Chiusura dei manicomi criminali: è passato un anno, ma 4 sono ancora aperti di Sara Ficocelli La Repubblica, 10 maggio 2016 A un anno dalla data ufficiale che rendeva obbligatoria la chiusura definitiva (31 maggio 2015) - pena il commissariamento delle regioni - di tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, non si è ancora completato il processo di superamento di queste strutture. Qual è al momento lo stato degli Ospedali psichiatrici giudiziari, detti pure manicomi criminali (Opg) in Italia? A un anno dalla data stabilita dalla legge 81/2014 per la chiusura definitiva di questi istituti (31 maggio 2015) ne rimangono aperti ancora quattro, ma con un numero di persone internate di gran lunga inferiore a quello registrato dalla Commissione Parlamentare di inchiesta nel 2011. Italia realtà più avanzata tra i Paesi occidentali. "È possibile quindi affermare che, sia pur tra mille difficoltà e in un contesto caratterizzato da profonde differenze inter-regionali, la legge sta funzionando - spiega Fabrizio Starace, direttore del dipartimento Salute mentale e dipendenze patologiche dell’azienda Usl di Modena - e ciò assume particolare rilievo se si considera che ancora una volta l’Italia rappresenta sotto questo profilo la realtà più avanzata tra i Paesi occidentali. In Gran Bretagna, ad esempio, le strutture psichiatriche giudiziarie non solo non diminuiscono, ma assorbono da sole l’equivalente dell’intero budget che noi destiniamo a tutte le attività per la salute mentale". La mancanza di coordinamento tra Regioni. I problemi da risolvere sono invece ancora tanti, secondo Filomena Gallo, avvocato e segretario associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica: "Attualmente - spiega - permangono criticità legate al diverso livello di coordinamento che nelle singole Regioni è stato raggiunto tra servizi per la salute mentale e magistratura di cognizione e di sorveglianza, situazione da cui derivano provvedimenti contraddittori che generano confusione tra gli operatori. In particolar modo, va presidiato il reale percorso di recupero delle persone in Residenza per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza (cosiddette Rems, ovvero strutture sanitarie con pochi posti letto, massimo 20, senza sbarre e senza agenti di polizia, nate in sostituzione degli Opg, n.d.r), che dipende molto dalla capacità di tenuta dei sistemi di cura che le singole Regioni hanno (per cui ad esempio in Emilia Romagna le cose procedono in modo soddisfacente, mentre altrove meno)". Nuove strutture manicomiali. Un altro aspetto critico riguarda l’assetto che si è dato la regione Lombardia, che ha semplicemente "trasformato" l’Opg di Castiglione delle Stiviere in moduli Residenza per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza mantenendo, anzi incrementando la capienza totale a ben oltre le 200 presenze complessive. Secondo Gallo c’è dunque bisogno di più servizi per la salute mentale e per evitare che al posto degli Opg si ripropongano nuove strutture manicomiali sarebbe opportuno spostare e investire risorse finanziarie e di personale nei servizi del territorio e nei dipartimenti di Salute mentale, per una buona assistenza socio sanitaria e buone pratiche per la salute mentale. "Il Governo dovrebbe intervenire in modo preciso", afferma. "L’unico dato positivo che è intervenuto il mese scorso è la chiusura dell’area Opg presso il carcere di Secondigliano, Napoli". Le Rems come extrema ratio. Ancora quattro Opg su sei, intanto, restano aperti. Questo è il motivo che ha condotto il Governo alla nomina di un Commissario unico per il superamento degli Opg, che dovrà occuparsi soprattutto di Piemonte, Veneto, Toscana e Abruzzo, per non parlare della Lombardia. "Ciò detto - continua Starace - non vorrei che il dibattito si limitasse alla presenza o meno di Rems sul territorio regionale. Ricordo che la legge 81 considera l’adozione di misure di sicurezza detentive l’extrema ratio e affida ai dipartimenti di salute mentale sul territorio la definizione e la responsabilità dei percorsi terapeutico-riabilitativi". Ancora 93 persone rinchiuse. A oggi, a causa della scarsa diffusione delle Rems, ci sono ancora 93 persone rinchiuse illegalmente negli ospedali psichiatrici. Da un punto di vista pratico, le condizioni in cui vivono queste persone sono, in media, certamente migliori di quelle riportate dalla Commissione di inchiesta nel 2011 che provocarono l’indignazione del Presidente Napolitano per i trattamenti inumani e degradanti che si praticavano. "Non va dimenticato, però - continua Starace - che si tratta di persone trattenute in luoghi che la legge ha abrogato, verso le quali lo Stato ha l’obbligo di intervenire, anche attraverso l’adozione di misure straordinarie, per porre immediatamente fine alla violazione dell’art.13 della Costituzione". Le conseguenze per i familiari. Non risultando studi recenti e attendibili sull’impatto per le famiglie del passaggio dal sistema anteriore, nel quale per effetto di un internamento facilmente ottenibile queste si "liberavano" completamente del familiare con problemi, al sistema attuale, nel quale, nel migliore dei casi, le strutture pubbliche le affiancano e aiutano, lasciando comunque ai familiari il ruolo di primo attore nella gestione del caso. "Sappiamo di un giovane - racconta Bruno de Filippis, presidente della sezione del Tribunale di Salerno - che, nei momenti di crisi o di astinenza dai medicinali a lui necessari, era solito lanciare dalla finestra qualsiasi cosa trovasse. I familiari di conseguenza erano costretti a togliere dalla vista tutti gli oggetti lanciabili e persino a inchiodare a terra i mobili esistenti in casa. Si può immaginare che vita dovesse avere quella famiglia". Il problema dell’assunzione delle medicine. E lì, nel cuore della vita domestica, che è stato trasferito il problema, quotidiano e drammatico, della cura e dell’assunzione delle medicine da parte del malato. "Vale a dire - continua De Filippis - che il problema è stato trasferito da una sede che aveva tutti gli strumenti per risolverlo in modo pacifico e continuativo ad una che non ne ha affatto. È fin troppo facile dire che ciò è stato frutto di un’ideologia autoreferenziale, disposta a ignorare la realtà pur di non porre in dubbio sé stessa. Negare l’esistenza della malattia o il fatto che chi ne è afflitto non vuole, di regola, essere curato, nonché negare e far scomparire dalla legge la presunzione di pericolosità di una persona non in possesso delle sue facoltà mentali e l’esigenza che, oltre a curare il malato, anche gli altri debbano essere tutelati e protetti, costituisce un insieme di concetti che, se non avesse conseguenze drammatiche, sarebbe risibile". Una giurisprudenza difensiva. Le criticità applicative della legge 81 sono, secondo Starace, generate da un doppio atteggiamento difensivo, in larga parte dovuto ad una carenza di comunicazione: "Una giurisprudenza difensiva - spiega - caratterizzata, in particolare, dall’uso frequente da parte della magistratura della misura di sicurezza detentiva, cui fa da complemento una psichiatria difensiva, che nella generale condizione di sofferenza dei servizi di salute mentale territoriali prova ad esercitare il suo tecnicismo per proteggere ambiti di cura meglio definiti e più rassicuranti". Di qui l’esigenza, non più rinviabile, di una organica e strutturata relazione tra magistratura giudicante e di sorveglianza, periti incaricati delle valutazioni e dipartimenti di salute mentale, come previsto anche dal regolamento Rems, approvato in Conferenza unificata il 26/2/15. "Certo - conclude Starace - se si considera che alcune sedi di magistratura di sorveglianza sono carenti da anni e che negli stessi ambiti territoriali i dipartimenti di salute mentale stanno subendo accorpamenti e riduzioni di personale, rischiamo di riprodurre una dissociazione tra affermazioni di principio e pratiche reali che induce i singoli a non sentirsi parte di un sistema e ad assumere atteggiamenti difensivi o addirittura ostativi". Il Garante nazionale dei detenuti: non discriminare gli omosessuali in carcere Askanews, 10 maggio 2016 Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, ha visitato il carcere di Gorizia dopo le segnalazioni e le polemiche sollevate dalla predisposizione di un’apposita sezione in quell’istituito riservata a detenuti omosessuali del Triveneto che richiedono protezione. Al termine dell’incontro Il Garante dei detenuti ha sottolineato che "creare sezioni apposite per i gay per tutelarli da eventuali aggressioni omofobe può significare, indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha ipotizzate, escluderli dai percorsi trattamentali, negando loro diritti riconosciuti agli altri detenuti". La visita del Garante segue le segnalazioni e le polemiche sollevate dalla predisposizione di un’apposita sezione nel carcere di Gorizia riservata a detenuti omosessuali del Triveneto che richiedono protezione. "La protezione da garantire agli omosessuali della popolazione detenuta che la richiedono espressamente non deve minimamente diminuire la loro partecipazione alla vita detentiva quotidiana e ai percorsi trattamentali", ha ricordato Mauro Palma che ha proseguito, spiegando: "se può essere necessaria e idonea una particolare collocazione per le ore di riposo in stanze detentive riservate, all’interno dello stesso Istituto dove si è assegnati, non può certamente essere condivisa la predisposizione di una sorta di situazione detentiva ad hoc in cui trasferire detenuti della regione in base all’orientamento sessuale". "La struttura da me visitata a Gorizia, al di là delle buone condizioni materiali, all’interno peraltro di un carcere in cui le condizioni di detenzione delle altre aree sono al di sotto degli standard di accettabilità, è strutturalmente inadeguata a garantire ai reclusi la partecipazione alla ordinaria vita detentiva che deve prevedere attività didattiche, lavorative e riabilitative. Di fatto si è determinata una situazione di isolamento ingiustificata". Il Garante ha quindi sottolineato la necessità di una complessiva riqualificazione del carcere di Gorizia e, sul tema della specifica sezione oggetto della visita, ha informato che invierà al Dipartimento una raccomandazione affinché i detenuti ora alloggiati siano inseriti in piene condizioni di normalità e di protezione nella vita detentiva ordinaria, ipotizzando inoltre che si riveda il progetto stesso della predisposizione e della connotazione di tale sezione. Il problema dell’islam nelle carceri di Elisabetta Longo Tempi, 10 maggio 2016 Ignazio De Francesco, islamologo e volontario a Bologna: "I detenuti autogestiscono il momento di preghiera e predica e questo può degenerare nell’estremismo". Secondo il Dipartimento della Giustizia nelle carceri italiane ci sarebbero 354 aspiranti terroristi. In totale, sarebbero 11mila i detenuti di religione islamica, solo 7-8 mila praticanti, e tra questi una piccolissima percentuale vorrebbe, una volta libero, partire per la Siria o mettere in atto piani di violenza. "Purtroppo è vero che nelle carceri si può sviluppare una radicalizzazione dell’islam, ma quantificare in termini numerici il fenomeno è impossibile. Non basta una barba un po’ più lunga per insospettire", spiega a tempi.it frate Ignazio De Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata ed esperto di Islam. "Non tutti gli islamici che diventano estremisti partono con i foreign fighters o pianificano attentati, altri scelgono diverse vie per mettere in atto la loro radicalizzazione. Per esempio esercitando un controllo ossessivo sulla famiglia, talvolta anche ricorrendo alla violenza, come spesso la cronaca ha descritto", racconta il monaco, che da molti anni collabora con l’A.Vo.C., associazione volontari carcere, nella casa circondariale di Bologna Dozza. Che strada seguire. Dopo aver trascorso 12 anni in Medio Oriente, a frate Ignazio è stato proposto di seguire i detenuti, quelli provenienti dal bacino del Nordafrica, i più difficili da avvicinare: "Il fatto di parlare bene l’arabo e conoscere l’islam e le sue tradizioni mi ha reso possibile stabilire da subito un contatto con i detenuti. Il carcere di per sé è sempre uno shock, non conta da dove provieni, la perdita improvvisa della libertà è spiazzante. Di fronte a questo trauma, le strade che vengono prese sono sempre due. La prima fa purtroppo allargare la rete criminale a causa della quale si è entrati. La seconda strada segue un percorso di redenzione attraverso la religione, un inizio per una vita onesta una volta conclusa la condanna. È il caso per esempio di un ragazzo che faceva la staffetta della droga tra la Spagna e l’Italia, guadagnando 60 mila euro al mese. Quando è uscito è riuscito a trovare un lavoro, facendosi assumere, e guadagna 800 euro al mese. Lui stesso si dice incredulo di sentirsi felice, nonostante la sproporzione economica fra le due vite". Il problema degli imam. Nel carcere di Bologna i nordafricani incontrati da frate Ignazio escono dopo 3-4 anni, per reati di piccola entità. Il 37 per cento dei presenti è straniero, e il 40/50 per cento è di origine nordafricana. Tra i praticanti musulmani si stabilisce subito un contatto, soprattutto per i cinque momenti di preghiera quotidiani: "Spontaneamente uno tra gli altri viene eletto "imam". Sarà lui, con i dovuti permessi del carcere, a recitare ogni volta le preghiere e poi predicare. Questa dinamica può creare un potenziale nucleo di radicalismo, visto che non c’è nessuna autorità religiosa a sorvegliare su quanto viene detto. Nelle carceri italiane non è permesso entrare agli imam perché non è stato fatto nessun patto con la comunità islamica, per la sua frammentazione identitaria, al contrario di quanto è stato fatto con la comunità ebraica o dei Testimoni di Geova. Ogni carcere, eventualmente, ne consentirà l’ingresso, qualora lo ritenga opportuno". Preghiere in carcere. La Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, ha sostenuto più volte che il diritto di culto deve essere organizzato meglio, e a dirigerlo devono essere imam che conoscano e rispettino la Costituzione e l’ordinamento italiano: "Sono perfettamente d’accordo. Un detenuto che diventa imam può rischiare di predicare concetti errati o travisati. Dando origine alle radicalizzazioni che abbiamo purtroppo imparato a conoscere bene tramite i fatti drammatici di Parigi o Bruxelles". Uno degli strumenti utilizzati dal monaco per avvicinare i detenuti in carcere è stato istituire dei corsi per capire e spiegare la Costituzione, che hanno avuto molte adesioni, filmati nel documentario "Dustur", di Marco Santarelli: "L’articolo su cui ci siamo soffermati di più è quello sulla libertà religiosa, che afferma che ognuno ha diritto di professare liberamente la propria fede. Dirgli "se una vostra figlia volesse sposare un ragazzo cattolico dovreste accettarlo" è stato complesso". Riforma della prescrizione, i penalisti scendono in sciopero dal 24 al 26 maggio di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 maggio 2016 I penalisti entrano con forza nel dibattito sulla prescrizione. Gli avvocati incroceranno le braccia per tre giorni, dal 24 al 26 maggio, astenendosi dal prendere parte alle udienze, "contro una riforma asistematica del processo" ma soprattutto contro lo slogan "prescrizione più lunga e processi più brevi". Un attacco diretto al disegno di legge del governo Renzi che - dopo l’approvazione alla Camera - è arrivato proprio in questi giorni alla commissione Giustizia del Senato. Allungare i termini di prescrizione per ridurre la durata dei processi è "un ossimoro per coprire le carenze organizzative che portano oltre il 70% dei processi a prescriversi