E con una ventina di detenuti a concorrere. Un evento davvero difficile da immaginare, e che pure è avvenuto. Grazie all’Ites "Olivetti" di Lecce, nell’ambito del "Progetto inclusione", tramite il quale ha promosso una serie di iniziative riguardanti le problematiche del mondo della scuola e le situazioni critiche della società. Ad appoggiare il progetto, anche il Coni di Lecce, che con la Fidal ha collaborato all’organizzazione dell’evento. Hanno partecipato atleti delle società salentine, personale del penitenziario e venti detenuti scelti dalla direzione del carcere. Effettuati, tramite la Federazione medici sportivi di Lecce, i controlli sanitari ai detenuti che hanno partecipato, la gara si è svolta sabato 7 maggio alle ore 16 con una partecipazione ricca di stimoli e forti emozioni. Dall’iniziativa, con la disponibilità della direttrice Rita Russo e del suo staff, il Coni di Lecce in collaborazione con varie federazioni, enti di promozione e discipline associate, sta predisponendo un progetto da realizzare all’interno del penitenziario in favore dei reclusi dando loro la possibilità di svolgere varie attività sportive. Intanto il Progetto dell’Olivetti prosegue nelle prossime settimane con tre incontri presso l’istituto, in via Marugi 29 a Lecce. Il primo: "Lavoro e Università per l’inclusione" si svolgerà il 13 maggio alle ore 16.45 e avrà come interlocutori l’Università del Salento, la Camera di commercio, le aziende che favoriscono l’alternanza scuola-lavoro e le associazioni sindacali. Il secondo incontro: "Benessere psico-fisico" si svolgerà il 16 maggio alle ore 16.45 e avrà come interlocutori le scuole, gli insegnanti di sostegno, l’associazionismo e l’Università del Salento. Il terzo incontro: "Arte e cultura al servizio dell’inclusione" si svolgerà il 18 maggio alle ore 16.45 e avrà come interlocutori l’"Io ci Provo", Salento Crocevia, l’Università del Salento, l’Associazione Somali e Senegalesi e la Comunità Emmanuel. È fissato, invece, per il 17 maggio l’Open day presso la casa circondariale di Lecce, mentre sabato 21 maggio alle ore 10.00 ci sarà la premiazione del concorso "Obiettivo inclusione" presso i Cantieri teatrali Koreja. Livorno: rugby, una partita in carcere a Porto Azzurro sportiamoci.it, 13 maggio 2016 L’attività rugbistica degli Old dei Lions Amaranto Livorno - i Rino..Cerotti - all’interno delle case circondariali, non si limita agli allenamenti effettuati da quasi due anni presso il campo del carcere cittadino de Le Sughere, né alle partite disputate con la rappresentativa dei detenuti dello stesso istituto (che con grande autoironia si sono battezzati Le Pecore Nere). Sabato scorso, una delegazione dei Rino..Cerotti è stata ricevuta nella casa circondariale di Porto Azzurro, per un’amichevole seven. Alla luce dell’impegno profuso a favore degli atleti-detenuti dalla stessa società amaranto Lions, è infatti giunto nei giorni scorsi il contatto da parte dei responsabili elbani del progetto Rugby in carcere. In particolare, sono stati Paolo Maddonni, referente all’interno dell’istituto di Porto Azzurro, e Marcello Serra, allenatore ed ex giocatore dell’Elba, ad attivarsi per organizzare questo nuovo indimenticabile evento. La giornata speciale dei Rino..Cerotti è iniziata di buon mattino, intorno alle 6. Alle 7,45 la partenza del traghetto da Piombino. Alle 9, direttamente al porto elbano, i responsabili hanno caricato sul proprio pulmino la delegazione dei Rino..Cerotti, per condurli - dopo i controlli di rito - nel carcere. Gli Old Lions hanno così raggiunto il campo all’interno dell’istituto. Un terreno di gioco piccolo, ma sufficiente per una partita seven. La gara in questione, per i Rino..Cerotti, non è stata facile. Tutt’altro. Al cospetto di una squadra, quella dei detenuti del carcere isolana - una formazioni composta da atleti giovani, entusiasti e dotati di notevoli mezzi fisici ed atletici - non è stato sufficiente, per gli Old Lions, ricorrere alla propria maggiore esperienza. Più che mai negli incontri riservati a squadre seven, la freschezza e la corsa sono decisive per andare in meta. I padroni di casa, giustamente, in partita, non sono stati disposti a conceder sconti. Dopo una prima partitella a ranghi contrapposti, le due compagini si sono mischiate, per un nuovo match durato 20 minuti. Dopo la doccia, i detenuti (alcuni atleti si allenano, grazie a speciali permessi, con l’Elba Rugby) hanno allestito un terzo tempo (a base di pasta fredda e