Ora d’aria, col mondo fuori di Carlo Botrugno Il Manifesto, 12 maggio 2016 Un volontario entra per la prima volta in un qualunque penitenziario di una qualunque città. E lo racconta. Arrivo presto sabato mattina, sono in anticipo. Fatico un po’ a trovarlo, la zona è immersa nel verde. A prima vista, è un enorme blocco di cemento, non così grigio quanto mi aspettavo. Per arrivare all’ingresso bisogna percorrere una strada d’asfalto malmessa, costeggiata da alberi e vegetazione spontanea su un lato. Dall’altro il parcheggio delle auto. Arrivo al "muro di cinta". Saprò solo in seguito che si chiama così. Un grande spiazzo d’asfalto presiede il gabbiotto delle guardie. Mi avvicino e chiedo se sia quello l’unico punto d’ingresso. Mi guardano corrugando il viso e mi chiedono: "In che senso ingresso? Lei è autorizzato?". Li rassicuro, dico che ho un appuntamento all’ingresso, e che aspetto gli altri per entrare. Là fuori vi sono due bambini che giocano ed alcuni adulti. Non capisco che cosa facciano lì. Alcuni sono italiani, altri no. Dopo mi diranno che attendevano l’orario visite. È una bella giornata, c’è il sole e mi siedo su un piccolo marciapiede del muro di cinta. Provo a immaginare come può essere la normalità qui, ma non ci riesco. Arrivano gli altri. Entriamo nel gabbiotto e depositiamo le nostre cose in una cassettiera di ferro, ognuno in uno dei piccoli cassetti numerati. Sono vecchissimi, con i numeri dipinti a pennello giallo. Sembrano usciti da un film di Sergio Leone. La mia borsa ci sta appena dentro. Mi consegnano un pass che appendo alla camicia senza neppure guardare, e siamo dentro. La prima sensazione è quella di uno spazio grande, si vedono le finestre delle celle, con qualche camicia appesa ad asciugare fuori. Visto da terra, non sembra diverso da un ospedale. Ci guidano oltre il primo separatore, v’è una serie continua di cancelli e inferriate, la maggior parte dei quali però è aperta. Una mia compagna dice insolitamente aperta. Ferro e cemento. L’unica cosa in salute sembrano le inferriate di ferro vivo, ben colorate di blu. Il resto è decadente, trascurato, le pareti sono scrostate, ammuffite, e qua e là lasciano intravedere i pilastri di ferro interni. Un altro gabbiotto e un ulteriore controllo: "Chi siete? Venite per risolvere i problemi dei detenuti? E ai nostri problemi chi ci pensa?" - ripete due volte l’agente che registra il nostro passaggio, insieme a nomi e orario. Proseguiamo alla ricerca di un educatore che però si fa attendere. Così siamo autorizzati a permanere nel corridoio degli uffici, ed io a osservare. Ah che bello o cafè - Sembra di essere in Campania. Qua si parla molto meridionale, tutti salutano ad alta voce e dicono "Buongiorno". Mi ricorda quasi la cortesia "della strada" tipica del Sud, dove anche tra sconosciuti ancora ci si saluta. Gli agenti parlottano, non solo di lavoro pare. Non sembrano indaffaratissimi. Parlano a voce alta, talvolta sbottano. Riesco a sbirciare una stanza in cui siedono due comandanti, entrambe donne. Hanno un’etichetta di ceramica con il loro nome all’esterno, dipinta a mano con una bellezza ripugnante. Si assomigliano tra loro. Capelli neri lunghi raccolti in coda di cavallo, tratti meridionali forti, viso semplice, squadrato, truccate il minimo sindacale. Arriva l’educatrice, che ha gli stessi tratti somatici delle due comandanti, e un tono fermo da generale. La scruto dalla testa ai piedi. Ha scarpe gialle sportive, e veste in jeans e giacca corta. Lei guarda dritto negli occhi, ma anche io la guardo allo stesso modo, quasi per dirle che il suo modo di fare mi sembra inappropriato. Dura lo spazio di qualche frase e la lasciamo per andare all’ufficio matricole, dove hanno tutti i registri dei detenuti. Entriamo, arriviamo al banco. Qui si lavora al computer e al telefono. Infatti i "Buongiorno" si rarefanno. Per la prima volta guardo il mio pass, appeso alla camicia. C’è scritto "visitatore autorizzato oltre il muro di cinta". Dopo un po’ di attesa si decidono a venire verso di noi. Chiediamo le informazioni che ci servono. Anche l’addetto all’ufficio matricole parla campano. Sono in quattro a lavorare in un ufficio abbastanza grande. Sbarre alle finestre, Vasco Rossi alla radio, telefono che suona costantemente. La prima cella mi sembra proprio questa. Alcuni cassetti hanno un rinforzo in ferro saldato, per consentire la chiusura a chiave. Sembrano fatti dal primo saldatore che passava lì fuori. Un tipo con pochi capelli biondi e lunghi impreca in silenzio davanti al computer, talvolta alzando le braccia al cielo. Sembra muto, scuote la testa. Non vedo l’ora di uscire da lì, guardo la luce attraverso le sbarre della finestra. Entriamo finalmente nei "bracci", così li avrei chiamati io, e invece si dice Sezioni. Ho notato che dall’ingresso gli spazi si sono progressivamente ridotti. La sensazione di apertura è sparita. Dopo l’ennesimo check-point ci lasciano entrare in uno stanzino, per aspettare il primo detenuto della giornata. Non ho ancora rapporti con i miei compagni, il che mi consente di stare in silenzio, allontanarmi da loro, osservare, pensare. Oltre il muro - Inizio a fissare la stanza. Cemento. Bianco al soffitto, giallo alle pareti, grigio colata al pavimento. Le pareti sono state ridipinte da poco, ma senza proteggere il pavimento che è pieno di schizzi di pittura ovunque. Dopo mi diranno i miei compagni che potrebbero essere stati gli stessi detenuti incaricati di dipingere. La stanza è vuota. Due piccole scrivanie e alcune sedie disposte come per una commissione ed un esaminato. Non mi siedo ancora. Due finestre danno la vista su un campo da calcio di terra e sterpaglia. L’erba selvatica richiama un po’ il prato di un campo autentico. Le porte sono in dimensioni reali, ma senza reti. Dentro una marea di uomini che giocano. Sembrano più di 22, quasi tutti stranieri, alcuni con magliette da calcio vere e proprie. C’è persino un signore piccolo e basso con la maglietta della nazionale italiana. Provo a immaginare cosa possa rappresentare quel momento per loro, l’ora d’aria passata a giocare a pallone di sabato mattina. Magari alcuni la scambiano per una partita vera così come facevo io da piccolo, ogni sabato pomeriggio, in quel campo di terra rossa vicino a casa. Allora penso che magari si dimenticano di essere in carcere. Così si preparano per bene con una bella maglietta del proprio idolo e della propria squadra del cuore, e quel pallone lo inseguono per davvero. Intanto arriva il detenuto, da solo, senza manette. È pugliese, aria pulita, direi "innocente", cioè di quelle persone che sembrano pure, semplici. Il suo sguardo è particolare, ha gli occhi grandi marroni, pochi capelli corti, ma in ordine. Un sole sorridente tatuato su un braccio, il nome della terza figlia sull’altro. Ha una condanna a dieci anni. Scherza: "Non sto proprio ‘nguaiato, dai…". Noi sorridiamo, gli prendiamo i dati e gli chiediamo i reati. Dice furto, rapina. Racconta che era agli arresti domiciliari quando è fuggito la prima volta. La seconda era in comunità e quando il suo avvocato gli fa visita per dirgli che lo arresteranno un’altra volta, sorride. Sorride, stringe la bocca e dice: "Sò scappato". Vuole andare a scontare la pena in un qualsiasi penitenziario pugliese, perché la famiglia "stanno troppo lontani". Non gli importa tanto di quanto deve scontare, sa che non c’è alternativa, è sereno. Se necessario dice che nomina noi come avvocati. Gli spieghiamo che non è possibile, ma insiste. Gli chiediamo i documenti e chiede di poter tornare in cella a prenderli. Lo aspettiamo. Torna con una cartelletta verde, sembra un tipo molto ordinato. Quando la apre in cima ai documenti ci sono le foto delle figlie. Non appena ci cade lo sguardo sopra le afferra e ce le mostra orgoglioso. Sono belle, sia le bambine che le foto e non perché siamo in carcere ma perché lo sono davvero. Lo rassicuriamo e lo salutiamo. Inconscio lombrosiano - Quando siamo fuori ci consultiamo e prendiamo atto che dagli atti risultano una sfilza di reati tra cui omicidio volontario. A quel punto muta la mia immagine su di lui. Non è più davanti a me, ma me lo rivedo così esile e piccolo, così delicato. Sarà che siamo tutti lombrosiani irreversibilmente ed anche inconsciamente. Comunque uccidere e rubare sono due cose molto diverse, penso. Passiamo ai detenuti in custodia cautelare. Il primo ad entrare è un uomo di 45 anni circa, molto alto e di carnagione scura. Pur essendo italiano, sembra egiziano o libanese. È stato arrestato per truffa, ma dice che non c’entrava niente, che lui era in Polonia. Adesso si è stancato e "vuole uscire". Gli manca poco. Sembra quasi che la scelta dipenda da lui e basta. Infatti dice che era indeciso se uscire o restare dentro visto che fuori adesso non c’è lavoro, ma comunque si è stancato. Andrà dal fratello a Napoli che si è reso disponibile ad ospitarlo. Sorprende anche la preparazione di questo detenuto. Indica lui a noi una legge che realizza un "indultino". Ci dice gli estremi esatti per sapere se rientra nel beneficio. Vuole sapere solo questo. Prima di andarsene ripete che si è stancato perché in sezione dovevano essere tutti italiani e qualche straniero, mentre invece si sono 10 italiani e 40 "marrocchini", e che ormai gli manca poco per imparare l’arabo. Lamenta la situazione come insostenibile senza però specificare ulteriormente le ragioni. Resto con il dubbio che sia un po’ razzista, o magari gli rompono le scatole per davvero. Mi ha colpito la sua mano gigante ed incredibilmente pulita, tersa. Allora ripenso anche alla mano del detenuto pugliese. Anche lui aveva una mano tersa al tatto, come si fosse preparato a stringercela, ma ovviamente è solo una supposizione. Vediamo poi due immigrati, entrambi dentro per spaccio e con decreto di espulsione che li attende non appena metteranno piede fuori. Uno dice di essere perseguitato in Marocco dal governo attuale, l’altro dice che i genitori sono separati e lui non può tornare in Marocco. Entrambi rifiutano di tornare a casa una volta fuori dal carcere. Uno di loro, il perseguitato politico, dice: "Francia, Marocco, Italia,… io voglio vivere!". Non gli importa più nemmeno dove, ma che possa restare vivo almeno. Mentre aspettiamo guardo fuori dalla finestra. Il gelo dentro - Tra le intersezioni di questo parallelepipedo formate dai "bracci" si intravede un po’ di prato verde, anche se tutto spontaneo, primaverile. Qualche piccione appollaiato sulla parte superiore delle finestre, qualche camicia fuori, appesa ad asciugare, un’agente di guardia sul "muro di cinta". C’è il sole fuori, ma fa freddo qui dentro. È maggio, ma i detenuti dicono: "Questo è un frigo, in inverno si muore". L’ultimo che vediamo è un detenuto in infermeria, straniero, con invalidità superiore al 70% e diagnosi di disturbo bipolare. Anche la sua mano è tersa, impeccabile. Penso allora che la più sporca tra tutte le mani fosse la mia che non la lavavo dal giorno prima. Mi aspetto un pazzo e invece mi ritrovo dinanzi una persona cortese e cordiale. Mi procura una sedia, dato che ero rimasto in piedi. Gli vado incontro a prenderla perché mi scoccia essere servito. Vuole che gli troviamo una casa di cura per scontare parte della pena fuori dal penitenziario. Usciamo. Ripassiamo dai vari check-point: saluti di buongiorno, firme sul foglio d’entrata e odore di cucinato. Sinceramente buono, sarei rimasto volentieri, anche perché stavo morendo di fame. Mentre usciamo per i lunghi corridoi delle sezioni ci imbattiamo in un gruppo di detenuti accompagnati da un agente. Vanno nella nostra stessa direzione. L’agente si ferma un attimo a leggere un foglio. Posizione eretta, gambe leggermente divaricate, disciplina, come quando giocavamo nella categoria "pulcini" del calcio a 11. Non appena l’agente si avvede della nostra presenza pronuncia una parola che non riesco a captare, ma sta di fatto che dopo averla proferita il gruppo si mette spontaneamente in fila sulla parete destra, sino a fermarsi. Attendono il nostro passaggio e poi si rimettono a camminare. Disciplina. Usciamo. Gli spazi riprendono spazio, non siamo ancora all’esterno del muro di cinta, ma la sensazione di chiusura è alle spalle. Fuori, giornata di sole e di caldo, almeno 5-6 gradi di differenza di temperatura. Orlando: "Discutibile schierarsi sul referendum: i giudici valutino il peso delle loro parole" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 maggio 2016 Il ministro della Giustizia: "Entro l’estate il progetto di riforma del Csm, a partire dal sistema elettorale". Reduce dagli incontri con i vertici del "sindacato dei giudici" e con il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, il ministro Guardasigilli Andrea Orlando traccia un bilancio degli ultimi giorni inaspriti da nuove tensioni tra politica e giustizia. A cominciare dal diritto delle toghe di partecipare alla campagna referendaria sulle riforme costituzionali. "Che i magistrati contribuiscano al dibattito con le loro opinioni non solo è legittimo ma anche salutare. La partecipazione militante ai vari comitati è però un passaggio ulteriore che io considero discutibile, pur escludendo ogni ipotesi di divieto". Ma perché dieci anni fa, quando alla consultazione sulle riforme berlusconiane molti giudici fecero propaganda per il no, non furono sollevate questioni? "A parte che non ho memoria di magistrati in prima linea, per me è un discorso che vale oggi come ieri". Forse stavolta è cambiato il peso politico del referendum, attribuitogli dal premier. "Io credo che il problema sia generale, e del resto se l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di occuparsene con una discussione interna significa che la mia considerazione non è così peregrina. Credo anche che la questione dell’opportunità abbia una sua gradazione; se si schiera un componente del Csm o un magistrato che ricopre un alto incarico, il ruolo istituzionale che ricopre attribuisce maggior peso alla sua posizione. Fermo restando che non si può proibire nulla, la valutazione dell’opportunità, dei toni e degli argomenti dipende anche dalla funzione svolta". Dopo il chiarimento con Legnini considera chiuso il "caso Morosini"? "Le ulteriori precisazioni fatte oggi dal consigliere Morosini permettono di considerare chiuso il capitolo dell’intervista smentita, ma per quanto mi riguarda resta aperto il confronto con il Csm su alcune questioni toccate da quel colloquio: il funzionamento del Consiglio e le nomine asseritamente condizionate da influenze esterne; i pareri sulle leggi approvate dal Parlamento che non devono sfociare in valutazioni politiche estranee alla materia tecnica; l’attività dei magistrati messi fuori ruolo per collaborare anche con istituzioni governative, che non può essere demonizzata. Su questo vorrei che si aprisse una discussione politica seria, senza interventi censori ma anche senza richiudere tutto in un cassetto". In vista di una riforma del Csm? "È un punto del nostro programma non ancora affrontato, ma la faremo. Al Csm ho già inoltrato le conclusioni delle commissioni di studio, e Legnini mi ha detto che presto faranno le loro valutazioni, dopodiché allargheremo il confronto e conto di presentare un disegno di legge organico sulla riforma del Consiglio entro l’estate. A partire dal sistema elettorale". Quando parla di non demonizzare i magistrati fuori ruolo, si riferisce al suo capo di gabinetto in corsa per la nomina a procuratore di Milano? "Parlo in generale, come uno che può vantarsi di non aver mai sollecitato nessuna nomina. Considero però inaccettabile che l’aver reso un servizio per la Repubblica fuori dalla giurisdizione si trasformi automaticamente in una controindicazione, altrimenti bisognerebbe vietare gli incarichi nei ministeri, alla Giustizia e non solo; ma ogni volta che se n’è parlato, sono insorti malumori proprio dall’interno della magistratura. É una materia che va disciplinata, evitando gli abusi, ma senza che assuma connotazioni negative al momento delle valutazioni; si può discutere se il candidato sia migliore o peggiore proprio guardando a come ha svolto i diversi incarichi". Crede che il conflitto tra politica e giustizia dipenda dalle inchieste che toccano rappresentanti delle istituzioni? "Su questo il presidente de Consiglio è stato già abbastanza chiaro: non crediamo ad alcun complotto. Il lavoro dei pubblici ministeri e dei giudici deve andare avanti in ogni direzione ed è fatto salvo dalla Costituzione, che nella parte in cui regola il funzionamento della magistratura, per scelta, non è stata toccata". Però Renzi non ha risparmiato frecciate, quando ha parlato di "barbarie giustizialista" e di sentenze che arrivano troppo tardi. "Si riferiva non alle indagini ma alla loro strumentalizzazione. E la velocizzazione dei processi è uno degli obiettivi fondamentali della nostra azione di governo". Il procuratore generale di Palermo Scarpinato sostiene che i giudici hanno il dovere di "vigilare" sull’attività dei politici. "Il controllo di legalità è un cardine dello Stato di diritto e dev’essere applicato a tutti. Questo è un servizio per la democrazia. Se però il racconto di questa attività si accompagna a generalizzazioni e banalizzazioni che coinvolgono intere categorie di persone anziché i singoli implicati in un illecito, allora si rende un cattivo servizio alla democrazia, perché non si mettono i cittadini nella condizione di distinguere. Questo vale per i politici come per tutti gli altri protagonisti delle istituzioni pubbliche". Che idea s’è fatto delle inchieste di Potenza, Napoli e Lodi che a vario titolo hanno investito rappresentanti politici, e nel caso di Lodi hanno provocato anche la censura di un rappresentante al Csm indicato dal Pd? "Non parlo delle inchieste in corso né della dialettica interna al Csm. Sarebbe curioso da parte mia mettere in guardia dal pericolo di esorbitare dalle proprie funzioni, anche nell’organo di autogoverno dei giudici, e poi cedere a considerazioni di tipo uguale e contrario". Allora parliamo di prescrizione: davvero avete