nel corso delle indagini preliminari" ma soprattutto una previsione che viola "la presunzione di innocenza, il diritto alla vita degli imputati", scrive il presidente dell’Unione Camere Penali, Beniamino Migliucci. Secondo il vertice dell’organizzazione dei penalisti, l’auspicata riforma del processo è ormai un treno impazzito, che aggiunge elementi distorsivi al modello accusatorio, sulla scia del clamore mediatico. Il riferimento è all’eccessivo utilizzo delle misure di sicurezza (il cosiddetto "doppio binario") e all’estensione del cosiddetto "processo a distanza", che prevede udienze in videoconferenza per i detenuti, per abbattere i costi degli spostamenti ma violando il diritto ad essere presenti in aula al proprio processo. Non solo, le ragioni dello sciopero riguardano anche il secondo tema caldo sul banco del governo: le intercettazioni. Secondo i penalisti, questo strumento investigativo è stato ormai collocato al centro del processo, anche a costo di piegare il sistema processuale, a scapito delle tutele costituzionali. Gli avvocati citano la recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, che allarga la possibilità di utilizzo dei cosiddetti "Trojan Horse", le intercettazioni informatiche, ma lamentano anche il fatto che le intercettazioni continuano ad essere oggetto di pubblicazione illegittima, a fronte di una normativa sullo stralcio "del tutto insufficiente a garantire la riservatezza di chi viene indirettamente intercettato e la distruzione delle registrazioni irrilevanti ai fini della prova del reato". Uno sciopero, dunque, le cui ragioni toccano tutti i punti più controversi dell’ultima stagione di riforme in materia di giustizia, riaccendendo la miccia di una discussione già infuocata tra magistratura e politica. Per il governo, dunque, si apre un nuovo fronte di polemica, questa volta con gli avvocati. Il Guardasigilli Andrea Orlando prova a smorzare i toni, considerando lo sciopero dei penalisti "parte della normale dialettica tra soggetti della giurisdizione". Una sorta di gioco delle parti, insomma, in cui avvocati, magistrati e governo si muovono secondo schemi che riflettono il loro ruolo nell’ordinamento. Eppure, le critiche mosse dall’avvocatura penale riguardano anche i rapporti di forza tra poteri dello Stato: "Il conflitto aperto dalla Magistratura associata nei confronti della Politica sembra ripercorrere un’idea dei rapporti tra poteri in una mera logica di supremazia, dimenticando che il tema centrale della contemporaneità è piuttosto quello di operare un riequilibrio dei singoli poteri". L’astensione dai processi vuole essere un richiamo a sostegno dell’autonomia del Legislatore, perché "la Politica ribadisca con forza non solo la propria indipendenza dalla magistratura, ma si sottragga all’azione condizionale del populismo". Un richiamo polemico che getta ulteriore benzina sul fuoco dell’ingerenza della magistratura nella vita politica del Paese. Perché i penalisti scioperano (e sbuffano contro i magistrati politicizzati) di Pietro Di Michele formiche.net, 10 maggio 2016 Nel mirino dell’Ucpi prescrizione, intercettazioni e processi a distanza. Sono contro una riforma asistematica del processo, contro lo slogan "prescrizione più lunga e processi più brevi" e contro l’attuale normativa in tema di intercettazioni. E per questo hanno annunciato che incroceranno le braccia per tre giorni, dal 24 al 26 maggio. Ecco cosa pensano gli avvocati dell’Unione delle camere penali della nuova riforma alla quale sta lavorando il governo Renzi. Cosa cambia - Tra i punti chiave della riforma che mette insieme i due ddl di riforma del processo penale e della prescrizione ci sono una prescrizione più lunga per i reati di corruzione, criteri direttivi sulle intercettazioni, 3 mesi di tempo al pm per archiviare o rinviare a giudizio. Il provvedimento è stato presentato dai relatori dem Felice Casson e Giuseppe Cucca. Il testo base, composto da 41 articoli, contenente la riforma del processo penale, della prescrizione, dell’ordinamento penitenziario e la delega al Governo per la riforma delle intercettazioni, sarà sottoposto agli emendamenti, il cui termine è stato fissato per il prossimo 25 maggio, per poi approdare all’esame dell’aula. I motivi dello sciopero - L’astensione nazionale dei penalisti è diretta "contro una riforma asistematica del processo, contro lo slogan "prescrizione più lunga e processi più brevi", un ossimoro per coprire le carenze organizzative che portano oltre il 70% dei processi a prescriversi nel corso delle indagini preliminari, contro una riforma della prescrizione che non accorcia, ma allunga i tempi del processo, violando la presunzione di innocenza, il diritto alla vita degli imputati", dicono i penalisti. Lo sciopero si rivolge anche contro la attuale normativa in tema di intercettazioni, ritenuta dall’Unione delle camere penali "del tutto insufficiente a garantire la riservatezza delle comunicazioni di coloro che occasionalmente (o indirettamente) vengano intercettati, e per la distruzione delle intercettazioni irrilevanti ai fini della "prova del reato". I penalisti protestano inoltre "contro ogni ulteriore estensione del "processo a distanza" ai processi penali con detenuti. Per ribadire la critica agli strumenti del "doppio binario", del regime speciale del 41 bis ord. pen. e dell’art. 146 bis att. c.p.p.". E ancora "contro l’interpretazione delle norme, processuali e sostanziali, in materia di misure cautelari reali ed in materia di utilizzo degli strumenti di captazione intrusivi. Contro questa nuova pericolosa spinta autoritaria, ispirata e alimentata da vari settori della magistratura che alimentano il conflitto aperto dalla Magistratura associata nei confronti della Politica, che deve preservare la propria indipendenza dalla magistratura e sottrarsi, con eguale autorevolezza ed autonomia, alla azione condizionante del populismo". "Astensione - conclude l’Ucpi - per far sentire la voce dei penalisti a sostegno dell’autonomia del Legislatore, per ricordargli il suo vincolo ai valori della Costituzione, ed il legame indissolubile dei principi del contraddittorio, dell’immediatezza, del giusto processo e della ragionevole durata, con la libertà di tutti e con la vita della nostra stessa democrazia". Giudici schierati: solo il Csm fissa le regole. Il Pd: non toccheremo la libertà dei pm di Errico Novi Il Dubbio, 10 maggio 2016 Ci vuole una legge. Ma una legge sull’impegno politico dei magistrati è all’esame della Camera e non potrà invadere il campo delle toghe. E allora l’unica strada è che le toghe ci pensino da sole. Anzi, che provveda il loro organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura. Sergio Mattarella e Giovanni Legnini si congedano subito dopo pranzo. Il colloquio del vicepresidente del Csm con il Capo dello Stato, che è anche presidente del Consiglio superiore, era diventato indispensabile. Soprattutto dopo che al primo focolaio di scontro acceso dall’intervista di Davigo al Corriere erano seguite altre scosse violente, culminate con l’intervista di Morosini sul Foglio. Da ieri il presidente della Repubblica avverte in modo ancora più forte l’urgenza di una rapida fine delle ostilità tra politica e giudici. Un armistizio che potrebbe essere favorito anche da un nuovo intervento del Quirinale. Ma che poi richiederà rimedi strutturali. E l’unico sembra essere un codice di autoregolamentazione su toghe e impegno politico da approvarsi a Palazzo dei Marescialli. Finché non ci si arriverà, resteranno impossibili da definire tutti gli altri eventuali conflitti da qui al referendum costituzionale, per esempio. Legnini domenica ha chiesto cautela, le toghe di "Area" hanno respinto l’invito. Ieri anche il presidente del Senato Grasso ha auspicato che le opinioni possano esprimersi "senza creare tensioni tra politica e magistratura". Lo stesso Renzi ne ha parlato alla direzione del Pd: "Non entriamo nelle polemiche che altri vorrebbero". Altri tra i quali, per il premier, ci sarebbe il togato del Csm Piergiorgio Morosini. Ma il punto è che una legge del Parlamento non potrà vietare le polemiche, e neppure la partecipazione dei giudici ai comitati per il "no". Problema che si pone anche il ministro della Giustizia Orlando, esattamente come il capo dello Stato e il numero due del Csm. E anche al guardasigilli non appare altra via che un codice di autoregolamentazione della stessa magistratura. E qui potrebbero concentrarsi le moral suasion di tutte le figure istituzionali coinvolte. Ieri Legnini si è recato da Mattarella. Alle 15 di oggi pomeriggio riceverà, come previsto da tempo, il vertice dell’Anm guidato da Piercamillo Davigo. Prima di varcare l’ingresso di Palazzo dei Marescialli, il sindacato dei giudici sarà a via Arenula, dal ministro della Giustizia. Una specie di giro di consultazioni. Che si chiuderà domani con l’incontro richiesto da Orlando a Legnini innanzitutto sul caso Morosini. Davigo potrebbe far notare come già l’anno scorso il Consiglio superiore avesse approvato una delibera per sollecitare una nuova legge sull’impegno delle toghe in politica. Quel testo è stato approvato a Palazzo Madama, e l’ex presidente della commissione Giustizia del Senato, Francesco Nitto Palma, da mesi chiede che i colleghi di Montecitorio tolgano la proposta di legge dalla naftalina. Ma il relatore del provvedimento, Walter Verini del Pd, fa notare come quel testo regoli per esempio il tempo di "latenza" da prevedere prima che un magistrato eletto in Parlamento torni a esercitare la funzione giurisdizionale. "Su questioni come le interviste dei pm o la loro adesione a campagne referendarie, invece, non si interviene, sarebbe un’invasione di campo". Ci deve pensare quello stesso Csm che aveva rimesso la palla alla politica. E dovrà farlo in fretta, se vorrà evitare che una corrente forte come "Area" si trovi a litigare con Legnini sull’adesione a una campagna referendaria. Intervista a Luca Poniz (Anm): "referendum, il Csm non metta altri limiti alle toghe" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 10 maggio 2016 Riforme. Intervista al vice presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Poniz. "Rispettare la libertà di partecipazione ribadita anche dalla Consulta. Legnini ha detto che il quesito sulla riforma ha valenza politica? Ma la discussione è diventata così aspra perché lo si è trasformato in un giudizio sul governo". Il vice presidente del Csm Legnini ieri è stato ricevuto dal presidente della Repubblica - e del Csm - Mattarella. Era stato Legnini, dopo una telefonata con il Quirinale, a dire in televisione che "il referendum costituzionale di ottobre si è caricato di significato politico" e che per i magistrati "ci sono ragioni per avere più cautela". L’origine del caso è l’intervista, poi smentita, del consigliere del Csm Morosini al Foglio, assai dura con il governo e la riforma costituzionale. Il Csm discute se intervenire per tradurre l’auspicio di Legnini in una formale raccomandazione ai magistrati. Intanto oggi riceve la visita della nuova giunta dell’Associazione magistrati, guidata dal presidente Davigo. Che sempre oggi avrà il suo primo incontro con il ministro della giustizia Orlando. Luca Poniz, pm a Milano, è il vice presidente della giunta Davigo. Troverebbe condivisibile una raccomandazione ai soli magistrati del Csm perché evitino di partecipare alla campagna referendaria? Non la troverei condivisibile e faccio molta fatica a capire perché dovrebbe esserci una differenza tra i magistrati del Csm e tutti gli altri. Ovviamente non nego che esistano dei campi nei quali bisogna limitarsi. A un consigliere del Csm è chiesto di avere riserbo, e quindi "continenza" rispetto alle materie di stretta pertinenza consiliare. Ma secondo quale norma giuridica un consigliere dovrebbe essere limitato nel suo diritto costituzionale di esprimersi? Nessuno ce lo ha spiegato e la legittimità è un parametro tecnico, non una categoria dello spirito. Non bastano le norme disciplinari che richiedono ai magistrati di non fare politica attiva? La Corte costituzionale si è pronunciata sulla norma che ha introdotto sanzioni disciplinari per i magistrati iscritti a un partito politico o che fanno "sistematica e continuativa attività" in un partito. Ha detto, nel 2009, che questa puntuale limitazione trova una ragionevole copertura costituzionale, ma tutto il resto rientra nei diritti dei magistrati. Dunque si può parlare solo di opportunità. Come potrebbe il Csm limitare l’opportunità con una circolare? Sarebbe un’enormità. Anche se la limitazione riguardasse solo le manifestazioni pubbliche, fermo restando il diritto di ogni magistrato a pronunciarsi per il sì o il no al referendum? Sarebbe comunque una limitazione eccessiva. Voglio essere molto misurato perché domani (oggi, ndr) incontriamo il ministro e il Consiglio e dobbiamo discutere serenamente di principi, ma c’è un equivoco di fondo. La discussione è diventata così aspra solo quando al referendum è stata data una connotazione di giudizio non più sulla Costituzione ma su chi ha promosso la riforma. Operazione politica impropria e sbagliata sotto il profilo costituzionale. Forza Italia fa notare che nel 2006 il presidente del Csm Rognoni partecipo’ alla campagna per il no alla riforma del centrodestra. E non ci fu alcuna polemica di questo genere. Il che dimostra che il principio di cui parliamo, la libertà di espressione e partecipazione del magistrato, non era messo in discussione. Perché oggi invece viene messo in discussione? Lei che risposta dà? Non si può dire che fossero tutti distratti, né che non ci fosse una connotazione politica della contesa, c’è sempre quando è il governo a promuovere una riforma. Allora governavano i sostenitori del no. Se volessimo seguire questo filo logico dovremmo concludere che il diritto per i magistrati di esprimersi liberamente non dipende dal contenuto del referendum, ma dal significato che le parti politiche decidono di assegnarli. Non crede che un magistrato impegnato nel referendum rischi di perdere quella "terzietà" alla quale ha richiamato Legnini? Non capisco. Si sostiene davvero che un magistrato, per il solo fatto di volersi esprimere sul referendum, possa portarsi dietro un carico di pregiudizio contro una della parti in gioco? Basterebbe questo a offuscare la sua imparzialità? Rimettere in discussione questi principi è un arretramento clamoroso. Tra l’altro nessuno può sapere se la maggioranza dei magistrati è per il no o per il sì. La sola corrente che si è schierata, Magistratura democratica, fa parte del comitato del no. Spiegherà le sue ragioni partecipando ai dibattiti pubblici. È la sua corrente, lei ha in programma di intervenire? No, perché in questo momento sono il vicepresidente dell’Anm e non posso trascinare l’associazione in questa contesa. Le dirò di più, sono nettamente contrario a che l’Anm prenda posizione per il sì o per il no, perché al suo interno ci sono magistrati che si esprimono in gruppi e magistrati che non fanno parte di gruppi. Sul referendum l’Anm non deve schierarsi, ma rivendicare con forza il diritto di ciascun magistrato, individualmente o collettivamente, di poterlo fare. La giunta lo farà? Vedremo. Intanto avremo modo di ascoltare il vice presidente Legnini che ci chiarirà il suo pensiero su questi principi. Io stesso ho appena sperimentato che i tempi di un’intervista in Tv costringono alla sintesi. (Ieri sera Poniz è stato intervistato dal Tg3 delle 19, ndr). I magistrati, la libertà e l’opportunismo di Giancarlo De Cataldo La Repubblica, 10 maggio 2016 Alcune prese di posizione di magistrati sulla vicenda referendaria hanno dato l’avvio a un serrato dibattito, eco dell’annosa contrapposizione