Carceri, superare le difficoltà per rendere la pena rieducativa di Vanna Iori (Deputato Pd) Dire, 11 maggio 2016 Oramai settant’anni fa l’articolo 27 della nostra Costituzione introduceva un principio che oggi risulta essere più che mai attuale: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La funzione rieducativa della pena rischia oggi di rimanere un paradosso che alimenta invece una rielaborazione rabbiosa, che mortifica la dignità umana o può davvero tradursi in un progetto possibile che consenta di trovare un senso nella pena, riattraversare le ombre delle devianza e del reato commesso per potere concepire un nuovo progetto per il proprio futuro e un reinserimento sociale? Questi interrogativi comportano una riflessione sul senso che può avere la pena dietro le sbarre, riflessione resa ancora di più necessaria in un contesto di crescente populismo giustizialista, superficiale ed emotivo, basato sulla insicurezza urbana, sulla paura del diverso (soprattutto se visto come straniero e "invasore") e sulla difesa della propria sicurezza che appare messa in pericolo dal tossicodipendente, dallo scippatore, dal recidivo per reati di lieve entità, ma anche dal clandestino, dal profugo. La pericolosità sociale di queste categorie di persone è spesso più apparente che reale e la detenzione risponde più all’esigenza di allontanare e segregare i "devianti" per la loro percepita più che effettiva pericolosità sociale. Il carcere diventa in tal modo una struttura "sostitutiva" delle strutture di recupero sociale inesistenti o insufficienti, che consentano l’uscita dal carcere anche per chi fuori non ha un domicilio. Questi sentimenti di paura e di inquietudine sono motivati anche dal fatto che non c’è nel nostro Paese il senso della certezza della pena e di una giustizia penale rapida e efficace. È evidente come non possa fungere da deterrente l’aumento delle pene detentive se non si interviene sui problemi della giustizia penale. Proprio per questo credo che occorrerà fornire innanzitutto risposte efficaci ai problemi della giustizia penale, alla lentezza dei processi, all’organizzazione inefficiente, alla mancanza di risorse, poiché è proprio intervenendo sul processo, per renderlo efficace e veloce, che si può migliorare il senso della pena e la percezione di una giustizia vera. Senza sminuire l’importanza della pena per il danno e il dolore provocato da chi è stato condannato, non si deve tuttavia dimenticare che lo scopo delle pena detentiva è sempre quello di tendere alla rieducazione del condannato. Mi sembra importante, in proposito, ricordare che Beccaria affermava, oltre due secoli fa, che "ogni pena non sia una violenza di uno o molti contro un privato cittadino. Deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti e dettata dalle leggi". La funzione rieducativa della pena riveste un’importanza fondamentale anche e soprattutto in un’ottica di contrasto alla recidiva: d’altronde anche i dati attestano che quando si promuove l’aspetto rieducativo all’interno delle carceri la percentuale dei casi di recidiva si abbassa sensibilmente. Il decreto 2978, approvato il 23 settembre scorso, contiene, all’articolo 30, indicazioni chiare per la revisione dell’ordinamento penitenziario in cui si indicano strumenti per il valore rieducativo della pena, principalmente attraverso facilitazioni per il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni nell’accesso ai benefici penitenziari. Ma soprattutto si indica nella valorizzazione del lavoro uno strumento di rieducazione propedeutico al reinserimento nella società. Inoltre si riconosce il diritto all’affettività come opportunità per la riduzione delle recidive. Forse siamo ancora lontani dall’attuazione dell’articolo 27 e stiamo ancora vivendo il paradosso e le contraddizioni della realtà carceraria sotto molteplici aspetti. Ciò che accade "dentro" interessa troppo poco a chi vive "fuori" e ha come unica aspirazione la propria sicurezza. Quindi non è ai "liberi" che interessa la concreta attuazione dell’articolo 27. Il populismo giustizialista è in fondo sotteso da questa concezione di "tenere al riparo" l’esterno da chi è condannato e sta "recluso" all’interno. I penalisti denunciano: ennesimo tentativo di delegittimare il "regime aperto" nelle carceri camerepenali.it, 11 maggio 2016 Il "regime aperto", previsto da oltre 40 anni e solo oggi, parzialmente, applicato. Si lavori, invece, per riempirlo di contenuti, nel rispetto del principio costituzionale della rieducazione del condannato, che da 68 anni chiede giustizia. L’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio "Osservatorio Carcere", denuncia l’ennesimo ed ingiustificato allarmismo che mira a evitare che, finalmente, dopo oltre 40 anni, trovi applicazione quanto disposto nell’Ordinamento Penitenziario, e a interrompere il percorso indicato dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Il ritrovamento di apparecchi cellulari all’interno di alcuni istituti di pena, è servito quale pretesto per mettere in discussione il c.d. "regime aperto", che consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori da quella che impropriamente viene indicata quale "cella", ma che la norma (art. 6 Ord. Pen.) definisce "locali destinati al pernottamento". Il predetto regime, pertanto, solo recentemente applicato, non è una concessione fatta dall’Amministrazione Penitenziaria ai detenuti, ma rappresenta esclusivamente quanto prevede la Legge. Con riferimento, in particolare, all’episodio avvenuto a Verona - dove un detenuto avrebbe organizzato una festa di compleanno all’interno della propria stanza, fotografata e postata su un profilo Facebook, con un apparecchio cellulare - va altresì ribadito che la Legge richiede momenti di socialità e che l’esecuzione della pena non prevede il divieto di celebrare particolari ricorrenze. Ogni censura di tale episodio, pertanto, è del tutto fuori luogo, mentre va evidenziato l’assenza di controllo in quegli istituti dove sono stati ritrovati telefonini in possesso di detenuti. Controllo che, se è fallace, va corretto e intensificato. Compito questo dell’Amministrazione Penitenziaria, che non deve limitare e/o contrastare i diritti dei detenuti, che - come evidenziato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - non sono stati, in questi anni, rispettati. Va ricordato, infatti, che l’ingresso negli Istituti di pena di esterni (compresi gli Avvocati) è preceduto - come è giusto che sia - da severi controlli, anche con apparecchi tecnologici. La partecipazione della società civile alla vita dei detenuti, così come i momenti di socialità tra gli stessi, sono conquiste sancite dal nostro ordinamento penitenziario ed implementate dalla relazione finale del Comitato Scientifico degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale che ha descritto un carcere aperto alla collettività e non chiuso in sé stesso. Tornare al "regime chiuso" sarebbe contra legem, rappresenterebbe l’ennesima sconfitta dello Stato e certamente non eviterebbe l’ingresso di oggetti vietati. L’Unione Camere Penali Italiane, nel denunciare l’inutilità e la gravità di quest’ulteriore aggressione ai diritti dei detenuti, confida, invece, che il "regime aperto" sia davvero applicato in tutti gli istituti di pena e soprattutto sia riempito di contenuti, di quelle attività previste, sin dal 1948, dalla nostra Costituzione e non sia ridotto - come oggi - al solo passeggio nei miseri corridoi di un padiglione. La Giunta Ucpi L’Osservatorio Carcere Ucpi Ospedali Psichiatrici Giudiziari: ora chiuderli tutti superando.it, 11 maggio 2016 Sembra proprio si sia imboccata la "strada finale" per gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, strutture che ancora nel 2011 una Commissione d’Inchiesta del Senato aveva definito una sorta di "inferno in terra". Dopo la chiusura a Reggio Emilia e Secondigliano, ne restano ancora tre (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa e Montelupo Fiorentino), e tuttavia, come ammonisce il Comitato Stop OPG, bisogna vigilare con grande attenzione sul "dopo", per far sì che "sia l’inclusione sociale la via maestra per assicurare cura e riabilitazione, e sempre diritti e dignità" "La buona notizia della chiusura di Reggio Emilia segue quella della chiusura di Secondigliano (Napoli). Ora vanno chiusi quelli di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa (Caserta) e Montelupo Fiorentino (Firenze), dove restano meno di ottanta persone internate, ma c’è anche da smascherare l’operazione fatta a Castiglione delle Stiviere (Mantova), dove l’OPG ha solo cambiato targa diventando una "mega Rems" (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), con oltre duecento internati, come denunciato dallo stesso commissario per il superamento degli OPG Franco Corleone. A Reggio Emilia, inoltre, è venuta alla luce anche la situazione drammatica e finora sottovalutata dei detenuti con sopravvenuta malattia mentale, che finora erano trasferiti dal carcere per finire rinchiusi in OPG, e per i quali invece devono essere garantite cure adeguate, che come ben sappiamo, né il carcere, né gli OPG, né le "istituzioni totali" in genere sono in grado di assicurare". Lo si legge in una nota diffusa da Stefano Cecconi, Vito D’Anza, Giovanna Del Giudice, Denise Amerini e Patrizio Gonnella, a nome del Comitato Stop OPG - organismo che conduce ormai da anni una dura battaglia per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ancora presenti nel nostro Paese - dopo la comunicazione, da parte del commissario Corleone, della chiusura dell’OPG di Reggio Emilia. "Mentre quindi il commissario Corleone insiste sia per accelerare la chiusura degli OPG supersiti - prosegue la nota - sia per monitorare il funzionamento delle REMS, chiedendo giustamente un provvedimento volto a fermare gli ingressi nelle stesse di persone con misura di sicurezza provvisoria, il nostro Comitato gli conferma la piena disponibilità a collaborare, ribadendo che a nostro avviso egli debba procedere, prioritariamente e con la massima urgenza, per la presa in carico da parte dei servizi dei territori di appartenenza - e non necessariamente per un trasferimento nelle REMS - delle persone ancora internate negli OPG, così da chiudere questi ultimi in via definitiva. E che debba agire, nel rispetto del mandato ricevuto, soprattutto per garantire che le misure alternative alla detenzione, quindi anche alle Rems, siano la norma e non l’eccezione, il che vuol dire investire decisamente sul potenziamento dei servizi socio sanitari e di salute mentale, per garantire che sia l’inclusione sociale la via maestra per assicurare cura e riabilitazione, e sempre diritti e dignità". Il ministro Orlando incontra Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti giustizia.it, 11 maggio 2016 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha incontrato in mattinata il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale presso la sede di via San Francesco di Sales 34 in Roma. Il ministro è stato ricevuto dal presidente del collegio del Garante Nazionale Mauro Palma e dai due membri Daniela de Robert e Emilia Rossi. Nel corso della visita Orlando ha avuto anche modo di incontrare i componenti dell’Ufficio del Garante Nazionale formato da funzionari provenienti dai ruoli del Ministero della Giustizia e dell’Interno. Nell’occasione il ministro e il Collegio hanno avuto uno scambio di informazioni circa alcuni degli esiti relativi alle prime visite effettuate nelle carceri italiane e sulle linee che il Garante intende sviluppare per affermare un modello più avanzato di vita detentiva. Come noto, il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, introdotto nell’ordinamento italiano con il decreto legge 146 del 2013, convertito nella legge 10 del 2014, ha avviato da circa un mese e mezzo la propria operatività ed ha effettuato già numerose visite di monitoraggio negli istituti di pena di Oristano, Venezia, Catanzaro, Reggio Calabria, Trento e Gorizia. L’On. Dambruoso: "c’è chi si trasforma in imam e radicalizza i detenuti musulmani" intervista a cura di Gian Micalessin Il Giornale, 11 maggio 2016 "La rete terroristica scoperta a Bari è preoccupante perché riconferma una vicinanza, seppur collaterale, fra il fenomeno migratorio e la presenza sul nostro territorio di soggetti legati all’Isis o al terrorismo islamista". L’onorevole e questore della Camera Stefano Dambruoso, ex magistrato protagonista dopo l’11 settembre di indagini che garantirono lo smantellamento di varie reti alqaidiste in Italia, sottolinea in questa intervista a il Giornale la pericolosa sovrapposizione tra flussi migratori e infiltrazione terroristica nel nostro Paese. "Non è la prima volta che lo si rileva e non lo è soprattutto nell’area di Bari - spiega Dambruoso - la Puglia e il porto di Bari si stanno rivelando un punto di passaggio per garantire l’entrata in Europa, a soggetti dissimulati da migranti o in possesso di documenti falsi legati a gruppi terroristi". Il rischio di un’infiltrazione tra i migranti è stato sottovalutato? "I fatti si accertano quando si manifestano. I migranti non sono terroristi e quindi all’inizio si tenevano distinti i due fenomeni. Oggi, i fatti lo dimostrano, nelle trafile di sfruttamento degli esseri umani prodotte dal fenomeno migratorio s’introducono soggetti che sfruttano questo consenso per infiltrarsi. Ma sono singole persone a fronte di migliaia". Quindi un’immigrazione fuori controllo è il cavallo di Troia dei terroristi... "Oggi non lo è, ma come i fatti stanno confermando può diventarlo. In questo momento è un fenomeno sotto controllo anche rispetto al passato. C’è una maggior consapevolezza che il porto di Bari va monitorato con attenzione". A dicembre, sempre a Bari, è stato arrestato Majid Muhamad, già condannato a 10 anni per terrorismo internazionale e implicato nel trasferimento di "migranti" sospetti. "Esatto. Anche in quel caso c’era un soggetto che viveva facendo il mediatore di migranti e a questo aggiungeva il supporto logistico a singoli che volevano raggiungere l’Europa. Il fatto più preoccupante registrato in Puglia è proprio questo legame tra il circuito dei migranti e i fatti legati all’Isis e al terrorismo". Il legame è con le cellule jihadiste dei Balcani o con la rotta che da Grecia e Turchia portano in Iraq e Siria? "Le evidenze dimostrano un collegamento con la rotta che attraversa Grecia e Turchia. La penetrazione di soggetti legati alle reti jihadiste dei Balcani resta più legata al Nord-Est". Gli arresti di Bari arrivano all’indomani della rivolta nel carcere di Piacenza. La presenza terroristica si sta facendo pervasiva? "Non direi. La vicenda di Piacenza è stata amplificata a dismisura, ma è più legata alle condizioni di quel carcere che all’effettiva gravità di una rivolta. Non è neppure confermato che due tunisini abbiano inneggiato all’Isis". Lei è il relatore di una legge per la lotta alla radicalizzazione nelle carceri. Non negherà che le prigioni italiane siano a rischio... "Assolutamente... il carcere è uno dei luoghi in cui bisogna fare più attenzione. Là dentro entrano molti criminali comuni musulmani non radicalizzati. In una situazione di oggettiva fragilità personale diventano però destinatari della predicazione aggressiva di soggetti che pur non essendolo mai stati prima, si trasformano, dentro il carcere, in predicatori e imam". Come si può evitarlo? "La mia legge propone d’individuare gli imam che non provengano da centri culturali o moschee non riconosciuti. Va invece garantito il massimo riconoscimento a moschee o centri culturali pronti a siglare un patto istituzionale con il governo sul riconoscimento dei diritti fondamentali della Carta Costituzionale italiana e a garantire una predicazione in linea con questo". A novembre l’amministrazione carceraria ha firmato un’intesa con l’Ucoii, la rappresentanza della comunità islamiche legate alla Fratellanza Musulmana. È una scelta in linea con la sua proposta? "L’Ucoii ha una sua presenza rispettabile nel panorama italiano. C’è però chi sottolinea situazioni che sollecitano una diversa valutazione. È accaduto con le moschee a Milano e penso che a livello nazionale ci si debba porre lo stesso problema". L’Ucoii rappresenta la Fratellanza Musulmana... "Il problema è proprio quale sia l’inquadramento che si da alla Fratellanza Musulmana. Oggi questo inquadramento non è del tutto lontano da perplessità". Avrebbe suggerito quell’accordo? "Faccio altro". La riforma non è perfetta ma i suoi nemici hanno torto di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 11 maggio 2016 Non c’è alcun progetto autoritario. E Renzi non è Erdogan. Ma il buon senso è una merce rara. Soprattutto in politica. Sarà l’ennesima, tristissima, dimostrazione di quanto possa scadere il dibattito pubblico nei momenti in cui il conflitto raggiunge la massima intensità. Se così non fosse, potremmo fin d’ora divertirci pensando alle scenette involontariamente comiche a cui assisteremo durante la campagna per il referendum costituzionale di ottobre. Come quella in cui qualche nemico della riforma, travolto da insana passione politica, accuserà il Presidente emerito, Giorgio Napolitano, di tradimento della Costituzione, di essere complice del "progetto autoritario" concepito dal perfido Erdogan-Renzi. Nell’intervista al Corriere del 3 maggio, Napolitano ha detto il vero. Se la riforma del Senato non passerà, quella sarà la fine di ogni speranza di rinnovamento della democrazia italiana. Napolitano ha ricordato i tentativi passati, sempre falliti, per fare dell’Italia una vera democrazia governante. Ha anche osservato che l’eterogenea coalizione che dice "no" alla riforma è composta da tre gruppi. C’è il gruppo dei contrari, sempre e comunque, a toccare la Costituzione, quelli per cui (persino) il "bicameralismo paritetico" (due Camere con uguali poteri) è una componente imprescindibile della democrazia. C’è poi il gruppo di quelli a