biscotti), consumato ai bordi del campo. Una gesto semplice, ma intenso ed emozionante. I protagonisti della significativa partitella hanno scambiato qualche impressione. Poi un brindisi, abbracci, strette di mano e tanta emozione. Per i Rino..Cerotti una mattinata piena di sensazioni forti. Felici ed orgogliosi di aver portato il rugby oltre il muro di cinta, il gruppo è poi ripartito verso il continente. Tutto ciò è stato possibile grazie all’appoggio dell’associazione Amatori Toscana Rugby, che ha concretamente contribuito all’organizzazione dell’evento e partecipato all’allestimento del terzo tempo. La stessa associazione collabora con gli Old Lions nel progetto rugby in carcere a Livorno. Ecco l’elenco dei giocatori amaranto protagonisti all’interno del carcere di Porto Azzurro: Manrico Soriani, Massimo Soriani, Michele Niccolai, Andrea Caputo, Mariano Gambogi, Marco Lenzi, Adriano Sampaolo, Marco Bargagna, Daniel Bargagna. L’ignoranza genera mostri di Pier Luigi Vercesi Sette - Corriere della Sera, 13 maggio 2016 Shirin Ebadi, iraniana premio Nobel per la Pace 2003, parlando di Medio Oriente, terroristi e califfi, conclude: "Se vogliamo affrontare il problema dalle radici, invece di sganciare bombe, lanciamo loro dei libri". Musulmana, vittima dell’integralismo islamico, Shirin è scampata per miracolo all’ordine di soppressione, firmato da un ministro di Teheran, solo perché gli esecutori hanno atteso la fine del ramadan. Da allora vive in esilio, più negli aeroporti che nella Londra che l’ha accolta: viaggia per affermare i diritti civili in Iran. Dio - sostiene - c’entra poco con le follie a cui assistiamo, le cause vanno cercate nell’ignoranza e nella mancanza di giustizia: tutto nasce e attecchisce in aree ad altissimo tasso di analfabetismo. Potrebbe essere, questo, un buon argomento di discussione al Salone di Torino, dedicato coraggiosamente alle letterature arabe. Perché il libro non è, necessariamente, salvifico - nella storia dell’umanità ne sono stati scritti di tremendi, fomentatori di odi e razzismo, ma certamente l’ignoranza e l’impossibilità di accedervi lasciano l’uomo in balia di stregoni e di istinti primordiali. Capisco quanto sia difficile parlare di concetti apparentemente astratti e dagli effetti non immediati quando esplodono le bombe e sparano i kalashnikov; eppure, per aspirare alla pace e alla convivenza civile, non esiste altra via della conoscenza, premessa della tolleranza, che scaturisce dalla libertà di espressione e dall’accesso al pensiero altrui: quindi al libro. Vale per le masse mediorientali, mantenute nell’ignoranza, e per l’Occidente spaventato dai macabri rituali dell’Isis. Vi fu un secolo in cui l’eccellenza intellettuale europea fece ricorso all’Oriente per elaborare e trasmettere concetti rivoluzionari pur non apprezzandone le forme di governo. Nel Settecento, da Voltaire a Montesquieu, molti illuministi presero spunti dalla tradizione araba trasponendoli in novelle filosofiche. Nemmeno allora le relazioni con l’Islam erano eccellenti: fino a qualche decennio prima, le armate turche assediavano Vienna e minacciavano di occupare l’Europa. L’Occidente prevalse perché riuscì a capire e a scindere l’aspetto politico da quello religioso che aveva dominato i rapporti con l’Oriente dai tempi delle crociate. Le teocrazie, per sopravvivere, devono coltivare l’ignoranza, i dogmi e propagandare un essere supremo spietato, mentre l’Europa, quel dio che giustifica le torture e ordina di ammazzare, riuscì a rimuoverlo combattendo l’analfabetismo. Allora, bombardiamo pure il Medio Oriente, ma di libri. In una guerra di religione, non credendoci più, siamo perdenti. Da cittadino a clandestino. Una storia degna di Kafka di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2016 Lavorava con un regolare permesso di soggiorno, commette un reato ed è l’inferno. Entra nel centro di identificazione ed espulsione perché è diventato clandestino dopo aver scontato la galera, ne esce dopo due mesi per poter essere rimandato nel suo paese di origine, ma lo rinchiudono nuovamente in un Cie. La vicenda, degna di un romanzo di Kafka, è stata raccontata da Anna Pulitini, che è stata insegnante e da anni si occupa di persone in carcere, le accoglie nella sua casa quando sono ammesse a misure alternative, e per quanto possibile si adopera per accompagnarle nel loro ritorno in società. Il protagonista di questa storia, M. N., è un cittadino marocchino che per molto anni ha lavorato