fra politica e magistratura. Tranne pochi pasdaran, nessun politico ha sostenuto che si debba vietare ai giudici di esprimersi. Caro direttore, alcune prese di posizione di magistrati sulla vicenda referendaria hanno dato l’avvio a un serrato dibattito, nel quale sono risuonati echi dell’annosa contrapposizione (c’è chi la chiama guerra) fra politica e magistratura. Per la verità, tranne pochi estemporanei pasdaran, nessuno fra gli esponenti politici intervenuti ha sostenuto che si debba vietare ai giudici di esprimere le proprie idee. Il richiamo, semmai, è alla categoria dell’opportunità: non è vietato esprimersi, ma è inopportuno, per esempio, che una corrente della magistratura si schieri apertamente per il "no" al referendum, o, peggio, che aderisca a questo o a quel comitato, ancorché animato da insigni esperti della materia. L’opportunità sembra essere dunque l’ultima frontiera fra ciò che è consentito e non sarebbe illecito, ma, diciamo così, vivamente sconsigliato. La novità è che, di solito, l’opportunità viene invocata quando si verte in materia di valutazione strettamente politica, o per sottolineare aspetti "eccentrici" della vita privata dell’uomo pubblico, o per rimarcare condotte che potrebbero apparire pregiudizievoli all’immagine di questo o di quel magistrato, di questo odi quel politico. Niente a che vedere con un referendum decisivo per il nostro destino comune di cittadini italiani: magistrati inclusi. Perché fra qualche mese andremo a votare per cambiare (o conservare) l’attuale Costituzione: ed è dunque sacrosanto che ciascuno esprima, attraverso il voto, il proprio gradimento o il proprio rifiuto. Ora, i magistrati, al pari dei professori, degli avvocati, dei tecnici, insomma, dispongono di un patrimonio di conoscenze specifiche che attribuisce alle loro prospettazioni un valore del tutto particolare. È, dunque, "opportuno" che facciano sentire la propria voce? Non sarebbe la prima volta. I giudici italiani furono attivi protagonisti nelle campagne referendarie del 2000 e del 2006, anche allora schierandosi. Affermarono, in passato, idee dissonanti con quelle delle maggioranze di centro-destra. Nessuno ritenne "inopportuni" i loro interventi. Oggi dall’interno della magistratura si levano voci dissonanti con l’attuale maggioranza di centro-sinistra. Perché dovrebbero essere giudicate "inopportune"? La sensazione è che non l’opinione del singolo, non l’adesione di una corrente a un comitato siano in discussione, ma la persistenza di una disallineamento fra politiche legislative e alcuni settori della magistratura. Se così fosse, l’opportunità sarebbe invocata invano. Non solo e non tanto perché alla fine decideranno i cittadini - e non certo una "corporazione" che conta meno di diecimila individui - ma per il semplice motivo che una perfetta sintonia fra politiche legislative e valutazioni della magistratura non è ipotizzabile, a meno dì non voler riesumare l’antica pretesa del giudice "bocca della legge": utopia giacobina che appartiene a epoche remote. La ragione è ben nota agli addetti ai lavori: giudicare significa necessariamente interpretare le leggi. Non fosse così, non ci sarebbe bisogno di una Corte Costituzionale che è chiamata a pronunciarsi proprio su questo, sulla corrispondenza della legge in concreto ai principi della Carta. Che fra politica e magistratura esista un fisiologico disallineamento risulta confermato, in Italia, da esempi storici: il governo piemontese postunitario adottò le leggi Pica per la repressione del brigantaggio per vincere le resistenze di una magistratura sì di formazione borbonica, ma "inquinata" dai principi illuministici della rivoluzione napoletana del ‘99; il Fascismo fu indotto a istituire tribunali speciali perché quelli ordinari, "inquinati" dal liberalismo giolittiano, apparivano troppo blandi nella repressione degli avversari politici. E i primi governi post-fascisti, analogamente, si trovarono a dover dialettizzare con una magistratura fortemente "inquinata" dall’eredità della dittatura. In questo quadro storico e culturale, dunque, non c’è niente di inopportuno nello schierarsi per il "sì" o per il "no", e la stessa magistratura è divisa, non è quel monolite granitico che alcuni rappresentano. Ma l’invocata categoria dell’opportunità suggerisce altre riflessioni. "Opportunità" è un termine scivoloso, inafferrabile. Delinea una zona grigia disancorata da riferimenti precisi e - direbbero i giuristi - tipizzati. Una valutazione rimessa al discernimento del singolo, e nello stesso tempo potenzialmente soggetta a intervento censorio di organi di vigilanza e controllo. Il rischio è che, in assenza di contorni nettamente delineati, si tramuti in un’arma da brandire contro le voci dissenzienti in quanto tali. O che il timore di essere giudicati "inopportuni" induca all’autocensura e al silenzio. Si finirebbe così per preferire, a una leale battaglia di idee professate a viso aperto, il mormorio livoroso delle segrete stanze. Si finirebbe per preferire a uomini orgogliosi delle proprie idee il trafficare di soggetti che millantano di non possedere alcuna idea. Qualche giorno fa il Tribunale di Roma si è aperto a una folla di ragazzi a cui, insieme ad artisti, scrittori, giornalisti, molti magistrati hanno cercato di spiegare il senso profondo di parole abusate come "legalità". È stato un momento di grande apertura. Ai ragazzi si è spiegato quanto sia importante lo spirito critico, quanto sia decisivo lottare contro il pregiudizio. Noi che c’eravamo siamo stati "inopportuni"? Secondo alcuni sì. Ma sicuramente non siamo stati opportunisti. Un domino giudiziario con il governo destinato a inasprirsi di Massimo Franco Corriere della Sera, 10 maggio 2016 La vicenda di Banca Etruria e degli altri tre istituti di credito salvati a novembre dal governo promette di rimanere in primo piano a lungo. Di più: di diventare una delle tessere più pesanti del domino giudiziario tra governo e magistratura. Quanto sta emergendo sul modo in cui veniva consigliato ai risparmiatori l’acquisto di titoli a rischio tende i rapporti tra Procure e Consob, la Commissione che controlla le società e la Borsa. E si aggiunge alle inchieste in corso tra Lodi, Potenza e Livorno, nelle quali sono implicati esponenti del Pd e del Movimento 5 stelle: una miscela che accentua lo scontro tra Matteo Renzi e Beppe Grillo. A neanche un mese dalle elezioni amministrative del 5 giugno, e a cinque dal referendum costituzionale di ottobre, tutto questo è un catalizzatore di veleni e di polemiche. Mette le forze politiche di fronte alla questione del malgoverno e di gruppi dirigenti locali percepiti come inadeguati; e a un atteggiamento che deve tenere insieme garantismo e rispetto delle indagini, evitando il doppio standard tra alleati e avversari. Costringe il premier a riconoscere l’esistenza di una "questione morale"; a chiedere ai suoi "uno sforzo per non vergognarsi di quello che siamo", pur senza "sottacere i problemi che abbiamo sul territorio". È un’ammissione lodevole, in parte obbligata per evitare che i contrasti con la minoranza del Pd lievitino. Le poche parole dedicate ieri in Direzione da Renzi alle Amministrative e la concentrazione sul referendum in autunno sono significative. È come se il voto nelle grandi città a giugno fosse un intermezzo, quasi un inciampo in vista della vera battaglia: quella referendaria. Forse perché le previsioni non sono di una grande vittoria, Renzi invita a non cadere nelle provocazioni e a non farsi condizionare troppo dai sondaggi. E invoca una mobilitazione per raccogliere firme sulle riforme, benché siano state raggiunte quelle necessarie dai parlamentari del Pd. "Ottobre è lontano", chiosa il presidente del Senato, Pietro Grasso, alludendo al referendum. Ed è come se dicesse che può ancora succedere di tutto. L’idea della mobilitazione permanente, "anche sulle spiagge", chiesta da Renzi al proprio partito, fa capire quanto forti siano le tensioni e le resistenze al suo interno; e quanto cerchi di assicurarsi un sostegno tuttora non unanime. Avverte la voglia di boicottarlo per liberarsi di lui. Per paradosso, il suo avversario e ex premier Enrico Letta ha ribadito che appoggerà con il suo "sì" le nuove norme costituzionali. Il problema è che altri sono molto più silenziosi, se non ostili. E gli attacchi renziani al "no" lasciano perplessi. La ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi, associa gli avversari delle riforme agli estremisti di destra di Casa Pound, benché a sostenere il "no" siano anche l’Anpi e molti ex presidenti della Corte costituzionale. Il clima è questo, purtroppo. E sullo sfondo rimane uno scontro tra governo e magistratura anche in materia referendaria, per la volontà di alcuni giudici di impegnarsi nella campagna. Ieri Renzi è tornato a chiedere che si arrivi presto alle sentenze nei processi: "Non chiediamo la luna ma la civiltà giuridica". È una delle critiche che la magistratura rinvia alla politica, imputandole leggi per rallentare i processi. Quando piacevano le toghe schierate contro la riforma costituzionale targata Berlusconi di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 10 maggio 2016 Perché poche proteste si alzarono quando Magistratura democratica disse veementemente la sua sull’abolizione dell’articolo 18 quando la sinistra non voleva abolirlo? Il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino Armando Spataro si chiede come mai oggi faccia tanto scalpore la scelta dei magistrati di militare, anche con veemenza polemica, per il no referendario sulla riforma costituzionale, mentre analogo divieto non fu reclamato nel 2006, quando si doveva bocciare la riforma costituzionale targata Berlusconi. Sul come mai, ciascuno può trarre le sue conclusioni. Però bisognerebbe sapere che poche proteste si alzarono quando Magistratura democratica, corrente politica dei magistrati in attività, disse veementemente la sua sui tentativi di abolizione dell’articolo 18 quando la sinistra era contro l’abolizione dell’articolo 18. Quando Magistratura democratica nell’autunno del 1994 protestò veementemente contro la riforma delle pensioni proposta dal centrodestra, primo passo per "lo smantellamento dello Stato sociale". Quando Magistratura democratica prese posizione persino sul referendum alla Fiat di Pomigliano d’Arco. E sempre nel nome della difesa della Costituzione offesa, stravolta, violentata. Nel 2006, poi, il "pronunciamento" dei magistrati contro la riforma berlusconiana assunse i toni di una crociata. Presidente del comitato "Salviamo la Costituzione" era Oscar Luigi Scalfaro. Un altro ex presidente appena uscito dal Quirinale, Carlo Azeglio Ciampi, prese posizione per una riforma che portava l’Italia democratica "fuori dalle regole" con la "smania di liquidare tutto". Ma il bersaglio allora era Silvio Berlusconi, non Matteo Renzi. E la sinistra non trovava così scandaloso che i magistrati partecipassero a una crociata con due presidenti emeriti in prima fila. Eppure l’intera Magistratura democratica nel 2006 aderì all’iniziativa per "Ricucire la Costituzione" sbranata dal governo di centrodestra. Un giudice di Cassazione come Domenico Gallo parlava di "dittatura del capo del governo" con una riforma che addirittura provocava l’uscita dell’Italia "dalle esperienze delle democrazie occidentali". In un convegno padovano dei "Giuristi democratici" Gallo e altri magistrati paventavano l’avvento di "un nuovo ordinamento autocratico": autocratico, addirittura. Si sbeffeggiavano i testi vergati da "saggi del livello dell’ex ministro Calderoli". Il Procuratore della Repubblica Pietro Calogero denunciava indignato che "il bicameralismo, principio cardine della democrazia", venisse soppiantato da un monocameralismo tipico di "uno Stato autoritario": niente di nuovo sotto il sole del 2016, dieci anni dopo. Calogero accusava le nefandezze di "un sistema tracotante": nefandezze compiute dalla politica. Poche voci si alzarono per eccepire che un magistrato usasse espressioni così dure nei confronti del "tracotante" sistema politico. Del resto nel 1997 si riteneva assolutamente naturale che un magistrato prestigioso come Gherardo Colombo bollasse come "Bicamerale dei ricatti" quella che, per volontà di Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, in sede parlamentare doveva scrivere riforme di rilievo costituzionale. Ma nel 2006, la fantasia referendaria ebbe briglia sciolta. Magistrati titolati parteciparono a fiaccolate per il no come "nuova Resistenza", a manifestazioni con titoli suggestivi come "Parole, musica e Costituzione", a recital con poesie dedicate "ai primi 12 articoli della Costituzione" con Giovanni Puliatti dell’Associazione nazionale magistrati, Ferdinando Imposimato con una lunga carriera politica alle spalle ma che poi rientrerà nei ranghi della magistratura come giudice della Suprema corte di cassazione e che tuonava contro la democrazia "sfigurata", con Alessandro Nencini, un magistrato di valore e di esperienza che peraltro come presidente della Corte d’assise di appello di Firenze chiederà la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’assassinio della povera Meredith e l’onnipresente Franco Ippolito leader di Magistratura democratica. La stessa Magistratura democratica che addirittura promosse nei lontani anni Settanta referendum con i Radicali contro i reati d’opinione. Magistrati come Elena Paciotti leader dell’Anm che si batté contro un altro referendum indetto dai Radicali. E nel 2016 non è più vietato vietare? Il figlio del poliziotto ucciso dalle Br: rispetto per i morti e anche per chi sparò di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 maggio 2016 Ma nel Giorno della memoria restano le divisioni. Il figlio del procuratore Coco: "Nessuno ci ha chiesto scusa". E salta il convegno su Moro con Scalzone. Quello che quarant’anni fa sarebbe stato impensabile accade poco prima di mezzogiorno, nell’Aula di Montecitorio. Sullo scranno più alto sale Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo di pubblica sicurezza Sergio Bazzega, assassinato il 15 dicembre 1976 (insieme al vicequestore Vittorio Padovani) da un brigatista rosso che era andato ad arrestare, a sua volta ucciso. All’epoca Sergio era un bambino di nemmeno tre anni. Oggi sale sul banco della presidenza - lo stesso da cui il 9 maggio 1978 Pietro Ingrao annunciò ai deputati l’esecuzione della condanna a morte del loro collega Aldo Moro da parte delle Br - e dice che "il dolore delle vittime deve diventare forza propulsiva per mandare avanti il Paese". Ricorda che chi ha sbagliato e pagato il proprio conto con la giustizia non può subire la "morte civile". E conclude: "Ricordo papà, il suo amico Padovani, e anche il ragazzo di 21 anni che sparò e perse la vita anche lui quel giorno, Walter Alasia, perché almeno da morti, tutti meritano rispetto". "Verità in cambio di impunità" - Subito dopo tocca a Massimo Coco, figlio del procuratore generale di Genova Francesco Coco, assassinato dalle Br l’8 giugno ‘76 insieme a due agenti di scorta. Riassume l’esempio lasciato dal padre e un punto di vista diverso: "Ho sentito parlare di riconciliazione, ma nessuno è mai venuto a chiedermi scusa; di un perdono che non posso dare, e del resto in quarant’anni nessuno ha mai provato nemmeno a chiedermelo. Eppure non ho ereditato solo una memoria di rimpianti e di rancore, tutt’altro". Dieci anni dopo, il 10 febbraio 1986, toccò all’ex sindaco di Firenze Lando Conti cadere sotto il piombo brigatista, e oggi il figlio Lorenzo spiega che su 13 componenti del commando ne sono stati arrestati solo 5. "Non sappiamo chi ha sparato, né se c’è stato un mandante o altri complici", dice. Una "debacle processuale" che