cui non importa molto della Costituzione, quelli che vogliono "fare fuori" Renzi. Il terzo gruppo, infine, è composto dai perfezionisti, quelli favorevoli, in linea di principio, a riformare la Costituzione ma la cui contrarietà dipende dall’esistenza di sbavature e difetti vari del testo approvato dal Parlamento. Con i primi due gruppi, che chiameremo gli "irriducibili", è inutile discutere. Non possono essere convinti (oltre a tutto, come vedremo, sono tenuti insieme non solo da ragioni ideali ma anche da interessi politici e corporativi). Si può solo mostrare al pubblico la debolezza di molte delle loro argomentazioni. Il gruppo con cui vale la pena di discutere è quello dei perfezionisti, ostili alla riforma a causa di certi suoi difetti attinenti alla composizione del Senato (come la presenza di una quota di sindaci) e ad alcune delle previste competenze. Sono anche gli unici sinceramente interessati a confrontarsi pacatamente (come ha fatto Valerio Onida sul Corriere di ieri). Ai perfezionisti occorre dire che, sì, la riforma ha qualche difetto ma che questo è inevitabile, si verifica sempre quando un "comitato" in cui sono presenti tante teste e tante sensibilità diverse (un Parlamento è proprio questo) deve deliberare su un provvedimento complesso. Le mediazioni parlamentari, inevitabilmente, "sporcano", almeno un po’, qualsiasi progetto, anche quello che in origine sembrava ottimo, perfetto. L’unica possibilità alternativa alle mediazioni parlamentari (con i loro tira e molla e i compromessi necessari per formare una maggioranza) è una riforma imposta dall’alto, dal De Gaulle di turno, e confezionata per lui da un consigliere di fiducia. Se si preferisce la prima soluzione (e penso che siamo d’accordo nel preferirla), quella della mediazione parlamentare, della decisione collettiva assunta da un comitato, allora bisogna rassegnarsi alle imperfezioni. Solo una leggenda ha fatto credere ad alcuni che la stessa sorte non fosse toccata alla Costituzione vigente quando venne confezionata dall’apposito comitato (la Costituente). Sabino Cassese (Corriere del 6 maggio) ha mostrato la debolezza degli argomenti dei contrari alla riforma del Senato. Non c’è nessuna "democrazia autoritaria" alle porte. Il governo sarà un po’ più forte (e un po’ più stabile ed efficiente) ma continuerà ad essere bilanciato da contropoteri che esistono oggi ma non esistevano agli albori della Repubblica: le istituzioni europee, la Corte costituzionale, le Regioni. Si rimedierà però a due gravi errori: il bicameralismo paritetico, appunto, che ha reso sempre debole e incerta la navigazione dei governi, e gli effetti della sciagurata riforma del Titolo V che spostò dal governo centrale alle Regioni poteri e competenze che non avrebbero mai dovuto prendere quella strada e che mise i governi nella impossibilità di attuare politiche nazionali in alcuni ambiti cruciali. Piuttosto, è giusto ricordare, come ha fatto Antonio Polito sul Corriere del 9 maggio, che la riforma del Senato è strettamente collegata alla legge elettorale (Italicum). Chi vota (in un senso o nell’altro) sul Senato vota anche, di fatto, su quella legge. Ci sono interessi, politici e corporativi, che, motivi ideali a parte, alimentano la "coalizione del no". In primo luogo, sono ostili diverse Regioni le quali preferiscono di gran lunga tenersi poteri e competenze regalate loro dalla riforma del Titolo V, fonti di tante "insane" politiche clientelari, piuttosto che puntare su quell’influenza sana, pulita, che il costituendo Senato delle Regioni consentirebbe loro di esercitare in difesa dei rispettivi territori. Poi ci sono alcuni settori della magistratura (Magistratura democratica fa parte del comitati per il no, e diversi magistrati stanno facendo campagna contro la riforma). Verosimilmente, temono il rafforzamento del governo, temono che, per effetto di quel rafforzamento, la loro posizione di preminenza entro il sistema politico possa, col tempo, indebolirsi. Ci sono poi gli interessi politico-partitici, quelli dei nemici di Renzi, interni al suo partito ed esterni, di coloro che vogliono affossare la riforma per sbarazzarsi del premier. Nulla da eccepire: è la politica, bellezza. Si può solo concordare con Il Foglio quando rileva una stranezza: Silvio Berlusconi (che ha appena ribadito la sua contrarietà alla riforma) si ritrova ora alleato dei propri storici nemici, di una coalizione che usa contro Renzi gli stessi argomenti che per venti anni ha usato contro di lui. Orlando: giudici liberi di esprimere opinioni. Davigo (Anm): vale il nostro codice etico di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2016 "Credo che non ci sia nessun problema" per i magistrati a esprimere "la propria opinione", ma c’è "una questione di opportunità" rispetto a un loro "impegno diretto nella campagna referendaria". È la frase, usata ieri dal Guardasigilli Andrea Orlando, per esprimere un’apertura ai contributi delle toghe al dibattito in vista del consultazione d’autunno, purché rispettosi di una autoimposto criterio di self restraint. Reduce da un lungo faccia a faccia pomeridiano a via Arenula, oltre due ore, con la giunta dell’Anm al completo guidata da Piercamillo Davigo, il ministro precisa che non si è fatto cenno al "caso Morosini", il membro togato del Csm che con un’intervista (parzialmente smentita) ha scatenato le polemiche prospettando l’impegno "attivo" dei magistrati per il no al Ddl Boschi. Ma le sue parole confermano l’allineamento alla campagna del Quirinale per la "leale collaborazione" tra giustizia e politica, senza colpi bassi. Non a caso, l’incontro chiesto da Orlando al vicepresidente del Csm, fissato per oggi, non riguarderà le affermazioni di Morosini e le possibili sanzioni disciplinari a suo carico che il ministro potrebbe promuovere, ma le valutazioni del magistrato "sul funziona- mento di alcuni organi di rilevanza costituzionale", vedi Csm. Un modo, anche questo, per gettare acqua sul fuoco. Archiviato il tema caldo, il bilancio dell’incontro - una lunga rassegna delle questioni aperte della giustizia, dagli organici del personale ai tempi all’arretrato del civile e del penale e al problema delle prescrizioni - segna il trionfo dell’approccio Orlando, che lega la soluzione del conflitto toghe-politica alle riforme. "All’Anm ho chiesto di contribuire a un salto di qualità organizzativo", spiega Orlando, preannunciando altri incontri con l’associazione per parlare di durata dei processi, organici, personale e persino di riforma del Csm. Soddisfatto dell’incontro anche Davigo, che da giorni manda segnali positivi a via Arenula, "perché è emersa una seria volontà di dialogo" e la "reciproca volontà di collaborazione" sui nodi strutturali della Giustizia. "Ci auguriamo di aver rimesso sui binari giusti e propri il dialogo tra politica e giustizia", chiosa il vice segretario Anm, Corrado Cartoni. La giornata dei vertici Anm prosegue poi con un altro lunghissimo incontro a palazzo dei Marescialli con il vicepresidente Legnini. Ed è qui che il cerchio si chiude, con l’intesa che sugli interventi delle toghe sul referendum "valgano le regole del codice etico Anm", come sintetizza Davigo. Un documento, valido per gli iscritti, che vieta ai magistrati l’iscrizione ai partiti politici o la partecipazione alle loro attività, e "qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitici" pena la decadenza. E "fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero", impone ai magistrati di ispirarsi "a criteri di equilibrio, dignità e misura" in dichiarazioni e interviste. La palla, su referendum e manifestazione del proprio pensiero dei magistrati, passa quindi all’Anm, "che deciderà il 21 maggio quando si riunirà il comitato direttivo centrale", conclude un soddisfatto Davigo. All’incontro, che segna una sorta di divisione dei ruoli in campo deontologico tra Csm e Anm, Legnini conferma la messa in stand by del Codice deontologico per i consiglieri Csm, da lui sollecitato proprio per mettere un freno alle violazioni del "riserbo istituzionale". A deciderlo, in mattinata, era stato un vertice Legninir appresentanti dei gruppi, togati e laici, del Csm, in attesa di un confronto allargato a tutti i consiglieri. Legnini non cede, e ricorda come il Codice sia necessario perché "se un consigliere decidesse di partecipare attivamente alla campagna, bisognerebbe verificare come l’istituzione riuscirebbe a garantire il corretto esercizio delle funzioni attribuite". Orlando e Davigo. Tregua armata dopo la bufera di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 maggio 2016 Il ministro vede il presidente dell’Anm dopo gli scontri tra toghe e politica. Giornata importante quella di ieri al Ministero della giustizia. Il Ministro Andrea Orlando, che oggi sarà a Londra in rappresentanza del Governo al Vertice Anti-Corruzione promosso dal Primo Ministro britannico David Cameron, ha incontrato per la prima volta la neo Giunta esecutiva centrale dall’Anm. L’incontro, richiesto dai nuovi vertici del sindacato delle toghe dopo l’insediamento avvenuto lo scorso mese di aprile, giunge in un momento di grandissima tensione fra magistratura e classe politica. Il clima aveva iniziato a surriscaldarsi all’indomani delle ormai celebri dichiarazioni alla stampa del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, "i politici - dai tempi di Tangentopoli - non hanno mai smesso di rubare". Benzina sul fuoco proprio nei giorni del clamore mediatico per le indagini della Procura di Potenza su Tempa Rossa che avevano costretto a precipitose dimissioni il ministro dello Sviluppo economica Federica Guidi. La quale, pur non essendo indagata ma solo ampiamente intercettata, era stata obbligata ad una mesta uscita di scena per non compromettere ulteriormente l’immagine dell’esecutivo Renzi dopo la vicenda del crac Banca Etruria. Al crescendo di dichiarazioni ed esternazioni di Davigo, che per tutto il mese di aprile aveva imperversato sugli organi di informazioni del Paese, come si ricorderà, era stato poi messo un "freno" dagli stessi componenti della Giunta Anm, affiancandogli, anche nei rapporti con gli organi d’informazione, il segretario generale, il pm di Roma Francesco Minisci, uno dei più stretti collaboratori del procuratore Giuseppe Pignatone, entrambi appartenenti ad Unicost e legati dalla comune esperienza in Calabria. L’argomento principale sul tappeto era la legittimazione dei magistrati ad intervenire, singolarmente o come correnti, nel dibattito pubblico sulle riforme costituzionali. Anche se, essendo il primo incontro, in verità si è trattato più che altro di un saluto istituzionale. Senza entrare pienamente nel merito della questione. Dopo l’intervista "off records" del consigliere togato del Csm Piergiorgio Morosini al Foglio, in cui rivendicava il suo No al referendum di ottobre, si erano infatti levate critiche da più parti, in primis proprio dal ministro della Giustizia che aveva stigmatizzato l’irritualità di certe affermazioni richiedendo un rapido chiarimento. E, con gli stessi toni, si era espresso anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini. Pur partendo da posizioni diverse, tutte le correnti sono attualmente concordi sul fatto che i magistrati, pur con modalità e toni imposti dalla funzione, possano esprimere le proprie opinioni. Nodo del contendere è però l’adesione in maniera esplicita ai Comitati pro o contro la riforma costituzionale. Sul punto, maggiore cautela da parte di Magistratura indipendente e Unicost. Impegno diretto da parte di Area, che sarà ufficializzato nella prossima assemblea nazionale dell’11 e 12 giugno. Nei prossimi giorni si attende, comunque, una nota unitaria dell’Anm. Legnini e il difficile equilibrio tra le toghe e i timori del Colle di Errico Novi Il Dubbio, 11 maggio 2016 Il vicepresidente del Csm chiede sobrietà d’intesa con Mattarella, non a nome di Renzi. Pierantonio Zanettin è un liberale di lungo corso. Eletto senatore in Forza Italia, è stato indicato come laico al Csm per la sua capacità di rappresentare le posizioni sulla giustizia di tutto il centrodestra, Lega compresa. Non dimentica quanto avvenne dieci anni fa con la riforma costituzionale disegnata, tra gli altri, dal leghista Calderoli. "Le toghe si schierarono liberamente, in gran parte per il no: dovrebbero poterlo fare di nuovo. Una norma ad Morosinim sarebbe inaccettabile...". Zanettin è un laico: coinvolto sì, ma come singolo rappresentante di un’area politica. Si provi a immaginare quante tensioni attraversano le correnti dei magistrati. Comprese le loro articolazioni nel Consiglio superiore. Alcuni gruppi - soprattutto i due riuniti nel cartello di "Area", Md e Movimento per la giustizia - reclamano libertà di intervento sul referendum costituzionale. Non hanno preso bene le parole pronunciate domenica dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, soprattutto il passaggio sul referendum che "si è caricato di un significato politico" e sulle "ragioni che suggerirebbero cautela" ai giudici. Ieri Giovanni Salvi, procuratore generale a Roma e autorevole rappresentante di Md, ha difeso "l’irrinunciabile diritto dei magistrati di esprimere opinioni sul dibattito politico-istituzionale". Giuseppe Pignatone, che a Roma è il capo dei pm e aderisce a Unicost, dichiara di preferire il "riserbo". Ieri mattina Legnini ha cercato di stemperare le tensioni in un incontro tra il comitato di presidenza del Csm e i capigruppo di laici e togati. Ne è venuta fuori l’esortazione a "spegnere i riflettori" e chiudere il caso delle "parole attribuite dal Foglio a Piergiorgio Morosini". Meglio evitare la partecipazione a manifestazioni politiche, si è poi convenuto: ma il vincolo riguarda i componenti del Consiglio superiore, laici e togati, non i magistrati in generale. Sulla condotta che dovranno tenere tutti gli altri giudici del Paese, sarà l’Anm a decidere. Queste indicazioni saranno discusse di nuovo da tutti i consiglieri in una riunione informale convocata per domani, dunque dopo l’incontro tra Orlando e Legnini previsto per oggi. Si valuterà se fissare le regole in un codice di autoregolamentazione interno. Uno dei maggiori esponenti di Unicost, Luca Palamara, ne suggerisce l’adozione. È una difficile ricerca dell’equilibrio che mette a dura prova Legnini. Vittima probabilmente di un equivoco. La sua mission è rappresentare le preoccupazioni proprie ma anche quelle del presidente della Repubblica. Non è un caso che l’incontro di ieri mattina al Csm si sia tenuto a poche ore da quello tra il presidente della Repubblica e il vicepresidente del Csm. Molti nella magistratura associata, soprattutto all’interno di "Area", vedono però nello sforzo di composizione compiuto da Legnini un indirizzo pienamente politico. Legato cioè al partito da cui Legnini proviene, il Pd, e al fatto che il premier nonché segretario di quel partito leghi il destino del proprio esecutivo all’esito del referendum costituzionale. Un equivoco, di cui Legnini è chiaramente vittima. Le interpretazioni forzate vedono l’ombra di Renzi stagliarsi dietro l’ex sottosegretario all’Economia, ladove ci sono al massimo le esortazioni di Mattarella. Incomprensioni che Legnini dovrà sopportare. In nome soprattutto del ritorno a un confronto sereno tra politica e magistratura. Davigo (Anm): "referendum, alle toghe basta la deontologia" di Domenico Cirillo Il Manifesto, 11 maggio 2016 Il presidente dell’Anm Davigo frena il vice presidente del Csm: i magistrati hanno già le loro regole. Ma Legnini insiste, vuole una raccomandazione del Consiglio per tenere i suoi componenti lontani dalla campagna per il no. Volti distesi e clima cordiale al termine dell’incontro di ieri al ministero della giustizia tra il ministro Andrea Orlando e la giunta dell’Associazione nazionale magistrati guidata dal presidente Piercamillo Davigo. Le tre settimane trascorse dall’intervista di Davigo nella quale diceva che "i politici non hanno smesso di rubare ma hanno smesso di vergognarsi" hanno contribuito a raffreddare il clima. Per questo l’incontro di "presentazione" del nuovo vertice dell’Anm, che tra undici mesi sarà già sostituito, era stato spostato in avanti. Le critiche delle altre correnti all’irruenza del presidente Davigo e le capacità diplomatiche di Orlando hanno fatto il resto. "È stato un incontro molto proficuo", ha detto Davigo uscendo. "Utile e positivo", ha fatto eco Orlando. Del resto è servito solo a fare l’elenco delle questioni da affrontare, in successivi incontri: organizzazione degli uffici, durata dei processi, organici dei magistrati, personale amministrativo e funzionamento del Csm. "Di referendum non abbiamo parlato", hanno detto entrambi. Cioè della possibilità che il Csm provi a vietare o a sconsigliare ai magistrati, tutti o solo quelli particolarmente in vista, di partecipare alla campagna per il referendum costituzionale. Eventualità che l’Anm respinge. E della quale è andata a parlare con il vice presidente del Csm Legnini e il gruppo di presidenza del Consiglio poco dopo aver lasciato il ministero. L’ipotesi che il Csm approvi un documento sulla linea delle dichiarazioni in tv di Legnini - "occorre cautela perché il referendum costituzionale si è caricato di significato politico" - resta in campo. La discussione si farà certamente in una delle prossime sedute di plenum, Legnini la vuole. In ogni caso la raccomandazione (non è immaginabile un divieto) sarebbe rivolta ai soli consiglieri, togati e laici, dell’organo di autogoverno della magistratura. Per alcune correnti, come Magistratura democratica che ha aderito da quattro mesi al comitato per il no al referendum, sarebbe in ogni caso troppo. Davigo ieri ha escluso che l’Anm possa rivolgere un uguale appello alla totalità dei magistrati. "Per tutti vale il nostro codice etico", ha detto il giudice uscendo dal Csm ieri sera. Il riferimento è alle regole deontologiche approvate sei anni fa dall’Anm, che si limitano a raccomandare "criteri