in Italia con regolare permesso di soggiorno. Poi, però, commette un reato, viene condannato e passa i suoi anni in cella per scontare la pena. Al termine della carcerazione scatta l’espulsione perché, non avendo più il permesso di soggiorno, risulta clandestino. Viene inviato a un Cie con tanto di scorta della polizia. Si tratta di un passaggio obbligatorio, perché dovrebbe essere appunto identificato per regolarizzare i documenti scaduti. Così stabilisce la legge e, come previsto dalla norma, dopo i due mesi "regolamentari", viene fatto uscire con l’ingiunzione di lasciare l’Italia entro 7 giorni. Ma qui inizia il suo calvario. Per tornare nel suo Paese è necessario il passaporto che aveva smarrito, ma nei due mesi di permanenza nel Cie nessuno ha mai provveduto a fornirglielo. Quel documento è necessario per "obbedire" alla sentenza che lo vuole fuori dall’Italia. L’unica scelta che gli rimane per averne uno nuovo è di avviare le pratiche all’Ambasciata del Marocco, con la necessaria denuncia della scomparsa del vecchio documento. E la denuncia ovviamente si fa in questura, dove lui era sempre andato da regolare e non da clandestino. Francesca de Carolis, scrittrice, ex giornalista del Tg1 e di Radio Uno, e che ora si dedica anima e corpo alla situazione carceraria, ci racconta di essere andata a trovare il marocchino e dice che "non è stato difficile riconoscere nei suoi occhi, nelle sue scarse parole, nei suoi silenzi, la sua incertezza, i vuoti, il dramma psicologico di chi sa che tornare al suo Paese è tornare da sconfitto". Francesca spiega che non è stato facile, per M., comprendere che dopo l’errore che aveva compiuto, dopo il reato e la carcerazione, l’Italia non è più un Paese per lui e il suo futuro deve ripartire dal Marocco. Comunque vince la paura e la vergogna e si decide di andare in questura per denunciare lo smarrimento del passaporto e dichiara la sua volontà di rimpatriare: ma nuovamente si riapre per lui lo sportello di un’auto della polizia con due agenti di scorta, e viene rispedito immediatamente in un Cie. Come persona senza documenti validi, quindi clandestino, non può circolare liberamente sul nostro suolo. Ma, niente paura, gli assicurano, il soggiorno nel Cie sarebbe stato di pochi giorni. Solo il tempo di ottenere dall’ambasciata marocchina i documenti. Invece viene nuovamente trattenuto per altri due mesi e senza che nessuno, nel frattempo, a provveduto a fornirgli il passaporto. Esce nuovamente con l’ordine di lasciare il territorio italiano. Cosa fa? Si reca nuovamente in questura per poi essere di nuovo sbattuto dentro un Cie inutilmente? Non gli rimane che essere - contro la sua stessa volontà - un clandestino per sempre. Quante situazioni ci saranno come lui? A questo si aggiungono altre vicende denunciate, questa volta, da un’associazione milanese che si occupa dei migranti. Le questure assomiglierebbero sempre di più agli Hotspot, i centri ideati dall’Ue per identificare e registrare i migranti. In sostanza la procedura per la richiesta di asilo sta cambiando e -sempre secondo l’associazione milanese (Naga) - si entra in questura da cittadini portatori di un diritto riconosciuto internazionalmente, si esce con una espulsione in mano. Questo è dovuto dal fatto che le domande di asilo sarebbero filtrate da un operatore che valuta se accogliere o respingere le domande prima che finiscano alla commissione giudicatrice competente; ma soprattutto gli avvocati sarebbero esclusi da questa fase e non riescono ad assistere i propri clienti. Storie che fanno pensare molto. A che pro fare di tutto per creare più clandestinità? Scarcerato Hakim Nasiri: il truce terrorista era un povero migrante di Angela Azzaro Il Dubbio, 13 maggio 2016 Per il Gip le accuse non reggono. Lo avevano accusato di qualcosa di terribile, qualcosa che ti rovina, per sempre, la vita: terrorismo internazionale di matrice islamica. Quando, ieri, è stato scarcerato Hakim Nasiri ha pianto. Il giorno dell’arresto i titoli di tutti i giornali non avevano dubbi: era un pericoloso delinquente, una minaccia per il nostro Paese. Lui e altri due arrestati sono diventati di colpo terroristi a tutti gli effetti. Colpevoli. Ieri, grazie al gip, le cose sono diventate più chiare. Nei confronti di Hakim Nasiri (23enne afghano) il gip Francesco Agnino ha convalidato il fermo ma ha rigettato l’applicazione della misura cautelare per il reato di terrorismo. Gli altri due, Zulfiqar Amjad (24enne pakistano) e