ha lasciato senza risposta troppe domande, alla quale propone di porre rimedio con un’iniziativa sorprendente: "Verità in cambio di impunità, come hanno fatto in Sudafrica. I responsabili dei delitti che si presentano e si autodenunciano dovrebbero essere condannati solo all’interdizione perpetua e irrevocabile dai pubblici uffici". Anni di piombo a scuola - Poi è la volta di Vittorio Occorsio jr, nipote del magistrato che indagava sulle trame nere e che fu assassinato il 10 luglio 1976. Per la prima volta si assiste al salto generazionale del ricordo: dai figli si passa ai nipoti. Il giovane Occorsio chiede di "insistere affinché quella stagione venga affrontata nei programmi scolastici, nella formazione universitaria, in modo che in chi non l’ha vissuta e non ha potuto sviluppare anticorpi rimanga impresso il segno di queste storie, e resti vivo l’insegnamento che se ne può trarre". Il giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi si dipana così, attraverso esperienze, sensibilità e proposte differenti, a tratti inconciliabili, ma tutte rispettabili e rispettate. Alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, la presidente della Camera Laura Boldrini sottolinea come ciascuno abbia avuto "parole di dolore ma non di odio, di giustizia ma non di vendetta". È l’eredità lasciata dai cosiddetti "anni di piombo", sui quali ci si continua a confrontare e interrogare; da ultimo con una nuova commissione parlamentare d’inchiesta. I parenti delle vittime se ne vanno - Proprio un componente della commissione, il deputato del Pd Fabio Lavagno, aveva organizzato un convegno da tenersi presso la Camera, giovedì prossimo, intitolato "Il caso Moro: la politica, la ricerca, la storia - Voltare pagina si può", con una serie di relatori poco inclini alle tesi cosiddette "dietrologiche" sul sequestro e l’omicidio del presidente della Dc. Tra questi Paolo Persichetti, ricercatore con alle spalle una condanna scontata per fatti di terrorismo legati a una fazione brigatista. A seguire era prevista una tavola rotonda con la partecipazione del consigliere del Csm Piergiorgio Morosini, un ex generale dei carabinieri, Giovanni Ricci (figlio dell’autista di Moro assassinato in via Fani) e Manlio Milani, presidente dell’Associazione vittime della strage di piazza della Loggia. All’ultimo, però, nel dibattito è stato inserito anche l’ex leader di Potere operaio (e a lungo latitante in Francia, fino alla prescrizione della pena) Oreste Scalzone. A quel punto i familiari delle vittime hanno rifiutato di partecipare all’incontro, e l’iniziativa è saltata. Sia il seminario che il successivo incontro. Con contestuale annuncio delle dimissioni dell’onorevole Lavagno dalla commissione Moro. Femminicidi, la battaglia di Vanessa "diseredare chi uccide le mogli" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 10 maggio 2016 La figlia di una donna uccisa dal marito e la proposta di legge sui beni delle vittime. Un uomo che uccide la madre dei suoi figli non è degno di essere fra gli eredi della vittima. Si chiama "indegnità a succedere" e nel mondo perfetto di Vanessa per stabilirlo non dovrebbe essere necessario nessun giudice, nessuna causa civile (come vuole adesso la legge). Basterebbe rendere tutto automatico: se ti condannano in via definitiva perché hai ammazzato tua moglie (o viceversa) semplicemente non entri nell’asse ereditario. Ecco. Questo è soltanto uno dei passaggi di una proposta di legge che mercoledì 11 maggio sarà presentata alla Camera dal deputato Roberto Capelli (Cd) e che è stata ideata e messa a punto dalla sua collega di partito Annamaria Busia, avvocatessa e consigliera regionale sarda. Le "vittime collaterali" - Il progetto di legge è un riflettore acceso sui bisogni e sul trattamento giuridico delle "vittime collaterali", chiamiamole così, dei delitti in famiglia. Nove volte su dieci è il padre che uccide la madre e i figli, spesso minorenni, si ritrovano orfani di entrambi i genitori, o perché l’omicida poi si toglie la vita o perché finisce in carcere per moltissimi anni. E al dolore già in sé devastante si aggiungono anni e anni di costosissime cause civili per stabilire e per liquidare i risarcimenti oppure per dichiarare, appunto, l’indegnità a succedere. Punti che la proposta di legge renderebbe invece automatici, proprio come il congelamento dei beni di chi ha commesso il delitto e l’obbligo (per il giudice penale) di accordare ai figli il 50% del risarcimento presunto già con la sentenza di primo grado. La vita a Liverpool - Ma che cosa c’entra in tutto questo Vanessa? Tanto per cominciare va detto che lei di cognome fa Mele e che domani arriverà in Italia da Liverpool, dove vive e dove sta seguendo un master in criminologia. Verrà per essere alla Camera quando sarà presentato il progetto di legge e verrà anche perché con la sua sola presenza andrà alla guerra per la terza volta contro suo padre. Anzi, no: contro ogni padre che uccide la madre, come fece il suo il 3 dicembre del 1998, a Nuoro. Le battaglie vinte - La prima battaglia contro l’assassino di sua madre Vanessa la fece che aveva 18 anni: "Mi sono liberata del suo cognome e ho preso quello di mamma", ci ha raccontato lei stessa in una recente intervista. Poi aprì le ostilità contro quell’altra regola assurda... Appena tornato in libertà suo padre chiese e ottenne la pensione di reversibilità della moglie uccisa, che tra l’altro fino a quel momento era stata per Vanessa l’unica fonte di reddito. Allargarono tutti le braccia: "La legge glielo consente" dicevano. E allora cambiamola, si mise in testa lei. Che riuscì a fare di quell’ingiustizia un caso nazionale. La sua avvocatessa e amica Annamaria Busia anche in quel caso scrisse una proposta di legge e, con l’unanimità alla Camera e al Senato, la regola cambiò: fu abolito il diritto alla reversibilità. La nuova lotta - Adesso è tempo di una nuova lotta, anche se stavolta Vanessa è ispiratrice, più che partecipante. L’avvocatessa le aveva parlato dell’intenzione di scrivere il nuovo progetto di legge, le aveva detto di averci riflettuto proprio studiando il suo caso. Quando ha finito di scriverlo glielo ha spedito, lei lo ha letto e riletto per dieci giorni e poi ha risposto con un messaggio: "Ho preso il biglietto". Il suo modo di dire "sto dalla tua parte, ci sono". Ex detenuto e padre modello: i suoi figli non sono adottabili Il Dubbio, 10 maggio 2016 La Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal sostituto pg di Napoli. Ex detenuto, ma soprattutto padre di tre figli minorenni che rischiavano di essere dati in adozione. Su questo provvedimento si è espressa la prima sezione civile della Cassazione che ha rigettato il ricorso, presentato dal sostituto pg di Napoli contro la decisione della sezione minorenni della Corte d’appello che aveva revocato la dichiarazione di adottabilità di tre minorenni. "I figli minorenni possono restare in famiglia con il padre ex detenuto che dimostra di essersi completamente reinserito nella società dopo aver scontato la sua condanna", scrivono i giudici della Suprema corte nella sentenza. I bambini erano stati dichiarati adottabili dal giudice di primo grado: il padre era in carcere e la mamma si era completamente disinteressata di loro, per cui i tre figli erano stati collocati provvisoriamente presso una famiglia, in attesa della dichiarazione di adottabilità. Il padre, però, una volta uscito dal carcere, aveva chiesto e ottenuto la revoca della pronuncia del giudice di primo grado, provando di essere riuscito a trovare un lavoro (presso il cimitero canile di Caserta con uno stipendio di circa 700-800 euro al mese, che gli permetteva di pagare l’affitto di una casa), di convivere con una donna disponibile ad accudire i suoi figli e di poter contare anche sull’aiuto di sua madre. Il pg di Napoli si era opposto alla sentenza della Corte d’appello, ma la Cassazione ha rigettato il suo ricorso: i giudici di piazza Cavour hanno posto in rilievo "le encomiabili iniziative" assunte dal padre dopo la scarcerazione, riscontrate sia dai servizi sociali che dalla polizia con verifiche in loco, e ricordato che "l’adozione dei minori costituisce extrema ratio". Inoltre, si legge ancora nella sentenza depositata oggi, "nulla era emerso che potesse pregiudicare la sana crescita dei minori o che attestasse l’inadeguata capacità paterna rispetto ai bisogni primari dei figli", e che le "sopravvenienze" giustificavano "la valutazione di insussistenza dello stato di abbandono e la prognosi favorevole circa la corrispondenza al superiore interesse dei bambini dei ristabilimento del legame familiare piuttosto che della relativa rescissione". Equitalia si paga anche in carcere di Valeria Zeppilli studiocataldi.it, 10 maggio 2016 La possibilità di soddisfare i propri crediti mediante il pignoramento presso terzi non si arresta dinanzi alle sbarre delle carceri. Si può dire che Equitalia il suo compito di riscossione lo prende davvero sul serio: nella ricerca dei cittadini morosi, infatti, non risparmia di scandagliare anche le carceri. E le cartelle esattoriali stanno iniziando a varcare le soglie dei penitenziari a porte spalancate. Forte della possibilità di soddisfare i propri crediti mediante il pignoramento presso terzi, Equitalia si sta ricordando che terzi sono anche le case circondariali, specie se i detenuti svolgono al loro interno dei lavoretti retribuiti a scopo di riabilitazione. Rivolgersi all’istituto/datore di lavoro è cosa agevole ed evita una serie di trafile che, per la predetta tipologia di debitori, sarebbero ancora più complesse di quanto già normalmente non siano. Così l’ente della riscossione ha deciso di approfittare della possibilità con sempre maggiore frequenza e di apporre un vincolo di indisponibilità sui beni del debitore quando questi sono nelle mani di terzi. Anche se i debitori sono dei detenuti. A tal proposito, è di poco meno di un mese fa la storia di un detenuto napoletano, in cella ad Ancona: per un suo debito nei confronti dello Stato, il carcere presso il quale egli è rinchiuso si è visto notificare un pignoramento presso terzi. Il carcere, insomma, isola dal mondo esterno ma non dai debiti. Molti si chiederanno quale è stato l’oggetto del pignoramento. Ecco qui: la diaria di circa venti euro al giorno che il carcere corrisponde al detenuto come contropartita per i lavori di giardinaggio che egli svolge a scopo riabilitativo. Questa storia, peraltro, non è isolata: i detenuti che, alle pene del carcere, vedono sommate quelle derivanti dalla riscossione di Equitalia non sono pochi. Le conseguenze di un bollo, una multa, una qualsiasi tassa non pagata in passato non si arrestano neanche dinanzi alle sbarre. Sui giornali rimbalza l’allarme lanciato dal legale dell’uomo, l’Avvocato Pisani: davvero la riscossione è così importante e legittima la messa all’angolo del buon senso? La stessa sorte dei carcerati potrebbe toccare anche a molti altri cittadini in una condizione di debolezza e difficoltà, come i pensionati. Che sia il caso di alleggerire il metro di valutazione di simili situazioni? Alcoltest, inutile soffiare poco di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 19161/2016. Non ci si può salvare dalle sanzioni per guida in stato di ebbrezza nemmeno quando l’etilometro, assieme al risultato numerico della misurazione, dà il responso di "volume insufficiente". Però l’importanza centrale del risultato numerico ha anche una conseguenza favorevole al conducente: il giudice non può addebitargli un tasso alcolemico superiore a quello misurato solo perché il test si è svolto a distanza di tempo da quando l’interessato era alla guida. Sono princìpi che si ricavano da due sentenze depositate ieri dalla Quarta sezione penale della Cassazione, rispettivamente la 19161 e la 19176. La prima si riferisce a un caso non raro: quello in cui l’etilometro riesce a rilevare la quantità di alcol presente nel respiro (dalla quale poi - in base a un tasso di conversione su cui i dubbi di attendibilità scientifica sono molteplici - desume quella presente nel sangue, unico parametro ammesso dal Codice della strada), ma nello scontrino stampato, assieme al dato numerico, fa apparire l’indicazione di "volume insufficiente". Accade quando l’interessato non riesce a soffiare un volume d’aria pienamente sufficiente, ma non tanto esiguo da rendere impossibile la misurazione. Secondo la Corte, quest’ultima è valida per il principio del favor rei: la bassa quantità d’aria fa diminuire anche quella di alcol. In questo modo, si chiude un’altra porta per chi cerca di evitare le sanzioni fingendo di avere problemi nel soffiare abbastanza. Problemi che erano una sorta di ultima spiaggia, visto che già da tempo (1995) la Cassazione aveva ammesso la colpevolezza per chi non riusciva per nulla a soffiare. La seconda sentenza riguarda invece un guidatore cui l’etilometro aveva rilevato un’ebbrezza "media" (tasso alcolemico compreso tra 0,81 e 1,5 g/l), ma era stato condannato per quella "grave". La Corte d’appello aveva desunto un tasso effettivo superiore a 1,5 perché la rilevazione era avvenuta due ore dopo la guida (conclusasi con un incidente), lasso di tempo trascorso il quale il tasso inizia a scendere. Ma per la Cassazione questa motivazione è illogica: l’unico caso in cui la giurisprudenza di merito ammette che si possa fare a meno dell’etilometro si ha quando gli agenti sono in grado di descrivere in modo completo e attendibile i sintomi che consentono di individuare non solo lo stato di ebbrezza ma anche la sua gravità. Peculato per l’albergatore che non versa la tassa di soggiorno incassata di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2016 Tribunale di Firenze - Sezione penale - Sentenza 2 febbraio 2016 n. 241. L’albergatore che, dopo aver incassato l’imposta di soggiorno, ne omette il versamento all’ente competente commette il delitto di peculato in quanto egli opera come agente della riscossione, ossia come incaricato di pubblico servizio. E tale qualifica soggettiva determina la configurabilità del reato previsto dall’articolo 314 Cp. Lo ha affermato il Tribunale di Firenze nella sentenza 241/2016. L’omesso versamento - La vicenda ha visto come protagonista il titolare di una struttura alberghiera di un comune fiorentino il quale, come emerso da controlli eseguiti dalla Guardia di Finanza, aveva omesso di versare all’Unione Montana dei Comuni del Mugello l’imposta di soggiorno istituita dal regolamento dell’Unione, pur avendola regolarmente riscossa dai propri clienti. In totale le somme versate e non incassate ammontavano a poco meno di 2 mila euro per il triennio 2012-2014. Per tale condotta, l’albergatore veniva tratto a giudizio per rispondere del delitto di peculato, in quanto qualificabile come incaricato di pubblico servizio. La qualifica di incaricato di pubblico servizio - In primo luogo, il giudice esclude l’operatività del principio di specialità di cui alla legge 689/1981 e chiarisce che anche se il regolamento che ha istituito la tassa di soggiorno prevede una sanzione amministrativa in caso di violazione delle disposizioni in esso contenute, nella specie deve applicarsi la norma penale per via della natura regionale del regolamento medesimo. Ciò posto, il reato di peculato sussiste nella fattispecie perché all’albergatore è attribuibile la qualifica di incaricato di pubblico servizio. Difatti, osserva il Tribunale, l’incaricato di pubblico servizio è colui che presta un pubblico servizio, ovvero "un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale". Ebbene, l’attività di riscossione dell’imposta costituisce un’attività amministrativa di questo tipo, poiché "l’incasso ed il successivo versamento della stessa non si