di equilibrio, dignità e misura" in tutte le uscite pubbliche delle toghe. E per quanto riguarda l’impegno politico solo avvertono che i magistrati devono evitare "qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitici che possano condizionare l’esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l’immagine". Altra questione è se l’Anm possa o debba dare un’indicazione di voto al referendum. La stessa Md lo esclude. "Ne parleremo nel prossimo comitato direttivo centrale, il 21 maggio", ha detto Davigo. Intanto al senato la discussione interna al Pd e agli alleati sulla prescrizione registra il primo passo in avanti. Grazie all’iniziativa del gruppo di Verdini, sempre più protagonista della maggioranza. L’idea è del senatore Falanga, che propone di introdurre un’eccezione all’obbligatorietà dell’azione penale dando la precedenza ai processi per i reati contro la pubblica amministrazione. Una corsia preferenziale per corruzione, abuso di ufficio e concussione. In questo modo non ci sarebbe bisogno di allungare i tempi di prescrizione, cosa che i verdiniani, come i senatori dell’Udc, non accettano. "Possiamo accogliere la proposta nel nostro testo base", ha detto il senatore del Pd Casson. I magistrati e l’opportunità del silenzio di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 11 maggio 2016 Toccano una questione non nuova le polemiche attorno agli interventi di singoli magistrati o di loro gruppi associativi sulla riforma della Costituzione. Riforma che, approvata dal Parlamento, sarà sottoposta a referendum per la sua conferma o reiezione. Anche all’interno della magistratura, la presa di posizione politica singola o collettiva da parte dei magistrati è oggetto di opposte valutazioni, che risalgono già alla fine degli Anni 60, quando l’associazionismo giudiziario si fece vivace (ed anche fecondo). La rivendicazione del diritto di prendere posizione e partecipare alla lotta politica fu ed è rimasta un singolare carattere proprio del gruppo di Magistratura Democratica. Ora la questione si ripresenta e tende a essere discussa secondo lo schema che oppone il lecito (una libertà) all’illecito (una violazione sanzionabile). Si tratta di uno schema ormai prevalente nel dibattito politico italiano, ove spesso le condotte che non sono sanzionate (penalmente, con sentenze definitive) sono ritenute lecite e senza alcuna possibile conseguenza. Così, in difesa delle prese di posizione dei magistrati, si fa valere il diritto alla libertà di espressione, garantito a tutti dalla Costituzione. Si tratta però di un diritto che non è privo di limiti, che non riguardano solo i magistrati. Ma soprattutto la riduzione della questione al piano del diritto, nella sua veste sanzionatoria, distoglie l’attenzione (e la polemica) dal terreno più rilevante, che indica invece i cardini del tema nell’opposizione tra l’opportuno e l’inopportuno. Per chiarezza va detto che quest’ultimo terreno è anche più delicato e importante del primo legato alla sola legalità/sanzionabilità. Che non tutto ciò che è lecito sia anche opportuno è affermazione ovvia, così come lo è la severità della condanna di una condotta inopportuna, che può essere addirittura maggiore di quella dipendente dalla sola legalità. Piuttosto che la distinzione tra le dichiarazioni di carattere politico e quelle che politiche non sarebbero, bisognerebbe considerare il legame che la condotta del magistrato ha con la sua funzione, per vedere se questa sia utilmente richiamata o sia invece strumentalizzata. Il primo caso si ha quando l’intervento del magistrato riguarda ciò che è legato alla sua specifica esperienza, che altri non potrebbe avere. Così ad esempio le Commissioni parlamentari procedono ad audizione di magistrati su temi su cui la loro esperienza è rilevante. I magistrati poi da sempre collaborano efficacemente a riviste e convegni giuridici. Ma l’intervento del magistrato nel largo pubblico su problemi di natura generale, proprio perché espressivo della sua esperienza, è non solo lecito ma anche utile a formare un’opinione pubblica consapevole. Un esempio può essere quello recente che ha visto magistrati dichiarare e attestare che è inutile e anzi controproducente il mantenimento del reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato. Ma, venendo all’intervento di magistrati nel dibattito attorno alla riforma della Costituzione, quale è il legame di esperienza che giustifica le prese di posizione? Prese di posizione che sono naturalmente di natura politica e non tecnica. Esse, anche se fatte da singoli, coinvolgono la magistratura nella contrapposizione al Parlamento e al Governo fattosi costituente, nell’appello al popolo cui appartiene la sovranità. Senza offesa per chi ha già pubblicizzato la sua posizione, è difficile attendersi da parte del magistrato argomenti nuovi o più efficacemente esposti, rispetto a quelli che già tanti e tanto autorevoli esperti hanno reso pubblici. E allora c’è da chiedersi quale sia l’apporto dato al dibattito dal fatto che chi parla è un magistrato. La risposta rinvia alla qualità stessa di chi interviene, alla funzione svolta, alla credibilità assegnata alla istituzione di cui il magistrato è parte. In assenza di argomentazioni radicate nell’esperienza specifica del magistrato, la diversità dell’intervento del magistrato - e tanto più di un gruppo - sta proprio nella chiamata in appoggio della funzione giudiziaria svolta. Non si tratta dunque di messa a disposizione del dibattito pubblico di ciò che si è appreso e maturato nell’esercizio delle funzioni svolte, ma di uso improprio della particolare funzione che la Costituzione assegna alla magistratura. Che quest’ultima sia impropriamente e inopportunamente messa in campo, sperando che pesi nella discussione, è dimostrato dal fatto che nessun media che dia conto di interventi di magistrati ometta di citarne la funzione (procuratore della Repubblica, giudice, consigliere del Csm, ecc.): non parla infatti il cittadino, ma il magistrato in quanto tale e perché è tale. Sarebbe bene che non lo facesse. Il diritto di esternare dei magistrati di Marcello Adriano Mazzola Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2016 In questi giorni il colloquio avuto dal dott. Morosini, componente del Csm (organo di rilievo costituzionale presieduto dal Presidente della Repubblica e poi dal vicepresidente avv. Legnini), con la giornalista che lo ha riportato ed il cui titolo, volutamente prescelto, ha estremizzato o forse stravolto il pensiero complessivo, ha innescato una questione che per molti covava sotto la cenere: il rapporto tra politica e magistratura in Italia. Il dibattito infatti, se da un lato ha preso il là con le dichiarazioni di insediamento (e se vogliamo anche di posizionamento) del dott. Davigo quale presidente dell’Anm, si è allargato poi alle dichiarazioni del dott. Spataro (e di tanti altri magistrati di rilievo, ivi inclusi altri componenti del Csm), del presidente Mattarella, del Guardasigilli on. Orlando, dello stesso vicepresidente avv. Legnini, della presa di posizione di Anm. Occorre mettere a fuoco un tema certamente delicato, attenendo anche al rapporto tra diversi poteri dello Stato ed alla demarcazione dei confini della politica e della magistratura ma senza pregiudicarne l’esercizio dei diritti fondamentali (quali anche il diritto alla libera manifestazione del pensiero). L’Italia è o no un paese ad altissimo livello di corruzione ed illegalità? Sì, come certificato ogni anno da tutti i report internazionali indipendenti e come riconosciuto internamente (paradossalmente quasi con orgoglio da molti politici nostrani). Tale metastasi (corruzione ed illegalità) quanto ci costa in termini di: democrazia, uguaglianza, coesione sociale, tutela effettiva dei diritti, crescita economica (il famoso Pil), reputazione (all’estero, dunque di affidabilità del sistema Italia e all’interno, dunque a vantaggio delle nostre menti migliori che desiderino crescere e far crescere questo paese)? Una enormità, difficilmente quantificabile se non in decine o forse centinaia di miliardi ogni anno. A fronte di tale metastasi la politica ha dimostrato di sapersi rinnovare? Certamente no, perché, ad eccezione di una parte (nuova e movimentista), per il resto domina ancora la vecchia logica dell’occupazione di potere (possibilmente concentrandolo ancor di più), della spartizione del bottino (con appalti, affidamenti diretti e nomine nei posti giusti). Domina lo status quo, illudendo che tutto stia per cambiare. Uno spot buono per consumatori inebetiti, ai quali sbandierare falsi sorrisi e falsi slogan. La politica in Italia domina la scena in ogni campo, occupa ogni spazio con una legislazione cialtrona (perché finalizzata a garantirsi il pieno dominio) e con una burocrazia tentacolare, non rispettosa degli altri poteri (tra cui anche quello giudiziario)? Assolutamente sì. E la prova regina è proprio offerta dalla riforma costituzionale (che il premier ha definito essere un plebiscito sulla sua persona), scritta da padri ricostituenti abusivi ed occasionali, tesa a stravolgere la Carta con circa 40 articoli modificati, con l’unico intento di accentrare il potere, riportando così l’Italia ai tempi del fascio con l’uomo forte al comando. Se la politica si mostra invasiva ed infestante perché mai la magistratura dovrebbe tacere? Non mina certo la terzietà (ergo indipendenza ed autonomia) sostenere quanto questa riforma sia sbagliata (Morosini) oppure denunciare il cancro della corruzione, oggi aggressivo più che mai (Davigo). Ciò rientra nel diritto di manifestare il proprio pensiero e di partecipare alla vita pubblica. Non interferisce sui singoli processi in corso né su quelli che verranno. La magistratura col bavaglio mi ricorda regimi autoritari se non palesemente dittatoriali. Ben altro invece è riflettere sul correntismo palesemente politicizzato della magistratura che vede nel Csm la sua massima espressione, quando l’autogoverno della magistratura dovrebbe ispirarsi a ben altri principi. Ben altro è assistere ai voli carpiati e continui tra magistratura e politica quando poi questo determina condizionamenti evidenti nelle funzioni di magistrato (chiamato l’indomani a decidere chi, tra Stato e privato, abbia ragione o chi, tra Tizio politico e Caio, abbia ragione, tanto per fare alcuni esempi). Queste commistioni sono insane e andrebbero affrontate seriamente dai magistrati, non tergiversate. Ben altro è credere che la magistratura sia perfetta e che le disfunzioni giurisdizionali siano imputabili solo ad altri (legislatura, avvocatura) (Davigo) senza fare autocritica. Ma queste ultime considerazioni nulla centrano col diritto dei magistrati di poter esternare su fatti rilevanti del nostro sistema (riforme, corruzione), quando ciò possa alterare la stessa democrazia. Sono temi posti su piani paralleli e non interferenti. Dunque chi tenta di porli sullo stesso piano intende solo mistificare o tendere imboscate. Al pari di qualche giornalista che non risponde al sacro dovere della verità e al dovere di informazione. Rispondendo invece a qualche mandante politico. Beniamino Migliucci (Ucpi): "ecco perché noi avvocati scioperiamo" di Maurizio Gallo Il Tempo, 11 maggio 2016 Tre giorni di astensione dei penalisti contro il ddl sulle prescrizioni dei processi. Il presidente Beniamino Migliucci: "È una norma truffa, così i tempi si allungano". Una "legge truffa" che "viola la presunzione di innocenza e il diritto alla vita degli imputati". Uno slogan-ossimoro, quello di "prescrizione più lunga e processi più brevi", che serve solo "a coprire carenze organizzative. Per questo, contro il disegno di legge all’esame della Commissione Giustizia del Senato l’Unione delle Camere penali italiane presieduta da Beniamino Migliucci ha proclamato tre giorni di astensione nazionale, dal 24 al 26 maggio. Perché questa protesta, presidente? "Il ddl prevede che dopo il primo grado scattino due anni di sospensione della prescrizione dal deposito delle motivazioni della sentenza e, dopo l’appello, un altro anno. Tre anni che si aggiungono a quelli esistenti così che, ad esempio, se prima un processo per corruzione durava dodici anni, adesso si prolunga fino a quindici". Quindi i tempi si allungano, invece di ridursi? "Certo. E la nuova legge non risolverebbe il problema, perché la prescrizione arriva lo stesso, ma in ritardo di tre anni. E non è vero che così non ci saranno più prescrizioni. È esattamente il contrario: se so che scatta la prescrizione, devo fare il processo in tempi più corti". Come si può raggiungere, invece, l’obiettivo di una giustizia più veloce? "Per evitare la prescrizione, che non dipende da noi avvocati, è necessario agire riducendo le disfunzioni organizzative, dando più risorse e razionalizzando la loro distribuzione, anche con la nascita della figura di un manager nelle procure. Noi lo diciamo dal 2008 ma nessuno ci ascolta". Quali sono i nodi di fondo che rendono i procedimenti interminabili? "Troppe condotte, sono circa 25.000, vengono sanzionate penalmente. Tanti governi hanno fatto promesse in tal senso, ci sono state varie commissioni, come la Pisapia e la Nordio, ma non si è mai riusciti a restringere l’area penale prevedibile per i cittadini, che dovrebbero anche avere ben chiaro quali condotte siano perseguibili penalmente e quali no. Spesso, per motivi di populismo, si è fatto l’opposto...". Cioè? "Prendiamo l’omicidio stradale, una norma nata sull’onda della ricerca del consenso. C’era già quello colposo che, con le aggravanti, poteva arrivare a 15 anni di carcere. Non erano forse sufficienti?" Quali sono le conseguenze della lentezza dei processi? "Un processo che dura vent’anni è già una pena accessoria perpetua per l’imputato, danneggia anche la persona offesa, che deve attendere giustizia, e la società, che deve aspettare un ventennio per sapere se sono corrotto o meno. Ci allontaniamo dalla Costituzione, che prevede una punizione rieducativa e la presunzione di innocenza. Invece, nel nostro Paese, resto colpevole per vent’anni". Tra l’altro nella vostra delibera scrivete che il 70% circa dei procedimenti si prescrive durante la fase delle indagini preliminari... "Ed è così. Oltre ad esserci troppi processi all’esame delle procure, anche i tempi delle indagini sono eccessivamente lunghi e beneficiano di troppe proroghe quando non serve. Che le indagini siano troppo lunghe lo dimostra pure il fatto che tra il 12 e il 14 per cento delle prescrizioni matura in primo grado. E, quindi, tra indagini e primo grado, si arriva all’80 per cento. Le sembra normale che dalla richiesta di rinvio a giudizio all’aula passino anche uno o due anni? Perché l’inefficienza dello Stato deve ricadere sui cittadini?". Una sorta di condanna sociale prima di quella penale? "Infatti, e non solo per il carcere subìto, considerando che l’Italia dal ‘92 ha pagato oltre 600 milioni di euro per ingiuste detenzioni. Pensi a un imprenditore che, se si allungano i tempi del primo grado, già viene rovinato. Poi deve attendere altri due anni dopo l’appello. Intanto ha chiuso, la sua azienda è fallita. Anche per questo è una legge-truffa". Dove intervenire ancora? "Oltre ad evitare proroghe di routine alle indagini, ci vorrebbe un’obbligatorietà dell’azione penale più flessibile. Nei Paesi dove non è obbligatoria, il pm decide quali processi fare e quali no, assumendosene la responsabilità. Da noi le scelte valoriali e legislative competono alla politica, che non può e non deve essere influenzata dalla magistratura, come purtroppo accade". Voi protestate anche contro l’uso attuale delle intercettazioni. Perché? Non esiste già un’udienza-filtro per decidere se distruggere quelle non rilevanti penalmente? "Quell’udienza non viene fatta mai e la normativa prevede che vengano eliminate solo quelle parti vietate per legge. La soluzione è rendere obbligatoria l’udienza-stralcio in tempi che consentano di evitare divulgazioni. E, lo voglio, dire, il problema non è a valle, cioè dei media, ma a monte, cioè di chi consegna materiale vietato alla stampa". Il lodo verdiniano sblocca la prescrizione Di Dino Martirano Corriere della Sera, 11 maggio 2016 Da Falanga un progetto per dare priorità ai processi per corruzione: consensi nel Pd e in Ncd Orlando vede l’Anm. Davigo: per il referendum vale il nostro codice etico, decideremo se schierarci. Il lodo del senatore verdiniano Ciro Falanga sblocca la prescrizione. Pronto il progetto per dare priorità ai processi per corruzione. Consensi nel Pd e in Ncd. Ora si spiega perché la scorsa settimana il senatore verdiniano Ciro Falanga è stato invitato al vertice di maggioranza sulla prescrizione convocato al ministero della Giustizia. Ieri Ciro Falanga (Ala) ha presentato al Senato il disegno di legge 2372, il "lodo Falanga", già soppesato come "punto di intesa nella maggioranza", che instrada lungo una corsia preferenziale la trattazione dei processi per reati contro la Pubblica amministrazione. Il testo, però, non prevede l’allungamento dei tempi di prescrizione per la corruzione che, alla Camera, il Pd aveva provato a portare tra i 18 e 21,9 anni. E così, dopo mesi di impasse, il "lodo Falanga" piace ai centristi del Ncd ("È una buona idea, ci abbiamo lavorato insieme", conferma Nino Marotta) e alla maggioranza del Pd in sintonia con il mantra di Renzi: "Andare a sentenza...". Ecco, ha anticipato tutti il verdiniano Falanga, "invece di parlare tanto di prescrizione, non è meglio che i processi contro la Pa vengano celebrati in tempi rapidissimi?". Il "lodo Falanga" è stato accolto con favore dal relatore, Felice Casson (Pd): "Credo che si troverà un amplissimo accordo". Inoltre, l’idea di una corsia preferenziale per i reati contro la Pa - per altro già trafficata dai processi per omicidio stradale, infortuni sul lavoro, per reati di natura sessuale - era stata ipotizzata anche da Raffaele Cantone (Autorità anticorruzione) però abbinandola a un allungamento della prescrizione. Se il testo di Ala verrà accettato dalla maggioranza, ci sarà una parziale retromarcia del Pd sui tempi di prescrizione della corruzione che si stabilizzerebbero intorno ai 15,5 anni, cancellando l’emendamento Ferranti-Ermini approvato dalla Camera che, invece, la fa schizzare a quota 18-21,9 anni. Nel Pd, Donatella Ferranti osserva che la corsia preferenziale non risolve la natura speciale dei reati di corruzione del giudice e del pubblico ufficiale per atti contrari ai doveri d’ufficio che si basano su un patto di omertà tra due o più persone: "Sono reati che vengono scoperti dopo molto tempo, il ddl Falanga non risolve il problema". Anche di prescrizione e di buona organizzazione degli uffici ha parlato il Guardasigilli Andrea Orlando nell’incontro con la giunta dell’Anm guidata da Piercamillo Davigo: "Non abbiamo parlato di referendum né di codici di autoregolamentazione per i magistrati", ha detto il ministro. Che, invece, col "sindacato" delle toghe ha molto insistito sull’Italia giudiziaria a velocità variabile e sui tempi dei processi (e sul numero delle prescrizioni) diversi a seconda del tribunale in cui si svolgono. Davigo, che ha definito l’incontro "proficuo", ha detto che "l’Anm vuole collaborare con il governo". Poi, nell’incontro successivo al Csm, Davigo ha detto che "anche per il referendum costituzionale vale il codice etico dell’Anm che, come associazione, deciderà se schierarsi", pro o contro le modifiche della Carta, "nel consiglio direttivo del 21". Sul fatto che nel 2006 nessuno contestò i magistrati che fecero a pezzi la riforma di Berlusconi, Davigo ha glissato: "Non commento". Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini (che oggi incontra il ministro Orlando) ha annunciato che chiederà ai consiglieri di esprimersi "in modo sereno" sulla partecipazione alla campagna referendaria. Luca Palamara (Unicost): "Serve un codice al Csm". Claudio Galoppi (MI): "Esprimere un parere tecnico sulla riforma costituzionale è un diritto". "Fino a 20 anni per i depistatori". Sviare la giustizia ora diventa reato di Gianluca Di Feo e Liana Milella La Repubblica, 11 maggio 2016 Oggi il sì alla legge in commissione al Senato. Pena massima a chi accusa degli innocenti. CI sono questioni giuridiche che incarnano la storia del nostro Paese, dando voce alle legittime richieste dei cittadini. Riforme del codice penale che - oltre a cercare di reprimere crimini e punire i colpevoli - hanno "un profondo senso sociale e politico". E di sicuro questo è il caso del reato di depistaggio, il grande assente nei processi che hanno segnato la vita della Repubblica. Da Bologna a Ustica, da piazza Fontana a via d’Amelio, le pagine più sanguinose del nostro passato sono scandite da trame in cui a coprire la verità sono stati uomini dello Stato, in servizio o ex, uniti da interessi inconfessabili, che hanno mentito, alterato prove, protetto terroristi con la quasi certezza dell’impunità. Adesso tutto questo potrebbe finire. O almeno così si spera. Oggi la Commissione giustizia del Senato approverà - salvo sorprese dell’ultima ora - il testo del nuovo reato di depistaggio. Uno strumento molto potente, che introduce un deterrente forte contro chi sbarra la strada alle inchieste. Finora infatti si rischiavano pene minime, quasi sempre cancellate dalla prescrizione che smacchiava persino le carriere dei mentitori. Quando entreranno in vigore le nuove regole, i pubblici ufficiali infedeli si troveranno a fare i conti con condanne che vanno da sei a dodici anni di carcere: la prospettiva di venire salvati dalla prescrizione diventerà remota. Ancora più dura sarà la sorte di chi deliberatamente incolpa innocenti. Per una persona ingiustamente condannata all’ergastolo, potrà esserci una pena da sei a venti anni di cella. È, per esempio, la situazione delle indagini sull’autobomba che nel luglio 1992 ha massacrato Paolo Borsellino e la sua scorta, indirizzate verso colpevoli artificiali. C’è di più: con il nuovo reato sarà possibile realizzare intercettazioni telefoniche e ambientali, per smascherare i burattinai dei falsi. Insomma, una vera rivoluzione. Che però fatica a imporsi. Le regole sono state approvate dalla Camera quasi due anni fa. Ma hanno raggiunto lentamente Palazzo Madama dove Felice Casson è riuscito a concludere l’iter in Commissione in tre settimane: come senatore ha messo a punto quelle norme che venti anni fa come magistrato gli avrebbero permesso di punire registi e comparse che hanno coperto alcuni degli episodi più cruenti della strategia della tensione. Casson è convinto che al Senato i tempi saranno brevi: il testo ha assorbito gli emendamenti presentati dagli esponenti dei vari partiti e c’è una "ampia collaborazione". Il presidente Pietro Grasso ha più volte sostenuto che l’approvazione è "una priorità" e lo stesso ha detto il governo, attraverso il sottosegretario di Palazzo Chigi Claudio De Vincenti. Ma poi il provvedimento dovrà tornare alla Camera ed è difficile fare previsioni sul varo definitivo. "Non è ancora scontato perché quando si mette mano a una materia così delicata gli interessi sono trasversali", riconosce Casson: "I depistaggi sono stati realizzati da gangli vitali dello Stato che questa regola punirà, sanzionando in modo severo le interferenze dei pubblici ufficiali. Si introduce un deterrente forte, che accoglie le istanze della società e della politica sul disvalore di questi comportamenti ". Già, ma le resistenze restano intense. Nel settembre 2014 a Montecitorio il partito di Angelino Alfano ha votato contro; esponenti di Forza Italia hanno parlato di "provvedimento liberticida voluto dal partito delle procure". Un anno fa, alle celebrazioni dell’anniversario della strage di Bologna, il presidente Sergio Mattarella ha scritto ai familiari delle vittime: "Su quella tragica vicenda permangono però ancora angoli bui, specie per quanto riguarda mandanti ed eventuali complici. L’auspicio è che la verità possa emergere nella sua interezza: la vostra battaglia che riguarda anche l’introduzione del reato di depistaggio costituisce un’importante risorsa ". Il presidente sa di cosa parla: anche le indagini sul delitto del fratello Piersanti furono segnate dai depistaggi. Provenzano è il nostro Breivik? di Stefano Anastasia (Associazione Antigone) L’Unità, 11 maggio 2016 Non poco disorientamento ha suscitato la condanna da parte della giudice Helen Andenaes Sekulicha della illegittimità delle condizioni di detenzione cui è stato sottoposto Anders Breivik, autore nel 2011 delle stragi di Oslo e Utoya in cui morirono 77 persone, in gran parte giovani militanti del partito laburista norvegese. Le prigioni più belle del mondo non sono state sufficienti a esentare lo Stato norvegese da un duro giudizio: l’isolamento cui Brevik è stato sottoposto costituisce un trattamento inumano e degradante il cui divieto - come ha detto la giudice - "è un valore fondamentale di ogni società democratica che si applica in ogni caso, anche a terroristi e assassini". Parole che fanno il paio con quelle pronunciate dalle autorità politiche dell’epoca, che difendevano il diritto vigente dall’invocazione di una pena eccezionale per l’autore del più grave delitto della storia norvegese contemporanea. È tutta qui, infondo, la differenza del diritto penale dalla sua antica ascendenza vendicativa: nessuna giustizia potrà mai fondarsi sulla equivalenza tra la sofferenza causata dal reato e quella motivata dalla pena. Al contrario, in una società democratica il diritto penale si fonda sulla necessità di contenere l’arbitrio, la violenza e le sofferenze tra i consociati, anche attraverso l’autolimitazione del potere di punire, fino al minimo necessario a evitare - appunto - la vendetta privata e il suo continuo ripetersi in forma di faida. Dobbiamo quindi essere di nuovo grati al sistema penale norvegese per questo ulteriore richiamo ai fondamenti di un diritto penale legittimo. E dobbiamo trarne insegnamento per fare la nostra parte, rinunciando ad abusi ed eccessi che non si giustificano nel pur legittimo esercizio del potere punitivo dello Stato. Un’occasione in questo senso ci è offerta dalla relazione sul 41bis recentemente approvata dalla Commissione per i diritti umani del Senato presieduta da Luigi Manconi. Potrebbe essere Bernardo Provenzano il nostro Breivik? Provenzano è stato il capo della mafia siciliana dall’arresto di Riina fino al suo, avvenuto ormai dieci anni fa. Da allora è detenuto in regime di 41bis. Eppure, già da qualche anno Provenzano, ormai ultraottantenne, è ricoverato in un reparto speciale dell’Ospedale San Paolo di Milano, in condizioni neurologiche che, secondo i medici, "lasciano supporre un grave decadimento cognitivo", al punto che due delle tre Procure interessate dalla sua attività criminale, non ritengono più necessario il mantenimento del regime speciale di detenzione, non ritenendolo più capace di influire sulle scelte dell’organizzazione criminale. Il Ministro della Giustizia invece, confortato dalla Procura di Palermo, ha ritenuto che quella concreta pericolosità sussista ancora e recentemente ha rinnovato per altri due anni l’applicazione del 41bis all’anziano capomafia. Il 41bis, si sa, comporta condizioni di isolamento per 22 ore al giorno su 24 (nelle restanti due, i detenuti possono andare "all’aria" o nelle "salette di socialità" in piccoli gruppi, eterogenei per affiliazione criminale), la censura sulla corrispondenza e contatti limitati anche con i familiari più stretti (non più di quattro ore di colloquio al mese, non cumulabili e alternative a telefonate settimanali non superiori a 10 minuti). In un caso analogo a quello di Provenzano la Corte di Cassazione ha ribadito che "il diritto alla salute del detenuto è prevalente anche sulle esigenze di sicurezza" e che anche quando si è in presenza di esponenti di spicco della criminalità, è necessario equilibrare "le esigenze di giustizia, quelle di tutela sociale con i diritti individuali riconosciuti dalla Costituzione". Quindi, anche nel caso di Bernardo Provenzano il 41bis non può essere applicato indipendentemente dalle sue condizioni di salute o in condizioni tali da soffocarne umanità e dignità: quella umanità che lui ha violato, ma che le istituzioni democratiche - proprio perché opposte al potere mafioso - non ledono, riconoscendola in ciascuno dei suoi abitanti, anche negli autori dei reati più gravi. Questo, in fondo, è il limite del 41bis, e la ragione della competenza a discuterne della Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani. Ne era ben consapevole il legislatore del 1992 quando prudentemente diede alla norma un termine triennale di vigenza (poi, di proroga in proroga, si arrivò alla stabilizzazione nel 2002). Alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte europea dei diritti umani e delle indicazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, ampiamente richiamate dalla relazione del Senato, il 41bis non si giustifica come una pena di specie diversa per autori di gravissimi reati (il "carcere duro" della vulgata politica e giornalistica), ma solo quale misura eccezionale per impedire ai capi delle organizzazioni criminali di continuare a svolgere la loro funzione dal carcere. Non è in discussione quindi la sua legittimità, ma i suoi limiti. I limiti alla frequenza del suo uso, alla durata della sua applicazione e ai suoi contenuti. Al 31 dicembre dello scorso anno erano 730 i detenuti in 41bis, quanti non sono stati mai dal 1992 a oggi: tutti boss capaci di determinare dal carcere l’attività delle organizzazioni criminali di provenienza? Anche quei 190 sepolti vivi da più di dieci anni? Anche quei 29 che ci stanno praticamente da sempre? La Commissione per i diritti umani ha visitato le sezioni dedicate alla detenzione in 41bis, ha audito magistrati ed esperti e ha stilato una lunga serie di raccomandazioni affinché il regime speciale resti sui binari della legittimità: dal rigoroso rispetto dei presupposti per l’applicazione o per la sua proroga alla eliminazione di inutili divieti al possesso di cose o alle relazioni affettive e familiari, dalla possibilità di svolgere attività intellettive e motorie alla progressione nel trattamento penitenziario che consenta anche ai detenuti in 41bis non solo di non morire, ma anche di non terminare la propria pena in condizioni di isolamento. Certo, non sono cose facili di cui discutere, soprattutto quando si tratta di persone che hanno sulle spalle gravissimi reati, contro le persone e contro la comunità, ma questa è la differenza del diritto. Belluno: la procura apre l’inchiesta sul suicidio a Baldenich di Gigi Sosso Corriere delle Alpi, 11 maggio 2016 Il detenuto era considerato a basso rischio e fino a poco prima sembrava sereno. La moglie era finita in ospedale dopo le botte. Avvocato avvertito in ritardo. Solo in cella. Non aveva altri detenuti intorno - ma non dovevano essercene, come prevede il protocollo penitenziario per i nuovi arrivati a Baldenich, cioè per chi non è mai stato prima in carcere - quando ha deciso di togliersi la vita. G.C. si è impiccato verso le 23 di sabato, poche ore dopo essere stato arrestato dai carabinieri per maltrattamenti e lesioni alla convivente. Non si sa ancora cosa abbia usato per uccidersi, dopo aver consegnato tutti gli oggetti pericolosi e preziosi all’Ufficio matricola: saranno le indagini della procura della Repubblica a stabilirlo, dopo che è stato aperto un fascicolo. Vista da fuori, non potrebbe che aver utilizzato il lenzuolo, che gli era stato consegnato all’ingresso. Il 45enne residente in Valbelluna era considerato un detenuto a basso rischio di suicidio e, da quanto risulta, fino a pochi minuti prima sembrava abbastanza sereno. C’è chi racconta che si sia fumato una sigaretta: quasi un ultimo desiderio, prima di farla finita. Ad accorgersi del suo gesto estremo, un agente della polizia penitenziaria, durante il giro di ronda notturno. Immediato l’allarme alla direzione della casa circondariale e la richiesta di soccorsi, ma quando il medico è arrivato nella cella per il detenuto non c’era più niente da fare: non è rimasto che constatarne il decesso. Informata immediatamente la famiglia, oltre alla procura della Repubblica, che ha aperto un’inchiesta, per stabilire le cause della morte. In queste ore, è atteso il nulla osta: la consegna della salma alla moglie per la celebrazione dei funerali. Quella stessa donna che il martedì precedente era arrivata al Pronto soccorso dell’ospedale San Martino con il viso tumefatto. I medici le hanno medicato ferite guaribili in 40 giorni. L’hanno ricoverata in reparto e affidata ad uno psicologo, anche in questo caso seguendo quello che prevede il protocollo medico, nei confronti delle vittime di violenza. Automatica la segnalazione all’autorità giudiziaria, prima della scelta di un legale da parte dell’uomo. Sabato pomeriggio i carabinieri del Comando di Belluno hanno arrestato l’uomo, traducendolo nel carcere di Baldenich. A distanza di poche ore, G.C. si è tolto la vita. L’avvocato di fiducia Tonin ha saputo della sua morte solo domenica mattina e ha scritto una lettera all’amministrazione carceraria, per avere spiegazioni su questo ritardo. Il direttore del carcere "Non c’è stata scarsa vigilanza, anche se siamo sotto organico" "C’è sempre il medico in servizio durante la fascia notturna, ma nonostante il tempestivo intervento suo e del personale di turno, non c’è stato nulla da fare. Sull’accaduto ci sono accertamenti interni in corso, ci sono le indagini della Procura, ma solo pensare di mettere in collegamento la tragedia consumatasi sabato notte con quelle che possono essere le criticità riscontrabili nella struttura di Baldenich è a dir poco una forzatura". Non solo una precisazione. Quella del direttore dell’istituto penitenziario di Belluno, Tiziana Paolini, è anche una risposta alla denuncia del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), che a seguito del suicidio in cella di un detenuto di 45 anni, aveva parlato di "carenze croniche di organico e conseguente situazione di tensione interna". "Il detenuto era entrato in carcere intorno a mezzogiorno di sabato e il suo tragico gesto è stato scoperto verso le 23. Era da solo in cella, nell’apposita sezione per i nuovi giunti, come prevede il protocollo: nessuna mancanza nella normale attività di sorveglianza. Questo non vuol dire, tuttavia, che a Baldenich non ci siano problematiche da affrontare quotidianamente. Una lieve carenza di organico c’è, quantificabile in 5-6 unità, ma il fatto che la notte ci sia meno personale impiegato è fisiologico: è durante il giorno che si concentrano quasi tutte le attività dei detenuti ed è in funzione il regime di vigilanza dinamica, che permette loro maggior libertà di movimento e necessita quindi di controlli specifici rispetto a quelli, ordinari, della notte". Sul presunto stato di tensione interna denunciato dal Sappe, invece, il direttore Paolini precisa come "a parte la recente rivolta non credo si possa parlare di alta tensione. Problemi di sovraffollamento? La capienza regolamentare dell’istituto è di 87 persone a fronte di una presenza media di 95-96 detenuti, ma l’unica delle sezioni (maschile, transessuali, salute mentale e nuovi giunti, ndr) che denuncia effettivamente un tale problema è quella maschile". Genova: c’è un detenuto morente in una cella di Marassi, salviamolo! Il Dubbio, 11 maggio 2016 Si chiama Emanuele Macchi, è un signore di una sessantina d’anni e ha un passato, come si dice, "burrascoso". È stato nei Nar, che erano la brigata terrorista dei fascisti. Si è fatto un bel po’ di anni in prigione, sedici per l’esattezza. Poi è uscito, ha provato a fare lo skipper me gliel’hanno vietato e allora - sembra - si è messo a trafficare droga. Lo hanno beccato di nuovo. Di nuovo dentro. Però ora sta malissimo. Ha avuto un cancro, varie malattie degenerative, è zoppo, ha perso la vista ad un occhio. Nell’ultimo anno ha