Gulistan Ahmadzai (29enne afghano) restano in carcere ma con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Reato ben diverso da quello di terrorismo internazionale. In questi mesi di lotta al terrore, non è la prima volta che assistiamo a casi del genere. Bastano pochi indizi per far scattare gli arresti e far parlare i media di cellule terroristiche anche in Italia. La paura di tutti, e quindi la vigilanza delle forze dell’ordine e dei media sono comprensibili. Ma proprio perché comprensibili è necessario ancora di più vigilare sullo Stato di diritto. Significa che, soprattutto, i giornali non devono creare falsi allarmismi, inducendo le persone a credere nell’equazione migrante uguale terrorista. Questo è quanto accaduto finora. Basta un’inchiesta, un arresto perché il presunto terrorista diventi come il più pericoloso integralista dell’Isis. "È una vicenda ingigantita, - ha spiegato il legale di Nasiri, Adriano Pallesca - un abbaglio preso per la semplice foto con un mitra giocattolo in mano. Tra gli elementi raccolti non c’era nulla di concreto". Il pm Roberto Rossi impugnerà il provvedimento. La vicenda non è finita. Ma ora proviamo a metterci nella testa e nel cuore di questo ragazzo di 23 anni. Tutti gli occhi puntati su di lui, tutti contro di lui a parte pochi. E forse è innocente. Forse non ha fatto proprio nulla. Le sue lacrime non dimentichiamole. Come l’Europa proteggerà i confini di Guido Viale Il Manifesto, 13 maggio 2016 "Sia le politiche climatiche che le politiche migratorie sono beni pubblici comuni, e per essere più efficaci possibile hanno bisogno di risorse comuni". Con queste parole, che concludono un articolo su Affari e finanza (Repubblica, 2.5), Guntram Wolff, direttore del Bruegel Institut, propone di finanziare con una tassa sulle emissioni carboniche oltre alla conversione energetica anche "controlli comuni alle frontiere e politiche migratorie": una versione "allargata" della proposta del ministro tedesco Shaeuble di finanziare la sorveglianza delle frontiere con una tassa sulla benzina. Sotto la voce "sorveglianza delle frontiere" entrambi intendono le barriere che hanno bloccato i profughi lungo la rotta balcanica. Ma un flusso, o una parte di esso, tornerà a imboccare la via del Mediterraneo, dove il filo spinato non serve; per fermarli occorre mobilitare una flotta e fare la guerra agli scafisti. Per politiche migratorie intendono invece accordi come quello indecente con la Turchia (sei miliardi) estesi, come propone Renzi, ai paesi dell’Africa da cui partono quei flussi o che ne vengono attraversati. Quei paesi sono tanti e molto più poveri della Turchia; perciò servirebbero molti più miliardi per convincere i rispettivi governi a riprendersi quei "loro" profughi in fuga per salvare la pelle: ribattezzati però "migranti economici" per negar loro il diritto alla protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra. L’offerta di un miliardo e otto fatta lo scorso novembre al vertice di Malta era stata non solo respinta, ma anche sbeffeggiata. È per questo, e per quel "bene pubblico comune" che sono le politiche migratorie, cioè per tener lontani i profughi, che occorrerebbe mobilitare le risorse, che non ci sono, destinate alla lotta contro i cambiamenti climatici. Proposta grottesca, se non contenesse un fondo di verità: una cosa che accomuna cambiamenti climatici e profughi infatti c’è: questi non sono "migranti economici" da "rimpatriare" in una "patria" che non hanno più; sono tutti profughi ambientali, cacciati dalla devastazione prodotta innanzitutto, ma non solo, da cambiamenti climatici ormai in pieno corso e da guerre generate da quella devastazione. E non solo in Siria; con diverse modalità, sono in corso o in incubazione anche in tanti paesi di origine di quei flussi: per accaparrarsi o difendere con le armi risorse sempre più scarse; l’avanzo di quello che le multinazionali occidentali o cinesi lasciano alle popolazioni locali. Il disastro in Siria anticipa un destino comune: "Considerata la terribile siccità che l’ha preceduta, nel futuro prossimo la guerra civile e internazionale in corso in Siria sarà definita ‘la prima guerra figlia del cambiamento climaticò - scrive l’economista cileno Andrea Rodrigo Rivas su L’altra pagina, aprile 2016 - Prima dello scoppio della guerra, e molto prima della comparsa dell’Isis, la Siria ha attraversato la peggiore siccità prolungata da quando ebbe inizio la civiltà agricola nella Mezzaluna fertile…una