trovato l’accordo grazie alla proposta del senatore verdiniano Falanga? "Di questo emendamento ho letto sui giornali, aspetto di vederlo presentato in un atto ufficiale. Noi cerchiamo accordi all’interno della maggioranza e interlocuzione con tutti, guardando al merito delle proposte. Se un’idea è buona non dev’essere respinta, da qualunque forza politica provenga. Anche se al di là della riforma, restano problemi di organizzazione degli uffici di cui ho parlato anche con l’Anm". Scontro magistrati e politica. Giusto che le toghe parlino, ma rinuncino a fare i pm di Alberto Cisterna Il Dubbio, 12 maggio 2016 Le opinioni di un consigliere del Csm sul prossimo referendum costituzionale sono da giorni il terreno di un confronto acceso soprattutto all’interno della magistratura e, poi, nella politica. Tra le toghe sono tanti, infatti, quelli che ritengono che bisognerebbe stare alla larga dalle urne sempre e comunque, anche quando sia in ballo una profonda riscrittura della Costituzione. Qualcuno obietta a costoro che autorevoli magistrati hanno preso parte ad altre competizioni in cui si discuteva di diritti fondamentali e di questioni istituzionali di rilievo (si pensi solo al famoso referendum sulla responsabilità civile) ed invoca i precedenti per non tacere ad ottobre. Mettere un po’ d’ordine non guasta. Primo. È vero che, in passato, correnti e singoli magistrati si sono schierati pro o contro certi quesiti referendari, per non dire delle incursioni contro innumerevoli iter parlamentari in materia di giustizia, leggi ad personam, prescrizione e così via. A spanne e in soldoni votare al referendum non è dissimile dall’approvare una legge: in tutti e due i casi si interviene in un percorso legislativo in atto e si ha la possibilità di trasformare le opinioni e le posizioni in voti. Quindi chi vuole che le toghe tacciano sulla riforma costituzionale dovrebbe anche pretendere il silenzio tutte le volte che in Parlamento si parla di diritti, di garanzie, di prescrizione, di carcere, di processi. È questo è inaccettabile, punto e basta. Secondo. L’approccio del premier alla (inevitabile) contesa con la magistratura è semplice, ma efficace: le toghe parlino con le sentenze. È loro dovere decidere e noi li rispettiamo in questa funzione. Ci mancherebbe. La trappola comunicativa è chiara e ha sortito molti più risultati di quanto si pensi. Il paese comincia a pensare che i giudici chiacchierino troppo e lavorino poco, vedi la riduzione delle ferie; che ci siano più convegni e libri sulla corruzione che processi; che le toghe invochino la prescrizione "lunga" per nascondere il fatto che i processi per malaffare sono molto, molto pochi. Abilmente il premier ricorda sempre i bassissimi numeri dei detenuti per corruzione e se ne lamenta. Terzo. In questa contrapposizione, pare chiaro, si annida uno scontro molto più profondo che punta ad una ricollocazione dell’intera magistratura italiana nello scacchiere istituzionale e mediatico della nazione. Rispetto a questo scenario chi sostiene che i magistrati possano discutere di riforme costituzionali, ma con moderazione esprime un punto di vista tutto sommato inutile che vuole conservare uno status quo ormai in dissoluzione. Se c’è una contesa elettorale ciascuno deve poter esprimere liberamente il proprio pensiero anche con durezza, salvo la diffamazione o l’ingiuria. Se le toghe, alcune toghe, lo vogliono hanno tutto il diritto di esporsi in pubblico come qualunque altro cittadino. Anzi a dire, la verità, la posizione pubblica di questo o quel magistrato è un esercizio di trasparenza molto meno pericoloso per la credibilità della magistratura dei tenebrosi inciuci, delle sussurrate raccomandazioni e delle sottili pressioni di cui lo stesso consigliere del CSM avrebbe parlato nella tormentata intervista. Quarto. E qui la questione si complica. Tutti i magistrati hanno diritto di esporsi nella competizione sul voto referendario o solo alcuni tra loro? Il pubblico ministero, nel nostro ordinamento, non può essere ricusato dall’imputato che lo ritenga parziale. Gode del privilegio dell’essere la "parte" del processo che l’inquisito non può contestare. Però un avviso di garanzia, una fuga di notizie, una perquisizione incide pesantemente sulla vita dei cittadini. Un potere grande che potrebbe giustificare il sacrificio di un piccolo self-restraint in campagna referendaria. I consociati hanno il diritto al silenzio dei propri inquisitori e il conseguente dovere di non sospettarli come contigui agli interessi di quella o di quell’altra fazione. Un equilibrio delicato, ma non impossibile. Nulla vieta a quelle stesse toghe di dismettere le vesti dell’inquirente per assumere quelli del giudice la cui terzietà e indipendenza ha ben altre tutele per i cittadini. È, comunque, miope pensare di concentrare tutta la discussione guardando all’ombelico delle prerogative dei magistrati (diritto di parola o dovere del silenzio) senza pensare alle preoccupazioni dei cittadini nel vedere, oggi, qualche toga in corsa verso i palchi referendari. Quel "parlino con le sentenze" potrebbe diventare lo slogan di tanti e anche le battaglie sul processo o sulla prescrizione potrebbero vedere la magistratura circondata dal fastidio di molti. Beniamino Migliucci (Ucpi): "politica in trappola se si fa dettare le leggi dall’Anm" di Errico Novi Il Dubbio, 12 maggio 2016 Secondo Davigo se non si fa la super prescrizione il Parlamento è corrotto: una logica manichea, dice il leader dei penalisti, che proveremo a smontare durante i nostri tre giorni di sciopero. "Certo che hanno paura". Beniamino Migliucci non ha dubbi: la politica è prigioniera della magistratura e dei suoi giudizi preventivi. Tende a legiferare "in modo da non mettersi contro le indicazioni dell’Anm". Adesso con Davigo è anche peggio. Il nuovo leader dell’Associazione magistrati alza il tiro di continuo. "Le sue uscite non sono state affidate al caso", secondo il presidente dell’Unione Camere penali. Che a sua volta ha scelto in modo non casuale le date dello sciopero dei penalisti: 24, 25 e 26 maggio. "Il 25 scadono i termini per la presentazione degli emendamenti al ddl sul processo penale, che contiene anche le norme sulla prescrizione". E proprio la "riforma" della prescrizione è il tema più caldo tra quelli che hanno spinto verso i tre giorni di astensione dalle udienze. La stretta sulla prescrizione dipende anche dall’ansia del governo di non farsi attaccare dalla magistratura nel pieno della campagna referendaria? Potremmo anche sganciare quest’ansia dalla scadenza referendaria. Si è sicuramente consolidata la tendenza, per la politica, a cercare un consenso semplice attraverso la legislazione penale. E a non mettersi contro le indicazioni della magistratura. Certo, ci sono le opinioni difformi di magistrati come Cantone, Nordio... Sono eccezioni isolate... Appunto. E la politica resta schiacciata dalla paura che, in caso di mancata approvazione delle norme suggerite dai giudici, chi dice che i politici sono tutti corrotti possa avere gioco facile. Se non approvo la prescrizione super dimostro che sono corrotto anch’io... Ecco. Si resta intrappolati in una visione manichea: il bene da una parte, il male dall’altra. Sono un po’ questi i termini in cui l’ha messa Davigo. Non vede segni di reazione, dal parte del governo? Sono contraddittori. Renzi ha detto giustamente che bisogna aspettare le sentenze. Poi però una candidata viene esclusa dalle liste del Pd perché è indagata per diffamazione. Se elimini quella candidata accrediti l’idea che le indagini costituiscano già una condanna. Teme che d’ora in poi si agirà in modo da togliere a Davigo ogni possibile argomento? Quello che passa è uno degli ultimi treni che ha la politica per affermare la propria autonomia e indipendenza dalla magistratura. Certo, il presidente dell’Anm è stato molto abile: ha alzato il livello dello scontro, ha detto che la politica è corrotta e che se non si fanno determinate leggi, il Parlamento dimostra di essere dalla pare di chi delinque. È il teorema di fondo... Ragionamento suggestivo quanto sbagliato: cosa dovremmo dire allora, che un magistrato che sbaglia dimostra che è tutta la magistratura a sbagliare? Vorrei ricordare una cosa. Prego... Al ministero della Giustizia, con Orlando, abbiamo almeno un avvocato nell’ufficio legislativo, ma in tutti i ministeri resta la netta maggioranza dei magistrati. Che scrivono le norme, le interpretano e le criticano pure. Nella tre giorni tenterete di fare anche chiarezza sui dati della prescrizione... Che peraltro sono già stati esposti con chiarezza dal Guardasigilli. Ha spiegato come ci siano uffici giudiziari con serie carenze di organico dove le prescrizioni non incidono affatto, a fronte di sedi meglio presidiate e con più procedimenti scaduti. Vuol dire che l’estinzione dei reati dipende da disfunzioni organizzative. E non dagli avvocati... Se lo Stato ha problemi di questo tipo, che si riflettono sull’applicazione dell’articolo 111 della Costituzione che impone la ragionevole durata dei processi, come può far ricadere la propria inefficienza sui cittadini, e allungare ulteriormente i processi con la prescrizione super? I dati di Orlando dicono anche che le prescrizione nella fase preliminare sono scese dal 70 al 60 per cento... Sì ma sono aumentate le prescrizioni in primo grado: vuol dire che i processi muoiono due minuti dopo la fine delle indagini. Siamo sempre lì. Se le Procure hanno ogni anno un 10 per cento di fascicoli che non vengono smaltiti, le prescrizioni sono inevitabili. Una legge che invece di proporre soluzioni per evitare quell’ingolfamento dice ‘allunghiamo tuttò è una legge truffa. Perché l’estinzione dei reati è diventata un tema così importante? Perché è connessa alla natura stessa del nostro processo. Allungare i termini significa dilatare soprattutto i tempi delle indagini. Il che vuol dire che la prova non si forma più nel contraddittorio tra le parti davanti al giudice, cioè nel processo, come prevede il nuovo codice di tipo accusatorio. Con la prescrizione e le indagini lunghissime si torna al modello inquisitorio. La vostra iniziativa davvero scuoterà il Senato? Nei giorni di astensione organizzeremo a Roma una manifestazione di cultura e politica giudiziaria. Saremo nei giorni degli emendamenti sulla prescrizione, noi discuteremo anche di intercettazioni, dell’uso di tecnologie invasive nelle indagini come i ‘trojan horsè, che ci portano verso uno Stato orwelliano, di sentenze della Cassazione che riteniamo regressive come quelle che non consentono la presenza del difensore quando si decide di sequestri. Dal punto di vista dell’Anm la vostra è una visione del mondo ribaltata... E noi ci auguriamo che la politica ascolti tutti: la magistratura come l’avvocatura e l’accademia, ma che poi abbia l’autorevolezza per fare una sintesi secondo gli equilibri previsti dalla Costituzione. Il consigliere Csm Morosini: referendum, noi giudici abbiamo diritto di parola di Errico Novi Il Dubbio, 12 maggio 2016 La sua è una piccola sfida. E anche una prova di tenuta a cui sottopone lo stesso equilibrio dei poteri. Dopo essere stato arrostito sulla graticola, il consigliere del Csm Piergiorgio Morosini riafferma la propria verità e dà un preavviso di rivincita: "Proseguirò a svolgere il mio ruolo esercitando fino in fondo su ogni tema le prerogative di pensiero, contributo ed elaborazione che competono a ciascuno di noi". Lo dice al plenum del Csm, a una settimana esatta di distanza dall’intervista della discordia, quella pubblicata dal Foglio che l’ex gip di Palermo ha radicalmente smentito. Morosini parla davanti agli altri componenti del Consiglio superiore. E sa di non affrontare una questione solo personale: il caso di cui è stato suo malgrado protagonista ne ha aperto un altro che riguarda tutti i magistrati d’Italia. E in particolare il loro eventuale schierarsi nella campagna sul referendum costituzionale. Il togato di Md sa di essere diventato il fulcro di una questione irrisolta. Lo dice chiaramente: "Una cosa che non potrei perdonarmi è se da questo episodio incredibile derivasse l’occasione per discutere di limitazioni dei diritti personali non solo dei consiglieri superiori, ma di tutti i magistrati italiani". E in effetti né il vicepresidente del Csm Legnini né il ministro della Giustizia Orlando sono in grado di tracciare i precisi confini dell’intervento delle toghe nel dibattito. Lo si capisce dalle parole che i due affidano ai cronisti poco prima che Morosini prenda la parola. Al termine del loro previsto incontro, il numero due di Palazzo dei Marescialli e il guardasigilli ribadiscono: "Nessun bavaglio ai magistrati". Orlando anzi chiarisce che nel colloquio con Legnini "non si è parlato di referendum, questa riflessione compete al Csm". Competenza peraltro limitata all’agire dei soli componenti dell’organismo di autogoverno. Su tutte le altre toghe del Paese non c’è codice di autoregolamentazione che tenga. Esiste già il decreto del 2006 che dice tutto, o quasi. Cosicché al ministro della Giustizia si unisce lo stesso vicepresidente del Consiglio superiore: "Io ho già detto che è l’Anm a valutare le regole di comportamento dei magistrati". Certo, il Csm "assumerà qualche orientamento". Si riferisce alla riunione fissata per stamattina, a cui ne seguirà ancora un’altra, convocata per concordare una delibera sulla partecipazione alla contesa politica, e a quella referendaria in particolare. Che si tratti di un gentleman’s agreeement o di un vero testo, sarà riferibile ai soli componenti del Consiglio superiore. Morosini se vorrà potrà dunque dire la sua, al massimo dovrà evitare di iscriversi al comitato per il "no": su questo ormai non ci sono dubbi. Con lui, tutta la corrente di "Area", quella più insofferente agli inviti, pure accennati ieri da Orlando e Legnini, a "una vigilanza e una fortissima attenzione sul fatto che i pareri del Csm siano legati alle funzioni istituzionali", parole del guardasigilli. Un tentativo più che altro di evitare che, per qualunque ragione, i media possano attribuire ai magistrati posizioni troppo "forti" come quelle intestate a Morosini. L’opera preventiva di Orlando è legittima e risponde a preoccupazioni del Quirinale, non a quelle di Renzi, esattamente come per il vicepresidente del Csm. Ma è ormai chiaro che le toghe di "Area" misureranno e contesteranno ogni tentativo di limitare le loro opinioni sul referendum. Tanto che lo stesso premier appare, su questo, rassegnato: "Sono rispettoso delle dinamiche istituzionali, ci sono delle regole da rispettare. Su come si organizzano i magistrati so che non devo mettere bocca, perché lo dice la legge, a norma della Costituzione: sono indipendenti dall’esecutivo. È la divisione dei poteri, come insegna Montesquieu. Non dirò una sillaba". Salvo ribadire che se perde il referendum ha chiuso con la politica. Il presidente dell’Anm Davigo: "comprendere le cause della corruzione" di Ciccio Marra Il Dubbio, 12 maggio 2016 "È illusorio pensare di fare concorrenza alle mazzette con lo stipendio, però dobbiamo tenere la gente che lavora nella pubblica amministrazione libera dal bisogno". A fornire una lettura quasi sociologica della corruzione è stato il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, intervenuto in un seminario promosso dall’Asl di Taranto e dall’Ordine dei giornalisti di Puglia. "Se vediamo che un ingegnere prende poco più di una dattilografa o di un’impiegata, è chiaro che se ne va dalla pubblica amministrazione" ha aggiunto l’ex pm di Mani Pulite, che già lo scorso 29 aprile a Milano aveva rimarcato che paradossalmente non è la polizia schierata nelle strade a garantire sicurezza. Con un approccio analitico e concreto, Davigo ha invece spiegato che si può frenare la tentazione per il malaffare riscoprendo a esempio un’illustre sconosciuta, la meritocrazia: "Occorre creare l’orgoglio dell’appartenenza. A chi ha detto con fastidio "cosa vogliono questi magistrati", rispondo che occupano il posto perché quantomeno hanno vinto il concorso. In un Paese dove purtroppo il merito non conta nulla, ripristinarlo sarebbe sicuramente un grande passo avanti". Alla platea universitaria il capo dell’Anm ha parlato anche di competenze e opportunità: "La pubblica amministrazione spesso ricorre a consulenti che hanno rapporti col mondo delle imprese ed è un po’ difficile che ci entrino in conflitto". I collaudi delle opere, spesso non adeguatamente rigorosi spettano invece a ingegneri e tecnici già in organico. Davigo ha voluto rimarcare l’operato di un maresciallo delle Fiamme Gialle, che arrestò un imprenditore che gli aveva promesso 200 milioni di lire per evitare una verifica fiscale. Un comportamento virtuoso, simile a quello di un alto manager francese formato alla Scuola superiore di Parigi che, esaurito il suo compito alla guida di un’importante azienda del suo paese, tornò al ministero delle Finanze. A chi evidenziava che avrebbe guadagnato molto meno lui rispose: "Sono al servizio dello Stato". L’ex sostituto di Milano ha quindi denunciato come in Italia il numero delle denunce di corruzione sia più basso di quello della "piccola" Finlandia (5,4 milioni di abitanti, ndr). Per il presidente dell’Anm "è necessario agire sulla serialità, perché chi compie atti del genere spesso è portato a ripeterli" e perseguire "tutti quelli che ricevono benefici e vantaggi dall’azione di corrotto e corruttore oltre al nocciolo di intermediari, a volte già espulsi dalla Pa". Lodo Falanga: i furti e le rapine esclusi dai processi più rapidi di Francesco Grignetti La Stampa , 12 maggio 2016 Tempi più veloci per la corruzione, ma niente priorità per i reati predatori. È il giorno del ripensamento, per il cosiddetto Lodo Falanga. Finalmente il testo del ddl è disponibile e di colpo gli entusiasmi si sono raffreddati. Già, perché l’idea di velocizzare i processi contro i reati di corruzione piace a tutti. Ma siccome sono troppe le tipologie di processi che avrebbero la corsia preferenziale, non si eviterebbe l’intasamento e