esauriscono di certo in attività meramente materiale, implicando, quantomeno, un’attività di attestazione del verificarsi del presupposto dell’imposta, di concreto esercizio della pretesa di pagamento ed ancora dell’attestazione dell’avvenuto versamento". Dopo la fine dei lavori edili il cantiere non è chiuso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 19208/2016. Il cantiere non può considerarsi chiuso una volta ultimati i lavori di carpenteria: per gli addetti resta dunque l’obbligo di vigilare sulla sicurezza degli operai. La Cassazione, con la sentenza 19208 depositata ieri, accoglie il ricorso del pm contro la decisione del giudice per le indagini preliminari di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del coordinatore per la sicurezza e del committente, accusati di omicidio colposo per la morte di un operaio. Secondo il pm, il cantiere, al momento dell’incidente non poteva dirsi chiuso, perché erano ancora in corso alcune attività. Ad iniziare dallo "scassero" delle forme utilizzate per i pilastri di cemento armato, tanto più che non c’era stata nessuna rituale comunicazione di fine lavori alla committente da parte della ditta affidataria. Per la Suprema corte ci sono certamente margini per una lettura alternativa a quella data dal gip, come evidenziato dal consulente tecnico che aveva considerato verosimile la sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta degli indagati e l’evento. Molte le irregolarità riscontrate: dall’omessa verifica degli obblighi relativi all’applicazione delle disposizioni sulla sicurezza previste dal Piano di sicurezza e coordinamento, alla mancata verifica della validità del contratto di subappalto, in realtà nullo in origine per l’assenza di dettagli sui costi della sicurezza. La Cassazione mette l’accento sul primario compito di coordinamento delle attività di più imprese nell’ambito di uno stesso cantiere attribuito al coordinatore dalla legge (Dlgs 89/2008). Secondo la norma, per cantiere temporaneo o mobile si intende qualunque luogo nel quale si effettuino lavori edili: dalla costruzione alla demolizione. Si pone dunque in netto contrasto con la legge l’interpretazione in base alla quale con la fine dei lavori edili si esaurisce la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione e del committente. Per la Cassazione, ciò che mantiene operante tale ruolo non può essere tanto il mancato completamento delle attività inerenti i lavori edili o di ingegneria civile, quanto piuttosto la persistenza di ulteriori fasi di lavorazione tipiche dell’attività di cantiere nel suo complesso. L’esecuzione di lavori edili o di ingegneria civile - scrivono i giudici - serve, a connotare, in ragione del tipo di attività svolta, il cantiere temporaneo o mobile, ma non è sufficiente a definire anche i suoi limiti spaziotemporali "diversamente correlati al perfezionamento di tutte le fasi di lavorazione anche successive ai lavori edili o di ingegneria civile in senso stretto, funzionali al collaudo e alla consegna dell’opera". La vicenda, sottolinea la Cassazione, impone, in sede di udienza preliminare, un esame più dettagliato del fatto e del comportamento dei singoli indagati. Belluno: in carcere da poche ore si suicida nella sua cella di Marco Ceci Corriere delle Alpi, 10 maggio 2016 Tragico gesto nella notte tra sabato e domenica di un 45enne della Valbelluna. Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria: "A Baldenich costante tensione". Aveva varcato i cancelli del carcere di Baldenich solo da poche ore e la notte stessa ha deciso di farla finita, impiccandosi nella sua cella. A scoprire il corpo senza vita del 45enne G.C., italiano e residente in Valbelluna, è stata una guardia carceraria durante la ronda notturna: inutili la chiamata e l’arrivo dei soccorsi, il personale medico non ha potuto far altro che constatare l’avvenuto decesso. Il 45enne era stato tradotto nella Casa circondariale del capoluogo nel primo pomeriggio di sabato, a seguito di una vicenda legata a maltrattamenti in famiglia. L’uomo, come da protocollo penitenziario per chi non ha precedenti esperienze in carcere, era stato confinato in una cella singola, isolato dal resto dei detenuti. E proprio tra le mura della casa circondariale di Baldenich l’uomo ha meditato il gesto estremo, portato a termine con il favore della notte. A rendere noto l’episodio è stato il sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), spiegando confermando che l’uomo "si trovava da meno di 24 ore per il reato di maltrattamenti in famiglia. "L’ennesimo suicidio di un altro detenuto in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, anche in quello di Belluno", ha precisato Giovanni Vona, segretario nazionale per il Triveneto del Sappe, "al di là del calo delle presenze prodotto dai vari decreti svuota-carceri". Sull’accaduto la Procura di Belluno ha aperto un fascicolo al fine di stabilire come si sono svolti i fatti. "Al 30 aprile scorso erano detenute nella casa circondariale di Belluno 96 persone rispetto agli 89 posti letto regolamentari: 20 gli imputati, 75 i condannati e un internato", aggiunge Vona. "Nel 2015 si sono verificati nel carcere bellunese 30 atti di autolesionismo, 4 tentati suicidi sventati in tempo dagli uomini della Polizia Penitenziaria, 18 colluttazioni e 21 ferimenti, a testimonianza di una costante tensione detentiva". Da Roma, il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ha invece sottolineato come "la situazione nelle carceri resta allarmante, altro che emergenza superata. Per fortuna delle istituzioni, gli uomini della polizia penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere, come a Belluno, con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici". Padova: prosegue il gemellaggio Italia-Usa sul lavoro in carcere Vita, 10 maggio 2016 A Padova Bruno Abate, che ha dato il via all’esperienza Recipe for Change, che coinvolge i detenuti in corsi di cucina, e l’esperto di questioni penitenziarie Tim Dart, hanno incontrato i detenuti del Due Palazzi. "La possibilità di un lavoro", commenta Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, "abbatte ovunque la recidiva ed è l’unico strumento in grado di reinserire davvero le persone". Nelle giornate di lunedì 2 e martedì 3 maggio, Bruno Abate e Tim Dart sono ritornati nel carcere di Padova. Il primo, già più volte presente nel nostro paese, è l’iniziatore dell’innovativa esperienza americana di Recipe for Change (una ricetta per cambiare), che coinvolge in corsi di cucina decine di detenuti. Dart, ex-magistrato, è un esperto di questioni penitenziarie e fratello dello sceriffo della Contea di Cook, ovvero della persona che è a capo dell’intera amministrazione della giustizia sul territorio chicagoano, carceri comprese. L’amicizia tra Recipe for Change e Officina Giotto, il consorzio che gestisce le lavorazioni della casa di reclusione di Padova, è ormai consolidata. Tutto cominciò quattro anni fa, quando Bruno Abate rimase sconvolto vedendo per caso mentre faceva zapping un servizio televisivo sui minori detenuti negli Stati Uniti e, poco dopo, scoprendo sempre attraverso un video l’esperienza del carcere di Padova. Fu così che Abate decise di dare il via alla sua iniziativa di recupero dei detenuti attraverso l’insegnamento della grande cucina italiana. E se durante il giorno gestisce il ristorante "Tocco" di Chicago, forse il più noto locale italiano della città con clienti quali Clint Eastwood e Mariah Carey, in parallelo nel carcere della Contea di Cook (il più grande degli Usa con punte di 12mila reclusi) ora ha anche aperto una pizzeria che è l’unica in un penitenziario statunitense. Dopo aver visitato le lavorazioni attivate in carcere dal consorzio - dalla celebre pasticceria che ogni anno spedisce a Chicago centinaia di panettoni, ai call center, alla costruzione di biciclette e valige - Abate e Dart hanno incontrato una cinquantina di detenuti assunti alle dipendenze del consorzio con i quali hanno dialogato per un’ora. Un quadro drammatico, quello tracciato dai due ospiti ai detenuti padovani. Il sistema penitenziario negli Usa è in profonda crisi, oberato da costi insostenibili. "I detenuti superano i due milioni e mezzo di unità", hanno raccontato, "ovvero cinquanta volte la popolazione carceraria italiana, quando il rapporto tra la popolazione civile dei due paesi è di cinque a uno". Per capirsi, come se il nostro Paese avesse 5-600mila detenuti. Non sono solo i numeri a preoccupare ma la tipologia della popolazione. "Gran parte dei detenuti è affetta da patologie psichiche, molte delle quali insorgono durante e a causa della detenzione. Una volta che una persona entra nel sistema del carcere è difficilissimo che ne esca, perché il reinserimento è di fatto impossibile. E i penitenziari hanno una qualità della vita infima, a partire dal cibo per il quale si spendono 2,7 dollari a testa al giorno comprensivi di colazione, pranzo e cena". Si cita spesso il sistema americano come esempio di reinserimento dei detenuti attraverso il lavoro. Ben diverso il quadro dipinto da Abate e Dart: stipendi simbolici di 25 cent l’ora, in violazione della dignità della persona e delle regole del mercato del lavoro, per lavori poco qualificanti che non hanno nessuna spendibilità all’esterno. "Nelle parole dei nostri ospiti di Chicago", commenta Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, "si rivela la verità di quanto dice sempre papa Francesco quando parla di condizioni inumane di vita, di cancro dello sfruttamento umano e lavorativo e di veleno dell’illegalità. E purtroppo gli Stati Uniti sono l’ennesima conferma di un triste fenomeno che accomuna le carceri di tutti i paesi, indipendentemente dal grado di sviluppo economico. In tutto il mondo, con pochissime eccezioni, il carcere è pensato come strumento solo punitivo rivelandosi una fabbrica di delinquenza. Mentre la possibilità di un lavoro vero, come documentano le esperienze italiane, brasiliane, ma anche del Nord Europa, abbatte ovunque la recidiva ed è l’unico strumento in grado di reinserire davvero le persone". Cagliari: 500 migranti nella scuola penitenziaria di Monastir, l’arrivo è imminente sardegnaoggi.it, 10 maggio 2016 Si accorciano i tempi dell’arrivo di centinaia di immigranti nella struttura alle porte di Cagliari. "Accoglienza in carcere, follia pura. Stesso ordine in arrivo anche per la struttura di Iglesias". C’è la conferma del cambio di destinazione della scuola penitenziaria di Monastir. Inattiva da qualche anno, l’idea di utilizzarla come centro accoglienza per migranti prende sempre più piede. All’interno della struttura c’è spazio per cinquecento posti, tutti destinati ai cosiddetti "disperati del mare". Dopo i primi rumors dello scorso 24 aprile, il deputato e leader sardo di Unidos, Mauro Pili, rende pubblici alcuni stralci di un documento che benedirebbe il nuovo utilizzo dei metri quadri alle porte di Cagliari. "Detenuti in arrivo nella scuola penitenziaria, prepararsi per lo sbarco imminente di cinquecento migranti. La firma in calce è d’ordine del provveditore dell’amministrazione penitenziaria. Il protocollo interno è 11571, il destinatario è il direttore del carcere di Uta", afferma Pili. E, nelle righe successive, la missiva reca il nome in codice della scuola penitenziaria "ex Sfap" e l’autorizzazione al "servizio di missione per agenti per l’accompagnamento di 4 detenuti ex articolo 21, detenuti lavoratori, nei giorni 10-11-12-13 maggio 2016". Pili: "Ho pubblicato anche il numero di protocollo per evitare smentite. C’è un documento ufficiale partito dal dipartimento e giunto sul tavolo del direttore che ancora non ha diramato l’ordine che presumibilmente scatterà all’alba di domani mattina. Stesso ordine è in arrivo per il carcere di Iglesias. La follia del piano denunciato nelle scorse settimane va avanti e nessuno dice niente, alla faccia dell’accoglienza, la faranno in carcere". Piacenza: disordini in carcere, l’Antiterrorismo di Bologna apre un’inchiesta Libertà, 10 maggio 2016 Sta ovviamente avendo strascichi politici e giudiziari la rivolta che ha visto protagonisti alcuni detenuti del carcere delle Novate, che domenica pomeriggio hanno devastato un reparto. Secondo quanto hanno riferito gli agenti penitenziari intervenuti, gli stranieri avrebbero inneggiato anche all’Isis, ragion per cui il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, coordinatore del gruppo anti-terrorismo, ha aperto un fascicolo conoscitivo e presto chiederà alla Digos di verificare quanto accaduto, soprattutto in merito a questi presunti cori su Allah e la Jihad. La direzione del carcere, ieri però ha precisato che "non c’è stato alcun inneggiamento all’Isis e non si registra alcun riferimento al terrorismo di stampo jihadista, aggiungendo che "domenica si sono verificati gravi disordini in una sezione ordinaria di media sicurezza della struttura piacentina ospitante 17 detenuti, che ha riportato danni strutturali e nell’impiantistica, ad oggi non ancora quantificati e che comunque è funzionante e di cui non si prevede chiusura. Promotori dei disordini 3 detenuti che, lamentando le condizioni di restrizione, hanno tentato di fomentare gli altri, diversi dei quali non si sono lasciati coinvolgere". I sindacati della polizia penitenziaria, però, confermano la versione fornita dagli agenti intervenuti: "Probabilmente il direttore del carcere di Piacenza e il comandante di reparto non comunicano tra loro - hanno affermato Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) e Francesco Campobasso, segretario regionale - considerato che è stato riferito alla nostra organizzazione sindacale che i poliziotti penitenziari intervenuti hanno documentato in atti che i detenuti responsabili della rivolta hanno inneggiato all’Isis. Inoltre, anche i nostri segretari di Piacenza hanno confermato tale versione". Piacenza: il direttore del carcere "nessun detenuto ha inneggiato all’Isis" piacenzasera.it, 10 maggio 2016 "Rivolta al carcere delle Novate, con danni che si aggirano intorno ai 20mila euro": è quanto viene affermato dall’Uspp, unione sindacale Polizia penitenziaria. Secondo il sindacato, intorno alle 15.30 di domenica 8 maggio, una decina di detenuti hanno dato il via ad un’improvvisata protesta contro il sistema carcerario, spaccando arredi e televisori. Per contenere l’accaduto il personale sarebbe intervenuto in assetto antisommossa e la situazione sarebbe rientrata grazie ad un’opera di mediazione. Un detenuto, a detta del sindacato, avrebbe anche inneggiato all’Isis. Al momento non è giunta nessuna nota ufficiale, in merito all’accaduto, dalla casa circondariale di Piacenza. Priva di fondamento la notizia di inneggiamento all’Isis - "Risulta priva di ogni fondamento la notizia riportata di inneggiamento all’Isis e non si registra alcun riferimento al terrorismo di stampo jihadista". Lo afferma la Direzione della casa circondariale di Piacenza in una nota in "seguito a notizie riportate in data odierna sulla stampa" e in cui si spiega "che in data di ieri si sono verificati gravi disordini in una sezione ordinaria di media sicurezza della struttura piacentina ospitante 17 detenuti, che ha riportato danni strutturali e nell’impiantistica, ad oggi non ancora quantificati e che comunque è funzionante e di cui non si prevede chiusura. Promotori dei disordini 3 detenuti che, lamentando le condizioni di restrizione, hanno tentato di fomentare gli altri, diversi dei quali non si sono lasciati coinvolgere". Oltre a smentire la notizia dell’inneggiamento all’Isis viene detto che "non si registrano contusi tra il personale e tra i detenuti". La procura di Bologna apre un fascicolo - Un fascicolo conoscitivo è stato aperto dalla