siccità devastante che ha trasformato in deserto il 60% del suo territorio. La rovina delle colture e la morte della maggior parte dell’allevamento hanno ridotto sul lastrico milioni di contadini costretti a emigrare verso le città, alla ricerca di un lavoro… Così, nelle città siriane, crebbero velocemente occupazioni illegali, sovrappopolazione, mancanza di infrastrutture, disoccupazione e delinquenza… Anche nel Sahel - continua Rivas - siccità, degrado dell’habitat e negligenza dei governi sono all’origine della violenza armata. Le siccità prima avvenivano ogni 10 anni, ora ogni 2… Nel lago Ciad, principale bacino idrico del continente Africano, tra il 1963 e il 1998 l’acqua è diminuita del 95 per cento. È una delle principali ragioni della povertà nel nord della Nigeria e dell’auge di Boko Haram… La Siria e il Mali - conclude - sono un anticipo di ciò che probabilmente avverrà su una scala molto maggiore nel corso di questo secolo". Questo ci dovrebbe indurre a guardare meglio le tante barriere anti-profughi - fisiche, politiche, amministrative e militari - ormai al centro dello scontro politico in Europa: non sono un espediente temporaneo per far fronte a un’emergenza che l’Europa non era preparata ad affrontare. Sono, consapevoli o meno che ne siano i suoi promotori di destra o estrema destra, ma anche delle maggioranze al governo che si accodano alle loro pretese nella speranza di non perdere elettori, la risposta che l’Europa (ma anche gli Stati Uniti, l’Australia o il Giappone) dà ai problemi creati dai cambiamenti climatici. Non una lotta con il tempo per cambiare sistema energetico e modello economico, ma la chiusura nei propri confini come in una fortezza assediata; lasciando che i paesi al di fuori vadano in malora; e contando su quelle barriere per proteggerci dal loro contagio. È l’inizio di una difesa armata dei confini che alimenterà guerre sempre più feroci sia al di là di essi che al loro interno: una previsione che il Pentagono aveva già fatto oltre dieci anni fa. Ma a questa "politica estera" fallimentare (i cambiamenti climatici non si fermano con filo spinato e Hot spot e meno che mai con le guerre: colpiranno sempre di più anche l’Europa) corrisponderà una "politica interna" altrettanto feroce e vessatoria: non solo contro l’"invasione" dei profughi, ma anche contro i cittadini europei. Tutti, ad eccezione di quell’1 o 10% che dai disastri economici o ambientali trae crescenti benefici. Non importa se a vincere le elezioni sarà Angela Merkel o l’AfD, o se a governare l’Austria siano Socialdemocratici e Popolari o Norbert Hofer, se poi le politiche verso i profughi sono le stesse. A quelle politiche corrisponderà sempre di più un "tallone di ferro" sui cittadini europei. Anche la costituzione di Renzi, consapevole o meno che ne sia, serve a predisporre le basi di governi autoritari e feroci necessari per gestire un paese-fortezza, dove non ci sarà più posto per quel nostro stile di vita "non negoziabile". Perché un paese-fortezza è condannato irrevocabilmente al declino economico, alla sclerosi culturale e all’invecchiamento, soprattutto in Europa. E in queste condizioni non si realizzerà né si promuoverà mai quella conversione ecologica indispensabile per evitare che tutto il pianeta precipiti in un completo disastro. Ma l’Italia ha un problema in più: protesa come un ponte in mezzo al Mediterraneo, è esposta al ruolo di ultimo avamposto dei flussi provenienti dall’Africa e dal Medioriente, come succede oggi a Libia e Turchia, assai più che a restare membro a tutti gli effetti della fortezza Europa. I cui veri confini sono ormai al Brennero, al Gottardo e a Ventimiglia, o a Idumeni, molto più di quanto possano essere negli Hot spot di Lampedusa, Porto Empedocle, Pozzallo o Lesbo. Infatti i respingimenti dei cosiddetti migranti economici sono lasciati a Italia e Grecia; la distribuzione delle "quote" di profughi tra i paesi membri non funziona e già si parla di "compensare" la loro mancata ricezione con un’indennità economica da corrispondere allo Stato che dovrà farsene carico. Proprio come con la Turchia. Una ragione in più per riconoscere nelle politiche verso i profughi l’orizzonte entro cui si misureranno, in Italia e in Europa, la lotta politica e il conflitto sociale dei prossimi decenni. L’Italia affronta già oggi la questione mettendo per strada - e affidando alle mafie - migliaia di profughi a cui non viene riconosciuta la protezione e alimentando così un