la mannaia della prescrizione. Il governo mostra la massima cautela. "Per ora - dice il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - ne ho letto sui giornali. Attendo il testo dell’emendamento per fare una valutazione. Siamo aperti a qualunque proposta che ci faccia fare dei passi avanti e ci aiuti a costruire una strada comune all’interno della maggioranza, anche se viene dall’esterno della maggioranza". Il Guardasigilli si attende sempre una mediazione al Senato che permetta di superare il blocco sul punto dei tempi di prescrizione per la corruzione e faccia ripartire la riforma. Resta il muro contro muro, però. Ncd insiste che non è tollerabile un processo infinito. Il Pd vuole "un segnale" di severità e non pare disposto a buttare a mare l’emendamento Ferranti (che aumenta di altri 6 anni la prescrizione per la corruzione) in cambio di una aleatoria corsia preferenziale. È eloquente al riguardo la battuta di David Ermini, il responsabile Giustizia del Pd, renzianissimo: "Quelle corsie preferenziali dei tribunali del Lodo Falanga mi sembrano tanto le corsie preferenziali degli autobus a Firenze, sempre intasate...". Del problema è consapevole lo stesso senatore verdiniano, che scrive: "È chiaro che una dilatazione eccessiva delle priorità finirebbe per contraddire le stesse ragioni della loro esistenza". C’è da sapere infatti che godono di priorità nella fissazione dei dibattimenti i processi per mafia e terrorismo; quelli con imputati detenuti; quelli da celebrare con rito direttissimo; quelli per violenza sessuale, stalking e maltrattamenti in famiglia; per le morti sul lavoro; per violazione alle norme in materia di circolazione stradale; per i reati collegati all’immigrazione clandestina. Infine tutti i processi che vengono puniti con pena superiore nel massimo a 4 anni, ovvero i cosiddetti reati di allarme sociale. E peraltro la corruzione già vi rientrerebbe. Falanga prevede di scacciare dalla corsia preferenziale i reati predatori e quelli collegati all’immigrazione clandestina per fare spazio ai procedimenti per corruzione. Insorge allora il senatore Carlo Giovanardi, del gruppo Idea: "Ma così facendo, cioè togliendo la priorità di trattazione ai reati che destano più allarme sociale, come ad esempio il favoreggiamento e lo sfruttamento della immigrazione clandestina, la rapina non aggravata, il furto in appartamento, eccetera, il Lodo Falanga è un disastro". È d’accordo, per paradosso, anche Donatella Ferranti, Pd: "Vuole togliere la priorità ai reati predatori, tipo l’usura o la rapina semplice... Ma che è impazzito?". Il tritolo per il pm anticamorra. Un piano per colpire il procuratore Colangelo di Adriana Pollice Il Manifesto, 12 maggio 2016 Il traffico di armi e droga sarebbe il filo conduttore dei rapporti tra il boss di Gioia del Colle, Amilcare Monti Condesnitt, e la camorra napoletana. In virtù degli affari comuni, i clan avrebbero commissionato al pregiudicato pugliese l’attentato contro il procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo. La Dda ha scoperto il piano grazie alle rivelazioni di un pentito. Monti Condesnitt fu arrestato nel 2008, in una operazione della guardia di finanza barese: con lui c’erano criminali pugliesi e alcuni camorristi, sul piatto c’era lo scambio di armi da guerra provenienti dai Balcani con partite di droga. Da queste accuse, nell’aprile 2015, Monti e gli imputati napoletani, tra cui il camorrista di San Giorgio a Cremano Bruno Abate, sono stati assolti dal Tribunale di Bari "perché il fatto non sussiste". Per accuse simili, però, Monti, è stato condannato in primo grado nell’ottobre 2014 a 17 anni e 4 mesi di reclusione. Le rivelazioni di un collaboratore di giustizia vicino alla Sacra corona unita, ma di origini napoletane, rilasciate alcune settimane fa, hanno rimesso la Dda di Bari sulle sue tracce del piano criminale. Il pentito, attualmente detenuto in carcere, avrebbe rivelato la confidenza fattagli dallo stesso boss di Gioia del Colle: la camorra avrebbe commissionato a Monti l’acquisto di oltre mezzo chilo tritolo, un quantitativo pari a 12 bombe a mano, trasportato poi da Bitonto alla tenuta dove Monti abita a Gioia, da utilizzare per far saltare in aria Colangelo. Il materiale è stato rinvenuto alla base di un albero. Gli investigatori della squadra mobile di Bari avevano mantenuto il riserbo sull’utilizzo del tritolo sequestrato lo scorso 29 aprile. Oltre a Monti Condesnitt erano stati sottoposti a fermo il suo braccio destro e altri tre gregari, accusati di detenzione e porto di armi da sparo ed esplosivo. Stamattina davanti all’ingresso principale della Dda di Napoli, il Movimento per la lotta alla criminalità organizzata, di cui è presidente il testimone di giustizia campano Luigi Coppola, terrà un flash mob in solidarietà al procuratore. A Colangelo è stata rafforzata la scorta: "Continuerò a fare il mio lavoro al servizio dello stato, fin quando mi sarà richiesto" è l’unica battuta che ha rilasciato ieri ai cronisti. Si è limitato ad assicurare, parlando con i suoi, che non chiederà il trasferimento. Secondo alcune indiscrezioni, nel mirino ci sarebbe stato anche un pm della procura. L’azione della magistratura sta indebolendo i clan nel centro cittadino, nell’hinterland e nell’area casertana. Ieri, ad esempio, c’è stato l’arresto di sei funzionari di banca accusati di riciclare i soldi del clan Zagaria, e la cattura del latitante Umberto Accurso, indiziato di essere il mandante dell’assalto alla caserma dei carabinieri di Secondigliano, bersaglio di decine di raffiche di kalashnikov. L’attentato doveva servire a bloccare l’attività di contrasto. Tutti i magistrati dell’ufficio, procuratori aggiunti e sostituti, hanno firmato un documento di solidarietà a Colangelo. Un documento con il quale rilanciano l’allarme per la sicurezza dei pm impegnati nelle indagini più delicate. Una situazione ad alto rischio che vivono i magistrati: gran parte dei pm, compresa la metà dei sostituti della Direzione distrettuale antimafia, "non hanno alcuna tutela". Uno scenario sintetizzato dal pm della Dda Henry John Woodcock: "Da una parte tutti i magistrati della procura di Napoli si devono stringere compatti attorno al procuratore della repubblica formando uno scudo ideale e dall’altra, chi ha la competenza per farlo, deve affrontare in modo concreto il problema allarmante della sicurezza". Secondo il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, contro le mafie "tutto quello che si può fare viene fatto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia le mafie non esisterebbero se non avessero rapporti con la società civile, con il mondo delle istituzioni, il mondo delle imprese, delle professioni. Quel che serve è isolarle recidendo i legami anche economici che le legano anche alla cosiddetta economia legale. Per ottenere questo risultato ci vuole un lavoro culturale che è stato avviato ma che ancora deve essere portato avanti con determinazione". Induzione indebita per i Carabinieri che prendono soldi da commercianti cinesi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 11 maggio 2016 n. 19506. Induzione indebita e non concussione per due carabinieri che nell’ambito di controlli volti alla repressione dell’immigrazione clandestina e dello sfruttamento della manodopera, ottengano da commercianti cinesi la dazione di somme di denaro che vanno dai 100 ai 3mila euro per volta. La Corte di cassazione, con la sentenza 19506/2016, ha infatti respinto il ricorso dei pubblici ufficiali contro la decisione della Corte territoriale che aveva riqualificato il reato. In primo grado, i militari erano stati condannati per il reato di cui agli articoli 110, 81 e 317 (Concussione) del codice penale per avere, in concorso tra loro, in tempi diversi e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, costretto gli extracomunitari a corrispondergli il denaro. La Corte di appello di Bologna, però, ha diversamente qualificato il fatto riconducendolo all’articolo 319-quater del Cp (Induzione indebita a dare o promettere utilità), rideterminando la pena in tre anni e quattro mesi di reclusione, ed applicando ad entrambi gli imputati l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. I ricorrenti, si erano opposti alla riqualificazione sostenendo, fra l’altro, la non corretta valutazione della locuzione "come facciamo", utilizzata dai carabinieri durante la commissione del reato, escludendo che ad essa potesse attribuirsi, come invece fatto in appello, un significato "induttivo-persuasivo". Il motivo è stato però dichiarato inammissibile perché volto a mettere in discussione il materiale probatorio già vagliato dalla Corte "pervenuta ad una diversa e più mite, nel trattamento sanzionatorio, qualificazione del fatto-reato". Non solo, sempre per i ricorrenti "alla derubricazione del reato per difetto di costrizione dei pretesi soggetti passivi, avrebbe dovuto accompagnarsi la declaratoria di prescrizione del reato, risalendo l’ultimo episodio concussivo all’anno 2006". Ma anche questo motivo è stato bocciato considerato che al momento della sentenza di secondo grado nessuna prescrizione, "pure per la nuova ritenuta qualificazione giuridica", era maturata. Riguardo poi alla diversa doglianza che lamentava una compromissione del diritto di difesa per via della mancata comunicazione "in tempo utile" della riqualificazione giuridica agli imputati, la Suprema corte ha affermato che "l’attribuzione all’esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del Pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza". Né alcuna lesione dei principi costituzionali e di quelli della Corte Edu quando "la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini, in concreto, una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono". E così era avvenuto nel caso affrontato dove "si è registrato, tra il primo ed il secondo grado, il passaggio da una condanna per concussione (art. 317 cod. pen.) ad una per induzione indebita (art. 319-quater cod. pen.), nella identità dell’abuso perpetrato dal pubblico ufficiale e della dazione o promessa indebita finalizzata al conseguimento, ad opera del primo, di denaro o altra utilità". Reato di intercettazione di comunicazioni per chi installa uno "skimmer" al bancomat di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2016 Corte d’appello di Roma - Sezione I penale - Sentenza 2 febbraio 2016 n. 183. Installare su uno sportello Atm uno skimmer, ovvero uno strumento idoneo alla captazione dei codici segreti inseriti nelle bande magnetiche delle carte di credito o bancomat, ed utilizzare i codici così ottenuti per prelevare denaro configura il reato di "installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche", previsto dall’articolo 617-quinques c.p. In tal caso si verifica una intercettazione nelle comunicazioni riservate, finalizzata al conseguimento di un indebito vantaggio. La Corte d’appello di Roma con la sentenza 183/2016 indica così il corretto inquadramento penale della clonazione delle carte di credito allo sportello bancomat. La vicenda - I tre uomini tratti a giudizio per il reato di cui all’articolo 617-quinques c.p. erano stati scoperti per una pura casualità. Infatti, un sottufficiale della Guardia di Finanza, mentre effettuava un prelievo di denaro da un Atm, si era accorto della presenza di uno skimmer e lo aveva staccato e consegnato ai Carabinieri. In seguito alle indagini condotte da questi e dalla Polizia postale, era stata individuata una vera e propria banda formata dai tre imputati, i quali avevano posizionato su diversi sportelli bancomat tali congegni elettronici capaci di catturare i codici segreti delle carte degli ignari correntisti. Si era poi appurato che con i codici captati erano state effettuate da alcuni complici numerose operazioni di prelievo di denaro contante presso sportelli automatici in Indonesia, Vietnam e Filippine, per un ammontare totale di più di 40mila euro, con circa 80 persone vittime del raggiro. La decisione - Già in primo grado i tre imputati erano stati condannati e la Corte d’appello capitolina conferma quanto già disposto dal Tribunale circa la configurabilità della fattispecie di installazione di apparecchiature atte ad intercettare. Per i giudici, infatti, nella specie non si configura la frode informatica di cui all’articolo 640-ter c.p., come richiesto dalla difesa, bensì il reato di cui all’articolo 617-quinques c.p. che è stato ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità idoneo a punire la condotta di chi, ad esempio, aveva posizionato nel postamat di un ufficio postale una fotocamera digitale, o di chi aveva posizionato presso un Atm uno scanner per bande magnetiche con microchip per la raccolta e la memorizzazione dei dati. In tali casi, come anche nel caso di specie, l’installazione abusiva implica l’intercettazione e l’inserimento nelle comunicazioni riservate, con indebita conoscenza delle stesse seguita dall’indebito utilizzo. Astensione del difensore dalle udienze camerali a partecipazione non necessaria Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2016 Difensore - Diritto di difesa - Astensione dalle udienze del difensore - Effetti su udienze camerali a partecipazione non necessaria - Necessità del rinvio - Sussistenza. L’astensione del difensore dalle udienze non è riconducibile nell’ambito dell’istituto del legittimo impedimento, in quanto costituisce espressione dell’esercizio di un diritto di libertà, il cui corretto esercizio, attuato in ottemperanza a tutte le prescrizioni formali e sostanziali indicate dalle pluralità delle fonti regolatrici, impone il rinvio anche delle udienze camerali a partecipazione non necessaria. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 5 febbraio 2016 n. 4819. Procedimento penale - Difensore - Astensione dalle udienze proclamata dalla categoria - Adesione all’astensione di categoria del difensore - Udienze camerali a partecipazione non necessaria - Diritto al rinvio dell’udienza - Condizioni. Il giudice, nella verifica del corretto esercizio del diritto di astensione, ha l’obbligo di prendere in considerazione le disposizioni del codice di autoregolamentazione, tra cui quelle dell’articolo 3, che fissano i termini e le modalità per la presentazione delle dichiarazioni di astensione, senza alcuna distinzione tra le udienze a partecipazione necessaria del difensore e quelle a partecipazione facoltativa. In presenza di dichiarazione di adesione del difensore all’iniziativa dell’astensione dalla partecipazione alle udienze legittimamente proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria, pertanto, la mancata concessione da parte del giudice del rinvio della trattazione dell’udienza camerale, in presenza di una dichiarazione effettuata o comunicata dal difensore nelle forme e nei termini previsti dall’articolo 3, comma 1, del vigente codice di autoregolamentazione, determina una nullità per la mancata assistenza dell’imputato, ai sensi dell’articolo 178 c.p.p., comma 1, lettera e), che ha natura assoluta ove si tratti di udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore ovvero natura intermedia negli altri casi. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 12 gennaio 2016 n. 848. Difesa - Diritto di difesa - Astensione dalle udienze - Procedimenti camerali a partecipazione non necessaria del difensore - Rinvio dell’udienza - Condizioni. In tema di astensione del difensore dalle udienze camerali a partecipazione non necessaria, è sufficiente, per il rinvio della trattazione, che il difensore comunichi, nelle forme previste, la volontà di astenersi, in quanto con tale comunicazione, sia pure implicitamente, manifesta la propria volontà di essere presente all’udienza a partecipazione facoltativa. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 30 novembre 2015 n. 47285. Difesa - Diritto di difesa - Astensione dalle udienze - Procedimenti camerali - Rinvio dell’udienza - Condizioni. In tema di astensione del difensore dalle udienze, il giudice anche nei procedimenti camerali deve rinviare l’udienza qualora il difensore, che aderisce allo "sciopero" proclamato dagli organismi rappresentativi di categoria, abbia manifestato in maniera univoca la volontà di presenziare. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 6 maggio 2015 n. 18681. Difesa - Diritto di difesa - Astensione dalle udienze - Udienze camerali a partecipazione non necessaria - Configurabilità del diritto al rinvio dell’udienza camerale a seguito di rituale adesione all’astensione di categoria - Trattazione del procedimento in assenza del difensore aderente all’astensione - Nullità a regime intermedio. Il diritto di astenersi dalle udienze, da parte del difensore che aderisca ad una protesta di categoria, è configurabile anche in relazione alle udienze camerali a partecipazione non necessaria, ai sensi dell’articolo 3, comma primo, del vigente codice di autoregolamentazione, il quale prevede l’astensione dalle udienze e dalle altre attività in cui è prevista la partecipazione del difensore, "ancorché non obbligatoria", con la conseguenza che, qualora il relativo procedimento venga trattato in assenza del difensore, nonostante questi avesse ritualmente manifestato e comunicato la propria adesione all’astensione di categoria, si determina una nullità a regime intermedio per la mancata assistenza dell’imputato. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 14 maggio 2014 n. 19856. I giudici islamisti del tribunale di Bari di Piero Sansonetti Il Dubbio, 12 maggio 2016 Sono state presentate le motivazioni della sentenza con la quale i giudici di Bari in novembre condannarono a sette anni e dieci mesi di reclusione Gianpaolo Tarantini, accusato di avere portato un certo numero di ragazze - a pagamento - a casa di Berlusconi. L’impressione è che ci troviamo di fronte a un documento di un tribunale islamico che applica le parti più medievali della Sharia. Mescolando un bel po’ di pregiudizi e soprattutto di fobie sessuali. Trascriviamo qualche brano: "Le ragazze consentivano a soddisfarne anche le più perverse pulsioni erotiche addirittura attraverso la consumazione di rapporti saffici". Evidentemente i giudici che hanno emesso la sentenza considerano l’omosessualità femminile non solo una perversione sessuale, ma la peggiore delle perversioni sessuali ("addirittura..."). Più avanti si legge: "le abitudini di vita e i reprensibili costumi extraistituzionali dell’allora premier, protagonista delle cene (poco) eleganti organizzate nelle sue residenze, beneficiando della costante, imprescindibile presenza di avvenenti, provocanti, disinvolte, spregiudicate, disinibite e soprattutto giovanissime donne che volevano dare una svolta alle loro (talvolta, a dir poco modeste) vite". Ora, è ben vero che Matteo Renzi recentemente ha invitato i magistrati a parlare con le sentenze. Però forse non pensava a sentenze di questo tipo. Siamo sicuri che i giudici debbano decidere sul grado di disinibizione di una ragazza (e siamo sicuri che la disinibizione, in una donna, costituisca reato)? O che debbano stabilire il grado di nobiltà o di miseria delle loro vite? Siamo sicuri che un cittadino, che in teoria dovrebbe essere protetto dalla Costituzione e dal codice penale, debba correre il rischio di essere giudicato da magistrati che la pensano così? Oppure, voi dite, tutto è lecito, in fondo, purché serva a sputtanare Berlusconi? Milano: il cappio e la cella, lo strano caso del suicidio di Alessandro di Arianna Giunti L’Espresso, 12 maggio 2016 Il 18 febbraio 2012, dopo 4 mesi di detenzione, Alessandro Gallelli fu trovato cadavere in una cella singola del Centro di osservazione neuro psichiatrica del carcere milanese di San Vittore. Impiccato. Nella perizia si legge: "Come avrebbe potuto il detenuto in poco meno di mezz’ora praticare un ingegnoso aggancio di una felpa e farla ripassare meticolosamente attraverso la robusta retina che proteggeva la finestra?". La morte di Alessandro Gallelli, 21 anni appena compiuti, è un mistero che dura da quattro anni. Le modalità troppo macchinose, il sospetto che sia stato vittima di punizioni per il suo stato mentale. E quella frase detta alla madre: "Mi trattano male, qui è un inferno, qui ho conosciuto la vera malvagità". Secondo il giudice civile è impossibile credere alla versione del carcere. Appeso alle sbarre della cella con il collo infilato in un cappio ricavato dalla manica di una felpa fatta passare, meticolosamente, attraverso i piccoli fori di una finestra a griglia. Un suicidio insolito e laboriosissimo che sarebbe stato pensato e messo in pratica in meno di 30 minuti. E una frase, pronunciata poco prima di morire, che oggi assume contorni inquietanti: "Mi trattano male, qui è un inferno, qui ho conosciuto la vera malvagità. Vi prego, se è un gioco, adesso basta". La morte di Alessandro Gallelli, 21 anni appena compiuti, è un mistero che dura da quattro anni. Il 18 febbraio 2012, dopo 4 mesi di detenzione, Alessandro fu trovato cadavere in una cella singola del Centro di osservazione neuro psichiatrica del carcere milanese di San Vittore. Impiccato. Un "suicidio senza ombre", secondo la direzione del carcere e l’autorità giudiziaria che dispose l’autopsia del cadavere e aprì d’ufficio un’inchiesta. "Una vicenda poco chiara", invece, secondo il Tribunale Civile di Milano, che proprio di recente ha condannato in primo grado il Ministero della Giustizia a risarcire la famiglia del ragazzo. Secondo il giudice civile, infatti, che per scrivere la sentenza si è basato anche sulla perizia effettuata sulla cella dove avvenne la morte, appare "poco chiaro" come il detenuto (sottoposto a sorveglianza a vista) potesse essere riuscito a portare a termine "l’ingegnoso e laborioso suicidio" in meno di mezz’ora, nell’intervallo fra un controllo e l’altro da parte dell’agente della penitenziaria. In quella cella, insomma, scrive il giudice, il 21enne avrebbe dovuto essere controllato 24 ore su 24. E non fu fatto. Chi non ha mai creduto alla versione ufficiale dell’istituto di pena sono i genitori di Alessandro. Che oggi proprio alla luce della sentenza civile lanciano un appello - raccolto dal garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano Alessandra Naldi e quindi trasmesso attraverso un esposto al garante nazionale Mauro Palma - nel quale chiedono che siano fatte nuove indagini. E che ci sia dunque un processo penale a stabilire i fatti e le responsabilità di chi, quel giorno, avrebbe dovuto vigilare su un ragazzo mentre era sotto custodia dello Stato e che invece fu riconsegnato cadavere. A far finire Alessandro in manette è stata, soprattutto, una lunga serie di bravate unite a un consumo abituale di cannabis e a una personalità borderline difficile da gestire. Nell’ottobre 2011 ecco la classica goccia che fa traboccare il vaso: alla fermata dell’autobus palpeggia il sedere di una ragazza di 16 anni. Per il codice penale non esistono sfumature: finisce in carcere con l’accusa di violenza sessuale. I capi di imputazione si sommano ad altri reati e così, nonostante incensurato, gli vengono negati i domiciliari. Il ventenne, originario del Legnanese e calciatore dilettante, viene portato da subito al secondo piano del sesto raggio di San Vittore, nella sezione dove vengono rinchiusi i cosiddetti "detenuti protetti", ovvero quelli che hanno commesso reati cosiddetti "infamanti" (pedofili o violentatori) ma anche transessuali, omosessuali, ex appartenenti alle forze dell’ordine. Uno stato di isolamento che, in teoria, dovrebbe proteggere i prigionieri ritenuti più a rischio dalle violenze da parte degli altri detenuti. Ma che, in pratica, acuisce il senso di alienazione di chi si trova lì. Alessandro comincia a dare in escandescenze. Rifiuta di prendere gli psicofarmaci che gli vengono prescritti dai medici. Un giorno, per protesta, allaga la cella. Viene trasferito al Centro di Osservazione Neuro Psichiatrica, il Conp. Dopo poco tempo finisce nella cella numero 5 in fondo al corridoio. Da solo. Una sera la madre del ragazzo guarda in tv un documentario sulle morti in carcere. E ha un tremendo presagio. "Avevo capito subito che quello non era il posto adatto a lui, che doveva andarsi a curare in una comunità o che comunque non doveva rimanere da solo in quella cella - racconta oggi Mirella Maggioni a l’Espresso - ho provato a spiegarlo alla direzione del carcere ma non c’è stato verso. Mi hanno risposto: suo figlio ha dei problemi psichiatrici e deve rimanere lì". Quella di Alessandro è appunto l’ultima cella in fondo al corridoio. Lontana da tutto e da tutti. Nel centro della stanza c’è un letto, senza lenzuola. L’unica finestra è sbarrata da una robusta griglia e dalle sbarre esterne. Alessandro - conferma la documentazione del carcere - è sottoposto a sorveglianza a vista per scongiurare atti di autolesionismo. Non viene specificato, però, se l’osservazione debba essere "h 24". E così ogni trenta minuti un agente della penitenziaria lo controlla dalla finestra e annota sul registro cosa sta facendo. Il suo stato mentale, intanto, peggiora. Per Alessandro l’isolamento è vissuto come una discesa agli inferi. Durante gli incontri settimanali con i genitori il 21enne appare spesso assente e lontano. Altre volte piange e si dispera. "Mi trattano male, qui è un inferno - confida alla madre - io ho conosciuto la malvagità, qui c’è la vera malvagità". Per i medici del carcere - che continuano a prescrivergli psicofarmaci che lui si rifiuta di assumere - il ragazzo è "persecutorio e polemico". La mattina del 18 febbraio 2012 - documentano i registri del carcere - la giornata di Alessandro comincia con la solita routine. "Il detenuto fa colazione", annotano gli agenti. Nel pomeriggio, davanti a San Vittore, si svolge una manifestazione di "No Tav". C’è molto rumore, qualcuno fa scoppiare petardi. Alle 16.30 l’agente di turno passa davanti alla cella di Alessandro. "Il detenuto sta fumando", scrive. Alle 17, la nota è dello stesso tenore: "Il detenuto sta riposando". Trenta minuti più tardi Alessandro viene ritrovato appeso alle sbarre con il collo infilato in un cappio. "Cosa ci faceva un ragazzo giovanissimo e in attesa di giudizio, con problemi di salute mentale, in una cella che in passato era usata come cella di contenzione e probabilmente anche di punizione? Perché quel reparto del quale annunciano la chiusura da mesi è ancora oggi attivo?" si chiede Alessandra Naldi, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano. ?Il sospetto del garante, condiviso anche dall’associazione Antigone che si sta occupando del caso, è infatti che nella cella numero 5 - già oggetto di un’ispezione nel 2008 da parte del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa - fosse usata per "contenere" i prigionieri più difficili da gestire. ?"L’ultimo sopralluogo al Conp risale a qualche giorno fa - racconta ancora la Naldi - oggi in quella cella fissato al pavimento c’è un letto di contenzione fatto in ferro, dotato di robuste cinghie di cuoio, con le quali vengono legate le persone che danno in escandescenze. Ogni volta che le vedo, quelle cinghie sono abbondantemente sporche di sangue". Del fatto che Alessandro in carcere potesse essere stato vittima di punizioni, per via dei sui problemi psichici così difficili da gestire, sono assolutamente convinti i genitori del ragazzo. Che riferiscono, in particolare, un episodio: "Dopo la morte di Ale, ci sono stati riconsegnati i suoi vestiti in un sacchetto. Erano completamente bagnati. Quando abbiamo chiesto il perché, alcuni operatori ci hanno spiegato che in carcere, in inverno, a volte i detenuti vengono bagnati per punizione con un getto di acqua gelata". E alcune ombre sull’operato del carcere sono messe nero su bianco - appunto - anche dalla sentenza del Tribunale Civile che ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire la famiglia Gallelli. "La cella è dotata di una finestra protetta da una robusta retina e poggia su un’inferriata costituita da spesse sbarre di ferro - si legge nella perizia commissionata dalla X sezione civile del Tribunale di Milano - appare lapalissiano l’interrogativo di come il detenuto sia riuscito a far passare attraverso piccole aperture delimitate dai fili di ferro una felpa e poi agganciarla alle sbarre per poi farla rientrare dentro e infine usarla come cappio. Sembrerebbe un lavoro inauditamente lungo che richiede un oggetto contundente per divaricare o rompere i fori della retina di ferro. E sicuramente un soggetto intento a occuparsi di questo lavoro non potrebbe passare inosservato alla guardia carceraria, tenendo conto che si trova in SAV (sorveglianza a vista). Come avrebbe potuto il detenuto in poco meno di mezz’ora praticare un ingegnoso aggancio di una felpa e farla ripassare meticolosamente attraverso una retina del genere?". Di sicuro, però, a stabilire che la morte di Alessandro è stata un "tragico, imprevedibile e fulmineo suicidio" - sposando in pieno la versione ufficiale del carcere milanese - è già stata un’inchiesta aperta d’ufficio dalla Procura di Milano e condotta dal pubblico ministero Giovanni Polizzi. Che, basandosi sulle testimonianze e sui referti dell’autopsia, chiese l’archiviazione del caso. Sul corpo del ragazzo non furono trovati segni da poter far pensare a un scenario diverso dal suicidio. "Gallelli si trovava in quella cella perché aveva manifestato seri problemi psichiatrici ed era stata riscontrata la possibilità che potesse essere pericoloso verso se stesso e verso gli altri detenuti", è la ricostruzione di San Vittore contenuta negli atti. Ai genitori di Alessandro, però, quelle parole non bastano. La loro è una tenace ricerca della verità che non ha mai avuto pretese di giustizialismo a tutti i costi: "Noi non vogliamo trovare per forza un colpevole - prosegue la donna - però abbiamo il diritto di capire cosa sia davvero successo, ci deve essere un processo a stabilire se qualcuno è responsabile di quanto è accaduto lì dentro. Altrimenti esisterà sempre e solo una versione dei fatti: la loro". Mirella ricorda, in un tremendo flashback, il giorno in cui - solo dopo molta insistenza - le è stato mostrato il cadavere del figlio: "All’obitorio il corpo era sotto sequestro. Non potevamo neanche fargli un’ultima carezza. La sua bocca era spalancata, come se all’ultimo momento avesse provato a respirare con tutte le sue forze. Abbiamo chiesto se, per favore, potessero chiudere la bocca. Perché guardarlo era impressionante. E l’espressione di Ale si è tramutata in un sorriso". "Mio figlio non doveva essere abbandonato in quella cella come fosse un animale, era soltanto un ragazzo che aveva bisogno di aiuto - conclude la donna - per lo Stato, invece, Alessandro è soltanto l’ennesimo errore da dimenticare. Vicenza: l’Associazione Nessuno tocchi Caino "l’80% dei reclusi ha disturbi psichici" vicenzapiu.com, 12 maggio 2016 Il lavoro per i detenuti nelle prigioni venete è ancora una speranza: solo il 14,65% di loro lavora alle dipendenze di cooperative o imprese. Come dimostrato, su dieci detenuti che sviluppano la loro professionalità con orari e ritmi di lavoro solo tre ritornano a delinquere e quindi in carcere. E i nostri istituti, nonostante gli interventi normativi di riduzione, continuano ad essere sovraffollati come oggi a Verona (144%), a Vicenza (138%), a Venezia maschile (130%), a Belluno (109%), al circondariale di Padova (183%) dove 174 persone sono alloggiate in una struttura che ha una capienza regolamentare di 95 posti. È uno dei problemi posti da Maria Grazia Lucchiari, del consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino, all’attenzione di Manuela Lanzarin, assessore al sociale della Regione Veneto nel corso dell’incontro di oggi, a Venezia, a conclusione delle visite che gli attivisti dell’associazione del Partito Radicale hanno effettuato presso i penitenziari della regione. A fronte dell’attuale popolazione reclusa di 2081 persone, gli occupati in cooperative o imprese sono 129 a Padova casa di reclusione, 73 Verona, 30 Belluno, 30 Treviso, 27 Venezia femminile, 7 Vicenza, 0 Padova circondariale, 0 Rovigo. Per dare occupazione ai detenuti e favorire il reinserimento in società servono anche spazi che difficilmente ci sono in strutture vetuste e con scarsa manutenzione degli impianti idrici e di riscaldamento. D’altra parte molti detenuti sono costretti ancora in celle tra i 3 e i 4 metri quadrati, ben al di sotto dei 9 stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Nel 2015 nel carcere di Verona si sono verificati 108 atti di autolesionismo, la forma estrema di comunicazione quando nessun’altra è possibile, quando il recluso attende mesi per incontrare un educatore, la figura centrale che ha il ruolo di osservazione e trattamento della persona. Nelle carceri venete 32 educatori hanno in carico 2018 persone; così accade che un educatore deve seguire 95 detenuti come al circondariale di Verona o alla reclusione di Padova. A Belluno i 95 reclusi del penitenziario hanno un solo educatore. Sono 1410 gli agenti di polizia penitenziaria effettivamente in servizio nei penitenziari veneti. Secondo uno studio pubblicato da European Prison Observatory la parte maggiore del bilancio dell’amministrazione dei nostri penitenziari riguarda i costi del personale: ben l’82,9% della spesa. Resta molto poco per il mantenimento, l’assistenza e la rieducazione dei detenuti. Nel corso del colloquio, cui ha partecipato anche Fiorenzo Donadello, dell’associazione Luca Coscioni, sono state illustrate le criticità dovute alla presenza in carcere di una popolazione per molta parte straniera (68% Padova circondariale, 64% Belluno, 61% Verona, 60% Vicenza, 59% Venezia maschile, 50% Venezia femminile, 44% Treviso, 41% Rovigo, 38% Padova reclusione), e con un gravame di malattie come la positività alla TBC, disturbi della personalità e del comportamento, disturbi mentali alcol-correlati e disturbi affettivi psicotici trattati con la somministrazione di farmaci ansiolitici, antidepressivi, ipnotici e sedativi. Ma in generale sono in aumento i disturbi psichici anche nei detenuti italiani. L’80% dei reclusi del carcere di Vicenza soffre di patologie che richiedono la presa in carico del medico con conseguente fruizione delle terapie. Tra le note positive l’Icat al circondariale di Padova, una struttura che ospita 36 detenuti, con ampi spazi per la custodia attenuata degli alcol/tossicodipendenti (età 18-40) in esecuzione di pene conseguenti a reati connessi alla loro particolare condizione, con una intensa attività diretta al recupero e all’inclusione sociale. I tossicodipendenti nelle carceri venete sono 712 (34%). Lavoro e salute, le priorità nella sintesi della situazione carceraria in Veneto illustrata all’assessore al sociale Manuela Lanzarin, per un carcere che sia utile alla società e che recuperi le persone. Genova: finalmente Emanuele Macchi è stato trasferito dal carcere in ospedale di Franco Insardà Il Dubbio, 12 maggio 2016 "Oggi mi sento più sollevata. Sapere che Emanuele è in ospedale mi fa stare un po’ meglio". Al telefono Marinella Rita, moglie del terrorista di destra Emanuele Macchi di Cellere, ha la voce stanca, ma rilassata. Suo marito nella tarda mattinata di ieri è stato trasferito nell’ospedale Galliera di Genova, così come aveva consigliato il 3 maggio scorso il medico del carcere di Marassi che lo aveva visitato. "Un primo obiettivo - continua la signora Marinella - è stato raggiunto. Mio marito ha bisogno di cure, deve riprendersi un po’, altrimenti non potrà essere trasferito per avvicinarsi alla famiglia, come ha deciso il giudice di sorveglianza". La signora insiste su questo aspetto: "Emanuele è molto legato alla famiglia: ha soltanto me, due fratelli e una zia. La mamma è morta un mese fa e per lui è stato un altro duro colpo. Andarlo a trovare a Genova non è semplice, ci vado una volta al mese". L’ultima volta che ha sentito il marito è stato lunedì scorso: "Non ce la faceva neanche a parlare al telefono, lamentava un forte mal di gola. I fratelli sono andati a trovarlo sabato scorso e mi hanno riferito delle sue