perso quasi 26 chili: ne pesava 70 e ora ne pesa 44. È moribondo in una cella di Marassi. Ci sono varie perizie che lo dichiarano incompatibile col carcere. Però non riesce ad ottenere l’ordine di scarcerazione. La moglie, Marinella, ha scritto una lettera (che pubblichiamo a pagina 6) drammatica e furiosa, nella quale racconta l’odissea di Macchi e chiede che si ponga fine alla crudeltà assurda della pena. Sappiamo che è difficile trovare difensori a un militante fascista che ha usato la violenza e il terrore per le sue battaglie politiche. Scrive Marinella: "Un pregiudicato, un evaso, un delinquente, un condannato, uno che non ha mai chiesto scusa alle autorità". Benissimo, però la legge è uguale per tutti. Anche la Costituzione. E la Costituzione vieta pene contrarie al senso di umanità. Macchi deve essere scarcerato. Può un giudice non rispettare le conclusioni del perito d’ufficio, che ha nominato, quando il tecnico parla di assoluta incompatibilità con la detenzione? Può l’amministrazione penitenziaria non dare seguito alla decisione del giudice di sorveglianza che dispone il trasferimento dello stesso detenuto vicino casa? Può il direttore del carcere di Marassi non dare seguito alle indicazioni del medico penitenziario che il 3 maggio ha chiesto il suo trasferimento urgente in un struttura ospedaliera? È questo in sintesi quello che sta accadendo a Emanuele Macchi Di Cellere, uno dei leader dello spontaneismo armato "nero", detenuto nel carcere di Marassi per traffico internazionale di stupefacenti. Il suo nome è legato all’estremismo di destra e ai movimenti neofascisti romani negli anni 70 e 80, insieme a Pierluigi Concutelli. Più recentemente è salito agli onori della cronaca perché considerato uno dei mandanti del tentato sequestro finito in omicidio di Silvio Fanella, il cassiere di Gennaro Mokbel ucciso il 3 luglio 2014 nel quartiere della Camilluccia. Macchi è stato estradato un anno e mezzo fa dalla Francia, dove era scappato da una detenzione domiciliare ottenuta nelle more del processo che ora lo vede condannato definitivamente a10 anni e mezzo. L’appello della moglie di Macchi alla mobilitazione di parlamentari e associazioni, che pubblichiamo in questa pagina, è drammatico. "Il marito - scrive Marinella - è entrato in carcere già malato: pregresso cancro squamocellulare alla testa, cecità assoluta all’occhio sinistro, gamba destra ridotta di 4 cm, osteomielite, discinesie, riconosciuto invalido al 100% dall’Inps. È su sedia a rotelle, non cammina più, il braccio sinistro è immobilizzato, ha le piaghe da decubito, sviene durante i colloqui. Non ricorda le cose dette un attimo prima, è pieno di lividi ed ematomi, pesa 44 chili". L’appello della moglie Signor Direttore, invierò a lei e ad altri direttori di testate questa mia lettera, sperando che qualcuno di voi, malgrado giornalista, uomo di potere, autorità mediatica, o qualsiasi cosa siate, abbia il coraggio e la ragione per dare seguito a questa mia denuncia. Sono la moglie di un detenuto ristretto a Marassi, Genova. Non è un detenuto come tutti gli altri. Ha una storia antipatica, scabrosa, sgradevole. Il suo passato è costellato di altre detenzioni. È, per il pubblico che vi legge, un pregiudicato, un evaso, un delinquente, un condannato, uno che non ha mai chiesto scusa alle autorità. I suoi sedici anni di prigione li ha scontati in silenzio e dignità. Ha pagato il suo "debito" con il vostro stato, ma rimane a tutt’oggi una mela marcia, un pericolo sociale, un pregiudicato pericoloso. Dopo quei sedici anni, ne sono trascorsi altri 15 di vita sociale - normale, e ora, di nuovo, è incappato nelle maglie della legge degli uomini. Ed eccoci di nuovo al punto di partenza. Colpevole o non colpevole, la vostra legge lo ha di nuovo condannato. E di nuovo sconta la sua pena in silenzio e dignità. Ma è intervenuto un fatto nuovo questa volta: la malattia. Lui è già tutto "rotto" quando entra in carcere: pregresso cancro squamocellulare asportato alla testa, cecità assoluta all’occhio sinistro, gamba destra ridotta di quattro centimetri con conseguente difficoltà di deambulazione, osteomielite, discinesie e sospetta malattia demielinizzante, riconosciuto invalido al 100% dall’Inps. Entra in carcere nel settembre 2014; sono passati un anno e otto mesi ad oggi. Pesava 70 kg, ora ne pesa 44! Io lo vedo mensilmente perché vivo in altra città, ed ogni volta lo trovo in condizioni peggiori. È su sedia a rotelle, non cammina più, il braccio sinistro è immobilizzato, ha le piaghe da decubito, sviene durante i colloqui. Non ricorda le cose dette un attimo prima, è pieno di lividi ed ematomi, il volto una maschera di dolore e sofferenza. Cade di continuo. Una volta lo trovo con un occhio nero, un’altra con i punti sullo zigomo, non riesce più a nutrirsi, soffre di disfagia e forse è anoressico. Le perizie si susseguono incessanti. Sclerosi multipla? Malattia demielinizzante? Sindrome di Tourette? Depressione maggiore? Malattia neurologica? Compatibile? Incompatibile? Qualcuno dice sì, qualcuno (pochi) dice no, qualcuno non si pronuncia e vigliaccamente continua lo stolto e colpevole gioco degli "accertamenti-diagnostici". Questo è il quesito "giuridico-ottuso" cui è sottoposto da dieci mesi! Le perizie alla fine si pronunciano per l’incompatibilità con il regime carcerario. E, il giudice che le aveva richieste e promosse, si "sente in dovere di disattenderle" e rigetta il differimento di pena. Così ha preso per i fondelli tutti quanti noi: mio marito che nel frattempo, si aggrava, (il primo incarico risale al 25 novembre) i medici incaricati, i consulenti da noi nominati e pagati, i legali che lavorano al caso e noi familiari. Le condizioni di salute di mio marito peggiorano a tal punto che la stessa direzione sanitaria del carcere richiede un ricovero urgente il tre maggio scorso. Dopo quattro giorni lui è ancora in prigione in totale assenza di cure, neanche una flebo? in barba all’urgenza dichiarata dai sanitari. Tutto ciò perdendo di vista il più elementare degli accertamenti, cioè quello obbiettivo. Quello che io vedo, quello che tutti possono vedere: cioè un malato. Una persona sofferente, dolorante e quasi completamente inabile. Andatelo a vedere com’è ridotto mio marito. Abbiate il coraggio di scattargli una foto e paragonatela a quella di quindici mesi fa! Ho bisogno forse io della "diagnosi clinica" per capire che chi amo è gravemente malato? C’è bisogno di quel "nome" della malattia per certificare che un essere umano sta per morire? Queste sono sofisticazioni per menti perverse, non per quelle sane! Io vedo sfuggirgli la vita dal corpo mese dopo mese, giorno dopo giorno. Una tortura per lui! Una tortura per me! Marinella Parma: Rachid Assarag in tribunale "io ho sbagliato, ma chi mi ha torturato deve pagare" di Maria Chiara Perri La Repubblica, 11 maggio 2016 Rachid Assarag ieri è tornato in tribunale a Parma per chiedere che venga riaperta l’indagine sui presunti pestaggi che avrebbe subito durante la detenzione nel carcere di via Burla nell’ottobre e nel dicembre del 2010 e nel maggio 2011 da parte di agenti della polizia penitenziaria. Il caso ha avuto una rilevanza nazionale anche per le registrazioni che il detenuto ha catturato grazie a un registratore nascosto e che sono state pubblicate in esclusiva dall’Espresso. Otto agenti vennero indagati per i reati di maltrattamenti e lesioni. Lo scorso gennaio il pm Emanuela Podda ha chiesto l’archiviazione delle accuse, ritenendo estremamente difficile riscontrare la veridicità dei fatti perché le denunce vennero presentate circa due mesi dopo l’accaduto ed evidenziando molte contraddizioni nei racconti della parte offesa, ritenuta non attendibile perché smentita dalle dichiarazioni del personale carcerario. Per alcuni di questi fatti lo stesso Assarag è stato accusato di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale ed è attualmente imputato a Parma. Una decisione che ha provocato forti polemiche, a cui è seguita una replica della Procura di Parma. L’avvocato difensore di Assarag, Fabio Anselmo, nel primo pomeriggio ha parlato per due ore davanti al gip Paola Artusi presentando una memoria in cui si chiede di procedere con l’azione penale. All’udienza di opposizione all’archiviazione erano presenti anche il pm Podda e i legali degli agenti indagati, che presenteranno le loro repliche a fine giugno. Assarag è stato accompagnato in aula in sedia a rotelle, perché fatica a camminare per problemi alle ginocchia. Dopo aver denunciato altre presunte violenze nel carcere di Torino è stato trasferito a Piacenza, dove sta scontando una pena per violenza sessuale. "Io ho sbagliato e ho avuto la mia condanna, ma anche chi mi ha torturato deve essere condannato - ha detto davanti al giudice - temo per la mia vita". L’uomo aveva un livido evidente su un occhio. L’avvocato Anselmo ha chiesto che vengono acquisite e trascritte integralmente le registrazioni effettuate da Assarag, perché si possa procedere all’identificazione di chi parla. In particolare vengono segnalati alcuni estratti significativi, come il fatto che l’agente che dice "ne ho picchiati tanti..." non accenni ad atti autolesionisti del detenuto e "conferma la violenza usata su Rachid giustificandola come metodo per indurlo a comportarsi meglio, come morale reazione e unico efficace rimedio per correggere un comportamento sbagliato". In un altro estratto Assarag parla con un medico: "Mi hai visitato, appena hai cominciato a visitarmi loro mi hanno preso, avanti a te, mi hanno buttato sul muro così per stare e hai visto il brigadiere con il suo piede bloccarmi col col… nel petto... se non è vero fermami". Dottore: "Tu cosa vuoi Rachid? Che dica il medico dica no non fate questo?". "Ad opinione del medico la legge non è giudicata dalla medicina e non sembra far parte delle sue prerogative impedire e denunciare un episodio di violenza" si legge nella memoria dell’avvocato. Il team legale del detenuto denuncia che le relazioni di servizio e i referti medici occulterebbero le violenze "in una situazione di omertà e copertura reciproca, e riducendo sempre le lesioni riportate da Assarag a conseguenze di atti autolesionisti. Se l’uso della forza fosse stato davvero adeguato al contenimento di un detenuto sopra le righe, gli agenti non avrebbero avuto motivo di omettere completamente i riferimenti alle pesanti violenze, confermate a più riprese dalle registrazioni qui richiamate e da numerose altre. Violenze che sono invece, a tutti gli effetti, un metodo repressivo tipico dei peggiori regimi e contrario ad uno stato di diritto (...)". Oltre a perizie informatiche e foniche sulle registrazioni, l’avvocato Anselmo ha chiesto anche che vengano indagati altri tre agenti, due in servizio durante i presunti pestaggi e uno che avrebbe costretto il detenuto a spostarsi in ginocchio negandogli la carrozzella per andare a fare una telefonata, e il medico che referto l’episodio di dicembre 2010 per un presunto falso. Brescia: il ministro Orlando "il nuovo carcere entro il 2018" di Italia Brontesi Corriere della Sera, 11 maggio 2016 Ci sarà il ministro della giustizia Andrea Orlando il 28 maggio alla commemorazione della strage di piazza della Loggia. I contatti tra Brescia e Roma sono stati avviati già all’inizio della primavera dal presidente della Casa della memoria Manlio Milani attraverso l’onorevole Alfredo Bazoli, deputato bresciano del Pd, il ministro ha dato la sua disponibilità e, salvo imprevisti, sabato 28 maggio parteciperà al quarantaduesimo anniversario della strage. Orlando assisterà alla cerimonia in piazza della Loggia in ricordo dei caduti della strage, poi, insieme a Valerio Onida presidente emerito della Corte costituzionale, il guardasigilli dialogherà con gli studenti nell’incontro all’auditorium San Barnaba di corso Magenta, un appuntamento con il mondo della scuola e con i giovani che si ripete ormai ad ogni anniversario della strage del 28 maggio del 1974. Ma l’arrivo a Brescia del guardasigilli del governo Renzi potrebbe essere anche l’occasione per affrontare un tema ancora aperto, quello del carcere di Brescia, ma anche - sottolinea Bazoli "la difficile situazione degli uffici giudiziari" che, ormai da anni, soffrono di carenza di personale, tra magistrati e personale amministrativo in media la carenza arriverebbe al 30% in tutti gli uffici secondo i dati diffusi a gennaio. Sul futuro del carcere di Brescia, un problema che si trascina da anni, "ormai è tutto pronto - sottolinea Bazoli - l’amministrazione penitenziaria ha predisposto il progetto esecutivo e ci sono 15 milioni messi a disposizione da un fondo per la ristrutturazione o la realizzazione di nuove carceri. L’iter sta andando avanti" aggiunge il deputato bresciano. Se non ci saranno intoppi, il nuovo carcere di Verziano, che consentirà la chiusura del vecchio istituto penitenziario di Canton Mombello, potrebbe essere ultimato entro il 2018 e la presenza a Brescia del ministro Orlando potrebbe essere anche l’occasione per avere risposte certe sui tempi dei lavori. Purché impegni di governo non lo costringano a rientrare in fretta a Roma, appena terminate le celebrazioni in ricordo della strage di piazza Loggia. Dopo 42 anni per la prima volta le celebrazioni in ricordo dei caduti di piazza Loggia si svolgono dopo una "sentenza positiva" - come l’ha definita Manlio Milani - che è stata emessa l’estate scorsa dalla seconda Corte d’assise d’appello di Milano. La Corte ha indicato due colpevoli, i neofascisti Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte: sono stati condannati all’ergastolo. Oristano: l’avvocato Paolo Mocci è il Garante comunale dei diritti dei detenuti La Nuova Sardegna, 11 maggio 2016 Lo ha nominato il sindaco Guido Tendas con un decreto che dà attuazione alla decisione del consiglio comunale. Sarà l’avvocato Paolo Mocci il Garante comunale per i diritti dei detenuti. Lo ha nominato il sindaco Guido Tendas, dando seguito a una decisione del consiglio comunale. Il decreto del sindaco stabilisce che il Garante "promuove l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale ovvero limitate nella libertà di movimento, maggiorenni o minorenni, residenti, domiciliate o dimoranti nel territorio del Comune di Oristano, con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport", tenendo conto "della loro condizione di restrizione e promuove iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e dell’umanizzazione della pena detentiva". Trento: manca il Garante dei detenuti, se ne parla da 7 anni trentotoday.it, 11 maggio 2016 Al carcere di Spini manca la figura del garante dei detenuti: se ne parla da almeno sette anni. L’ultramoderna struttura ha dei costi che lo Stato ha mostrato di non poter sostenere. Più volte è stata ipotizzata una competenza provinciale. Incontro con il direttore della Casa circondariale di Spini Valerio Pappalardo ed il comandante della Polizia Penitenziaria Domenico Goria in Prima Commissione, dove si è tornati ad affrontare la questione della mancanza di un garante dei detenuti e dei minori presso il carcere trentino. Se ne parla da ormai sette anni: l’ultima richiesta in tal senso arriva dal consigliere del pd Mattia Civico e dal collega di Amministrare il Trentino Nerio Giovanazzi che hanno presentato tre disegni di legge, che sono stati condensati in un unico "pacchetto". Sì alla figura del garante, purché sia un ponte tra detenuti ed amministrazione, e non si concentri solo sulle critiche: questa, riassunta in poche righe, la posizione del direttore del carcere Pappalardo: "se il ruolo fosse pensato solo come rilevazione delle problematiche, sarebbe disfunzionale; inoltre a Spini mancano i mediatori culturali che aiutino a comprendere il percorso rieducativo da costruire". Il comandante della Polizia Penitenziaria non ha perso occasione per sottolineare i problemi economici dell’ultramoderna struttura: "siamo passati oggi a 350 detenuti su 120 stanze detentive e in un contesto di progressivo calo dell’organico di polizia dove siamo calati da oltre 300 unità previste alle attuali 130. A questo si è aggiunto nell’ultimo periodo l’affidamento di detenuti cosiddetti "protetti", violentatori e persone che si sono macchiate di reati gravi". "Alle carenze economiche dovrebbe supplire lo Stato - ha risposto il consigliere Borga (Civica Trentina) - e forse occorreva pensarci prima di costruire una struttura così all’avanguardia. Il Garante dei detenuti non avrebbe voce in capitolo su aspetti di natura finanziaria, ma se è una questione di risorse potrebbe intervenire la Provincia". Palermo: allarme tubercolosi all’Ucciardone, 8 detenuti in isolamento blogsicilia.it, 11 maggio 2016 Cresce la paura nell’antico e malandato carcere borbonico dell’Ucciardone di Palermo. Un detenuto palermitano è risultato positivo al test sulla tubercolosi. L’uomo è arrivato nel penitenziario recentemente, dopo essere stato trasferito dal carcere Gazzi di Messina. L’uomo è adesso stato messo in isolamento al primo piano della seconda sezione insieme con altri sette detenuti con i quali ha condiviso la cella prima dell’esito del test. Preoccupati gli agenti di sicurezza che sono stati a contatto con l’ammalato e che temono il potenziale contagio. "È gravissimo che nessuno abbia comunicato alla direzione dell’Ucciardone la probabile infezione del detenuto prima del suo trasferimento da Messina, ma è ancora più grave il fatto che l’uomo sia stato arrivato nel carcere palermitano quando, invece, i soggetti con diagnosi di tubercolosi devono essere ricoverati in centri specialistici" dice Antonio Piazza, segretario regionale del sindacato Ugl polizia penitenziaria: "Ci risulta che il detenuto sia stato sottoposto ad accertamenti clinici circa tre mesi fa a Messina, ma i risultati sarebbero arrivati solo qualche giorno fa ai vertici dell’ Ucciardone". La tubercolosi è una malattia molto contagiosa che si trasmette per via aerea. I poliziotti che a turno