giustificato allarme su cui ingrassano i Salvini. Per combattere questa prospettiva occorre opporsi ai respingimenti, promuovere una svolta politica radicale il cui nucleo forte non può essere costituito che dalle reti già oggi impegnate nell’accoglienza e nell’inserimento sociale dei profughi. Sono loro il vero antagonista delle politiche di respingimento e di tutto ciò che ne segue: l’avanguardia di un fronte sociale completamente nuovo che intorno a questo impegno deve saper costruire il progetto di una società dell’accoglienza per tutti: profughi e cittadini europei. In cui conversione ecologica, per fermare i cambiamenti climatici, e cooperazione internazionale, per aiutare i nuovi arrivati a farsi protagonisti della rinascita dei loro paesi di origine e, insieme a noi, di tutta l’Europa, trovino un punto di sutura autentico tra "politiche climatiche e politiche migratorie". Brasile: passa l’impeachment, Dilma Rousseff va in piazza di Geraldina Colotti Il Manifesto, 13 maggio 2016 Il senato vota la sospensione della presidente. In Brasile, Dilma ha perso di nuovo. Il Senato ha approvato l’impeachment per 55 voti contro 22. Una tendenza apparsa subito evidente dagli interventi degli 81 senatori, chiamati ad esprimere con maggioranza semplice (la metà più uno) il loro parere. Difficile che andasse diversamente, dato il profilo, il colore politico e gli interessi che rappresenta gran parte dei senatori. Benché la popolazione brasiliana sia composta al 54% da neri e al 51% da donne, 64 degli 81 senatori sono bianchi, solo 6 sono neri e vi sono 11 donne, una delle quali afro-discendente. Parlamentari i cui partiti rappresentano soprattutto gli interessi dell’agro-business, di grandi multinazionali come Monsanto e Sygenta, le speculazioni di corporazioni finanziarie come Goldman Sachs, il profitto delle industrie delle armi o della sicurezza privata, gli affari delle potenti chiese pentecostali…. Il Senato che ha giudicato Rousseff, nonostante non sia stato provato nessun "delitto di responsabilità", è composto per il 58% da inquisiti per reati di corruzione o peggio, come buona parte dei partiti che hanno messo in moto l’impeachment. L’anima nera della manovra si chiama Eduardo Cunha, terminale delle potenti chiese evangeliche. Considerato da molti un vero e proprio gangster della politica, è sempre riuscito a farla franca grazie al peso politico del suo Partito del movimento democratico (Pmdb) nelle alleanze di governo e nella coalizione che ha portato Rousseff alla presidenza nel 2010 e 2014. La formazione centrista è quella che ha più seggi al Congresso e risulta determinante nella scena parlamentare, frammentata in 28 partiti. Il Pmdb ha tolto la fiducia al governativo Partito dei lavoratori (Pt) a cui appartiene la presidente per portare avanti l’impeachment con l’opposizione: non per amore della trasparenza, ma per salvare dal carcere Cunha, che risultava secondo nella lista dei sostituti una volta sospesa Rousseff durante l’impeachment. Epperò, i piani di Cunha sono stati fermati da una decisione della magistratura, che lo persegue con accuse pesanti, tra le altre quella di aver portato in Svizzera conti miliardari frutto di tangenti e di non averli dichiarati. Tuttavia, se come pare certo il "golpe istituzionale" otterrà l’obbiettivo finale, è già pronto un indulto per Cunha. A sostituire Rousseff, infatti, va il vicepresidente Michel Temer, che appartiene al partito di Cunha e che a sua volta conta di lavare una discreta quantità di panni sporchi: non solo, infatti, è anch’egli a rischio di impeachment, ma è inquisito per reati analoghi a quello del suo collega di partito. Ora, dunque, la presidente verrà sospesa per 180 giorni dall’incarico: il tempo necessario al processo per presunte irregolarità fiscali di cui non si è discusso nel corso delle votazioni fin qui avvenute. Accuse inesistenti, secondo la difesa di Rousseff, la quale avrebbe nascosto l’entità del deficit nel bilancio coprendolo con un prestito anticipato dalla banca nazionale: non per trarne vantaggio economico, ma per far fronte ai piani sociali rivolti ai settori meno abbienti. Una procedura utilizzata da altri presidenti che l’hanno preceduta e che, per quanto scivolosa a rigor di legge, sembra una marachella a fronte dei reati che pesano su gran parte di quelli che l’hanno giudicata. La Commissione del Senato che ha dato il via libera alla seconda tappa del procedimento è composta dall’opposizione. Alla presidenza c’è