pessime condizioni di salute". Come aveva scritto nella sua lettera-appello: "Mio marito è entrato in carcere già malato: pregresso cancro squamocellulare alla testa, cecità assoluta all’occhio sinistro, gamba destra ridotta di 4 cm, osteomielite, discinesie, riconosciuto invalido al 100% dall’Inps. È su sedia a rotelle, non cammina più, il braccio sinistro è immobilizzato, ha le piaghe da decubito, sviene durante i colloqui. Non ricorda le cose dette un attimo prima, è pieno di lividi ed ematomi, pesa 44 chili". Macchi è in carcere per una condanna definitiva a 10 anni e mezzo per traffico di stupefacenti ed è indagato come uno dei mandanti del tentato sequestro finito in omicidio di Silvio Fanella, il cassiere di Gennaro Mokbel ucciso il 3 luglio 2014 nel quartiere della Camilluccia. A segnalare il caso è stato lunedì il blog di Ugo Maria Tassinari, Alter-Ugo, seguito da una serie di appelli: "Ringrazio tutti - conclude Marinella Rita - per la mobilitazione e in particolare il suo giornale che ha fatto la scelta di dedicare il titolo principale della prima pagina alla vicenda di mio marito". Lucca: chiesta la grazia per il detenuto al quale per errore fu asportato il rene sano gonews.it, 12 maggio 2016 Il legale del paziente a cui, per errore, è stato asportato un rene sano a Lucca, ha preparato la documentazione per la richiesta di grazia al presidente della Repubblica. Lo riferisce lo stesso difensore, Veronica Nelli. L’uomo, che ha 56 anni, è attualmente ancora in detenzione domiciliare provvisoria concessa dal magistrato di sorveglianza. Imprenditore, era stato condannato per bancarotta fraudolenta. In carcere, ha ricordato con i cronisti dopo l’errore in sala operatoria, "mi hanno salvato la vita". Il tumore al rene per il quale poi è stata eseguita l’operazione gli è stato diagnosticato in carcere, in seguito ad una serie di esami clinici. Dopo aver presentato l’esposto denuncia alla procura di Lucca che ha aperto un’inchiesta sul caso, l’avvocato Nelli afferma ora di aver già preparato tutta la documentazione per la domanda di grazia: "Entro pochi giorni la presenterò alla Procura generale della Corte d’appello", dice. Il suo assistito intanto sta ancora valutando tempi e modi per realizzare un nuovo intervento necessario dopo l’errore verificatosi in sala operatoria al San Luca di Lucca. Palmi (Rc): "sono innocente, dentro da 8 mesi e mia figlia è nata senza di me" di Rita Bernardini Il Dubbio, 12 maggio 2016 La vicenda di un ragazzo recluso sulla base di chat intercettate dalle quali non emerge il suo nome. È arrivato sotto casa di Marco e ha suonato al citofono: "ho bisogno di parlare con Pannella, vengo dalla Calabria, è importante". In quel momento Marco riposava. Con la malattia che l’ha colpito e che lo costringe a casa da più di due mesi, spesso è sveglio e attivo di notte ma di giorno dorme e quelle ore guadagnate al riposo sono preziose per il suo stato di salute. Matteo spiega a quell’uomo di mezz’età la situazione, ma nota la disperazione nei suoi occhi. Si fa così raccontare la storia e, come spesso accade in casi simili, gli consiglia di parlare con me. Dopo poco è qui nella sede del Partito Radicale; lo ricevo nel salone e fa del suo meglio per raccontare la sventura che è capitata a suo figlio trentenne? poi mi dice, legga questa, e mi consegna la lettera-fiume che il figlio detenuto a Palmi vorrebbe mandare a tutti i parlamentari e al ministro della Giustizia. Mentre leggo le appassionate e appassionanti 14 pagine scritte in stampatello, questo padre che le conosce a memoria avendole rilette chissà quante volte, singhiozza come un bambino indifeso e disperato. Anch’io mi commuovo e decido di chiedere a Piero Sansonetti e a Il Dubbio pubblicare la lettera. Trovo che in questi giorni in cui la custodia cautelare in carcere è ritornata d’attualità per l’incredibile vicenda del sindaco di Lodi, la storia di un ragazzo comune spieghi alla perfezione l’ignominia della carcerazione preventiva distribuita a piene mani, dell’affettività negata in carcere, delle condizioni prive di dignità alle quali sono sottoposte i detenuti. Ce n’è anche per Gratteri. A proposito, le proposte frutto degli "stati generali dell’esecuzione penale" che fine hanno fatto? La lettera dal carcere Sono G.F., ho 30 anni, vi scrivo dalla Casa circondariale di Palmi (Rc). Sono recluso in "custodia cautelare" dopo essere stato indagato come partecipe volto al recupero di carichi di stupefacenti destinati al Porto di Gioia Tauro, nell’ambito dell’operazione denominata "Santa Fè". In quanto operaio portuale dell’azienda che gestisce il porto, c’è da chiarire che le indagini in cui compaio riguardano il primo semestre del 2014, mentre già da ottobre 2013 ero in cassa integrazione e quindi non avevo nessun accesso al porto di Gioia Tauro da circa sei mesi prima dell’inizio delle indagini. Il paradosso è che mi ritrovo gravato di questo capo d’accusa, privato della libertà personale e soggetto alla carcerazione preventiva solo sulla base di supposizioni! Ecco che, sulla base di semplici indizi, di intercettazioni chat telematiche ? pin to pin ? Black Berry alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero collegare pienamente la mia persona con il soggetto delle acquisizioni documentali (eh già, dalle intercettazioni, cioè le chat, non emerge il mio nome, ma solo da uno pseudonimo si evince che tale persona sia io), mi hanno condotto in carcere. Mi è stata negata la possibilità di usufruire degli arresti domiciliari, richiesta avanzata al fine di attendere l’inizio del processo da casa mia, vicino ai miei cari e, in particolare, accanto a mia moglie che ha dovuto affrontare da sola la prima gravidanza e il parto. Il 14 ottobre 2015 è venuta alla luce la piccola M., frutto dell’amore tra me e mia moglie, ed io non ero presente, in quanto il gip di competenza ha rigettato l’istanza, presentata dai miei avvocati in data 8 ottobre, nella quale richiedevano di autorizzarmi ad assistere al parto e/o poter stare 4 ore in ospedale con mia moglie e la bambina. I motivi del rigetto sono i seguenti: "letta l’istanza e acquisito il parere del pm, rilevato che nel caso di specie non si rilevano i presupposti legittimi per la concessione del permesso, né quelli di eventi familiari di particolare gravità, l’istanza viene rigettata". Rigettata la possibilità di vivere un evento unico nella mia vita e in quella di mia moglie, la nascita di una figlia e addirittura la nostra primogenita! Mi sento paragonato al più potente dei criminali. Sono in galera, è vero, ma sulla base di supposizioni! Da mesi ogni richiesta mi viene negata con dure motivazioni. Ho presentato un’altra istanza al gip di competenza in data 22 dicembre 2015, dove evidenziavo la mancanza delle esigenze cautelari, dove ho dimostrato che non ci sono né il pericolo di fuga in quanto ho assunto da subito un atteggiamento di piena collaborazione, né l’inquinamento delle prove perché tutto il materiale in possesso dell’accusa sono intercettazioni di chat telematiche, né la reiterazione del reato perché essendo a casa non so come avrei potuto reiterare, tenendo conto anche della mia incensuratezza. Ma c’è di più. Ho documentato tutto quello che ero prima di essere tratto in arresto, io che ho sempre lavorato onestamente, componente attivo dei gruppi dell’oratorio parrocchiale fin da bambino, chierichetto in chiesa, portatore fedele con tanto di targhetta premio ricevuta nel 2012, da anni membro dell’Azione Cattolica Italiana, documentato con le copie dei vari tesseramenti dal 2008 ad oggi, dove mi sono sempre distinto per la mia attiva partecipazione. Innumerevoli sono le iniziative nelle quali ero coinvolto, tutte documentate da un corposo album fotografico e allegate all’istanza. Un ragazzo semplice, impegnato nel sociale e nelle iniziative benefiche, come la raccolta e la distribuzione della spesa alle famiglie più bisognose, fervente pellegrino presso i vari santuari italiani ed europei, in particolare a Lourdes dove da 8 anni non manco ogni 11 febbraio in occasione dell’anniversario della prima apparizione della Vergine Maria. Nella stessa istanza ho specificato e sottoposto all’attenzione del gip che mia moglie è impossibilitata a prestare le necessarie cure alla piccola, in quanto lei da circa un anno è proprietaria di un piccolo centro estetico, dove lavora solo lei, attività che la tiene impegnata dal martedì al sabato (salvo qualche trucco da sposa) dalle ore 9 alle 13 e dalle 15 alle 20, non potendo fare a meno del lavoro in quanto essendo io in carcere e sospeso dal lavoro, lei è l’unica fonte di reddito del nostro nucleo familiare. Comunque anche questa istanza viene rigettata con solo queste motivazioni, in sintesi: "non ci sarebbe l’impossibilità assoluta della madre della bambina ad accudirla e, negli orari di lavoro della stessa, la bambina potrebbe essere affidata a strutture pubbliche o a figure di riferimento idonee ad assicurare la tutela del minore". Lo Stato italiano mi sta negando la possibilità di conoscere mia figlia nei suoi primi mesi di vita, ma la cosa che mi fa più rabbia è che state negando alla piccolina la possibilità di avere l’affetto di un padre già nei suoi primi mesi di vita. Ho perso inoltre per la prima volta in vita mia, i preparativi per la festa della madonna solennemente festeggiata l’8 settembre, a cui sono devoto e alla quale non sono mai mancato fin da quando ero fanciullo. Conosciuto e stimato nel mio paese, incensurato? Ebbene mi ritrovo qui, recluso perché pericoloso! Mi preme il desiderio di essere fuori da qui al più presto per dare amore e vicinanza alla mia prima figlia e a mia moglie: loro hanno bisogno di me, io ho bisogno di loro! Il tempo delle indagini è lungo. Sono passati oramai 8 mesi, perché devo stare ancora recluso? Se il ricorso al carcere è l’ultima istanza, perché mi trovo qui? Ripeto: innocente, distante da mia moglie e dalla mia primogenita neonata, lontano dall’affetto dei miei cari. Mi chiedo che giustizia è rinchiudere una persona in carcere senza prove concrete. Sono innocente e mi sento profondamente amareggiato ed oltraggiato: perché devo subire in un paese democratico come il nostro tale sofferenza? Ora che io stesso mi ritrovo qui, capisco cosa significa essere privati della libertà pur non avendo nessuna colpa! Sicuramente questa brutta esperienza mi segnerà per sempre, per di più, perdere la libertà per un errore giudiziario è a dir poco vergognoso! Sono e continuerò a professare la mia innocenza. Mi auguro di essere tirato fuori da qui al più presto, spero che questo incubo termini in fretta, ma nel frattempo, quanto dolore per me e la mia famiglia! Chi mi darà questi giorni perduti? Quanti e quanti casi di suicidi in carcere riportano le statistiche? Ora capisco perché. È semplice perdere la ragione quando hai mille interrogativi e nessuna risposta. Ora capisco i continui scioperi e le battaglie dei radicali quali Rita Bernardini e Marco Pannella con riferimento alle carceri? loro sì che sono vicini ai detenuti e ne capiscono le sofferenze e le paure! Mi rivolgo anche al dottor Nicola Gratteri che seguo spesso nelle sue interviste e ho letto anche qualche suo libro. Gli vorrei fare una semplice domanda: "lei che affronta da tempo il tema complesso della lotta alla "‘ndrangheta" ma anche il traffico di droga, si pone la domanda di quante persone possono essere in carcere da innocenti? Perché di ciò non ne parla mai? È molto facile additare qualcuno ma poi si riesce a chiedere scusa in caso di errore? In conclusione, chiedo ascolto poiché in galera ci si può finire anche per un errore (questo è ciò che è capitato a me) e non solo per una scelta di vita perché si commettono azioni delittuose, perciò può capitare a tutti. Adoperatevi e fate qualcosa affinché le persone innocenti detenute per errore non trascorrano nemmeno un istante e nel peggiore dei casi non finiscano a marcire nelle galere, nell’indifferenza generale. Questo luogo che mi è sempre sembrato così lontano, una realtà che non avrei mai vissuto grazie alla mia irreprensibile condotta di vita, ora lo sto vivendo, mi avvolge e mi penetra fino nel profondo. Lanciano (Aq): detenuto palermitano riceve autorizzazione per inseminazione artificiale abruzzo24ore.tv, 12 maggio 2016 Un detenuto di 45 anni di Palermo ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione per avere un figlio con l’inseminazione artificiale, Fabio Cucina, pluricondannato per traffico di droga, uscirà dal carcere non prima del 2023 ma in autunno diventerà padre per la terza volta. La procedura è stata permessa dalla direzione del carcere di Lanciano, in Abruzzo, dopo che - per motivi pratici - non era stata ammessa nel carcere palermitano di Pagliarelli. Più volte riconosciuto colpevole di una serie di traffici di sostanze stupefacenti, Cucina deve scontare un cumulo di pene per complessivi 24 anni, salva la possibilità di una nuova condanna per un altro processo ancora. Il permesso è passato attraverso i nulla osta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dell’Azienda sanitaria provinciale di Chieti, che ha effettuato i necessari controlli igienico-sanitari e fornito assistenza con psicologi e servizi sociali. Un’azienda privata si è poi occupata degli aspetti pratici. È stato lo stesso Cucina a voler rendere nota la circostanza. Originario del quartiere dello Sperone e di Brancaccio, vicino a personaggi mafiosi come Leonardo Grippi e Andrea Bonaccorso (quest’ultimo oggi pentito), il detenuto non è mai stato ritenuto responsabile di aver agito per conto di Cosa nostra. In passato i boss della sua zona, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, riuscirono a inseminare le mogli dal carcere, senza mai avere avuto alcuna autorizzazione. I figli sono oggi quasi diciannovenni e non si è mai scoperto come siano nati. Stessa cosa per Salvino Madonia, killer dell’imprenditore Libero Grassi, padre di un ragazzo (oggi anche lui quasi maggiorenne) generato "in cattività", senza che mai si sapesse come avesse potuto fare. Cucina, pesce più piccolo ma non troppo, ha scelto invece la via della legalità. Alghero: il carcere diventa centro per immigrati? Interrogazione della Lega alla Camera admaioramedia.it, 12 maggio 2016 Nei giorni scorsi, Mauro Pili, aveva denunciato che dietro la smobilitazione del carcere di Alghero ("Da dicembre non entra alcun nuovo detenuto e continuano a uscirne") si nasconde il progetto di trasformarlo in un centro di accoglienza per immigrati, "così come già pianificato - ha aggiunto il deputato di Unidos - per i carceri di Macomer, Iglesias, Quartucciu e la scuola penitenziaria di Monastir. Chiudere il carcere e trasformarlo in centro per migranti è pura follia. Si tratta di un piano da bloccare in ogni modo". Contrariato anche il sindaco catalano, Mario Bruno: "Non è accettabile, è una struttura nel pieno centro della città e una sua eventuale dismissione e riconversione deve necessariamente trovare il pieno e convinto coinvolgimento dell’amministrazione e dei cittadini". Nonostante la smentita ufficiale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), prende posizione anche il Movimento Noi con Salvini: "Siamo contrari all’ipotesi di tramutare il carcere di Alghero in centro accoglienza per clandestini - ha detto Luigi Todini, coordinatore provinciale sassarese, annunciando che Nicola Molteni, deputato della Lega Nord, ha presentato alla Camera un’interrogazione sul tema al Ministro della Giustizia ed al Ministro dell’Interno - Non possiamo più accettare che la Sardegna e il nostro territorio vengano considerati come una ‘nuova Lampedusà e siamo allarmati dalle previsioni di circa 3.000 nuovi arrivi nella nostra isola entro la fine dell’estate". Nell’interrogazione, il deputato legista critica "la chiusura del carcere, visto l’irrisolto problema del sovraffollamento carcerario", considerandolo "un atto privo di logica e contrario a comportamenti coerenti con le politiche di respingimento, oltre che arrecare un grave allarme sociale, all’interno della comunità di Alghero". Milano: detenuto in permesso premio violenta una 16enne di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 maggio 2016 Arrestato un detenuto che aveva quasi finito di scontare tutta la sua pena per rapina. Statisticamente farà parte dello "zero virgola" per cento di reati commessi da detenuti in permesso premio, prezioso strumento-ponte tra la detenzione e il ritorno in libertà a fine pena: ma intanto quello "zero virgola" sconvolge tragicamente il mondo di una ragazzina di 16 anni dell’hinterland milanese aggredita sul pianerottolo di casa, costretta a entrarvi, e lì violentata per mezzora da un detenuto in giorno di permesso premio dal carcere di Bollate. L’uomo (di cui qui non si indicherà il nome perché, avendo un comune conoscente con il fratello della vittima, in un paese piccolo rischierebbe di far indirettamente identificare la minorenne) è italiano, ha 35 anni, e tra pochi mesi, il 31 ottobre, avrebbe finito di scontare l’intero cumulo di pene (3 anni e 3 mesi) inflittogli in passato per due rapine. Proprio in vista della libertà, per evitare che di colpo passasse dalla cella al nulla e tentare invece di predisporre una qualche rete di assistenza, il Tribunale di sorveglianza di Milano in aprile l’aveva ammesso ai primi permessi premio affinché entrasse in contatto con il centro di assistenza psicosociale. Il 28 aprile era giorno del terzo permesso, con ritorno alle 22 in carcere. Ma adesso le indagini del pm Gianluca Prisco, sfociate nell’arresto ordinato dalla gip Teresa De Pascale per violenza sessuale aggravata e rapina, "raccontano" cosa avrebbe però fatto l’uomo alle tre del pomeriggio di quella giornata. La 16enne, infatti, la mattina dopo ha denunciato che un uomo l’aveva sorpresa mentre stava aprendo la porta sul pianerottolo, le aveva tappato la bocca, e con la dichiarata minaccia di un coltello (non si sa se reale o meno) l’aveva costretta a entrare in casa, dove con modalità molto pesanti aveva abusato di lei per più di 20 