procura di Bologna per chiarire i fatti accaduti in una sezione del carcere di Piacenza, denunciati dal Sappe, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, dove alcuni detenuti magrebini sarebbero stati autori di devastazioni, rompendo telecamere e suppellettili, inneggiando all’Isis e alla Jihad. Il fascicolo è stato aperto dal procuratore di Bologna, Valter Giovannini, coordinatore del gruppo terrorismo: degli accertamenti si occuperà la Digos. I presunti cori dei detenuti inneggianti all’Isis e alla Jihad, successivamente smentiti dalla direzione penitenziaria del carcere, sono stati invece ribaditi dal sindacato. "Probabilmente il direttore del carcere di Piacenza e il comandante di reparto non comunicano tra loro - commentano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale - considerato che è stato riferito alla nostra organizzazione sindacale che i poliziotti penitenziari intervenuti hanno documentato in atti che i detenuti responsabili della rivolta hanno inneggiato all’Isis. Inoltre, anche i nostri segretari di Piacenza, sentiti questa mattina, hanno confermato tale versione. Non si comprende, quindi- conclude il Sappe - la smentita fatta dal direttore". Putzu (Fi): "ora risposte forti" - "Se le notizie di stampa sulla rivolta in carcere di detenuti nordafricani corrispondono al vero (ingenti danneggiamenti alle strutture e inneggiamenti vari), si attendono dal Ministero e dalla Direzione del Carcere di Piacenza contromisure inequivoche ed esemplari, nei confronti di delinquenti che hanno dimostrato prima ed ora il loro disprezzo per le regole della società civile, delle persone e dello Stato". Lo afferma Filiberto Putzu, consigliere comunale di Forza Italia. Anche dal Comune di Piacenza, per voce del Sindaco o di qualche Assessore che sostiene le azioni a favore delle marginalità, - prosegue - attendiamo una presa di posizione forte e chiara. Il Comune spende denari dei piacentini per interventi di promozione sociale a favore anche dei carcerati allo scopo di favorire processi di inclusione e la fruizione dei servizi comunali...se questi sono i risultati, forse sarebbe meglio investire queste risorse a favore degli anziani piacentini che nel 2015 hanno viste per più voci ridotti gli stanziamenti comunali". Fermo (Ap): due detenuti per tre mesi svolgeranno lavori di pubblica utilità Corriere Adriatico, 10 maggio 2016 Due detenuti, per tre mesi, a titolo gratuito, svolgeranno lavori di pubblica utilità come la cura delle strade e del verde pubblico nelle vicinanze della struttura penitenziaria. Il contenuto del protocollo d’intesa, sottoscritto a novembre fra amministrazione comunale e casa di reclusione, da questa mattina è diventato operativo. L’accordo, che concretizza quanto contemplato da un protocollo d’intesa nazionale fra il Ministero della Giustizia e l’Anci del 2012, prevede che l’amministrazione comunale di Fermo metta a disposizione dei detenuti, vicini alla fine della pena, della struttura penitenziaria di Fermo per un anno opportunità lavorative per lo svolgimento di lavori all’esterno (art. 21 dell’ordinamento penitenziario) di pubblica utilità. Nell’esprimere soddisfazione il sindaco Paolo Calcinaro ha dichiarato: "Oltre ad essere contento per i detenuti e per il loro apporto, questo progetto vuole lanciare, sfatando luoghi comuni, un messaggio preciso alla cittadinanza: ovvero che i detenuti hanno voglia di reinserirsi nella società, vogliono rimettersi in gioco". "È l’inizio di una collaborazione che si concretizza. I detenuti, vicini alla fine della pena, vengono scelti per i loro comportamenti e la loro condotta ed i nominativi individuati e proposti al magistrato di sorveglianza che ne autorizza il coinvolgimento in questo progetto" - ha aggiunto la Direttrice della Casa di Reclusione Eleonora Consoli. "Il lavoro esterno per coloro che partecipano ha anche una valenza risarcitoria di quanto hanno commesso - ha detto Nicola Arbusti, responsabile dell’area trattamentale della casa di reclusione di Fermo - è un progetto per ridare dignità sociale e favorire il loro reinserimento". "Quella di oggi è la dimostrazione concreta di quanto prevede questo protocollo e di quanto la città voglia impegnarsi sempre più con l’integrazione, vedi i progetti che coinvolgono i richiedenti asilo e vedi quello con i detenuti che svolgeranno questi lavori per quattro ore al giorno, al mattino dalle 7 alle 11, nell’area circostante la struttura di reclusione - ha affermato l’Assessore alle Politiche Sociali Mirco Giampieri". Presenti anche l’assessore Alessandro Ciarrocchi, il Consigliere Comunale Cristian Falzholgher, gli agenti della Polizia Penitenziaria (comandati da Napoli Loredana) e l’educatrice dell’Ambito XIX Lucia Tarquini. Massa: Ferri visita l’Ipm di Pontremoli "teatro e cultura fanno bene alla rieducazione" Gazzetta di Viareggio, 10 maggio 2016 Le giovani detenute dell’Istituto Penitenziario Minorile di Pontremoli diventano attrici per uno spettacolo teatrale che si svolgerà prima al teatro La Rosa di Pontremoli e poi a Carrara. Oggi a Pontremoli, alla conferenza stampa sullo spettacolo teatrale "Mere Ubu Girl’s Circus" ha partecipato il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, che a margine dell’evento ha dichiarato: "Teatro e cultura sono attività significative per il percorso rieducativo e il reinserimento sociale. L’efficace reinserimento in società è uno dei diritti di ogni detenuto, che passa attraverso iniziative che si stanno sempre più sviluppando nelle carceri del nostro Paese come il lavoro, la cultura e l’arte. Trovo particolarmente meritevole l’iniziativa che viene presentata oggi poiché le attività culturali e artistiche all’interno degli istituti di pena aiutano ad aumentare la coesione con i gruppi di appartenenza, a incrementare l’autostima e a comprendere le proprie potenzialità, a volte represse. Questo spesso si traduce in un detenuto che non torna a delinquere, trasformandosi così in un valore per la società invece che un costo, oltre che un rischio in meno per la propria comunità. Una tappa importante di lavoro comune tra le ragazze e gli studenti è stato il laboratorio di scrittura creativa in Ipm e presso il Liceo "Malaspina" di Pontremoli in cui sono state realizzate le scritture che concorrono al copione dello spettacolo: questo ha coinvolto un laboratorio di scrittura in cui 44 ragazzi hanno lavorato insieme al progetto. Meritevole è anche l’iniziativa intrapresa dall’Istituto, che organizza delle videoconferenze su Skype fra le giovani detenute e i loro familiari. È prevista inoltre la realizzazione di un piccolo libro di poesie e racconti delle ragazze dell’Istituto, da presentare al premio Bancarellino di fine maggio. Sarebbe costruttivo presentare alle ragazze il libro finalista del premio, magari organizzando un piccolo evento a tema dentro l’Istituto. Ne approfitto per un piccolo riferimento alla giornata di ieri, la festa della mamma. In questo Istituto sono presenti anche delle madri: le energie spese per garantire alle madri detenute di vedere i propri figli hanno consentito di raggiungere importanti progressi, ed altri ancora sono in procinto di realizzarsi. Se è vero infatti che non si può privare un bambino della libertà perché innocente, è allo stesso tempo incontestabile il diritto del bambino a stare vicino alla propria madre". Piacenza: Alfano in Cattolica "carceri luoghi di radicalizzazione ma stiamo monitorando" di Filippo Mulazzi ilpiacenza.it, 10 maggio 2016 Il ministro dell’Interno Angelino Alfano nell’ateneo piacentino per presentare il suo libro "Chi ha paura non è libero. La nostra guerra contro il terrore". "In Italia è molto forte il monitoraggio delle carceri: sappiamo che sono luoghi di possibile radicalizzazione, si riunirà un comitato per discutere di Piacenza". Il ministro dell’interno Angelino Alfano ha fatto visita all’ateneo piacentino dell’Università Cattolica per presentare il suo libro "Chi ha paura non è libero. La nostra guerra contro il terrore", durante una tavola rotonda promossa dalla Facoltà di Economia e Giurisprudenza, con il Corso di Laurea magistrale in Giurisprudenza e con il Dipartimento di Scienze giuridiche. Il ministro, prima di parlare a studenti e autorità, si è intrattenuto con la stampa per parlare anche di quanto avvenuto nel carcere di Piacenza, a poche ore dalla rivolta dei detenuti che hanno inneggiato all’Isis. "Abbiamo un monitoraggio molto forte - ha detto il ministro ai cronisti - del nostro sistema carcerario. Sappiamo che è un luogo di possibile radicalizzazione e perciò teniamo in monitoraggio costante i nostri istituti di pena. Ogni settimana si riunisce il comitato di analisi strategica anti-terrorismo. In quel comitato siede anche il rappresentante dell’amministrazione penitenziaria per assicurare che il controllo avvenga sempre in termini aggiornati. La stessa cosa verrà fatta anche per il carcere di Piacenza. C’è un lavoro dell’Europa anche: c’è un lavoro fatto con Europol per il controllo degli indiziati che sbarcano. La prevenzione funziona". Alfano-2 Alfano ha commentato anche la vittoria a Londra del candidato musulmano Sadiq Khan. "I cittadini londinesi sono stati liberi di scegliere, il loro voto merita rispetto per la scelta, è sempre una grande capitale politica e economica del nostro continente". Il ministro ha presentato agli studenti piacentini il suo ultimo libro, che parla del sentimento della paura. "È la paura di un popolo - ha motivato il titolo Alfano, quello europeo, che non vuole perdere la sua libertà attraverso una serie continua di aggressioni terroristiche che colpiscono non solo nei luoghi sensibili, ma nei luoghi della vita quotidiana. È un tentativo di toglierci la nostra libertà e quindi, la lotta contro la paura - sentimento umano, si fonda su una risposta militare, di polizia, legislativa e culturale. Quest’ultima consiste nel separare chi prega da chi spara: non possiamo mettere sullo stesso piano i musulmani d’Italia e d’Europa con quelli che prendono in ostaggio altre persone in nome di Dio per edificare un califfato". Secondo il ministro è importante rafforzare le difese esterne dell’Europa, per annullare quelle interne. "Quando ci sono stati i muri nella nostra storia ci sono state guerre e povertà, quando sono caduti abbiamo avuto pace e benessere. C’è sfiducia in questo momento nei confronti dell’Europa, non possiamo prendercela contro chi pensa così, dobbiamo lavorare per recuperarla e restituirla, l’Europa deve ridare benessere e crescita e non essere solo quella dell’austerità. Dobbiamo lavorare per difendere e presidiare meglio le frontiere esterne e garantire la libera circolazione interna". Durante la tavola rotonda il rettore dell’università Franco Anelli ha parlato della pubblicazione del ministro. "È il libro di una generazione che ha fiducia nel combattere il terrore: qua vengono svelati tanti retroscena e dettagli delle iniziative svolte per difendere la nostra civiltà. È una risposta anche alle generazioni che non hanno vissuto la guerra e si trovano ora a confrontarsi con una sensazione di insicurezza e un nemico che non porta la divisa. È importante ricercare sempre la libertà di espressione e di religione, oltre che recuperare la possibilità di poter pensare senza farsi prendere dalla paura, che offusca i nostri ragionamenti". "Il ministro - ha aggiunto Anna Maria Fellegara, preside della facoltà di Economia - è un servitore civile dello Stato. La sua presenza oggi è un segno di responsabilità che va percepito. Noi prepariamo i ragazzi alla responsabilità, in un momento in cui la fiducia nella politica è crollata. Non ci accontentano di uomini politici non corrotti, ci vogliono persone che si dedicano alla politica perché dotati, perché sono i migliori per la comunità e per il nostro Paese". Al termine della tavola rotonda si svolgerà la consegna delle 16 borse di studio bandite dalla Facoltà di Economia e Giurisprudenza con il contributo della Fondazione di Piacenza e Vigevano, della borsa di studio "avvocato Giuseppe Gardi" e delle 2 borse di studio bandite in memoria della signora Emanuela Castellina. Il ministro, arrivato con un volo di Stato all’aeroporto di San Damiano nella mattinata, ha ricevuto una piccola contestazione di Forza Nuova e Fronte d’Azione, che hanno appeso nei pressi dell’ateneo un paio di striscioni di protesta contro l’operato del ministro sul tema dell’immigrazione. Milano: incendio all’Ipm Beccaria. Cgil: questo carcere è un vulcano pronto a esplodere di Luca Salvi Il Giorno, 10 maggio 2016 Un detenuto di origine straniera ha dato fuoco alla cella, suppellettili e indumenti compresi. "Un vulcano pronto ad esplodere". Non va per il sottile la Cgil nel descrivere il carcere minorile Beccaria. Dove ieri si è verificata una nuova emergenza, una nuova situazione critica: un incendio appiccato da un detenuto. Conseguenza: due agenti penitenziari rimasti intossicati. Tutto è successo verso mezzogiorno, fanno sapere dalla Cgil Funzione pubblica (Fp), quando un detenuto di origine straniera ha dato fuoco alla cella, suppellettili e indumenti compresi. Da qui la denuncia "per l’ennesima volta la grave precarietà in cui versa il Beccaria in quanto a ordine, disciplina e sicurezza. C’è un gruppetto di 6 o 7 soggetti su 51, con problemi psichiatrici, per i quali basta un nonnulla per fomentare disordini". In particolare "ormai quotidianamente il personale di Polizia penitenziaria"si trova ad avere a che fare con "aggressioni e atti di autolesionismo, fino ai molteplici tentativi di suicidio: l’ultimo di un detenuto 20enne domenica scorsa". In quel caso un giovane tunisino "stava per impiccarsi con il lenzuolo - racconta Vito Romito, segretario Fp Cgil Milano - e solo la prontezza dell’agente in servizio ha scongiurato il peggio. Era notte e da solo doveva controllare due reparti". Quello che chiede il sindacato, nelle parole di Calogero Lo Presti, Fp Cigl Lombardia, e Giuseppe Merola, Fp Cgil Milano, è "una presa di posizione da parte dell’Amministrazione forte a tutela della sicurezza dell’istituto e dell’incolumità fisica e psichica di tutte le lavoratrici e i lavoratori". Perché oltre "a una deriva dell’autorevolezza delle istituzioni", i due sindacalisti lamentano "gravissime carenze d’organico: posti di servizio scoperti, gravosi carichi di lavoro e di responsabilità, croniche carenze strutturali del carcere. Si è ancora in attesa dell’apertura del neo padiglione adiacente all’Istituto penale minorile". Una struttura più efficiente permetterebbe alla quarantina di agenti penitenziari un più efficace controllo sui detenuti. "Ma ci vorrebbero 20 agenti in più. E una distribuzione dei detenuti in altri istituti", dice Lo Presti. Così, "le pessime condizioni di lavoro incidono anche sulla salute psicofisica dei lavoratori. Il forte stress comporta un elevato numero di assenze. Vogliamo coinvolgere l’Amministrazione Centrale e le autorità politiche di competenza, attivando, altresì, tutte le forme di protesta previste". Cagliari: Stefanina, 83 anni, detenuta più vecchia d’Italia "non voglio morire in galera" di Nicola Pinna La Stampa, 10 maggio 2016 A 83 anni ancora dietro le sbarre, è a Cagliari la detenuta più vecchia. "Ho spacciato per mantenere 8 figli. Non voglio morire in cella". "La prima volta che mi hanno arrestato? Giuro che non me lo ricordo più". Era il 1962 e da allora per Stefanina Malu è stato un viavai continuo: quasi 30 anni di carcere, lunghi periodi di semilibertà, arresti domiciliari e persino qualche anno di libertà vera. Con i soldi dello spaccio lei ci ha cresciuto i figli. A 83 anni non ha più il carattere di un boss. La salute comincia a vacillare, la depressione avanza, ma per i giudici non