Raimundo Lira, del Partito del movimento democratico brasiliano (Pmdb), diretto da Temer. Alla stessa commissione toccherà l’istruzione del processo, che però verrà diretto dal presidente del Supremo Tribunal Federal (Stf). Per questo, ieri, il ministro Ricardo Lewandowski si è incontrato con il senatore Lira alla presenza del presidente del Senato, Renan Calheiros, anch’egli del Pmdb. Lewandowski presiederà poi la votazione finale del processo, che necessita di una maggioranza dei 2/3. In un simile contesto, è quasi certo che Temer governerà fino al 2018. Da tempo, egli ha concordato il suo gabinetto di governo con i poteri forti a cui risponde. Sarà un governo composto da banchieri e imprenditori, sul modello di quello di Macri in Argentina. Durante la discussione al Senato, molti eletti di sinistra hanno sostenuto di non riconoscere il governo di Temer che, anche secondo i sondaggi, non verrebbe votato dalla popolazione. La situazione di Dilma è stata paragonata alla deposizione dei presidenti Getulio Vargas e Juselino Kubitchek negli anni ‘50 e ‘60. In molti, durante il voto in Parlamento dell’impeachment, hanno infatti inneggiato al ritorno della dittatura militare, minacciando pesantemente la presidente, ex guerrigliera torturata durante il regime dittatoriale. La piazza che ha votato Dilma (oltre 54 milioni di persone), ha però deciso di farsi sentire. Davanti al Senato ci sono stati scontri e una dura repressione da parte della polizia di Brasilia, che ha provocato feriti anche in una manifestazione di donne. "Temer golpista", gridano i manifestanti dietro la bandiera del Movimento dei Senza Terra, dei Senza Tetto e delle alleanze di sinistra verso le quali il Pt ha deciso di aprirsi, per sciogliersi dall’abbraccio mortale delle forze centriste e conservatrici. Per la comunicazione ufficiale dell’impeachment, Dilma ha organizzato una cerimonia nel Planalto. Ad accompagnarla nella firma del documento, l’ex presidente Lula da Silva, che aveva nominato capo di gabinetto ma che la magistratura ha sospeso, gli attuali ministri, autorità pubbliche e i movimenti popolari che l’appoggiano e che si battono contro il colpo di stato istituzionale. Prima di lasciare l’incarico, Dilma ha parlato ai giornalisti e ai manifestanti e ha divulgato un video sulle reti sociali: "Questo golpe è una farsa giuridica - ha detto - non c’è giustizia più devastante di quella che condanna un innocente". Dal Venezuela all’Argentina, un’ondata di sdegno percorre l’America latina di sinistra e chiede agli organismi internazionali come Unasur di intervenire contro il governo de facto di Temer. Il quale ha già commesso la prima gaffe: ha scambiato un giornalista argentino di Radio El Mundo per il suo omologo Macri, dicendosi ansioso di incontrarlo. Il video è sul sito della radio. Iraq: ecco cosa fanno i militari italiani di Benedetta Argentieri Corriere della Sera, 13 maggio 2016 In questo momento l’Italia è la seconda forza in Iraq dopo gli Stati Uniti. A breve i nostri militari diventeranno 1100. Un coinvolgimento fortemente voluto dal ministro alla Difesa Roberta Pinotti. L’aiuto alle forze curde. Non appena parte l’allarme, gli uomini scattano in piedi. Circa una decina di soldati del 66º Reggimento Trieste si infilano i giubbotti anti-proiettile, scaricano le armi in dotazione e si preparano a partire. Pochi minuti prima di camminare lungo la pista della base a Erbil, nel Kurdistan iracheno, il comandante spiega la missione. L’obiettivo è recuperare due militari che sono rimasti isolati e non sono addestrati alla sopravvivenza. Mostra le loro foto alla squadra e aggiunge: "A breve raggiungeranno il punto di estrazione. Le coordinate sono già state date agli equipaggi. Il territorio è polveroso, non c’è minaccia conosciuta". Quando i militari raggiungono i due elicotteri NH90, i piloti del 7º Reggimento Aves accendono i motori. In otto minuti, e diverse virate, raggiungono il punto di ritrovo, scendono in sette con le armi spianate e si dirigono verso i due dispersi che camminano con le mani dietro la testa. Li circondano, insieme salgono dal portellone posteriore e ripartono. Quella di mercoledì mattina era solo una simulazione, perché l’Italia comincerà da giugno a fare Personal Recovery. "La tempistica è dettata dalla coalizione e non da noi. Ci occuperemo di estrazione di personale isolato in un raggio di circa 100 miglia da non confondere con Combat Search and Rescue (Casar)", spiega il capitano G.M., 34 anni