minuti, frugando poi in casa e facendosi dare 100 euro. A riprova di problemi psicologici dell’uomo, lui stesso le avrebbe chiesto di non denunciarlo perché era un carcerato in permesso, e le aveva persino accennato di frequentare un bar dove conosceva un comune amico del fratello: elementi a partire dai quali non è stato difficile agli inquirenti risalire al detenuto, poi riconosciuto in foto "senza ombra di dubbio" dalla 16enne. Nel primo interrogatorio l’arrestato, dopo aver declinato nome e cognome, si è chiuso in un mutismo tale da nemmeno finire di rispondere alle domande di rito sulle generalità, con ciò inducendo il gip a interrompere quasi subito l’interrogatorio e a trasmettere al pm gli atti per l’eventuale ulteriore reato di "rifiuto d’indicazioni sulla propria identità personale". L’accusa di violenza sessuale (da 5 a 10 anni di pena base) subirà due aggravanti, per aver commesso il fatto ai danni di una minore e mentre era in misura alternativa al carcere; la rapina (da 3 a 10 anni) sarà appesantita dalla recidiva reiterata. Pozzuoli (Na): detenuta salvata in carcere dal linciaggio, encomio solenne alle agenti di Alessandro Napolitano Il Mattino, 12 maggio 2016 Un encomio solenne per le agenti che hanno salvato dal linciaggio Marianna Fabozzi, la moglie di Raimondo Caputo, l’uomo accusato di essere l’assassino della piccola Fortuna Loffredo al parco Verde di Caivano. A chiederlo è il Cosp, il coordinamento sindacale penitenziario, attraverso una nota inviata al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un gesto "eroico plurale", così è stato definito l’intervento delle agenti che hanno sottratto la Fabozzi dall’ira di alcune detenute nel carcere di Pozzuoli. La moglie del presunto orco - nonché madre di Antonio, morto anch’egli in circostanze oscure tra le case popolari di Caivano - aveva da poco varcato la soglia della struttura detentiva puteolana, quando è stata aggredita. Era il 5 maggio scorso. In quattro l’hanno salvata dal linciaggio, riportando ferite fortunatamente lievi. Per le agenti intervenute il Cosp non solo chiede un encomio solenne, ma addirittura un avanzamento di grado. Secondo il sindacato delle agenti della penitenziaria, il pronto intervento contro un gesto che è stato definito "ignobile e vigliacco di alcune ristrette contro la reclusa" merita la massima attenzione. "In queste occasioni, dimostrare coraggio, sprezzo del pericolo, sentimento di elevata professionalità e attaccamento al dovere esige una contro risposta dalla propria amministrazione - spiega il segretario nazionale del Cosp, Domenico Mastrulli, che aggiunge - Un plauso va a tutto il Comando della polizia penitenziaria del distaccamento femminile di Pozzuoli che ha diretto, seguito e pianificato le operazioni successive a tutela della sicurezza e dell’immagine della propria amministrazione sotto il diretto intervento dell’autorità dirigenziale del penitenziario puteolano". Appena pochi giorni prima, il marito di Marianna Fabozzi aveva subito la stessa sorte nel carcere di Poggioreale. Aggredito da altri detenuti e poi salvato dal linciaggio dopo l’intervento degli agenti. Su marito e moglie, dunque, lo stesso odio da parte degli altri detenuti. Pesantissime le accuse nei confronti dei due. Raimondo Caputo è ritenuto il mostro che ha violentato e poi ucciso Fortuna Loffredo gettandola dall’ottavo piano. Sua moglie è invece accusata di aver coperto il compagno e cercato di depistare le indagini, nonché di omicidio colposo per la morte del loro figlio Antonio avvenuto nel 2013. Tornando al carcere di Pozzuoli, Domenico Mastrulli ricorda un altro episodio avvenuto quasi in concomitanza con l’aggressione di Marianna Fabozzi: il tentato suicidio di una detenuta, sventato all’ultimo istante grazie ancora una volta all’intervento delle agenti in servizio nella struttura di via Pergolesi. Secondo quanto trapelato, una donna rinchiusa nel reparto di osservazione psichiatrica del carcere, aveva tentato di togliersi la vita con una sorta di cappio ricavato con alcune lenzuola. Era già salita su uno sgabello per lasciarsi cadere, ma alcune agenti hanno evitato il peggio. In quella occasione era stato anche il sindacato Sappe ad intervenire, sottolineando la professionalità della penitenziaria: "Dietro quelle mura ci sono eroi silenziosi". L’Aquila: alle elezioni amministrative candidati 60 agenti di Polizia penitenziaria di Maria Trozzi report-age.com, 12 maggio 2016 Al guinness dei primati del carcere di Sulmona, 40 agenti candidati operativi in via Lamaccio (solo 2 anni e la città dei confetti torna al voto), fa eco il record della Casa circondariale dell’Aquila in località Costarelle con 20 poliziotti della Penitenziaria candidati. Sono 7 candidati in più in Abruzzo rispetto alle amministrative del 2014 (121 candidati), in tutto sono 60 candidati agenti, operativi nelle carceri del territorio aquilano, per 29 paesi che rinnovano le cariche amministrative comunali in provincia dell’Aquila. Nel capoluogo di regione però non si vota. Così a Teramo, a Castrogno sono 25 i poliziotti candidati su 165 agenti impegnati e circa 353 detenuti, ma solo 7 comuni della provincia sono alle prese con il voto del 5 giugno. Le cose vanno meglio in un altro istituto dove non c’è nemmeno l’ombra di un candidato agente. Accade nel Fucino. Le ragioni andrebbero ricercate nel fatto che certi ambienti carcerari presentano condizioni di lavoro quasi accettabili. E nella Casa circondariale di Avezzano non si registra nemmeno una candidatura, dicono sia un’isola felice, con 45 agenti a guardia di 60 detenuti, quest’ultimo totale è fornito dal censimento 2014. Non appena si voterà nella città capoluogo della Marsica, si tornerà a riflettere sui dati del San Nicola che anche nelle elezioni del 2014 non contava alcun poliziotto candidato. Tra i 208 agenti del San Donato di Pescara appena 5 sono candidati in lista (278 il totale dei detenuti nel 2014) e come per l’Aquila (nel carcere aquilano sono circa 190 agenti, 164 i detenuti nel 2014) anche nel capoluogo adriatico non si rinnova il consiglio comunale, ma al voto in provincia di Pescara vanno appena 11 Comuni. I poliziotti impegnati per la campagna elettorale (dal giorno della presentazione delle liste) dovranno astenersi dallo svolgere attività lavorativa e saranno comunque retribuiti in questo mese, si chiama aspettativa elettorale retribuita quella garantita dall’art. 81 della legge 121/1981. Il calcolo ragioneristico dei candidati in divisa la dice lunga, in provincia dell’Aquila, sul malessere degli operatori, soprattutto per chi dovrà reggere i prossimi turni nelle patrie galere. Il dato va letto, il guardo esclude, alla luce delle condizioni di lavoro degli agenti. È confermato che negli istituti di pena abruzzesi la situazione è drammatica, più le carceri si affollano meno agenti vi operano. A Sulmona, tanto per dirne una, i poliziotti assegnati al carcere sono 262, ma gli effettivi sarebbero 32 in meno (a causa di malattie di lunga degenza ad esempio) e secondo la pianta organica determinata nel 2001, dal ministero della giustizia (quando nell’istituto erano ospitati gli internati), dovrebbero essere almeno 328 gli agenti per un totale di 320 detenuti nel 2010. Le decisioni calate dall’alto hanno avuto la meglio su tutti e oggi il numero degli agenti si riduce e i detenuti aumentano (501 secondo i dati del 2014 e in alcuni periodi dell’anno - vengono ospitati nella casa di reclusione di Sulmona una manciata di ex art. 21 - addetti al lavoro esterno - e il resto sono tutti As3 e As1 - ex 41 bis - detenuti alta sicurezza). Con il nuovo blocco di via Lamaccio, si aggiungeranno altri 200 detenuti. Sarà il caso di cominciare a pensare ad una comunità di recupero per agenti della penitenziaria se non sarà rafforzato l’organico. Non si scherza nemmeno all’Aquila. insomma 2 penitenziari che scoppiano di detenuti e che sono perennemente sotto organico. Al San Nicola di Avezzano non si è candidato nemmeno un poliziotto, a Pescara solo 5 e dicono che, dopo l’avvento del direttore Franco Pettinelli, il malcontento si sia quasi azzerato sul carcere della costa e anche i permessi per malattia si sono ridotti al minimo. A Teramo, Castrogno include anche una sezione femminile, si parla di 25 candidati su 165 agenti di polizia penitenziaria. A Chieti niente amministrative, ma nel carcere sono una decina i candidati e sono ben 24 i Comuni sotto elezione. Aumentano nel carcere di Vasto con 25 agenti iscritti oggi nelle liste elettorali, in città si rinnova il consiglio comunale, nel 2014 erano 17 in meno, ma non si rinnovavano cariche pubbliche. A villa Stanazzo di Lanciano 3 sono i candidati poliziotti, ma non si vota. Piante organiche delle carceri abruzzesi I dati del 2014 sul numero dei detenuti poco si discosta da quello attuale. L’Aquila (164 detenuti nel 2014) sono 190 agenti - 20 candidati, Sulmona (501 detenuti nel 2014) 262 agenti - 40 candidati, Avezzano (60 detenuti nel 2014) dei 45 agenti operativi 0 candidati. Teramo (353 detenuti, dati 2014) sono 165 agenti - 25 candidati. Chieti (93 detenuti, dati 2014) 120 agenti - 10 candidati, Vasto (180 detenuti nel 2014 e appena 8 agenti candidati 2 anni fa) sono 145 agenti - 25 candidati, Lanciano (298 detenuti nel 2014) 146 agenti - 3 candidati. Pescara (278 detenuti nel 2014) 208 agenti - 5 candidati. La domanda sorge spontanea e la giriamo a chi, da tempo, cerca di migliorare la situazione nelle carceri abruzzesi sia dal punto di vista dell’organico che delle condizioni di lavoro dei colleghi e di vita dei detenuti su cui vigilano gli agenti. "Premesso che quello di candidarsi è un diritto sancito dalla costituzione, il fatto che si mettano in lista molti appartenenti a forze di polizia potrebbe, ma nessuno lo potrà mai dimostrare, anche essere riconducibile a quel mese di aspettativa speciale retribuita riconosciuta esclusivamente alle forze armate - dichiara il vice regionale della UilPa penitenziari Mauro Nardella - Agli altri agenti che, come me, l’attività politica la svolgono con passione da molti anni, 20 nel mio caso, si aggiungono molti altri che scelgono di candidarsi probabilmente per il fatto che con l’attività politica hanno il diritto di riavvicinarsi al luogo meno distante da quello di residenza. Fatto sta che ogni poliziotto ha il diritto di candidarsi come qualsiasi altro cittadino. Il problema è che gli stessi poliziotti, per fare campagna elettorale, fanno uso di un periodo di aspettativa retribuita di circa un mese. Ebbene, basterebbe fare quello che da diversi anni chiedo, cioè modificare l’art. 81, della legge 121/1981 che impone al poliziotto di svestirsi temporaneamente dell’uniforme, nel periodo elettorale, per evitare di condizionare l’elettorato. Il dettato legislativo poteva valere negli anni 80, gli anni di piombo, ma non oggi. Si eviterebbe così che le 40 assenze, nell’organico già striminzito di Sulmona e determinate dalle candidature, mettano in ginocchio gli altri che lavorano e che in questo periodo non possono fruire di congedi ordinari e sono così costretti a turni ancor più massacranti. Senza considerare la demotivazione legata al mancato rinnovo contrattuale, fermo oramai al 2009. Di tale incresciosa situazione ne sentiremo parlare per molto tempo ancora - è convinto il sindacalista Uil-Pa che prosegue - l’anno scorso avevo inoltrato una richiesta al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) perché desideravo rinunciare all’aspettativa speciale. Ho chiesto cioè di poter fare la mia campagna elettorale nel tempo libero. Il Dap ha ribadito, nella sua risposta, che non potevo effettuare nessun tipo di attività legata alla mia professione, durante il periodo pre-elettorale. Il problema riguarda tutte le forze di polizia - conclude Nardella - Da noi si avverte di più perché siamo raggruppati in contesti che vedono impegnati gruppi numerosi di persone (300 poliziotti penitenziari nel carcere di Sulmona a fronte di alcune decine ad esempio operanti nel Commissariato sempre di Sulmona). Per di più noi facciamo un lavoro insopprimibile nel senso che se mancano gli uomini non possiamo chiudere il carcere". Mantova: detenuto pestato dal compagno di cella per una razione di pollo La Gazzetta di Mantova, 12 maggio 2016 Detenuto a processo per aver picchiato un compagno che aveva ricevuto una porzione doppia. Non è la prima volta che finisce nei guai per aver alzato le mani. Stavolta la sua intemperanza s’è scatenata per un motivo davvero futile, una porzione di pollo. Ma spesso basta molto poco, nel chiuso di un carcere, per creare tensioni e conflitti che sfociano in pestaggio. Così, per un fatto accaduto nel novembre di quattro anni fa nella Casa circondariale di via Poma, è finito davanti al giudice Alì Belgasmi, un tunisino di 29 anni al tempo detenuto lavorante, addetto alla distribuzione dei pasti. Il giovane è accusato di lesioni personali per aver colpito un compagno di detenzione con una serie di pugni e avergli rotto il dito anulare di una mano. Ieri un’udienza per sentire alcuni testimoni, martedì prossimo sono previste discussione e sentenza. L’episodio era accaduto poco prima di mezzogiorno davanti a una cella mentre Belgasmi, con il carrello del vitto a seguito, distribuiva i pasti. A scatenare la rabbia del detenuto "lavorante" sarebbe stata il passaggio di una porzione di pollo da un detenuto che l’aveva ceduta al compagno di cella che aveva già avuto la sua. nel carrello non c’era più pollo. Belgasmi aveva aggredito il detenuto con la doppia porzione. Treviso: si conclude il percorso "Voci di dentro" con i ragazzi detenuti agensir.it, 12 maggio 2016 Csv Treviso, in collaborazione con l’ufficio scolastico della provincia Treviso, ministero della Giustizia e Istituto penale per minori, e con il coinvolgimento degli istituti "Itst Mazzotti", "Liceo Scienze Umane Mazzini", "Ites Riccati-Luzzatti", "Itt Bassanti", "Iis Palladio", "Liceo Statale Duca degli Abruzzi" e Cpia (centro territoriale permanente) concludono il percorso "Voci di fuori, Voci di dentro", un progetto educativo di conoscenza e condivisione con i ragazzi detenuti all’Istituto penale per minori di Treviso, giunto alla 14ª edizione. Collaborano quest’anno anche le associazioni Nat’s per Onlus, Amnesty International gruppo di Treviso e "La prima pietra". La giornata conclusiva del 13 maggio, dal titolo "Le mie scelte" - si legge in una nota - vedrà la presenza di due ospiti molto speciali: Tafy, ex soldatessa israeliana che ha fatto scelta di obiezione di coscienza (e che per questa ragione ha pagato delle conseguenze), e Zijo Ribic, sopravvissuto alla strage della sua famiglia e di tutti gli abitanti di Skocic, piccolo villaggio della Bosnia orientale, durante le guerre nella ex-Jugoslavia. Verona: "show" a Montorio, il Chievo Calcio in campo con i detenuti L’Arena, 12 maggio 2016 Giampiero Pinzi è cresciuto a Centocelle, Roma, non esattamente la residenza di vip e star del cinema. Quartiere duro dove la vita non è una passeggiata. "Ha fatto fatica pure a darmi la mano, ma non era un’amichevole?", s’è chiesto scherzando Pinzi alla fine del primo tempo di una partita diversa dalle altre quando un ex detenuto, fino a due anni fa rinchiuso a Rebibbia e ieri nel carcere di Montorio da cittadino libero, nato a San Basilo che di Roma non è proprio zona di prima fascia, ha gridato a tutti il suo amore eterno alla Roma, dicendone quattro anche Pepe a cui ha rinfacciato il gol del 3-3 al Bentegodi e rispolverando anche gli antichi guizzi di Marco Pacione, un altro che alla Roma ha saputo far male più volte. "La vita va oltre il calcio e quando entri in certi posti apri gli occhi e cominci a riflettere", il pensiero di Pinzi ma non solo il suo alla fine, dopo i quattro gol di una mista fra giocatori del Chievo più Damiano Tommasi e Simone Perrotta, due che in Serie A non sfigurerebbero neanche adesso. Un "Calcio al pregiudizio" bello e buono, progetto partito con la firma di un protocollo di intesa ieri fra l’amministrazione penitenziaria, l’Aic, CuoreChievo onlus e l’associazione di promozione sociale "La Prima Pietra". E nel pomeriggio tutti in campo. Tutto bello, fin dal fischio d’inizio. Anche se il Chievo non era proprio in formazione-tipo. In porta s’è piazzato Spolli, coi portieri Seculin e Bressan bersagli preferiti da Simone Pepe, a bordocampo a fare il Maran della situazione e punzecchiare soprattutto l’amico Pinzi, ma anche Pippo Costa, in una di quelle partite che si vedono una volta tanto perché il calcio troppe volte resta lontano dalla realtà. Eppure il confine spesso è sottile. Da una parte un percorso normale, dall’altra il baratro. Il campo non è esattamente un biliardo ma il problema non esiste. Per quelli in maglia bianca è come giocare a San Siro, col loro pesante passato alle spalle e qualche ora di luce in più che vale più di un contrasto con un calciatore di Serie A. Il ritmo lo dà Pepe, fra sostituzioni e richiami in romanesco che contribuiscono a moltiplicare sorrisi e battute. Dalla panchina spunta Fabio Poli, direttore organizzativo dell’Aic che Pepe battezza chissà perché Arda Turan, la stella del Barcellona. In borghese c’è anche Fabio Moro, pronto a rientrare nella famiglia-Chievo di cui ha fatto sempre parte. Davanti si muove a rilento Pippo Maniero, 44 anni, già centravanti del Verona assistito dall’altro padovano Carlo Perrone, leggenda biancoscudata anche in A e Mirco Gasparetto. Un autogol apre il tabellino, Costa fa il bis con un bel pallonetto, Tommasi non può esimersi dal segnare il terzo, Pinzi trova il palo lungo con un destro a giro e va ad esultare attaccandosi alla rete guardando chi è rimasto dentro e il tifo lo fa dal buio di una cella. La selezione dei detenuti ha un sussulto, non foss’altro perché ad un certo punto si trova in... leggera superiorità numerica: 19 contro 11, in campo tutti quelli della panchina. Il povero Spolli viene battuto due volte, la seconda con un sinistro all’incrocio non per caso, perché l’autore ha visto anche la C2. Perrotta stringe mani e abbraccia tutti, lo spirito del