è una in grado di redimersi. Il magistrato non le concede un’altra chance e così Nonna Galera resta ancora chiusa in carcere. È la detenuta più anziana d’Italia. Sta male e da alcuni giorni è in ospedale. Non si regge in piedi e di certo non può scendere dal letto. Per spostarsi ha bisogno di una sedia a rotelle: non può darsi alla fuga e per questo di fronte alla stanza non c’è neppure una guardia. Per incontrarla basta semplicemente indossare camice e mascherina perché nel reparto di medicina si è diffuso un pericoloso batterio. "La droga è una cosa brutta, lo so, anzi l’ho sempre saputo. Ma per me lo spaccio era un lavoro. L’unico lavoro, perché nel quartiere non ce n’era altro. Solo così potevamo vivere dignitosamente. Ho venduto di tutto, mai roba sporca. Non ho morti sulla coscienza. Ho fatto il lavoro sbagliato, però ho pagato per tutti. Ogni volta la polizia e i carabinieri hanno accusato me: mi sono presa tante condanne, ma non ero l’unica che vendeva droga in città. Adesso non ce la faccio più a stare dentro il carcere: la cella per me è diventata un inferno". L’ultima volta che i carabinieri hanno fatto irruzione a casa sua, nel quartiere di Is Mirrionis, Nonna Galera aveva già 82 anni e stava finendo di confezionare duecento dosi. Cocaina ed eroina, tutto pronto per essere consegnato ai soliti clienti. In quel periodo Stefanina Malu era ancora ai domiciliari e in un attimo è tornata in cella. A dicembre, tre mesi dopo l’arresto, il suo avvocato ha presentato un’istanza di scarcerazione, ma per convincere il magistrato non è stato sufficiente neanche far leva su età e condizioni di salute. Ancora deve scontare un anno e mezzo ma anche lei ha perso il conto delle condanne. "In carcere mi vogliono tutti bene, ma quel posto per me è diventato insopportabile. Io li dentro non ci faccio più nulla e tutti, guardie comprese, dicono "questa donna deve andarsene a casa". Invece, mi hanno dimenticato: mi hanno concesso solo tre ore di libertà per il funerale dei miei due figli. Forse vogliono farmi morire in cella?". Dopo tanti anni di lavoro nel più florido mercato della droga della città, Stefanina Malu non è riuscita a diventare ricca. "Altro che ricca, per noi la vita è sempre stata difficile. Difficilissima. Se avessi fatto tanti soldi, di certo, non avrei vissuto in una casa comunale. Polizia e carabinieri mi hanno sempre trattato come il peggior delinquente del quartiere, ma non è vero niente. Ho solo messo insieme i soldi necessari per tirar su otto figli". Nella zona di Is Mirrionis, una piccola Scampia in versione cagliaritana, nonna Stefanina era considerata una specie di capo dei capi. "Mi vogliono tutti bene, non ho mai avuto paura. Chi voleva qualcosa da me veniva a cercarmi". "A casa sua, di certo non per bere il caffè, ci siamo andati in tanti", conferma un fruttivendolo del mercato comunale di via Quirra. Le donne che passano il pomeriggio nelle panchine la rinnegano, anzi alla prima domanda su Stefanina Malu si alzano e se ne vanno. Ma il paninaro di piazza Medaglia Miracolosa non si vergogna a difenderla: "Qui la conosciamo tutti. Sappiamo tutti che ha sbagliato, ma adesso perché la giustizia si accanisce contro di lei?". Messina: l’Ugl denuncia l’alto rischio tubercolosi per gli operatori di Polizia penitenziaria ladiscussione.com, 10 maggio 2016 "La Direzione del Carcere di Messina avrebbe violato il protocollo operativo per il controllo della tubercolosi nel sistema penitenziario. Ogni caso sospetto di Tbc deve essere posto tempestivamente in isolamento respiratorio e prontamente valutato per individuare la malattia. Cosa che non è avvenuta a Messina". È quanto dichiara Antonio Piazza, segretario dell’Ugl Polizia Penitenziaria, in merito al sospetto caso di tubercolosi nel carcere ‘Ucciardonè di Palermo. "Pare che il detenuto fosse stato sottoposto ad accertamenti clinici per sospetta infezione tubercolare circa tre mesi fa, quando era rinchiuso nel carcere di Messina - continua Piazza - ma i risultati sarebbero arrivati solo qualche giorno fa al carcere di Palermo Ucciardone, dove il detenuto è stato trasferito in un secondo momento". "È gravissimo - sottolinea Piazza - che nessuno abbia comunicato all’Ucciardone la probabile infezione ed è ancora più grave il fatto che sia stato predisposto il trasferimento in un altro istituto quando tutti i soggetti con diagnosi di Tbc attiva devono essere trasferiti presso centri specialistici di riferimento. La Direzione del carcere dell’Ucciardone, una volta ricevuta la comunicazione da Messina, avrebbe provveduto ad isolare circa 8 detenuti, che sarebbero stati a stretto contatto con il soggetto risultato positivo alla Tbc. Ai poliziotti penitenziari sarebbero state distribuite delle semplici mascherine". "È inutile dire che siamo di fronte ad una situazione di altissimo rischio per gli operatori di Polizia Penitenziaria. Auspichiamo pertanto che la Direzione del carcere dell’Ucciardone sottoponga, al più presto, il personale penitenziario ad accertamenti clinici per verificare l’insorgenza di eventuali casi di positività alla Tbc. Il provveditore - conclude Piazza - dall’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe, poi, verificare se sussistono eventuali responsabilità anche perché è inammissibile che si possa non tener conto della pericolosità della malattia in quella che è, a tutti gli effetti, una vicenda tragicomica". Brindisi: a Francavilla Fontana i detenuti si raccontano col linguaggio del teatro viverepuglia.it, 10 maggio 2016 Mercoledì 11 maggio alle ore 17 e 30, nella sede municipale di Castello Imperiali, si terrà la conferenza stampa di presentazione dello spettacolo teatrale "Dei delitti e delle pene", realizzato con i detenuti della casa circondariale di Brindisi. La manifestazione artistica, organizzata dall’Amministrazione comunale in collaborazione con l’ufficio U.e.p.e. e la direzione della stessa struttura penitenziaria, andrà in scena il 22 maggio nel cortile di Castello Imperiali, e vedrà i detenuti/attori raccontarsi attraverso le parole del libro "Dentro/fuori: carcere e dintorni". "Un incontro - spiega il presidente della commissione politiche sociali Alfonso Andriulo, promotore dell’iniziativa - sicuramente illustrativo su quelle che sono le attività teatrali che l’associazione "Il Teatro delle pietre" ha svolto in passato e svolge ancora oggi all’interno e fuori del carcere, con il fine di dare un sostegno alla fase di riabilitazione sulla quale la realtà del penitenziario si basa. Durante gli interventi che saranno effettuati dalle figure invitate a partecipare alla conferenza, si potranno conoscere e comprendere, soprattutto quella che è l’istituzione del carcere in questi anni e gli strumenti che mette in campo per interfacciarsi con gli altri enti e ed organi. Un’iniziativa di carattere socio-culturale che si aggiunge alle tante altre che ha organizzato questa amministrazione". Alla conferenza stampa di presentazione in programma mercoledì alle 17 e 30 prenderanno parte il sindaco Maurizio Bruno, la direttrice del carcere di Brindisi Annamaria dello Prete, la responsabile dell’Ufficio esecuzione pene esterne Giovanna Longo, il dottor Pietro Rossi dell’Ufficio Garante dei diritti dei detenuti, l’assessore alle politiche sociali Concetta Somma, il dirigente dei servizi sociali del Comune di Francavilla Fontana Gianluca Budano, il presidente della commissione delle politiche sociali Alfonso Andriulo, il responsabile del Teatro Delle Pietre Marcantonio Gallo. Modera l’avvocato Giusy Santomanco. Bologna: Cinevasioni, commozione e applausi nel primo giorno del festival in carcere di Ambra Notari Redattore Sociale, 10 maggio 2016 Detenuti giurati in prima fila in occasione dell’apertura del festival del cinema ospitato nel carcere della Dozza di Bologna da oggi a sabato 14 maggio. "È particolare, vero, come ingresso in una cineteca?", chiede emozionato Filippo Vendemmiati, direttore artistico di Cinevasioni, il primo Festival del cinema in carcere, che ha aperto oggi i battenti in Dozza. In effetti, non ci sono tappeti rossi, nessuna promenade: qui ci sono le cassettine di sicurezza in cui lasciare il cellulare e 4 cancelli blu che ti si chiudono alle spalle. Qui siamo nell’istituto penitenziario del capoluogo, teatro da oggi a sabato 14 maggio della prima edizione di Cinevasioni. Più di 120 sedie, il maxischermo, le luci, i microfoni: la sala è allestita ad hoc. "Diciamo che questa è una sala polivalente - spiega Claudia Clementi, direttrice della Dozza. Spesso ospita il laboratorio di edilizia: si costruiscono e si abbattono muri, per imparare. Ma oggi è stata trasformata in una sala proiezioni". E poi incuriosita aggiunge: "Lei per caso ha avuto problemi con i documenti all’ingresso? Sa, è il primo giorno, dobbiamo tararci. Anche sugli orari, dobbiamo per forza rispettarli". I primi ad arrivare sono Rodolfo, Davide e Catalin, tre dei detenuti membri della giuria presieduta dall’attore Ivano Marescotti. Anche loro emozionatissimi, per prima cosa salutano Angelita Fiore, direttrice scientifica del festival: "Allora siete pronti?" chiede, mentre li accompagna in postazione e consegna loro il pass da giurati. Per loro sono state riservate le prime tre file. "Prontissimi - rispondono. Abbiamo aspettato a lungo questo momento", e intanto prendono la cartella con tutto il materiale. In pochi minuti la sala si riempie: arrivano gli studenti del Dams, del Liceo Laura Bassi e dell’Istituto Rubbiani. Contemporaneamente, prende posto tra il pubblico una quarantina di detenuti. "A ogni proiezione ruoteranno, in modo che tutti abbiamo la possibilità di partecipare", sottolinea Clementi. Catalin, uno dei giurati, spiega a un amico seduto in platea come funziona il festival, raccomandandogli alcune proiezioni: la loro attenzione si sofferma su "Lo chiamavano Jeeg Robot" di Gabriele Mainetti, film rivelazione che ha fatto incetta di premi agli ultimi David di Donatello. E in effetti, la selezione dei film in concorso è quella delle grandi occasioni: "Abbiamo ricevuto adesioni importanti: speriamo di riuscire ad accontentare tutti - commenta Vendemmiati prima di prendere ufficialmente la parola. Dichiaro aperto il primo festival del cinema in carcere Cinevasioni", scandisce sotto gli applausi. Le luci si abbassano e parte "La sfida", la sigla del festival, ideata e girata come saggio finale del laboratorio di cinema CiakinCarcere, partito in Dozza lo scorso ottobre. Come attori e sceneggiatori, i componenti della giuria di Cinevasioni. Il pubblico sorride, ammicca, felice di vedersi sul grande schermo. Subito dopo, i titoli di testa di "Dio esiste e vive a Bruxelles" del regista belga Jaco van Dormael, pellicola d’apertura: protagonisti, Dio, suo figlia Ea, sua moglie e Victor, incaricato dalla piccola Ea di scrivere il nuovo Nuovo Testamento. La commedia strappa tante risate in sala, commenti sottovoce, battute maliziose. L’atmosfera è rilassata e divertita. Solo in un passaggio tutti fanno silenzio: quando Ea racconta la storia di Victor, senzatetto che, dopo essere stato 6 mesi in prigione per essersi trovato "al momento sbagliato nel posto sbagliato", riesce a dormire solo se sopra la sua testa non ci sono che le stelle e il cielo. "Non può sopportare l’idea di avere un tetto sulla testa per paura di svegliarsi e di non sapere come fare a uscire". Dopo un paio d’ore, le luci si riaccendono e cominciano le domande ad Andrea Romeo, distributore del film. Il primo a prendere la parola è un giurato: "Qual è stato lo spunto che ha spinto il regista a partire con il progetto?". Romeo spiega la posizione di van Dormael, cattolico di formazione ma sicuramente dissacrante nel film. Il tema della religione, della rappresentazione di Dio, del suo essere un uomo anche molto burbero, della collocazione del Paradiso e dell’Inferno appassionano il pubblico che apre una riflessione. Un detenuto chiede: "Come fa un regista di formazione cattolica a rappresentare Dio come un uomo?"; un altro aggiunge: "Quindi questo film ha guadagnato molto bene pur non essendo un film sui supereroi? Ottimo. Anche se poi, a dir la verità, Dio è il primo supereroe". Finita la conferenza, i primi a uscire sono i detenuti: uno di loro si ferma per un saluto al volo a una ragazza del pubblico esterno. In due si incantano a guardare i tecnici del montaggio, prima di riprendersi e accelerare il passo per raggiungere gli altri. Escono anche i giurati, pronti a tornare solo poche ore dopo in occasione de "Il racconto dei racconti" di Matteo Garrone, ospite in Dozza dopo la proiezione. Mentre camminano si scambiamo impressioni ed emozioni sul film appena visto: per qualcuno è ancora troppo presto per sbilanciarsi, bisogna prima trovare un metro di giudizio equo. "Oggi abbiamo voluto aprire con due specie di favole - spiega Vendemmiati -. Domani ci saranno 3 proiezioni sull’immigrazione, tema molto caro ai nostri ospiti. Poi vedremo pellicole di eroi e supereroi. Ci sarà anche "Chiamatemi Francesco", il film di Daniele Luchetti su papa Bergoglio, un film fortemente voluto dai detenuti. E chiuderà, fuori concorso, "Non essere cattivo", opera postuma di Claudio Caligari. In pratica, non siamo che all’inizio. Ma il ghiaccio è rotto, no?", chiede con fiducia ai giurati. Tutti annuiscono, con gli occhi che brillano: ora, però, non c’è tempo da perdere. Si pranza in fretta e si torna al lavoro. Bologna: il regista Matteo Garrone in carcere alla Dozza "come il mio Pinocchio" di Annalisa Uccellini Il Resto del Carlino, 10 maggio 2016 Il regista è stato protagonista della prima giornata del Festival "Cinevasioni" realizzato proprio tra le sbarre, davanti ai detenuti. Dopo "Lo cunto de li cunti" di Giambattista Basile, un altro classico della letteratura italiana solletica la fantasia di Matteo Garrone che ha già dato prova della sua abilità visionaria col genere fiabesco in "Il racconto dei racconti" uscito nel 2015 e vincitore di sette David di Donatello. Il regista ha raccontato ai detenuti della Dozza che sta lavorando a una versione cinematografica di Pinocchio che sarà pronta fra un paio d’anni: "Vabbè, m’è scappato detto con Renzi al Salone del mobile ma non posso dire di più". La sceneggiatura però è pronta, ha confermato il regista, "ma il lavoro da fare è tanto perché in Pinocchio ci sono molti animali e sarà una bella sfida". Chissà se a differenza del burattino di Collodi che, arrestato dai carabinieri riesce a sfuggire al carcere, anche il prossimo film di Garrone finirà ‘dietro le sbarrè come ‘Il racconto dei raccontì che è stato protagonista della prima giornata del festival Cinevasioni realizzato alla Dozza dall’Associazione Documentaristi Emilia-Romagna con il contributo di Fondazione del Monte e Rai Cinema. Il carcere per Garrone non è una novità, nel senso che l’attore rivelazione di ‘Reality’, Aniello Arena, era un ergastolano del penitenziario di Volterra e oltre che con la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo il regista ha collaborato anche con Fabio Cavalli e il carcere di Rebibbia. "Mi sento un po’ a casa fra queste mura, un domani se dovesse succedere qualcosa riuscirei a trovare una mia dimensione", scherza il regista mentre saluta e stringe la mano ai detenuti. Uno di loro in particolare gli dedica un saluto speciale: si alza, gli va incontro e lo abbraccia con una frase in napoletano. Una citazione cinematografica, si direbbe. Che cos’ha detto? "Ah boh, io non ho capito". "Vienite a piglià o perdono" ha recitato il detenuto mimando una scena di Gomorra, la serie tv non il film. "Ecco perché non capivo, mi fanno sempre i complimenti per la serie e mi chiedono pure quando uscirà la prossima stagione… mica lo sanno che non l’ho fatta io". Garrone