e da 16 nell’esercito, pilota di uno degli otto elicotteri atterrati a metà marzo nel nord dell’Iraq. Con i velivoli anche 130 uomini, tra cui una donna mitragliere di bordo. In attesa del via libera hanno già cominciato a fare ricognizioni. Questa è la terza missione che si va ad aggiungere all’addestramento delle forze locali e alla difesa dei lavori sulla diga di Mosul. "In questo momento l’Italia è la seconda forza in Iraq dopo gli Stati Uniti", dice il colonnello A.A., comandante dell’attuale contingente, sotto una tenda a pochi metri dalla pista di atterraggio. Racconta che i militari italiani a breve diventeranno 1100 in tutto l’Iraq, e che questo contingente è uno dei più numerosi schierati attualmente dall’Italia impegnata anche in Afghanistan e Libano. "È stato uno sforzo enorme e cresciuto negli scorsi mesi. Probabilmente continuerà ad aumentare", aggiunge il militare. Questo coinvolgimento italiano è stato fortemente voluto dal ministro alla Difesa Roberta Pinotti, come ha spiegato al Corriere durante la sua visita a sorpresa lunedì. "Una mia scelta politica contro il Daesh. Non avevamo mai visto un gruppo così efferato. Ho chiesto io al precedente Capo di Stato Maggiore qual era il massimo sforzo che potevamo permetterci. E così abbiamo fatto". Un impegno apprezzato dagli Stati Uniti che nei mesi passati avevano chiesto agli alleati europei un maggiore supporto in Iraq per l’operazione Inherent Resolve contro lo Stato Islamico. La maggior parte dei nostri soldati sono di stanza a Erbil in una base internazionale di fianco all’aeroporto, e si occupano principalmente di addestrare le forze curde, per un totale di 8000 peshmerga. I battaglioni che hanno appena terminato il corso di 2 mesi e parteciperanno alla riconquista di Mosul. E questa settimana il testimone passa agli Zeravani, la polizia militare curda. "La nostra giornata comincia alle 5:45. Alle sette siamo già operativi alla base di Bnaslava", dice il capitano bersagliere M.D. Dal mattino fino alle 14, non c’è un attimo di tregua tra lezioni teoriche, poligono e primo soccorso. "La maggior parte di loro ha già combattuto, il vero problema è che nessuno ha mai usato una benda israeliano o un tourniquet per fermare le emorragie. Tecniche semplici che però possono salvare la vita sul campo di battaglia". Tra i "nuovi" cadetti anche 26 donne che hanno a disposizione cinque addestratrici. Tra queste M.M., 29 anni, che si dice stupita e affascinata dalla forza e la voglia di emancipazione delle sue allieve. "Hanno nel sangue la loro terra. Una di loro, per arruolarsi, ha lasciato i suoi gemelli di otto mesi alla madre", spiega con in mano una benda. Subito dopo si dirige al poligono di tiro dove insegna ad Hardam, una 23enne siriana, le tecniche di respirazione mentre spara un colpo con un AK-47, con la mano indirizza la canna del Kalashnikov. E dopo un paio di colpi si sente il rumore di latta del bersaglio. Hardam lo ha centrato. Stati Uniti: detenuto disabile condannato a morte, annullata l’esecuzione Giornale di Sicilia, 13 maggio 2016 La Corte Suprema degli Stati Uniti ha fermato l’esecuzione in Alabama di un uomo afflitto da demenza dopo aver subito vari ictus, confermando così la decisione di una Corte d’Appello che ha fermato il boia solo poche ore prima della prevista iniezione letale. Vernon Madison, 65 anni, era stato riconosciuto colpevole di aver assassinato con un colpo di pistola a bruciapelo alla testa un agente di polizia nel 1985. In carcere l’uomo è stato colpito più volte da ictus. Di conseguenza non riesce più a camminare e, soprattutto, ha ora un quoziente intellettivo ridotto a 72 che lo renderebbero incapace di comprendere il significato della sua condanna capitale o del delitto da lui commesso oltre 30 anni fa. L’esecuzione di Madison era prevista alle 6 di mattina locali ed è stata bloccata poco prima della mezzanotte da una Corte d’appello. La procura dell’Alabama si è allora rivolta alla Corte Suprema, perché confermasse l’esecuzione. L’Alta corte si è spaccata sulla decisione - quattro giudici contro quattro - ma ha confermato la sospensione in attesa che si esamini il caso, sollevato dall’ong Equal Justice Initiative. La Corte Suprema Usa ha già preso posizione in passato sulla pena di morte in caso di malattia mentale, affermando che il condannato deve possedere "capacità di comprensione razionale" della sua situazione, demandando tuttavia a tribunali di istanza inferiore di esaminare caso per caso.