Chievo gli è rimasto ancora tutto dentro. Tommasi è il solito maestro di vita, fresco di riconferma da presidente dell’Aic. Marco Giannini, l’arbitro, fischia la fine. "Pepe? Come allenatore non ci ha dato quel ci aspettavamo", la battuta di Pinzi mentre persino l’ex detenuto di Rebibbia gli concede un attimo di tregua perdonandogli la fede laziale. Sono quasi le cinque del pomeriggio, Pacione saluta con un "grazie" che vale l’applauso di tutti, polizia compresa. Pinzi va un attimo anche sul Chievo vero, "su una stagione grandiosa anche grazie al blocco degli italiani e di stranieri che sono con noi da anni e su un gruppo davvero straordinario che ci ha permesso di raccogliere così tanto. Il futuro? È giusto che una società così metta sempre la salvezza come primo obiettivo, ma andare in casa dell’Atalanta con la possibilità di poter andare in Europa League è stato qualcosa di straordinario". Milano: gol oltre le sbarre, il Giorno incontra i detenuti di Bollate sul campo di calcio di Giulio Mola Il Giorno, 12 maggio 2016 In campo le squadre del carcere di Bollate e de il Giorno. Vincono sorrisi e solidarietà. Oltre le sbarre c’è un grande campo di calcio. Si arriva dopo aver percorso a piedi il perimetro del carcere, passando dagli spogliatoi al ristorante "In galera" (pare che sia uno dei più alla moda di Milano). Un lungo viale da dove puoi scorgere un giardino per i parenti dei detenuti, orti e serre ben curati, un maneggio con cavalli addestrati, un campo di calcetto in asfalto. Oltre le sbarre non c’è la libertà, non puoi portare il cellulare (e se ti scoprono... nella migliore delle ipotesi rischi l’espulsione) e c’è tanto silenzio. Oltre le sbarre trovi però dei ragazzi che ti accolgono con un sorriso, magari due se sei un personaggio pubblico. Oltre le sbarre puoi giocare a pallone, su un campo dove i lunghi ciuffi d’erba nascondono il terreno brullo. È lì che età, colore della pelle e ceto sociale dei giocatori si confondono, e non ti sembra neppure di essere in un luogo di detenzione. La squadra di calcio del "Giorno", nell’anno del 60°compleanno della testata, ha voluto passare un sabato diverso proprio lì, dietro le sbarre. Il sole di un tiepido sabato primaverile ha illuminato le tre ore scarse ma intense nel carcere di Bollate. Appuntamento alle 9 del mattino davanti ai cancelli: noi, in diciassette (alla faccia della scaramanzia), accompagnati dal direttore Giuliano Molossi. Ci accoglie Paride, giovane prof di educazione fisica che si occupa delle attività sportive dei detenuti. Le procedure d’ingresso, i documenti consegnati agli scrupolosi agenti e poi dentro a cambiarci. Non sapevamo chi avremmo sfidato anche se Internet ti aggiorna su tutto: "la squadra dei detenuti modello del carcere di Bollate non si è iscritta alla terza categoria...". "Caspita - ci siamo detti -. Questi ci suonano...". Ci spogliamo velocemente, poi con le divise nuove e personalizzate ci dirigiamo verso il campo. Loro si scaldano, sono più giovani e atletici, hanno buona tecnica. Noi dobbiamo affidarci al rinforzo di lusso, Mauro Bressan, uno che ha giocato in serie A. Si presenta l’arbitro over 40, Luca, un "armadio" di due metri che sembra il pilastro degli "All Blacks". Ci guardano gli avversari. C’è subito feeling. Non vedono l’ora di cominciare. Pronti-via, 8 secondi e ci fanno il primo. Poi il secondo, il terzo è un eurogol. Cinque minuti e siamo sotto 3-0. Gigi, il loro portiere, resta inoperoso. Hugo ha talento, è un sudamericano. E poi Victor e Hamsah, maghrebino velocissimo. Nei due tempi da 25 minuti non c’è partita, la guardia ci porta via Nicola perché si è dimenticato di lasciare fuori il telefonino, il direttore è sconsolato, e facciamo il gol della bandiera (7-1) solo su rigore (con Gianluca) ripetuto due volte (per gentile concessione dell’arbitro). Alla fine Fernando ci parla del suo progetto sulla raccolta differenziata, poi sorrisi, premiazioni e tante foto sotto la gigantografia di Alessandro, morto lo scorso anno. Anche dietro le sbarre si può essere felici. Grazie a un pallone. Unioni civili. Promemoria per i bambini di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 12 maggio 2016 L’Italia ha da ieri una buona legge che riconosce le unioni civili tra persone dello stesso sesso. È una legge moderata, equilibrata, che non dovrebbe offendere i sentimenti di nessuno, nemmeno dei cattolici che legittimamente vogliono difendere le forme cosiddette "tradizionali" del matrimonio, che infatti, come era noto malgrado le forzature propagandistiche, rimangono intatte. Come tutti i compromessi, offre lo spazio a qualche punto ambiguo e a qualche ipocrisia, ma il meglio è sempre nemico del bene. E il bene è che da ieri gli omosessuali italiani possono godere di un diritto oramai acquisito in quasi tutte le nazioni democratiche e libere. Il Parlamento (non il governo, il Parlamento) ha espunto il capitolo controverso della stepchild adoption ed è stato saggio a non insistere su un tema controverso, un capitolo delicato che però da una parte e dall’altra è stato agitato come una clava per colpire e umiliare la parte avversa. Ora tuttavia bisogna mantenere una promessa: un appuntamento non rinviabile. E quindi non dare all’Italia l’immagine di una politica verbosa e poco credibile che prima si dice pensierosa della sorte di tanti bambini e poi non è capace di mettere a punto un sistema per le adozioni diverso da quello, asfissiante e ingeneroso, in vigore ancora oggi. Hanno detto, mentre ci si lacerava sulla stepchild adoption, che il diritto dei bambini a una famiglia, all’amore e alla cura debba essere considerato un diritto fondamentale, prioritario, non negoziabile. Ecco, molti bambini che sono già nati, i bambini che affollano già nel mondo orfanotrofi tristi e lugubri, questi bambini di cui nessuno parla e che sono inchiodati a una condizione di solitudine, di abbandono, di disperazione, non hanno possibilità di godere dei diritti che alyrove sono esercitati con più generosità. Tra il luogo in cui già vivono e l’amore di chi potrebbe accoglierli in Italia corre ancora oggi un percorso follemente accidentato, pieno di lungaggini, di chiusure, di soprusi burocratici, di condizioni impossibili. I politici avevano promesso, nei mesi scorsi, di affrontare questo tema. A che punto sono, a che punto siamo? Chi sta frenando? Chi non si sta impegnando? Nelle altre nazioni democratiche il tema delle adozioni è stato accompagnato da legislazioni avanzate, di buon senso, rispettose dei diritti di tutti. E in Italia? Bisogna forse aspettare quasi una trentina d’anni, lo stesso tempo, un tempo interminabile, assurdamente dilatato che ci è voluto per arrivare a una buona legge sulle unioni civili? È inutile girarci intorno, anche in questo caso si mettono in moto pregiudizi, veti, interdizioni, apriorismi ideologici. Dopo la legge sulle unioni civili è chiaro che non può non essere estesa la platea dei soggetti abilitati ad adottare bambini che già vivono in condizioni di desolazione e di abbandono. Oltre agli ostacoli che dovrebbero essere rimossi per le coppie eterosessuali unite in matrimonio che ancor oggi affrontano l’adizione come un itinerario irto di ostacoli, una legge che allontanasse da sé il sospetto di discriminazioni e divieti pregiudiziali dovrebbe riconoscere il diritto delle coppie di fatto eterosessuali, tra l’altro sottoposte alla disciplina delle unioni civili votata ieri, ad adottare bambini, così come alle unioni di coppie dello stesso sesso e forse anche ai single, perché no. Tutti gli argomenti portati al rigetto della stepchild adoption per le unioni omosessuali non rientrerebbero in questa discussione. Non si tratta di bambini procreati con tecniche che prevedono la gestazione da parte di una donna che poi dovrà consegnare il figlio appena partorito sulla base di una tariffa o di un accordo prestabiliti, ma di bambini che già sono al mondo, che già patiscono una condizione di solitudine, che già sono privi dei genitori, che già vorrebbero una famiglia come meta e approdo di una vita dimostratasi ingiusta e crudele. La politica italiana è obbligata a dare risposte tempestive a una problema gigantesco e che oggi colpevolmente è stati tenuto in secondo piano. Deve mantenere la promessa formulata nei mesi scorsi. E affrontare il tema delle adozioni con apertura mentale e conservando i diritti dei bambini come ragione prioritaria di una nuova legge. Adesso il governo punta sullo ius soli, rimandati stepchild e eutanasia di Giovanna Casadio La Repubblica, 12 maggio 2016 Contro la cittadinanza agli stranieri ottomila emendamenti. Vendola: ora la legge antiomofobia. Per ora è al palo di ottomila emendamenti, alcuni giudicati dal Pd "emendamenti farsa". Ma la legge sullo ius soli, quella che consentirà ai bimbi di immigrati nati in Italia, "ai compagni dei nostri figli" - ripete Renzi - di essere cittadini italiani, è la prossima sfida sui diritti da incassare. Uno ius soli temperato, già approvato alla Camera dopo le solite infinite polemiche sette mesi fa, benché l’Italia sia tra i pochissimi paesi europei dove resista ancora la cittadinanza per discendenza, lo ius sanguinis. Legge ferma adesso al Senato, in commissione Affari costituzionali dove la presidente Anna Finocchiaro cerca di sciogliere nodi evitando il braccio di ferro che impantanerebbe tutto. "Poiché siamo alla vigilia delle amministrative, in piena campagna elettorale, Lega e Forza Italia tirano la corda. Aspetteremo giugno per accelerare", annuncia il dem Francesco Russo. E il capogruppo del Pd, Luigi Zanda assicura: "È una delle nostre priorità". Dopo l’approvazione delle unioni civili, restano aperte e lontano da un approdo molte partite sui diritti. Requiem per la stepchild - Di certo la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner in una coppia gay, rischia di naufragare per sempre. Renzi ieri ha rassicurato i cattolici sul piede di guerra per le unioni civili: "Esiste lo spazio per parlare di adozioni? Dobbiamo essere molto franchi tra di noi, credo sarebbe opportuno guardarci negli occhi: non so se ci sono le condizioni in Parlamento". E la riforma generale delle adozioni procede infatti lenta in commissione Giustizia. Donatella Ferranti, la presidente, ha previsto un calendario fitto di audizioni ("Lunedì prossimo il ministro Guardasigilli Orlando, poi i ministri Costa, Lorenzin, Boschi che ha appena avuto la delega sulle adozioni), però prima di giugno non si entra nel vivo della discussione parlamentare. Omofobia - Sono state appena approvate le unioni civili, e Nichi Vendola, in Canada dove tre mesi fa è nato il figlio suo e del compagno Eddy, twitta: "Ora Parlamento e governo abbiano il coraggio di fare la legge contro l’omofobia, ferma in Senato dal 19 settembre del 2013". Non la sola legge sui diritti bloccata. "Sembra un porto delle nebbie, il Senato", denuncia Silvia Giordano dei 5Stelle elencando la legge sul cognome della madre (ok a Montecitorio a settembre 2014); quella sulla ricerca delle origini (primo via libera nel giugno del 2015). La ragione è politica, non certo di scarsa efficienza. "Abbiamo piuttosto un vitalismo senile", ironizza Russo, ricordando le leggi liquidate e in discussione nella Camera alta che sta per scomparire. La maggioranza al Senato è sul filo e le tensioni con gli alfaniani, provocano "stop and go". Il fine vita - Su un tema eticamente sensibile come il fine vita, andamento lento a Montecitorio. In commissione Affari sociali giacciono 15 proposte di legge dopo la cernita: il tema eutanasia è stato accantonato. Si affronterà quello del testamento biologico, senza riferimenti all’eutanasia. Paola Binetti, ex teodem ora centrista, che ieri ha detto Sì alla fiducia sulle unioni civili ma No al voto finale, avverte sul testamento biologico: "L’ipoteca che è stata posta sule unioni civili con una corsia iper privilegiata, rendono inopportune altre accelerazioni soprattutto su questioni eticamente sensibili". Emma Bonino: "Ora avanti con eutanasia, cannabis, cittadinanza e asilo" di Francesca Paci La Stampa, 12 maggio 2016 La politica italiana chiama la battaglia sui diritti civili: "In Italia bisogna sempre spingerli a forza, non sediamoci". Emma Bonino, 68 anni, radicale, due volte ministro, ex commissario europeo, ex vicepresidente del Senato, oggi presidente dell’European Council on foreign relations. Ne ha combattute di battagli, Emma Bonino. Da dentro al governo, da fuori, dalla scomoda posizione di una che spesso dice quanto i connazionali non sono ancora pronti ad ascoltare. L’ex ministro degli esteri, ex commissario europeo e molti altri ex ruoli tranne che radicale non abbassa la guardia sui diritti. Da presidente dell’European Council on Foreign Relations parla e tratta con regimi campioni di violazioni, ma ogni paese ha la sua storia e questa è la nostra. Seppur maturata con difficoltà, è una giornata epocale nella marcia per i diritti degli italiani? "Ricordo che la prima proposta di legge del genere portava la firma di Agata Alma Cappiello, Margherita Boniver e poche altre: era il 1988 e non fu mai discussa. Nel 2006 i Dico vennero bloccati da destra e da sinistra. Poi toccò ai Pacs e infine, lento pede, eccoci a regolare una realtà nel frattempo mutata. Questa legge non cambia la società ma, ancorché timida e riduttiva, prende almeno atto tardivamente dell’Italia del 2016, cioè di una mutazione già avvenuta". C’è chi dice è troppo, chi troppo poco. Com’è questa legge? "Il dibattito è legittimo. I diritti civili non dovrebbero essere ideologici: non appartengono nè alla destra nè alla sinistra, sono delle persone. Il referendum sul divorzio passò con il 52%, metà della gente era contraria. Quello che mi rattrista sono i toni volgarissimi uditi nei giorni passati al Senato, toni che ricordano quelli pessimi sulla morte dignitosa e l’eutanasia, all’epoca del cosiddetto caso Englaro, altro tema su cui, lento pede, avanziamo. È noto che sulle scelte personali il proibizionismo non funziona, eppure i politici sembrano non capire. Lo sforzo di legalizzare è duro ma, a differenza dell’illusione nefasta di proibire, funziona". Perché ad ogni battaglia legale sui diritti siamo punto e a capo? "I diritti civili in Italia vanno sempre spinti a forza. Vero invece è che purtroppo da almeno vent’anni l’impegno è meno vivace e più frantumato. Ognuno si batte per una cosa, i gay, le donne, l’eutanasia. E la politica non sente il fiato sul collo". Che debolezze ha la legge? "Non entro nel merito, ma diciamo che la negazione dell’adozione del figlio naturale è ormai superata pure dalla giurisprudenza. Nonostante tutto però, questo è un risultato: rimbocchiamoci le maniche e ripartiamo da qui. C’è molto da fare, l’eutanasia, la cannabis, la legge sulla cittadinanza e il diritto d’asilo. Non risiediamoci, si può fare". Sa che le destre parlano già del referendum abrogativo? "Auguri! Non ricordano la lezione del referendum abrogativo sul divorzio e sull’aborto? La società ha assimilato che quanto non ci piace non va però negato agli altri. Nel 2005, nel caso della legge 40 sulla procreazione assistita, i nemici del referendum fecero campagna per il non voto: se ce la fossimo giocata sui sì e i no non ci sarebbe stata partita". La Chiesa ha usato toni severi. "Ci mancherebbe altro, svolge il suo ruolo. Però questa Chiesa non ha nulla a che vedere con la veemenza intrusiva di Ruini". E se la Lega invitasse i suoi sindaci all’obiezione di coscienza? "Tutti liberi basta che garantiscano il servizio e non come con l’aborto per cui, in barba alla 194, ci sono regioni dove questo non avviene. Voglio anche tranquillizzare il candidato sindaco Marchini, sebbene sul piano istituzionale il fatto che annunci di non voler applicare la legge mi pare inusuale per non dire altro. Comunque, grazie per dircelo prima, è un’ottima informazione per gli elettori. Signor Marchini faccia come crede, purché mandi un sostituto a celebrare le unioni civili. Anzi, basta eleggere dei radicali in Consiglio, poi il servizio lo garantiamo noi". Domani sarà l’utero in affitto? "Su questo ho la posizione dell’associazione Luca Coscioni, sono per una legge rigorosa, è meglio legalizzare che proibire. Io non lo farei ma non per questo lo vieterei ad altri con la motivazione della protezione dallo sfruttamento. Piuttosto garantiamo nuove protezioni sociali". L’imbarazzante pubblicità del gioco d’azzardo di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 12 maggio 2016 In Italia, che io sappia, è vietato pubblicizzare armi, pornografia. Nessun problema, invece, per le scommesse. È possibile? Domanda semplice. Perché è permessa la pubblicità del gioco d’azzardo? Sono un abbonato Sky Calcio, soddisfatto e fedele: ma qualcuno deve spiegarmi perché, dopo aver sottoscritto un sostanzioso abbonamento, devo beccarmi pubblicità e telepromozioni di puntate e scommesse. Mi sembra che perfino i colleghi sportivi si trovino in imbarazzo quando devono annunciare "Chi segnerà il prossimo gol? Le quote dicono…". Qualcuno dirà: lei sta scherzando? Perché le televisioni, i giornali e i media in genere dovrebbero lasciare una fonte di reddito, in questi tempi magri? Perché lo Stato dovrebbe rinunciare ai relativi vantaggi fiscali? Risposta: perché, in un Paese civile, la legge non può vietare tutte le cose nocive; ma almeno può evitare di favorirle. Uno Stato pedagogico è inopportuno (per capirlo, basta guardare la faccia di alcuni eventuali pedagoghi). Ma qualche regola, le democrazie, se la impongono. In Olanda, dove il consumo di cannabis è stato depenalizzato, è vietata la pubblicità degli stupefacenti. In Italia, che io sappia, è vietato pubblicizzare armi, pornografia e superalcolici. La pubblicità delle scommesse, invece, è libera. "Coraggio, rovinatevi! È bellissimo". La pubblicità del gioco d’azzardo è pericolosa perché rende fascinoso ciò che è pericoloso. La ludopatie sono sempre più frequenti: soprattutto tra i ragazzi, i disoccupati, gli anziani. Non leggete le statistiche. Andate in un bar a metà pomeriggio. È chiaro: le multinazionali