sorvegliano il gruppo di detenuti a rischio tubercolosi sono stati muniti di mascherine protettive. La direttrice del carcere, Rita Barbera, assicura massima attenzione sull’applicazione del protocollo sanitario contro il rischio di contagio da Tbc: il detenuto risultato positivo al test sarà presto ricoverato in ospedale e controlli accurati saranno eseguiti sugli altri detenuti a rischio e sugli agenti penitenziari. Catanzaro: detenuto si dà fuoco, salvato da un agente della Polizia penitenziaria Quotidiano del Sud, 11 maggio 2016 Un detenuto della casa circondariale di Catanzaro, di nazionalità tunisina, si è dato fuoco come atto di protesta per ottenere l’espulsione, dopo essersi coperto le gambe con dei giornali cosparsi di olio. Solo grazie al pronto intervento di un assistente capo della Polizia Penitenziaria, che con un idrante ha spento il fuoco, i detenuto è riuscito a salvarsi. Il fatto è stato reso noto dal sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe. "Nel corso del 2015 - spiega una nota - gli atti di autolesionismo posti in essere nelle carceri italiane sono stati 7.029, dei quali 4278 sono attribuibili a detenuti stranieri e 2.751 ad italiani. I decessi in carcere per cause naturali sono stati 69, 57 italiani e 12 stranieri; i suicidi 39, 25 italiani e 14 stranieri". "In Calabria - afferma il segretario nazionale del Sappe, Damiano Bellucci - ci sono stati 104 atti di autolesionismo, 31 tentativi di suicidio, un suicidio e 2 decessi per cause naturali, 117 aggressioni, 13 ferimenti, 1 tentato omicidio. A Catanzaro gli atti di autolesionismo sono stati 14, i tentativi di suicidio 2, le colluttazioni 21". Pavia: detenuto senza una gamba, lo lava il compagno di cella di Manuela Marziani Il Giorno, 11 maggio 2016 La storia di degrado e inefficienza arriva dal carcere di Pavia. Dietro le sbarre e costretto a chiedere aiuto a un compagno di cella per potersi lavare. Sta vivendo una situazione particolarmente difficile un detenuto italiano rinchiuso a Torre del Gallo. Affetto da diabete, le complicanze della malattia hanno portato i medici ad amputargli un arto. Avrebbe bisogno di un corrimano nel locale docce e di altri ausili utilizzati dai disabili, ma in carcere non ci sono. Ci sono braccia giovani e forti, in compenso. Sono quelle di un altro detenuto straniero che assiste il compagno e lo aiuta nell’occuparsi della sua igiene quotidiana. Lo ha visto anche il senatore Luis Alberto Orellana, che ha condotto una visita ispettiva alla casa circondariale di Pavia accompagnato da Stefano Bilotti e Alessia Minieri. "Si tratterebbe di una casa circondariale - ha commentato il senatore al termine delle sia visita - ma, in realtà, vi sono detenuti anche condannati a lunghe pene detentive e quindi è un istituto di reclusione a tutti gli effetti". La delegazione ha visitato la struttura per oltre 3 ore percorrendo i 2 padiglioni del carcere e soffermandosi in alcuni reparti. "Fra il vecchio padiglione e quello nuovo la differenza è notevole - ha aggiunto Luis Alberto Orellana -. Le condizioni di vita dei detenuti e della polizia penitenziaria sono ben diversi. Nel nuovo padiglione, aperto nel 2013, i detenuti si trovano in 2 o 3 per ogni cella con bagno e doccia. Nel vecchio padiglione le celle sono molto più piccole (circa 9 metri quadri in totale) con bagno ma senza doccia. In ogni reparto i detenuti devono condividere 4 docce e sono circa 50 persone. È ovvio che i motivi e i momenti di nervosismo crescono in condizioni così difficili". Seppure non vi siano condizioni di sovraffollamento, l’edificio avrebbe bisogno di manutenzione che non può essere effettuata per mancanza di fondi. E la stessa mancanza di fondi va ad incidere fortemente sul percorso rieducativo dei detenuti, privati del campo da calcio (su cui è stato costruito il nuovo padiglione) e di una palestra funzionante. Ma manca anche il personale: vi sono solo 4 educatori per 600 detenuti; un sottorganico costante degli agenti di polizia penitenziaria costretti agli straordinari e a fronteggiare singolarmente situazioni pericolose (aggressioni, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo). Infine, va evidenziato che la casa circondariale di Pavia ospita 300 detenuti protetti, la cui rieducazione richiede personale altamente qualificato e un continuo trattamento di natura riabilitativa. Inoltre l’amministrazione dovrà gestire l’imminente apertura di un polo psichiatrico e personale medico-sanitario ad oggi non è ancora stato individuato. "Quello che si nota- ha aggiunto Orellana - è comunque il grande impegno di tutto il personale che fa veramente del proprio meglio. Impegno che viene riconosciuto anche dei detenuti". Roma: violenza sessuale su 22enne in carcere, arrestati i due ex compagni di cella La Presse, 11 maggio 2016 I due sono ritenuti responsabili di abusi e atti persecutori nei confronti di un compagno di cella. Violenza sessuale e sevizie nei confronti di un 22enne compagno di cella. Responsabili del fatto due cittadini romeni di 24 e 20 anni, all’epoca dei fatti detenuti presso la Casa circondariale di Rebibbia a Roma, che oggi sono stati raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip presso il tribunale di Roma e notificata dai carabinieri del nucleo investigativo della capitale. I due sono ritenuti responsabili di violenza sessuale e atti persecutori nei confronti di un ventiduenne italiano ristretto nella loro stessa cella. Le indagini sono partite da una denuncia presentata, nel marzo scorso, dal giovane italiano nei confronti dei due detenuti che, secondo quanto denunciato a personale della polizia penitenziaria, dopo avergli fatto assumere forzatamente un farmaco tranquillante, lo avevano minacciato ponendogli all’altezza della gola il coperchio in latta di una scatola per alimenti, costringendolo a subire atti sessuali da parte di entrambi. Gli approfondimenti investigativi sviluppati dai carabinieri, hanno confermato la versione dei fatti fornita dal denunciante, consentendo di accertare che, già nei giorni precedenti alla violenza sessuale, era stato oggetto di reiterate minacce, molestie e percosse da parte dei due indagati che, oltre ad appropriarsi arbitrariamente degli oggetti e dei beni ricevuti in occasione delle visite con i suoi familiari, lo avevano costretto a umilianti atti di servilismo finalizzati ad affermare la loro posizione di supremazia in ambito carcerario. Uno dei due destinatari del provvedimento restrittivo era stato arrestato nel novembre scorso proprio dai carabinieri del nucleo investigativo di Roma, dopo averlo rintracciato in Norvegia e fermato in forza di un mandato di arresto europeo emesso nell’ambito delle indagini sull’omicidio del manager tedesco Degenhardt Oliver, assassinato il 7 novembre del 2015 all’interno del suo appartamento in via dei Volsci, nel quartiere romano di San Lorenzo. Verona: la Camera penale "non sono i legali a portare i telefonini in cella ai detenuti" L’Arena, 11 maggio 2016 Proseguono le polemiche sulla foto-scandalo pubblicata su Facebook, che ritrae alcuni detenuti, tra cui un boss albanese, nel corso di una festa di compleanno in cella. A prendere posizione è stavolta la Camera Penale, con la sua commissione carcere, che respinge i "sospetti avanzati nei confronti dell’avvocatura, che ogni giorno varca le soglie delle carceri italiane, comprese quelle di Montorio, sottoponendosi a tutti i controlli richiesti e previsti dalla legge". Un riferimento alle dichiarazioni degli agenti di polizia penitenziaria riportate in un articolo apparso nei giorni scorsi, secondo cui è impossibile che i cellulari entrino in carcere tramite i pacchi consegnati o inviati ai detenuti, mentre sarebbe più probabile che passino "attraverso le numerose persone che ogni giorno varcano i cancelli di Montorio: parenti dei detenuti, avvocati, infermieri, insegnanti, persino gli stessi agenti di polizia penitenziaria". Affermazioni che la Camera penale non condivide. "Al contempo si denuncia come in realtà tali esternazioni nascondano e cavalchino la volontà di tornare a un regime carcerario diverso da quello attuale cosiddetto "aperto", che consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori da quella che impropriamente viene indicata quale "cella", ma che la norma definisce "locali destinati al pernottamento", proseguono gli avvocati penalisti. "Il predetto regime, pertanto, solo recentemente applicato, non è una concessione fatta dall’amministrazione penitenziaria ai detenuti, ma rappresenta esclusivamente quanto prevede la legge". Secondo la Camera penale, "con riferimento all’episodio di Verona va ribadito che la legge richiede momenti di socialità e che l’esecuzione della pena non prevede il divieto di celebrare ricorrenze", si legge nella nota. "Ogni censura di tale episodio è del tutto fuori luogo, mentre va evidenziata l’assenza di controllo in quegli istituti dove sono stati ritrovati telefonini in possesso di detenuti. Controllo che, se fallace, va corretto e intensificato", conclude la Camera penale. "Compito questo dell’amministrazione penitenziaria, che non deve limitare i diritti dei detenuti che, come evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, non sono stati in questi anni rispettati". Alessandria: Associazione Betel, corso di formazione per aspiranti volontari penitenziari alessandrianews.it, 11 maggio 2016 La Betel, è un’associazione di Volontariato penitenziario che opera nei due Istituti di pena alessandrini, Cantiello e Gaeta (Don Soria) e San Michele, è nata circa trent’anni fa a seguito delle prime emergenze di immigrazione presenti in città. La sensibilità di alcuni cittadini e la forza evangelica del compianto don Gianni Cossai (allora parroco in Sant’Alessandro) hanno dato il via ad una associazione che si prendeva cura delle prime necessità degli immigrati (cibo, casa, vestiario, sostegno economico, collocazioni lavorative e altro….). Abbiamo la impellente necessità di incrementare il numero dei volontari. Da qui l’invito pressante, a tutte le persone di buona volontà, di unirsi a noi per "dare una mano" nel lavoro sopra descritto. Si tratta di condividere la nostra passione e ritagliare un po’ di tempo da impegnare per questo servizio. Le necessità sono tante, multiformi e permettono ambiti di intervento molto personalizzati rispetto alle proprie attitudini ed entusiasmo. Per aderire all’associazione, dopo un periodo di formazione, occorre aver compiuto 18 anni; a tal proposito, l’Associazione propone un corso di formazione che prenderà il via sabato 14 maggio e che si concreta in 4 incontri, tutti di sabato, fino all’11 giugno dalle ore 9.30 alle ore 11.30 presso l’Associazione - Via Vochieri, 80 ad Alessandria. Per informazioni e iscrizioni è possibile contattare il numero 335.5283979. Chieti: con "Voci di dentro Onlus", per la prima volta il carcere entra all’università ChietiToday.it, 11 maggio 2016 Lunedì mattina la rappresentazione de "Il malato immaginario", organizzata dalla Onlus Voci di dentro, con i detenuti del carcere di Pescara. L’università d’Annunzio per la prima volta in Italia apre le sue porte al carcere. È stata un successo la rappresentazione teatrale de "Il malato immaginario", commedia teatrale liberamente tratta dall’opera di Moliere e frutto del laboratorio di teatro della Casa circondariale di Pescara e di Voci di Dentro Onlus. Ieri mattina ad assistere alla divertente pièce all’auditorium del Rettorato c’era anche il sottosegretario alla Giustizia, senatrice Federica Chiavaroli, accolta dal rettore Carmine Di Ilio. Sul palco gli attori-detenuti del carcere di San Donato, assieme ad alcuni volontari dell’associazione Voci di dentro. Un progetto sperimentale di non facile organizzazione costruito dall’associazione Voci di dentro presieduta da Francesco Lo Piccolo e in cui hanno creduto l’università d’Annunzio, il professor Gianmarco Cifaldi, docente di sociologia della violenza e sociologia penitenziaria e rieducazione sociale (dipartimento di Scienze giuridiche e sociali), il dottore Franco Pettinelli, direttore della Casa Circondariale di Pescara con la collaborazione del comandante. L’incontro è stato reso possibile grazie anche alla collaborazione del tribunale di sorveglianza e del personale di polizia penitenziaria. "Questo spettacolo teatrale è una tappa del lavoro di Voci di dentro - ha commentato il presidente Lo Piccolo a margine della rappresentazione. È stato realizzato, diretto e organizzato autonomamente da un gruppo di detenuti, che insieme hanno lavorato con tirocinanti dell’università presso l’associazione. Dico tappa del nostro lavoro che tende a liberare oltre che i detenuti lo stesso carcere: tutti ingabbiati in ruoli, regolamenti, comandi che non responsabilizzare ma infantilizzano senza cambiare, migliorare, ma quasi sempre riproducendo carcere e carcerati uguali a se stessi". Un’altra bella tappa per la Onlus nata a Chieti nel 2008 a cui recentemente anche le telecamere di Blob su Raitre hanno dato attenzione con un doppio servizio, andati in onda qualche domenica fa, nel quale hanno raccontato il progetto La città, laboratorio pilota con detenuti e tirocinanti universitari, che la Onlus da due anni porta avanti con passione e risultati all’interno del carcere di Pescara. "La sicurezza - ha concluso Lo Piccolo - non è chiudere le persone dentro, ma far si che il dentro e soprattutto che il fuori lavorino affinché le persone abbiano chance e siano migliori. Ma per fare questo occorre dare loro le chiavi del proprio futuro e bisogna capire che parliamo di persone, non di reati. E che le persone cambiano". Venezia: il progetto "501 disegni" dell’associazione "Pesce di pace" presentato in carcere La Nuova Venezia, 11 maggio 2016 Coinvolti 1.500 bambini di 24 scuole. Detenuti che diventano traduttori. Bambini delle scuole veneziane e tunisine insieme a disegnare la pace. L’imam, il rabbino e il padre salesiano seduti allo stesso tavolo, con il sindaco Brugnaro e il vicepresidente del Consiglio regionale Bruno Pigozzo, a sostenere lo stesso progetto. Il miracolo è opera di Nadia De Lazzari e della sua associazione "Pesce di pace". Che ha trovato ascolto nella direttrice del carcere di Santa Maria Maggiore, Immacolata Mannarella, convinta sostenitrice del progetto. Si chiama "501 disegni a sei mani per 500 anni Veneziani". 1.500 bambini di 24 scuole elementari di Veneto, Tunisia, Texas hanno colorato a distanza fogli di disegno a forma di mondo. Hanno scritto messaggi in varie lingue (arabo, ebraico, francese, inglese e italiano), che sono stati tradotti da nove detenuti del penitenziario veneziano: due marocchini, sei tunisini, un italiano. Piccole opere d’arte che parlano il linguaggio universale della pace. Collage che rimandano agli stessi temi e agli stessi desideri, bambini europei e africani che si tendono per mano. "Inviterò il presidente della Tunisia a palazzo Ducale, come già abbiamo fatto con gli israeliani e i russi", dice il sindaco Brugnaro, A palazzo Ducale saranno anche esposti i disegni in una originale mostra che inneggia alla pace. Pace, suono che si somiglia nelle lingue arabe ed ebraica. "Shalom aleichem", "As salam Alaykum". "Sono quasi la stessa parola", dice il rabbino Shalom Babbout ricordando le sue origini marocchine, "dobbiamo cominciare dai bambini, che vogliono la pace perché non hanno pregiudizi. Quando anche gli adulti impareranno, la pace arriverà". L’imam Yahya Pallavicini loda l’iniziativa: "Serve per combattere il radicalismo". "Il carcere a Venezia è un luogo dentro la città", ha spiegato la direttrice. Ed ecco il miracolo. I detenuti, educati, attenti, seduti nella sala colloquio del carcere di Santa Maria Maggiore accanto ai giornalisti e alle autorità. Applaudono imam e rabbino. Ascoltano i messaggi del ministro Giannini, del Segretario di Stato del papa Pietro Parolin. "La persona non è il suo reato", dice De Lazzari. L’integrazione e il recupero cominciano da qui. La crisi di solidarietà che riguarda tutti noi di Ban Ki-moon Corriere della Sera, 11 maggio 2016 I governanti a tutti i livelli hanno la responsabilità di pronunciarsi con forza contro discriminazione e intolleranza e di contrastare quanti cerchino di ottenere voti istillando la paura e la contrapposizione. È ora di costruire ponti, non muri, tra la gente. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite vedrà i governanti mondiali incontrarsi in settembre per affrontare una delle sfide decisive del nostro tempo: dare una risposta ai movimenti di massa di rifugiati e migranti. Guerre, violazioni dei diritti umani, sottosviluppo, cambiamenti climatici e disastri naturali stanno costringendo ad abbandonare le proprie case un numero di persone più alto che in qualunque altro periodo storico di cui si abbiano dati affidabili. Più di sessanta milioni di individui, metà dei quali bambini, si sono lasciati alle spalle violenze e persecuzioni, divenendo così rifugiati e profughi. Altri 225 milioni sono migranti partiti dai loro paesi in cerca di migliori opportunità o semplicemente per sopravvivere. Tuttavia questa non è una crisi di numeri: si tratta piuttosto di una crisi di solidarietà. Quasi il novanta per cento di tutti i rifugiati nel mondo è ospitato in paesi in via di sviluppo. Otto Stati ospitano più della metà dei rifugiati totali nel mondo. Appena dieci paesi forniscono il settanta per cento delle risorse finanziarie che nel bilancio Onu sono destinate allo scopo. In presenza di un’equa condivisione di responsabilità i paesi ospiti non sarebbero in crisi. Possiamo permetterci di prestare aiuto, e sappiamo cosa occorra per gestire tali massicci movimenti di rifugiati e migranti. Eppure troppo spesso ci facciamo confondere da paura e ignoranza. Si finisce così per trascurare i bisogni umani, e la xenofobia prende il sopravvento sulla ragione. I paesi in prima linea in questa crisi combattono ogni giorno per fronteggiare la sfida. Il 19 settembre, l’Assemblea Generale terrà un incontro di alto livello con l’obiettivo di potenziare i nostri sforzi per il lungo periodo. Affinché la comunità internazionale colga tale opportunità, ho pubblicato un rapporto, intitolato In Sicurezza e Dignità, che contiene raccomandazioni sulla maniera in cui il mondo possa adottare un’azione collettiva più efficace. Occorre innanzitutto riconoscere la nostra comune umanità. Milioni di persone sono state esposte a sofferenze estreme nei loro spostamenti. Migliaia di loro sono morti nel Mediterraneo, nel Mare delle Andamane, nel Sahel, in America centrale. Rifugiati e migranti non sono "altri"; la loro diversità è quella tipica del genere umano. I movimenti di persone sono un fenomeno di portata globale che richiede una condivisione globale di responsabilità. In secondo luogo, lungi dal rappresentare una minaccia, rifugiati e migranti contribuiscono alla crescita e allo sviluppo sia dei paesi ospiti sia degli Stati di origine. Meglio essi si integrano e migliore sarà il loro contributo alla società. C’è dunque bisogno di maggiori misure per promuoverne l’inclusione sociale ed economica. Inoltre, i governanti a tutti i livelli hanno la responsabilità di pronunciarsi con forza contro discriminazione e intolleranza e di contrastare quanti cerchino di ottenere voti istillando la paura e la contrapposizione. È ora di costruire ponti, non muri, tra la gente. Quarto: occorre prestare maggiore attenzione alle cause prime degli spostamenti forzati di popolazione. Le Nazioni Unite continuano a rafforzare la propria attività di prevenzione dei conflitti, di risoluzione pacifica delle controversie e di contenimento delle violazioni dei diritti umani prima che degenerino. In quinto luogo, vanno rafforzati i sistemi internazionali di gestione di movimenti di massa, in modo che incorporino sempre elementi di tutela della normativa dei diritti umani e garantiscano la necessaria protezione. Gli Stati debbono onorare I propri obblighi internazionali, compresa la Convenzione sui rifugiati del 1951. I paesi di prima destinazione dei rifugiati non dovrebbero essere abbandonati a se stessi nella valutazione delle richieste. Il mio rapporto propone un accordo "globale di condivisione della responsabilità per i rifugiati". C’è urgente bisogno di fare di più per combattere i trafficanti di uomini, salvare e proteggere le persone nei loro spostamenti, garantirne sicurezza e dignità alle frontiere. Sarà decisivo avere un numero maggiore di percorsi ordinati e legali, in modo da non dover indurre gente disperata ad affidarsi a reti criminali nella propria ricerca di sicurezza. Il numero dei migranti è destinato a crescere in conseguenza di ridotte opportunità professionali, di movimenti e comunicazioni più agevoli, di crescenti disuguaglianze e di cambiamenti climatici. Il mio rapporto propone misure importanti per migliorare la governance globale in questo settore, tra cui un accordo "globale per migrazioni sicure, ordinate e regolari". Ben lungi dall’essere insormontabili, le crisi di rifugiati e migranti possono essere affrontate da Stati che agiscano da soli. Oggi, privando milioni di rifugiati e migranti dei loro diritti basilari, è il mondo stesso che si priva dei benefici che essi possono offrire. Il vertice umanitario mondiale convocato a Istanbul il 23 e 24 maggio cercherà un nuovo impegno da parte di Stati e altri attori a lavorare insieme a tutela delle persone e per accrescere la capacità di adattamento. Mi aspetto che l’incontro di settembre all’Assemblea Generale possa poi indirizzare il cammino verso soluzioni alle esigenze più immediate e impegnare i governanti mondiali ad adottare una maggiore cooperazione su scala mondiale su questi temi. Gli esseri umani si sono spostati da una parte all’altra del pianeta per millenni, per scelta o perché costretti, e continueranno a farlo in un prevedibile futuro. Solamente se saremo in grado di adempiere al nostro dovere di proteggere quanti fuggano da persecuzioni e violenza e di cogliere le opportunità che rifugiati e migranti offrono alle loro nuove società, potremo guardare a un futuro più prospero e giusto per tutti. La Cei: "permessi umanitari ai migranti" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 11 maggio 2016 La richiesta al governo: "I dinieghi quasi 40 mila, bisogna evitare di creare un popolo di invisibili e sfruttati" Renzi: "Il Brennero? Se credi ai mostri vince chi è più bravo a creare paura. Sulla flessibilità io solo come un virus". Permessi di soggiorno umanitari per 40mila migranti "invisibili". I vescovi italiani, tramite la fondazione Migrantes della Cei, rivolgono un appello al premier Matteo Renzi. "Sta crescendo il popolo dei "diniegati", che nel corso dell’anno potrebbe arrivare al numero di 40mila migranti. Serve valutare, da parte del governo, la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario per evitare che si crei un popolo di invisibili, sfruttati - afferma monsignor Gian Carlo Perego, direttore Migrantes. Le commissioni territoriali (che valutano l’asilo, ndr) di fatto stanno operando sulla base di una lista dei Paesi sicuri e stanno negando una forma di protezione internazionale o umanitaria talvolta a nove su dieci dei richiedenti asilo. Questa situazione - prosegue Perego - creerà un fenomeno grave, perché il governo non sarà in grado di rimpatriare le persone, che si renderanno irreperibili. E sul territorio si creerà una situazione di insicurezza per le persone migranti e residenti". Secondo Perego, "occorre utilizzare uno strumento che il Testo unico sull’immigrazione prevede, cioè un decreto del presidente del Consiglio che offra la possibilità di un permesso umanitario per le persone in fuga". Immediata la replica di Matteo Salvini: "Sono contrario ai permessi umanitari. In Italia ci sono 4 milioni di disoccupati e un milione e mezzo di bambini in stato di povertà. Mentre la Cei e gli altri si preoccupano di dove mettere i migranti, ci sono realtà che devono venire prima. Io penso che siamo vittime di un’invasione clandestina finanziata". Intanto dalla Germania arriva la notizia che sono ben un milione le richieste d’asilo che Berlino valuterà entro l’anno. Sul fronte immigrazione torna anche il premier Renzi: "Il tono becero e barbaro usato da alcuni in questi mesi, come il generico buonismo del "venghino signori venghino", sono soluzioni entrambe destinate a sconfitta e fallimento - sostiene Renzi, parlando alla direzione Pd -. L’Europa continua a inseguire la strada della paura. Il Brennero è l’esempio più concreto, ahimè non l’unico. Quando hai scommesso su un’Europa che non abbia confini interni ma a fronte di questo non hai il coraggio di essere conseguente appena emerge un piccolo segnale di difficoltà o disagio, ti mostri poco credibile agli occhi della tua gente. Se crei fantasmi o credi ai fantasmi creati da altri, chi è più bravo ad alimentare paure e generare mostri, vince sempre". Non si ferma infine la conta degli sbarchi, anche se la loro corsa pare rallentare: a ieri i migranti arrivati via mare in Italia nel 2016 sono 31.215, il 13% in meno rispetto al 2015. "Ma - avvertono dal Viminale - da metà maggio attendiamo l’onda grossa". Pur non essendoci previsioni ufficiali, sui tavoli del ministero dell’Interno circola un numero: 200mila. Tanti potrebbero essere gli sbarchi nel 2016. Insomma, più numerosi del 2015 (153.842) e anche del "terribile" 2014 (170.100). Mentre sul fronte dell’accoglienza sono 114.923 i migranti già ospitati nei centri e nelle strutture temporanee del Paese. Non solo. Lo scrive il Washington Post, lo temono da mesi i tecnici del Viminale: la chiusura della rotta balcanica potrebbe fare riesplodere quella del Mediterraneo centrale che dalla Libia porta diretta in Italia. Polonia: rifugiati e ricollocamenti, Kaczynski sbatte la porta di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 11 maggio 2016 Un dietrofront clamoroso che sfida le nuove regole europee. Jaroslaw Kaczynski, il leader del partito di destra Giustizia e libertà (PiS), ha annunciato che la Polonia non è disposta ad accogliere nessun rifugiato. Prima di essere sconfitta alle elezioni politiche di ottobre scorso, l’ex-premier Ewa Kopacz della formazione di centro-destra Piattaforma civica (Po) aveva dato il proprio via libera all’accoglienza di 5000 rifugiati, oltre ai 2000 concordati da tempo con l’Unione Europea. Kaczynski ha aggiunto che Varsavia si opporrà a qualsiasi legge che imponga ai Paesi membri dell’Ue di pagare multe per ogni rifugiato non accettato: "Dopo i recenti attacchi terroristici la Polonia non accetterà i rifugiati perché non esiste un meccanismo che possa garantire la sicurezza del paese. Dobbiamo rafforzare i confini europei e offrire la nostra assistenza a queste persone soltanto sul posto", ha ribadito il numero del PiS durante una conversazione in chat con gli utenti della televisione pubblica polacca (TVP). Un nie categorico quello di Kaczynski che suona come un diktat di partito. Il leader del PiS ha tutte le intenzioni di voler forzare la mano all’attuale Ministro degli esteri Witold Waszczikowski che ha poi paragonato il sistema di distribuzione dei profughi a una forma di "deportazione di massa", nel corso di una recente intervista al canale TVN. Un dietrofont clamoroso da parte di Varsavia, eppure non del tutto sorprendente, in linea con la politica di "orbanizacja" del paese, perseguita in questi mesi dal PiS. Durante un incontro alla Farnesina con il suo collega italiano Paolo Gentiloni a marzo scorso, Waszczikowski aveva invece confermato la sua disponibilità ad accettare alla spicciolata la quota concordata con l’Ue, ma soltanto a certe condizioni. Questa volta, il governo polacco sembra fare sul serio, al di là di ogni dichiarazione demagogica di Kaczynski che aveva paventato il rischio di un’"emergenza sanitaria" con l’arrivo dei profughi da Iraq, Eritrea, Siria e Yemen. Secondo gli accordi presi con Bruxelles a dicembre scorso, la Polonia avrebbe dovuto accogliere progressivamente i rifugiati in gruppi di massimo 150 persone. Allora la Polonia aveva anche dichiarato, sulla scia di quanto proposto da Bratislava, la sua preferenza ad accettare i profughi di confessione cristiana a dispetto di ogni forma di discriminazione religiosa. L’arrivo dei primi 35 immigrati dall’Italia è saltato per motivi burocratici. Varsavia ha denunciato la mancanza di cooperazione da parte di Roma sulla verifica dell’identità delle persone. È gelo anche con Atene che era a pronta a ricollocare un centinaio di immigrati in Polonia. "Le operazioni di ricollocamento sono state bloccate in larga misura su richiesta delle autorità italiane. I nostri ufficiali non sono stati messi nelle condizioni di incontrare di persona i richiedenti asilo per verificarne l’identità", ha raccontato il portavoce dell’Ufficio dell’immigrazione polacco, Jakub Dudziak in un’intervista al quotidiano conservatore polacco Rzeczpospolita. Nel caso della Polonia, l’ostruzionismo burocratico è accompagnato anche da una mancanza di cooperazione da parte delle autorità locali. È infatti compito degli enti mettere in pratica la partecipazione dei rifugiati ad un percorso annuale che preveda insegnamento del polacco, formazione professionale nonché il pagamento di un sussidio. "Soltanto 66 gminy sulle circa 2500 presenti nel paese (la gmina è la più piccola unità di divisione territoriale in Polonia ndr) si sono dichiarate disposte ad accogliere i rifugiati", ha raccontato al manifesto Danuta Przywara, presidente dell’Helsinki Foundation for Human Rights (Hfhr). L’intransigenza mostrata da Kaczynski in questa circostanza sposa la linea diplomatica degli altri stati membri del gruppo Visegrad che si oppongono fermamente a uno snellimento delle procedure burocratiche per i richiedenti asilo. Mercoledì scorso durante un meeting a Praga, i ministri degli Esteri di Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia hanno respinto la proposta della Commissione europea di ridistribuire i migranti privi di documenti tra gli Stati membri dell’Ue. Lavoro nero e salari da fame: il tessile turco punta sui rifugiati siriani di Emanuele Confortin Il Manifesto, 11 maggio 2016 Parla Yacin Yanik, fondatore del sindacato di settore a Izmir. Tra i siriani in fuga, metà sono bambini e minorenni. Spesso costretti a lavorare al pari degli adulti. "Prima è arrivata la Cina, poi Pakistan e Bangladesh. Ora anche la Russia ha iniziato a produrre borse e prodotti in pelle, mettendo in ginocchio l’industria tessile locale". Sono le parole con cui Yacin Yanik descrive l’impasse del settore in cui opera dagli anni Settanta. Turco 56enne di origine africana, è referente del "Sindacato dei lavoratori del cuoio, del tessile, e delle calzature", da lui fondato trent’anni fa. Lo incontriamo a Izmir, la terza città turca per dimensioni fiorita grazie al turismo e all’importante polo industriale locale, in particolare tessile, ma divenuta famosa con la guerra civile siriana quale capitale del traffico dei migranti diretti in Europa. Yacin siede su una sedia rattoppata alla meglio schiacciata in un angolo del suo minuscolo laboratorio, nove metri quadri occupati da un piano da taglio, una cucitrice e altre strumentazioni per la lavorazione della pelle. Qui opera come artigiano, e tra una commessa e l’altra coordina l’attività sindacale "di impronta comunista", spiega con orgoglio, malgrado l’impegno politico non sia un requisito per gli iscritti, "basta condividere le finalità del sindacato, e lottare per i diritti dei lavoratori". Diritti quali assicurazione sanitaria, rappresentanza sindacale, festività retribuite, salari minimi adeguati, sicurezza, un tempo garantiti, ma oggi di fatto sacrificati per ridare competitività all’industria tessile. "Trent’anni fa era più semplice - assicura - con la globalizzazione dei mercati i laboratori hanno iniziato a lavorare sempre meno. Ora le commesse si assegnano al ribasso, in una sorta di asta al contrario". Gli operai vengono pagati a pezzo, pertanto velocità di esecuzione e stress aumentano, perdendo in qualità e sicurezza. "Se non bastasse i tempi di consegna si sono ridotti drasticamente, con picchi concentrati in brevi periodi dell’anno, così gli operai devono sopportare turni lunghissimi, molti giorni di fila". Per rimanere sul mercato l’imperativo è "competitività", da cui la fioritura di laboratori clandestini che sfruttano il lavoro nero, capaci di assorbire una grossa parte delle commesse. "Le cose sono peggiorate con l’arrivo dei rifugiati siriani", aggiunge Yacin. Decine di migliaia di persone in fuga dalla guerra, e disposte ad accettare condizioni di lavoro misere a salari ridotti, pur di accumulare quanto basta per pagare un passaggio in gommone attraverso l’Egeo, sino in Grecia e poi oltre, in Europa. Questo ovviamente prima dell’accordo tra Ue e Turchia del 18 marzo scorso, anticipato dalla chiusura della Via dei Balcani e seguito dal ridimensionamento dei passaggi verso le isole. Ora le priorità sono altre. Intere famiglie siriane restano bloccate a Izmir in attesa di sapere cosa accadrà, stipate all’interno di appartamenti fatiscenti pagati a peso d’oro, disseminati nel quartiere di Basmane. A tenerle al mondo sono i loro nomi e cognomi, incastrati nelle liste di richiesta asilo rivolte in Europa, e un salario stracciato riconosciuto a singhiozzo, guadagnato con il lavoro svolto in qualche sottoscala di Izmir. Malgrado la timida apertura di Ankara verso i siriani, con la possibilità di ottenere il kimlik, carta di identità che riconosce lo status di ospite permanente e l’accesso a servizi e lavoro, per i rifugiati le chance di impiego restano limitate al lavoro nero. Ciò implica turni di 12 ore al giorno 6 giorni la settimana, pagati circa 800 lire turche al mese, contro un salario minimo di 1300 lire. Di questi soldi, 400 lire vanno per l’affitto di un seminterrato ammuffito a Basmane, e il resto per mangiare ogni giorno. In base alle leggi turche, spetta a chi assume richiedere il permesso di lavoro per i propri dipendenti, ma questo comporta tasse e costi aggiuntivi, pertanto è quasi impossibile che la manovalanza siriana venga messa in regola. "Nel passato ci sono state delle proteste da parte degli operai turchi contro i lavoratori clandestini siriani - conclude Yacin - abbiamo cercato di mediare, spiegando ai turchi che la colpa non è dei siriani ma dei datori di lavoro che non offrono alternativa". Particolarmente preoccupante è la condizione di bambini e minorenni, spesso costretti a lavorare al pari degli adulti, a salari ancora inferiori. Secondo le stime Unicef, su 2,7 milioni di rifugiati siriani registrati in Turchia la metà sono bambini, l’80% dei quali in età scolastica ma non hanno possibilità di ricevere un’istruzione. Probabilmente, anche questi bambini rientrano tra i "ladri di lavoro" o "terroristi" che hanno giustificato la chiusura europea, spazzando via Schengen e la Convenzione di Ginevra. Un bagno di vergogna comunque utile, dicono, per salvare l’Europa e i suoi posti di lavoro. Almeno fino a giugno, quando 75 milioni di turchi otterranno accesso al Vecchio Continente senza dover richiedere un visto, così come stabilito dall’accordo siglato lo scorso marzo a Bruxelles tra Ue e Turchia. Pestati e uccisi: così la Turchia accoglie i siriani in fuga di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 maggio 2016 Human Rights Watch pubblica il video delle violenze turche sui rifugiati: ad aprile almeno 5 morti. Altre 48 ore di tregua ad Aleppo, mentre Usa e Russia annunciano un nuovo tavolo internazionale per il 17 maggio. Faisal chiede aiuto per girare il corpo martoriato dai pestaggi di un rifugiato senza vita: "Questa persona è morta mentre attraversava il confine verso la Turchia. Sai com’è morta? Non per una pallottola, ma per le botte". Lui, siriano, si trova da mesi al confine per aiutare chi scappa dalla guerra. Il video pubblicato lunedì da Human Rights Watch è terrificante: si vedono le guardie di frontiera turche picchiare siriani in fuga, si vedono cadaveri, si sentono le voci di chi è sopravvissuto e ora racconta gli abusi subiti prima per strada e poi nelle caserme. L’organizzazione dà un bilancio degli ultimi due mesi, marzo e aprile: 5 morti (tra cui un bambino) e 14 feriti. Sono i numeri della politica di Ankara per gestire il flusso di rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana e di quella dell’Unione Europea che insiste a descrivere la Turchia come un paese sicuro in cui confinare i profughi: ad oggi sono 2,7 milioni i rifugiati siriani in territorio turco, costretti ai margini, tra campi profughi e periferie delle città. Dall’agosto 2015 le frontiere sono ufficialmente chiuse e chi riesce ad entrare lo fa con l’aiuto di trafficanti di uomini o attraversando illegalmente il confine, a rischio della vita: "Mentre i funzionari turchi dicono di accogliere i rifugiati siriani con confini aperti e braccia aperte, le loro guardie di frontiera li uccidono e li picchiano - spiega Gerry Simpson, ricercatore di Hrw - Sparare a uomini, donne e bambini traumatizzati che scappano da un contesto di guerra è orrendo". E se con una mano Bruxelles copre i crimini dell’alleato turco, dall’altra le forze della coalizione occidentale anti-Isis realizzano il sogno che il presidente turco Erdogan ha nel cassetto da un po’: una zona cuscinetto al confine con la Siria, ovviamente in territorio siriano, con cui tenere alla larga i rifugiati e allo stesso tempo isolare i kurdi di Rojava dal Kurdistan turco. Secondo quanto riportato dal quotidiano turco Yeni Safak, l’operazione militare è già partita: l’obiettivo, per ora, è svuotare un’area lunga 18 km e larga 8 nella regione siriana di Jarablus, a nord ovest, zona calda negli ultimi mesi perché target sia del Pyd kurdo-siriano che dei miliziani dello Stato Islamico. Ma è target anche della Turchia che l’ha sempre definita la linea rossa, invalicabile per i kurdi e per le loro ambizioni di autonomia politica. A sostenere l’operazione, aggiunge il quotidiano, saranno Stati Uniti e Germania. Il nord della Siria resta al momento il cuore dello scontro militare e diplomatico. Aleppo ne è modello e vittima: dopo aver pianto 300 morti in meno di due settimane, da giovedì la seconda città siriana vive nel limbo, tra una tregua rinnovata di due giorni in due giorni e scontri che proseguono in periferia. Lunedì sera, dopo un incontro a Parigi a margine del meeting delle opposizioni e gli "Amici della Siria" (Unione Europea, Gran Bretagna, Germania, Italia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania, Turchia), Stati Uniti e Russia si sono accordati per prolungare di altre 48 ore il cessate il fuoco su Aleppo. Poche ore dopo l’esercito del governo di Damasco ne dava l’annuncio, spostando la lancetta alle 23.59 di oggi, quando - senza ulteriori accordi - si tornerà a far parlare le armi. È quanto successo lunedì, giorno di violenza tra una cessazione delle ostilità e l’altra: la parte nord della città è stata teatro di scontri mentre le due super potenze ribadivano in Francia l’impegno alla pace. Così Mosca ha fatto sapere che avrebbe minimizzato le azioni aeree per continuare a colpire i gruppi esclusi dalla tregua, al-Nusra e Isis: un’operazione complessa perché gli islamisti - soprattutto i qaedisti - sono concentrati in zone dove sono presenti anche le opposizioni etichettate come legittime. Nelle stanze della diplomazia mondiale si insiste nel definire la tregua di Aleppo lo strumento per far ripartire il negoziato di Ginevra, sepolto sotto montagne di precondizioni poste da governo, opposizioni e rispettivi sponsor internazionali. Ieri il segretario di Stato Usa Kerry ha annunciato per il 17 maggio un nuovo incontro internazionale a Vienna. A mostrare più coraggio di tutti gli attori coinvolti è la popolazione civile che tenta di riprendersi Aleppo: nonostante scontri non troppo sporadici, le famiglie che erano fuggite dalla città tentano un faticoso ritorno nelle proprie case, le scuole riaprono insieme ai piccoli esercizi commerciali necessari a mantenere viva una città devastata. Caso Regeni, la soluzione "diplomatica" di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 maggio 2016 Renzi "promuove" l’ambasciatore Maurizio Massari a Rappresentante presso l’Ue. Al Cairo andrà Giampaolo Cantini. Pignatone attende la traduzione dei documenti ricevuti. Promosso a metà del guado. Fino a ieri ambasciatore italiano al Cairo, anche lui come Giulio Regeni testimone diretto della brutalità del regime di Al Sisi ma soprattutto dei tanti depistaggi che hanno segnato in Egitto le indagini sull’omicidio del ricercatore friulano, depositario di una delle più gravi crisi diplomatiche italiane degli ultimi decenni, formalmente ancora a Roma per consultazioni da quando è stato richiamato, l’8 aprile scorso, Maurizio Massari è stato invece nominato ieri nuovo Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea. Prende il posto del neo ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, che a Bruxelles - a dispetto del nome - in quel ruolo è rimasto appena due mesi. È una promozione ma ha tutta l’aria di una rimozione. Il premier Matteo Renzi ne dà notizia al termine del Consiglio dei ministri: "Ci tengo molto a dire che, su proposta del ministro Gentiloni, -puntualizza in conferenza stampa, a Palazzo Chigi - il Cdm ha nominato ambasciatore capo a Bruxelles l’ambasciatore Maurizio Massari. Allo stesso tempo - aggiunge poi Renzi - per evitare che la sede del Cairo rimanga anche simbolicamente senza ambasciatore, considerando la situazione particolare - anche se oggi registriamo le dichiarazioni del procuratore capo Pignatone, a cui siamo totalmente affidati per le indagini - per evitare anche un solo giorno di mancanza di ambasciatore abbiamo individuato in Giampaolo Cantini, grande esperto di Nord-Africa, nuovo ambasciatore in Egitto". Il quale però, a meno che Renzi non abbia già deciso di far tornare al Cairo l’ambasciatore italiano dopo i piccoli "segnali" di collaborazione mostrati dalle autorità egiziane, dovrebbe rimanere ancora in patria. Almeno fino a quando non saranno soddisfatte le richieste avanzate più volte, e per ultimo con una rogatoria partita il 14 aprile scorso, dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Che ieri, insieme al pm Sergio Colaiocco, ha incontrato i funzionari del Ros e dello Sco rientrati dal Cairo dove domenica scorsa hanno preso parte al nuovo vertice con i magistrati egiziani. Pignatone però al momento ha detto solo di non sapere se si arriverà alla verità sulla morte di Giulio Regeni. "Non lo so. Deve essere chiaro che le indagini le conducono l’autorità giudiziaria e la polizia di Stato egiziani - ha detto rispondendo ad una domanda durante una tavola rotonda in Cassazione. Noi collaboriamo nei limiti del possibile. È una libera scelta dell’Egitto costruire tra le due parti una collaborazione costruttiva. Lo sapremo alla fine della storia". Anche il ministro Gentiloni, che pure secondo Renzi ha chiesto e ottenuto la sostituzione dell’ambasciatore, si affida alle "valutazioni della Procura di Roma". "Ha ricevuto nuovi materiali, nuovi documenti. Ho visto che danno un giudizio positivo sul metodo, cioè sul fatto che si sia riavviata una collaborazione - ha detto il capo della Farnesina ieri - Sui contenuti vedremo, ma credo che sappiate che la posizione del Governo italiano rimane molto ferma. Vogliamo vedere i risultati prima di dire che le cose stanno andando nella direzione che noi auspichiamo". Tutti da tradurre, infatti, anche stavolta, i materiali ricevuti nell’ultimo incontro programmato dalle autorità egiziane per ricucire lo strappo con l’Italia e che sembra sia andato meglio di quello tenutosi a Roma il 7 e l’8 aprile scorsi. Nel nuovo fascicolo ci sarebbero i tabulati di altre sei utenze telefoniche, delle 13 richieste, che si aggiungono alle cinque già consegnate a inizio mese. E finalmente forse anche i referti delle autopsie effettuate sui corpo dei cinque "criminali" uccisi dalla polizia egiziana ed indicati post mortem come coinvolti nel rapimento di Giulio Regeni. Una pista che non ha mai convinto i magistrati italiani. Infine una promessa: presto dovrebbero arrivare anche i risultati degli accertamenti della scientifica cairota sugli abiti che indossava Regeni quando venne ritrovato morto, il 3 febbraio scorso, lungo la strada che collega Il Cairo ad Alessandria. Tra dieci giorni, quando si stima siano pronte le traduzioni dall’arabo di tutto il materiale ricevuto, sapremo se l’Italia - al di là del computo delle nuove vittime del regime di Al Sisi - considererà superata la crisi diplomatica. Svizzera e droghe, oltre il consumo zero di Matteo Ferrari Il Manifesto, 11 maggio 2016 Il governo svizzero ha adottato una strategia nazionale Dipendenze 2017-2024 che va oltre gli stupefacenti ed estende a tutte le sostanze (e al gioco d’azzardo) il modello dei quattro pilastri nato per gli stupefacenti. Nel presentare un affinamento di quanto già approvato, le autorità ricordano d’aver sviluppato una politica non più incentrata sull’astinenza. La svolta è avvenuta quando è stata abbandonata l’idea di considerare il consumatore come un criminale. La nuova politica dei quattro pilastri - prevenzione, terapia, riduzione dei danni e repressione - è poi stata inserita nella legge sugli stupefacenti con un ampio sostegno popolare. Si vogliono ora affrontare le dipendenze nel paradigma d’una società liberale, che ricorre a mercati accessibili 24h su 24. In tale contesto, che non consente obblighi e divieti efficaci, bisogna mirare ad alleanze con produttori e commercianti e al dialogo con i consumatori. Da sempre l’essere umano è alla ricerca di stati di ebbrezza e ogni cultura conosce forme di dipendenza. Oggi, però, siamo di fronte a molte sostanze e comportamenti a rischio di dipendenza, cui si aggiungono sempre nuove forme di dipendenza. La regolamentazione dell’offerta di tali consumi e il rafforzamento di queste specifiche competenze al consumo saranno fattori strategici. L’attenzione si concentra sulle modalità di consumo: consumi non problematici, consumi problematici e dipendenze che necessitano d’una presa a carico. Per la Svizzera, la politica delle dipendenze è a cavallo tra la responsabilità sociale e quella individuale. È compito della società elaborare condizioni quadro che permettano di evitare per quanto possibile che dai consumi si sviluppino dipendenze. La strategia nazionale Dipendenze pone al centro le persone, la loro qualità di vita e la loro salute, perseguendo le pari opportunità nel campo della salute. Presuppone che le persone siano in grado d’assumersi la responsabilità del proprio stile di vita e intende rafforzare il senso di responsabilità promuovendo l’alfabetizzazione sanitaria, permettendo cioè a ciascuno di prendere una decisione conoscendone i rischi e le possibili conseguenze. L’individuo e chi gli è accanto, le sue condizioni di vita e la sua capacità di influire in prima persona sul mondo in cui vive svolgono un ruolo cruciale. Uno degli obiettivi strategici consiste nel rafforzare le risorse e le potenzialità a livello di salute. L’alfabetizzazione sanitaria dipende però molto da formazione, professione e situazione familiare. Bisogna sostenere i gruppi a rischio e particolare attenzione è da prestare a chi un reddito o un livello di formazione basso e ai migranti. È comprovato, infatti, che i comportamenti dannosi per la salute sono sostanzialmente determinati dalle condizioni di vita. Per il loro miglioramento sono quindi necessarie misure strutturali, che promuovono la salute al di fuori del sistema sanitario, ad esempio la lotta alla povertà. Per aiutare le persone a privilegiare un uso delle sostanze e comportamenti a basso rischio, bisogna creare condizioni quadro per favorire tale evoluzione. In particolare, lo stato di salute dei migranti è meno buono di quello degli autoctoni, poiché sono esposti a maggiori rischi per la salute e hanno più difficoltà ad accedere al sistema sanitario. Spesso le loro conoscenze in materia di promozione della salute sono insufficienti e hanno difficoltà di comprensione al contatto con le istituzioni sanitarie. Pertanto la strategia nazionale Dipendenze farà capo anche alle esperienze raccolte nel Programma nazionale migrazione e salute. Stati Uniti: California Institution for Women, la prigione dei suicidi letteradonna.it, 11 maggio 2016 In soli 18 mesi, un carcere femminile della California ha visto oltre venti recluse tentare di togliersi la vita. Quattro di queste purtroppo non sono state salvate. Quali sono le cause di questo triste primato? Quattro suicidi in 18 mesi, più altri 20 tentativi fortunatamente non andati a buon fine. È preoccupante il bilancio del California Institution for Women (CIW), istituto penitenziario femminile dove il tasso delle recluse che hanno tentato di togliersi la vita è otto volte maggiore rispetto alla media nazionale delle carceri. L’ultima donna a essersi suicidata è stata la 35enne Erika Rocha. La donna è stata ritrovata impiccata nella propria cella il giorno prima dell’udienza che le avrebbe concesso la libertà condizionale dopo quasi vent’anni di reclusione. Inoltre, era appena uscita da un periodo di isolamento che le era stato imposto proprio per impedirle di suicidarsi. L’isolamento non è una cura - Come racconta il Guardian, dopo la morte di Rocha altre 22 donne sono state sottoposte allo stesso tipo di isolamento. Ma è ormai chiaro come la politica dell’istituto non abbia alcun effetto positivo su chi manifesta tendenze suicide, anzi: come ha denunciato Geraldine Rocha, riferendosi a quanto accaduto alla sorella defunta. "Aveva bisogno di aiuto, di qualcuno che fosse lì con lei, non che le dicessero: Ecco, siediti da sola in questa stanza e forse guarirai". L’isolamento, infatti, non nasce certo come cura di patologie mentali, ma come forma di punizione. Nemmeno l’ora d’aria - Non è la prima volta che emergono dettagli sulle pessime condizioni in cui sono costretti a vivere i reclusi delle carceri californiane: già nel 1995 un giudice aveva parlato addirittura di incostituzionalità e ordinato che le cure delle patologie mentali fossero affidate a organi indipendenti rispetto agli istituti carcerari. Da alcune indagini condotte sul caso Rocha è emerso poi che a quasi tutte le donne che manifestavano tendenze suicide è stato impedito l’accesso al cortile del penitenziario. Vulnerabili - Quali sono le cause del recente picco di suicidi? Secondo l’avvocato Michael Bien, il sovraffollamento, la mancanza di personale e un management e una supervisione poco efficaci. Troppe recluse, poche risorse. Inoltre, le donne sono statisticamente, da sempre, tra i soggetti più vulnerabili dietro le sbarre. Circa il 90% di queste sono state infatti vittime di abusi, e il 73% ha sviluppato disturbi mentali. Bangladesh: impiccato in un leader islamico, era accusato di crimini contro l’umanità di Cecilia Attanasio Ghezzi La Stampa, 11 maggio 2016 Motiur Rahman Nizami era accusato di crimini contro l’umanità nella guerra di liberazione nazionale con il Pakistan del 1971. Motiur Rahman Nizami, 73enne leader del partito islamico più numeroso del paese, è stato impiccato questa notte in una prigione di Dhaka. Secondo il ministro della giustizia locale Anisul Huq il motivo sarebbe da rintracciarsi nel non aver chiesto perdono al presidente per i crimini commessi. Erano passati solo pochi giorni da quando la Corte suprema aveva rifiutato la richiesta in appello di sospendere la pena di morte per le atrocità commesse nel 1971 nella sanguinosa guerra di indipendenza con il Pakistan (le stime partono da 300mila e arrivano a tre milioni di morti). Ci si aspetta che la tensione cresca nuovamente nel paese. Nell’ultimo mese le brutali uccisioni di uno studente ateo, due attivisti lgbt, un professore e un induista sono state rivendicate dal cosiddetto Stati Islamico, di cui però il governo nega la presenza nel paese. L’esecuzione capitale di Nizami è la quinta e la più importante tra quelle che da 2013 hanno colpito gli oppositori dell’attuale governo del paese a maggioranza sunnita. Ed è la quarta all’interno della dirigenza dello stesso partito, il Jamaat-e-Islami. La condanna a morte per crimini di guerra di un altro funzionario nel 2013 aveva portato alla più grande ondata di violenza che la storia del giovane paese ricordi. Negli scontri con la polizia persero la vita circa cinquecento persone e in migliaia furono arrestati. Prima che Nizami fosse impiccato nel mezzo della notte, alla sua famiglia è stato permesso l’ultimo saluto. A testimoniare la tensione, centinaia di militari erano stati schierati a guardia della prigione dove è avvenuto l’incontro. Anche la capitale e la sua terra natale, nell’occidente del paese, sono state messe in regime di massima sicurezza. Il suo partito ha dichiarato che le accuse sono false e volte ad eliminare la propria dirigenza. Belgio: sciopero nelle carceri, i sindacati bloccano gli ingressi Nova, 11 maggio 2016 Non sembra aprirsi nessuno spiraglio in Belgio per la soluzione dello sciopero del personale carcerario che da 15 giorni sta rendendo difficile la vita dei detenuti nelle prigioni del paese: anzi stamattina martedì 10 maggio i sindacati dei lavoratori hanno istituito un picchetto all’ingresso della prigione di Forest alle porte della capitale Bruxelles; non è chiaro che l’intenzione degli scioperanti sia quella di impedire l’accesso al carcere dei soldati dell’esercito a cui il governo federale belga ha deciso di demandare la gestione delle carceri durante l’astensione dal lavoro del loro personale. In altre carceri del paese infatti sono già entrate alcune unità dei 180 militari ordinati alla bisogna: secondo le loro prime testimonianze, raccolte dal quotidiano "Le Soir", è "catastrofica" la situazione dei detenuti chiusi nelle celle senza alcun controllo né assistenza.