del gioco puntano sulle fasce deboli (come l’industria del tabacco). E lo Stato lascia fare? Prende quattro soldi dai giocatori e ne spende otto per curarli quando sono dipendenti? Qual è la logica? Autorità varie volteggiano intorno ai bar d’Italia, impedendo ai pensionati di giocarsi il bianchino a carte. E lo Stato autorizza altre 40mila slot-machine grazie al solito emendamento? E permette d’invadere gli schermi d’Italia di amici felici di scommettere online? Qualcuno dirà: cosa possiamo fare? Magari protestare. O almeno ricordare. I nomi noti che accettano di diventare testimoni pubblicitari di gioco e scommesse, per esempio. Rapporto di Human Rights Watch. "Così la Turchia ferma i profughi: sparando" di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 12 maggio 2016 Picchiati. Presi a bersaglio. Utilizzati come arma di ricatto contro una Europa complice del gendarme di Ankara. Le guardie di frontiera turche sparano ai richiedenti asilo siriani che cercano di raggiungere la Turchia. A rilanciare la denuncia, già fatta il mese scorso, è ancora una volta Human Rights Watch (Hrw). Secondo l’ong Usa, "l’uso eccessivo della forza" da parte dell’esercito di Ankara contro rifugiati e trafficanti di esseri umani ha causato la morte di 5 persone, tra cui un bambino, e il ferimento grave di altre 14. Hrw ha inviato ieri una lettera al ministero degli Interni di Ankara chiedendo di "investigare sull’uso eccessivo della forza da parte delle sue guardie di frontiera", accusate anche di picchiare i richiedenti asilo. Secondo la denuncia, l’esercito turco ha ucciso a colpi d’arma da fuoco 3 richiedenti asilo siriani (un uomo, una donna e un minore di 15 anni) e un trafficante di esseri umani, e picchiato a morte un altro trafficante. L’ong sottolinea anche come il governo turco continui a proclamare una "politica delle porte aperte" nei confronti dei siriani "nonostante stia costruendo un nuovo muro di confine" - già completato per 1/3 - e una pratica di respingimenti di profughi alla frontiera, che prosegue "almeno da metà agosto". Hrw ha chiesto ad Ankara una effettiva riapertura della frontiera. Il mese scorso, alla vigilia dell’avvio delle espulsioni dalla Grecia nell’ambito dell’accordo Ue-Turchia, anche Amnesty International aveva sollevato pesanti accuse - seccamente respinte dal governo turco, come quelle di Hrw - di rimpatri forzati di rifugiati in Siria. I campi di Al Iqaa e di Kamuna, a pochi chilometri dal confine turco, ospitano soprattutto profughi respinti alla frontiera, secondo gli operatori umanitari che vi lavorano. Questi due campi sono stati colpiti da artiglieria (Al Iqaa il 24 aprile) e da un bombardamento (Kamuna il 5 maggio) e molti profughi in quell’occasione sono rimasti uccisi o feriti. Non sarebbero stati lì, se la Turchia non avesse sbarrato loro la strada. Human Rights Watch ha intervistato vittime e testimoni di sette sparatorie delle guardie di frontiera al confine. E può documentare cinque omicidi, il ferimento di otto profughi (fra cui tre bambini di 3, 5, e 9 anni) e il pestaggio di altri 6 profughi. Testimoni siriani che vivono vicino al confine hanno raccontato di come le guardie hanno sparato loro addosso mentre tentavano di recuperare i corpi dalla barriera di confine. Uno dei testimoni ha filmato i corpi delle vittime e dei feriti e ha consegnato il video a Hrw. Altri testimoni hanno raccontato che le guardie usano altoparlanti per avvisarli di non avvicinarsi al confine perché spareranno a chiunque tenti di attraversare. "L’Unione Europea non dovrebbe stare a guardare mentre la Turchia usa proiettili e i calci dei fucili per fermare il flusso di profughi siriani", afferma Gerry Simpson, il ricercatore di Human Rights Watch autore del rapporto. "Le autorità europee dovrebbero riconoscere che il loro semaforo rosso imposto ai rifugiati significa un semaforo verde alla Turchia per chiudere i sui confini. Ne pagano il prezzo persone in fuga dalla guerra che non hanno nessun altro posto dove andare". E ancora: "Mentre alcuni funzionari turchi affermano di accogliere i rifugiati siriani a braccia aperte, le loro guardie di frontiera li uccidono e li picchiano - aggiunge Simpson - Sparare a uomini traumatizzati, donne e bambini in fuga da combattimenti e dalla guerra è veramente spaventoso". Profughi e non solo. L’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani ha chiesto alla Turchia di permettere l’invio di osservatori nel sud-est del Paese per indagare sulle denunce di civili disarmati uccisi deliberatamente dalle forze di sicurezza di Ankara nell’ambito delle operazioni in corso dalla scorsa estate contro il Pkk e altri gruppi ribelli curdi affiliati. Tra i casi da accertare ci sono quelli di decine di persone arse vive nell’incendio di uno scantinato a Cizre, nella provincia di Sirnak. "Mentre La Turchia ha il dovere di proteggere la sua popolazione dagli atti di violenza. Dunque non sorprende che la Standard Ethics abbia declassato il rating etico attribuito alla Turchia da "E+" a "E". Il declassamento tiene conto del recente rapporto della Commissione europea sulla Turchia e dell’ultimo rapporto di Amnesty: "Standard Ethics prende atto che la situazione dei diritti umani è sensibilmente peggiorata dalle ultime elezioni parlamentari.(giugno 2015)". Secondo l’agenzia "il pieno rispetto dei diritti fondamentali, della libertà di espressione, del diritto alla libera riunione, la protezione dei dati personali e delle persone appartenenti a minoranze, non sono garantiti". Francia: nuove leggi anti-terrorismo, dal pedinamento al divieto di espatrio di Pietro Del Re La Repubblica, 12 maggio 2016 Il governo francese vara un massiccio arsenale giuridico, un’ottantina di misure più o meno inedite. Tra queste non servirà più un giudice per accedere a database di telefoni e web. Lo scopo, combattere le "personalità più radicalizzate" o i cosiddetti "lupi solitari". Per arginare il terrorismo locale il governo francese ha appena varato un massiccio arsenale giuridico che conta un’ottantina di misure più o meno inedite. Le nuove leggi consentiranno ai servizi dell’intelligence interna di pedinare i sospetti islamisti grazie a un accesso più facile e diretto ai dati della telefonia e di Internet. Da ora in poi, per esempio, gli operatori della telefonia e del web sono costretti a conservare i dati dei loro clienti per almeno un anno, e l’accesso a queste informazioni non è più sottoposta all’autorizzazione di un magistrato, e dunque al controllo giudiziario, ma semplicemente a quella di un alto funzionario di polizia. Il catalogo è volto soprattutto a combattere le "personalità più radicalizzate" o i cosiddetti "lupi solitari" del jihadismo, basandosi anche su un programma di reinserimento sociale. "È indispensabile individuare per tempo i percorsi personali o collettivi di chi è pronto a scivolare verso la violenza terroristica, siano essi le reti di accesso verso le zone di indottrinamento che esistono in alcuni Paesi, i soggiorno di addestramento o la propagazione del radicalismo e dell’islamismo su Internet", ha detto lunedì Manuel Valls, annunciando lunedì scorso in Consiglio dei ministro il suo piano di battaglia contro la radicalizzazione religiosa. E sempre per rompere la dinamica dell’arruolamento e della catechizzazione delle reti terroriste, oltre ad avere esteso la video-sorveglianza nelle aree più a rischio, il governo socialista vuole anche impedire l’uscita dal territorio francese dei sospetti jihadisti. Questo divieto all’espatrio, che colpisce soprattutto i "giovani" potenziali foreign fighters, dura sei mesi ma può essere esteso fino a due anni. Due nuovi emendamenti rafforzano questa misura: il ritiro del passaporto o della carta d’identità del sospetto, e la possibilità da parte del ministro dell’Interno di impedire l’ingresso in Francia a chi vi risiede solo saltuariamente. La lista di nuovi articoli di legge prevede anche la nascita del delitto di "impresa terroristica individuale", destinato a criminalizzare quei "lupi solitari" che agiscono in modo isolato. Per infrangere questa legge basta "detenere, ricercare, procurarsi o fabbricare oggetti o sostanze in grado di creare un pericolo per altri". Altri investimenti (60 milioni di euro) saranno invece destinati a lottare contro la radicalizzazione in prigione: dopo un esperimento nel carcere di Fresne, verranno creati 5 nuovi "quartieri" riservati ai detenuti islamisti. Infine, da quest’estate saranno aperti in Francia i centri di reinserimento per effettuare il de-briefing di giovani jihadisti indottrinati. Il primo nascerà in Indre-et-Loire, e presto ogni regione francese avrà il suo. Belgio: lo sciopero del personale penitenziario manda al collasso le carceri di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 maggio 2016 Dopo 16 giorni di sciopero del personale penitenziario, le carceri del Belgio stanno vivendo una situazione drammatica, anzi "apocalittica" per usare l’espressione della presidente dell’Ordine degli avvocati francofoni Stéphane Boonen in una lettera inviata ieri al premier Charles Michel e a tutti i suoi ministri. "Il governo prenda delle misure urgenti in grado di proteggere la dignità degli esseri umani". Booen scrive all’esecutivo dopo aver incontrato i detenuti della prigione di Forest, una visita scioccante, quasi una discesa agli inferi o un viaggio in una galera di altri tempi: "Possono mangiare solo una volta al giorno un pasto totalmente freddo, farsi una doccia una volta ogni tre quattro giorni e da due settimane sono costretti a indossare vestiti sudici, mentre nella gran parte delle celle i bagni non sono funzionanti, si tratta di una condizione inumana e degradante, indegna di una democrazia e in violazione con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, bisogna agire in fretta anche per difendere la credibilità del nostro paese". Un altro aspetto che contribuisce a far degenerare la situazione a livelli "quasi da insurrezione" è la penuria di droga che da due settimane non entra più nelle carceri. Lo scorso anno infatti è stata approvata una legge che impedisce ai secondini di perquisire i detenuti dopo i colloqui nei parlatori, il che permette ai familiari di passare facilmente sostanze stupefacenti; da quando è iniziato lo sciopero sono stati interrotti i colloqui e nelle carceri non gira praticamente più droga provocando risse, attacchi di panico, danneggiamenti, tentati suicidi. "Un detenuto, come ogni altro individuo, quando è in crisi di astinenza diventa ingestibile e allora non c’è più modo di farlo ragionare o di contenerlo", spiega Marc Peeters del sindacato di polizia penitenziaria. I firmatari della lettera non accusano però il personale delle carceri e il suo diritto allo sciopero che rimane garantito dalla Costituzione, ma il ministero della Giustizia che "non è stato in grado di organizzare un servizio minimo per fronteggiare la prevedibile emergenza". Per sostituire il personale il governo ha trovato una soluzione tampone, mobilitando 120 militari nelle 17 prigioni più calde, ma fino ad ora solo 40 tra loro sono entrati in servizio per sorvegliare i carcerati durante l’ora d’aria, distribuire i pasti, accompagnarli a farsi una doccia. Inoltre gli stessi sindacati militari sono preoccupati di essere utilizzati per aggirare uno sciopero e criticano un provvedimento che secondo loro è stato adottato "con colpevole improvvisazione". E poi non mai rassicurante vedere l’esercito gestire l’ordine nelle prigioni di Stato. Come scrive Marc Dizier, direttore dellla casa circondariale di Andenne: "L’immagine dei soldati che presidiano un carcere mi fa pensare alla Corea del Nord e alle pagine più buie dell’Europa dell’est". Secondo l’Istituto di criminologia e di diritto criminale di Losanna dopo l’Ungheria il Belgio è il paese europeo che ha il più alto tasso di sovraffollamento carcerario. Nigeria: nel centro di detenzione militare in cui muoiono anche i neonati di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 maggio 2016 Nel centro di detenzione della base militare di Giwa a Maidaguri, nel nord-est della Nigeria, quest’anno sono già morte 149 persone: 11 di loro erano bambini al di sotto dei sei anni di età e di questi quattro erano neonati. Il mese peggiore è stato marzo, con 65 morti. Ad aprile i morti sono stati 39, compresi otto tra bambini e neonati. Le prove, ottenute attraverso interviste a ex detenuti e testimoni oculari, video, fotografie e immagini satellitari, si trovano in un rapporto diffuso ieri da Amnesty International. Cause dei decessi: malattie, denutrizione, disidratazione e ferite da arma da fuoco. I cadaveri dei detenuti vengono solitamente portati a un obitorio di Maiduguri e poi all’Agenzia per la protezione dell’ambiente dello stato di Borno (Bosepa) che provvede a caricarli su camion della mondezza. Infine, vengono sepolti in fosse comuni anonime nel cimitero di Gwange, separate dall’area cimiteriale pubblica. Le condizioni detentive all’interno della base militare di Giwa sono note dal 2013. Lo scorso giugno, al termine di due anni di ricerche, un rapporto di Amnesty International aveva rivelato che dal 2011 almeno 7000 persone erano morte in centri di detenzione delle forze armate a causa di denutrizione, arsura, malattie, torture e diniego di cure mediche. Nel 2013, gli obitori avevano ricevuto oltre 4700 corpi provenienti dalla base militare di Giwa. Il sovraffollamento a Giwa è il risultato degli arresti di massa nello stato di Borno. Dopo che nel 2015 l’esercito ha strappato a Boko haram una serie di città, gli abitanti dei villaggi circostanti si sono riversati in massa nei centri controllati dalle forze armate. Così, numerose persone - soprattutto maschi adulti e adolescenti - sono state arrestate non appena arrivate in città come Banki e Bama o all’uscita dai campi per sfollati. Amnesty International ritiene che circa 1200 persone siano attualmente detenute nella base di militare di Giwa, in condizioni anti-igieniche e di sovraffollamento. Molte di loro sono state arrestate arbitrariamente durante rastrellamenti, spesso senza che vi fossero prove nei loro confronti. Una volta trasferiti alla base militare di Giwa, i detenuti rimangono senza processo e senza contatti col mondo esterno. Almeno 120 detenuti sono minorenni. I bambini di età superiore ai cinque anni, arrestati da soli o coi loro genitori, sono detenuti in una cella a parte, senza poter vedere i loro familiari. Quelli al di sotto dei cinque anni di età e i neonati sono tenuti in tre celle sovraffollate riservate alle donne. Nell’ultimo anno la popolazione di queste tre celle è aumentata di 10 volte: da 25 nel 2015 a 250 nel 2016. L’assenza di igiene favorisce la diffusione delle malattie. Amnesty International ha appreso che in ognuna delle tre celle vi sono circa 20 neonati e bambini ai di sotto dei cinque anni di età. I rilasci pubblici di massa di detenuti, compresi bambini e neonati, avvenuti nel corso dell’anno confermano che la presenza di questi ultimi nel centro di detenzione della base militare di Giwa non è un segreto per nessuno. Il 12 febbraio, nel corso di una cerimonia per il rilascio di 275 detenuti erroneamente sospettati di essere coinvolti in atti di terrorismo o di rivolta, il generale Hassan Umaru ha detto che quel numero comprendeva anche "22 minorenni e 50 bambini rilasciati con le loro madri". Secondo dichiarazioni dell’esercito, notizie di stampa e altre fonti pubbliche, dal luglio 2015 dalla base militare di Giwa sono stati rilasciati almeno 162 bambini. La Nigeria da tempo si trova di fronte a una sfida determinante: sconfiggere un nemico spietato e brutale come Boko haram ma rispettando pienamente i diritti umani e lo stato di diritto. Una sfida che, per quanto riguarda il secondo aspetto, pare persa. Chiudere il centro di detenzione di Giwa senza indugio e indagare su cosa vi è accaduto dentro per anni, è il minimo che le autorità nigeriane sono chiamate a fare. Indonesia: castrazione chimica e chip ai detenuti per abusi sui minori Reuters, 12 maggio 2016 Il governo indonesiano si sta impegnando per emanare un regolamento che diventerà legge (Perppu) sulla violenza sessuale nei confronti dei bambini con l’introduzione di pene massime di 20 anni di carcere e ai pedofili verrà impiantato un chip di monitoraggio continuo e nei casi più gravi la castrazione chimica. Il Presidente Joko "Jokowi" Widodo ha detto che gli abusi sessuali devono essere classificati come crimini straordinarie e di conseguenza gli sforzi devono essere maggiori per far in modo di estirpare questa piaga con punizioni che servano da deterrente. Il Presidente ha sottolineato la necessità di intensificare il coordinamento tra le istituzioni competenti, la Polizia di Stato e l’Ufficio del procuratore generale, per affrontare questo problema, che è venuto alla ribalta dopo lo stupro di gruppo e l’omicidio di uno studente di 14 anni, in un villaggio a Bengkulu ai primi di aprile e più di recente a causa di un rapporto simile avvenuto in Manado. Il piano di emettere un regolamento governativo in luogo di legge è stato annunciato dopo che la Camera dei Rappresentanti si è dichiarata riluttante a deliberare un disegno di legge per prevenire tali reati, sostenendo che i legislatori sono impegnati su parecchi fronti. Parlando ai giornalisti il ministro per i diritti umani, Yasonna Laoly, ha detto che si sta pensando di rendere pubblici i nomi dei detenuti per abusi sessuali e nel frattempo, si impianteranno dei chip in tutti questi detenuti per monitorare di continuo i loro spostamenti. Ogni giudice, dovrà valutare ogni singolo caso di violenza sessuale, così come le condizioni psichiatriche degli autori e a coloro che hanno psicologicamente la tendenza ad essere pedofili, sarà prevista, come punizione, la castrazione chimica. La Commissione indonesiana per la protezione dei bambini (Kpai) nella persona del presidente, Asrorun Nìam Sholeh, ha detto che è urgente mettere delle pene forti, visto che i casi di violenza sessuale nei confronti dei bambini stanno aumentando.