la prende sportivamente e sta al gioco rispondendo alle curiosità del pubblico subito dopo la proiezione spalleggiato da Filippo Vendemmiati, direttore artistico di Cinevasioni, e dalla responsabile organizzativa Angelita Fiore. "Da Gomorra a questo film… come mai?", domanda un ragazzo dall’accento napoletano un po’ stupito del divario fra le due pellicole. In verità il divario c’è e non c’è perché, risponde il regista, "si parla comunque di desideri legati a illusioni, di antieroi e di conseguenze a fronte di scelte sbagliate: le donne del Racconto dei racconti lottano mosse dal desiderio di modificare la loro situazione, chi vuole un figlio a tutti i costi, chi desidera tornare giovane. Anche il ragazzino che vuole fare la scalata a Scampia vede solo certi aspetti e non considera il rovescio della medaglia, pensa di stare in Scarface e non capisce il limite tra finzione e realtà. Girando il film alle Vele ho conosciuto persone che avevano maturato questa consapevolezza ma che ormai erano dentro il sistema e sapevano che oltre ai vantaggi c’era un conto da pagare. Ho cercato di raccontare le mie storie senza mai salire su un piedistallo e senza giudicare". Le domande poi vanno sul concreto, dal budget ("dieci milioni, ma i vantaggi di un cast internazionale sono minori di quello che credevo, col senno di poi l’avrei girato in italiano"), ai tempi di montaggio ("lunghi", conferma Garrone e loro lo hanno sperimentato realizzando la sigla del festival durante il laboratorio Ciak in carcere). Garrone risponde a tutti ma "più che raccontare le mie storie mi viene voglia di sentire le loro, si potrebbero raccogliere spunti per soggetti interessanti". Un suggerimento che potrebbe essere colto dalla illuminata direttrice Claudia Clementi, da tre anni a capo della Dozza: "L’ordinamento penitenziario dice chiaramente che il trattamento va fatto con la cultura, con lo sport e con l’educazione". Genova: i detenuti tornano sul palco con "Padiglione 40. L’Ordine Imperfetto" di Francesca Camponero ligurianotizie.it, 10 maggio 2016 Domani, mercoledì 11 maggio alle ore 20.30, i detenuti della Casa Circondariale di Marassi tornano sul palcoscenico della Corte con lo spettacolo prodotto dall’Associazione Teatro Necessario Onlus dal titolo: "Padiglione 40 - L’Ordine Imperfetto", di Fabrizio Gambineri e Sandro Baldacci. Lo spettacolo, portato in scena dalla compagnia teatrale "Scatenati", vede insieme persone detenute nella Casa Circondariale di Marassi, e gli attori Carola Stagnaro, Matteo Alfonso, Filippo Anania, Silvia Brogi e Francesca Pedrazzi ed è un viaggio tragicomico nel drammatico mondo della reclusione psichiatrica, realtà che, non solo in Italia, è stata per troppi anni una delle pagine più nere del sistema giudiziario. La drammaturgia si rifà al romanzo scritto da Ken Kesey "Qualcuno volò sul nido del cuculo" che nel 1975 divenne un celebre film con la regia di Milos Forman e l’interpretazione di Jack Nicholson. I detenuti tornano sul palco con " Padiglione 40 - L’Ordine Imperfetto " è uno spettacolo continuamente in equilibrio fra il sogno e la realtà, fra una lacrima e un sorriso dove all’origine c’è una domanda: cosa accadrebbe se in uno di questi ospedali, un giorno venisse rinchiuso qualcuno capace di reagire alle costrizioni, alle discriminazioni e alle violenze? Qualcuno in grado di rivendicare la propria identità e la propria libertà? Qualcuno in grado di ridestare dal torpore gli altri degenti, coinvolgendoli nel sabotaggio di un sistema psichiatrico omertoso e manipolatore?…Vedremo stasera. La scena e i costumi sono di Elisa Gandelli, le musiche di Bruno Coli, le luci di Clivio Cangemi. Lo spettacolo è in scena alla Corte fino a domenica 15 maggio. Per ulteriori informazioni: teatrostabilegenova.it. Televisione. Gomorra atto secondo, i meccanismi del male di Stefano Crippa Il Manifesto, 10 maggio 2016 Da stasera su Sky Atlantic i nuovi episodi della serie ispirata all’omonimo libro: "Si prende spunto dalla realtà per spiegare - sottolinea Roberto Saviano - come si muove la camorra, senza giudizi morali". Il male, il potere e le sue possibli declinazioni. Intorno a questi due temi ruotano ancora le vicende di Gomorra, seconda stagione prodotta sempre da Sky, Cattleya e Fandango in associazione con Beta Film, presentata nell’inconsueta cornice del teatro dell’Opera a Roma. Stasera i primi due episodi alle 21.10 su Sky Atlantic e poi - sempre due per volta - verranno trasmessi gli altri dieci per cinque settimane. Si ricomincia dalla "fine" del clan Savastano, la morte di Donna Imma e il ferimento del figlio Ciro proprio mentre il "padrino" Pietro evade dal carcere. Un grande vuoto di potere che in molti vorrebbero colmare, a partire da Ciro (Marco D’Amore) "l’immortale", attraverso un gioco mortale di alleanze con i boss dei clan un tempo vicino ai Savastano - in primis con Salvatore Conte (Marco Palvetti), il "mistico" camorrista appena rientrato dalla Spagna. Un’alleanza "democratica" in cui tutti dovrebbero avere lo stesso peso, ma dove è chiaro che Ciro e Conte tenteranno di imporre la propria egemonia. Realizzata in 32 settimane di riprese, con 200 attori, oltre 3 mila comparse, riprese in Italia tra Napoli, Roma e Trieste, in Germania e in Costa Rica, Gomorra oltre a essersi portata a casa premi da festival, è stata venduta in 130 paesi (in agosto arriverà anche negli Usa su Sundance tv). Una serie girata in napoletano: "Ma agli inizi - spiega Andrea Scrosati, vice presidente esecutivo programming Sky - nessuno ci dava credito, dicevano che una serie così non l’avrebbero vista a Roma, figuriamoci a Parigi". E invece, la "fabbrica" creativa della fiction ispirata al romanzo di Roberto Saviano, è già al lavoro per la stesura contemporanea della terza e quarta stagione. Un successo, quello di Gomorra, che sta forse nel mostrare la camorra dal punto di vista "capovolto"; quello dei Savastano, dei boss di Secondigliano e Scampia. Storie raccontate facendo largo uso di esterni, immerse dentro la realtà di tante vicende di cronaca. Non c’è lo Stato, non ci sono le istituzioni, la Chiesa, quasi un mondo a parte. "È rassicurante raccontare un boss come un modello di male assoluto perché la gente normale possa dire: io non sono così - sottolineano gli sceneggiatori Stefano Bises e Leonardo Fasli. "In Gomorra invece l’amore, l’amicizia, la lealtà, sono destinati a soccombere di fronte al potere. Anche se tutto questo lascerà delle ferite". Una fame di potere che spinge i protagonisti in un abisso senza ritorno, come accade a Ciro nelle scene finali del primo episodio. "Nel raccontare Gomorra - spiega Saviano - non possiamo prescindere dalla realtà. Ma ne prendiamo spunto per far comprendere al pubblico di tutto il mondo quali sono i meccanismi del potere malavitoso emancipandoci dalla retorica e da ogni giudizio morale. Gomorra non denuncia ma descrive". Rispetto alle serie crime made in Usa, spiega anche la dinamica degli eventi: "Le fiction americane non spiegano come si crea una piazza di spaccio, come si controllano le elezioni, come si pianifica una esecuzione". Uscita di scena Donna Imma, entrano nel cast due nuovi importanti personaggi femminili: Scianel, donna di poche parole e senza tanti scrupoli - interpretata da Cristina Donadio - attrice teatrale, e la giovane Patrizia (Cristiana Dell’Anna) cresciuta (troppo) in fretta. "Non portano uno sguardo femminile della narrazione - spiega Francesca Comencini, che insieme a Claudio Cupellini, Claudio Giovannesi e Sergio Sollima si dividono la regia dei dodici nuovi episodi - anche perché il meccanismo, il sistema che raccontiamo ricopre e condiziona tutto e tutti". Però esistono: "Certo, magari le troviamo nelle pagine delle cronache locali - aggiunge Saviano - donne che hanno preso il posto dei mariti finiti in carcere". Donne che si riuniscono per consigliare ai figli di fare rapine piuttosto che omicidi, perché per i primi si prendono "solo" quattro anni invece che "dieci o molti di più". "Donne che urlano - chiosa la Comencini - che cercano di dimostrare un loro senso di appartenenza, una fedeltà al progetto criminale". Profughi, paure e opportunità di Alessandro Orsini Il Messaggero, 10 maggio 2016 Nella storia millenaria dell’uomo non è mai esistita una società così libera, ricca e pacifica come la nostra. Agli occhi dei migranti, la "grande bellezza" non sono gli italiani, ma le libertà liberali e lo stato sociale che "tosa" il capitalismo come una "pecora" per pagare gli ospedali, le pensioni, gli asili nido e le mense ai poveri. Detto più semplicemente, i migranti non vengono in Italia perché sono attratti dagli italiani, ma perché sono attratti dal nostro modello sociale che, evidentemente, ritengono superiore al loro, da cui scappano. Le città liberali, accogliendo milioni di uomini di culture e religioni diverse, si assumono una sfida, di cui nessuno può conoscere l’esito. Se la sfida sarà vinta, le nostre società diventeranno ancora più ricche, libere e pacifiche. Se sarà persa, la città liberale, come noi la conosciamo, cesserà di esistere. In questo viaggio verso l’ignoto, possiamo scegliere tra quattro modelli diversi di convivenza. Il primo modello si basa sul principio dell’assimilazione, che chiede ai migranti di diventare come noi. Sadiq Kahn, il nuovo sindaco di Londra, è un esempio di assimilazione riuscita. Musulmano e figlio di genitori pakistani, crebbe in una famiglia povera, ma è poi diventato un londinese integrato. Anche Barak Obama, figlio di un kenyota, è un caso di assimilazione riuscita. Il fatto che a Parigi esistano le banlieue non consente di affermare che la migrazione di tipo assimilativo sia stata un fallimento. Accanto al caso del jihadista Michael Adebolajo che, il 22 maggio 2013, uccise il soldato Lee Rigby a Londra, occorre tener conto di migliaia di immigrati assimilati che vivono felici. Il problema è che, quando l’assimilazione non funziona, può produrre reazioni di rigetto, come l’adesione all’ideologia jihadista. Il secondo modello si basa sul principio dell’isolamento culturale, secondo cui gli immigrati dovrebbero essere lasciati liberi di vivere all’interno di comunità chiuse, conservando i loro codici culturali, pur partecipando alla vita economica della società che li ospita. Questo principio ha il pregio di accontentare i fondamentalisti islamici, riducendo le loro paure di essere assimilati. Il problema è che, portato alle estreme conseguenze, può riempire la cronaca nera. Quando Mohamméd Saleem, 1’11 agosto 2006, uccise la figlia Hina, rea di vivere come le ragazze occidentali, rivendicò il diritto di applicare, nella sua casa di Sarezzo, il codice d’onore della tribù da cui proveniva. In questo caso, anche se diventano cittadini, gli immigrati non sono membri. Sono nel nostro mondo, senza essere del nostro mondo. Il terzo modello si basa sul principio della fusione tra culture diverse. Gli immigrati e i nativi, anche attraverso i matrimoni misti, danno vita a una società nuova. Le culture si incontrano e si fondono, ma, affinché possa realizzarsi un simile processo di arricchimento reciproco, nessuna delle culture in gioco deve essere caratterizzata da quella "ossessione per la purezza" che induce a vedere nell’"altro" un essere corrotto e corruttore. Detto più chiaramente, il terzo modello di convivenza non può verificarsi se esiste la minima traccia di fanatismo ideologico. La pretesa di regolare la vita pubblica in base al principio: "E così perché così dicono le sacre scritture", sbarra la strada in partenza. Inoltre, il modello della fusione richiede una cultura politica che incoraggi ad avanzare verso il prossimo a guardia bassa e, pertanto, richiede un clima psicologico libero dal terrore. Per avanzare a braccia aperte, bisogna essere certi di non essere colpiti. La paura estrema provoca chiusure estreme. Il quarto modello di convivenza si basa sul principio della colonizzazione. La società ospite, avendo smarrito la consapevolezza del proprio valore, e immaginandosi come un mondo ormai decadente, rinuncia a svolgere la funzione di guida e si lascia trascinare dalla corrente, come una barca senza remi. I migranti che, dovendo affrontare sfide molto difficili, sono sempre uomini dotati di una forza straordinaria, diventano i coloni e, generazione dopo generazione, pongono le basi di una nuova società. Nessuno può dire quale modello prevarrà perché la scelta non è mai di una parte sola. Sappiamo però che la sfida è aperta e possiamo augurarci che l’Italia rimanga, ancora a lungo, uno dei Paesi più ambiti dai migranti di tutto il mondo. Per un popolo, il tempo dell’emigrazione è sempre più doloroso del tempo dell’immigrazione. Egitto: caso Regeni, i servizi egiziani tentano un nuovo insabbiamento di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 maggio 2016 Investigatori italiani tornano con nuove testimonianze. Il sindacato della stampa rischia di spaccarsi: il quotidiano governativo al-Ahram organizza una contro-assemblea a cui partecipano membri della segreteria. Il fronte dei giornalisti ribelli mostra le prime crepe: domenica è stata giornata di scontri e incontri che hanno in parte diviso il sindacato della stampa egiziano. Si è cominciato in parlamento dove si è discusso per tre ore della questione dei media in rivolta: i deputati hanno affidato alla commissione per la stampa il compito di trovare una via d’uscita. Il presidente del parlamento Abdel-Al ha suggerito alla commissione - che pochi giorni fa faceva appello al boicottaggio dei quotidiani - di negoziare una tregua con i rappresentanti delle istituzioni coinvolte. Dietro la proposta sta però un parlamento schierato con il ministro degli Interni Ghaffar: "Il sindacato esagera quando usa le parole ‘assaltò o ‘violazione dalla sacralità’ della sede per descrivere l’accaduto - ha detto Abdel-Al - Chi è entrato nell’edificio applicava la legge". Fuori dal parlamento, altre crepe: gli attacchi a Ghaffar e la richiesta di scuse ufficiali non piacciono a tutti. Così mentre il segretario Qalash annunciava il rinvio dell’assemblea prevista per oggi al prossimo martedì, parte della segreteria presenziava alla contro-assemblea organizzata dal direttore del giornale governativo al-Ahram, Mohamed Abdel-Hady. Ribattezzato "Correggere il percorso", il meeting (a cui hanno preso parte decine di giornalisti) si è incentrato sui modi per ammorbidire la posizione del sindacato e risolvere il conflitto con il governo. L’assemblea ha affidato a Makram Mohammed Makram, ex segretario del sindacato durante l’era Mubarak e suo sostenitore, il compito di redigere una lista di raccomandazioni, tra cui l’eventuale sostituzione dei leader sindacali: "Il fronte ‘Correggere il percorsò - si legge nel comunicato finale - chiede ai giornalisti di sostenere la richiesta di un’assemblea generale d’emergenza per tenere nuove elezioni nel sindacato". Per molti dei giornalisti che da 10 giorni manifestano sui quotidiani e per le strade l’iniziativa di al-Ahram altro non è che un modo subdolo per spaccare il fronte sindacale. E i primi effetti sono visibili: Qalash ha prospettato la possibilità di togliere la fiducia ai 5 membri della segreteria che hanno partecipato alla contro-assemblea. Una possibilità paventata dagli stessi 5 membri che stanno pensando alle dimissioni: "Sono totalmente contrario al fatto che il sindacato sia stato dirottato da persone che agiscono contro gli interessi della professione", il commento del membro Hatem Zakaria. Rischia così di collassare un movimento che ha riacceso le aspirazioni democratiche del popolo egiziano, schiacciato dalle politiche repressive del presidente al-Sisi. Mentre resta in carcere Ahmed Abdallah, consigliere della famiglia Regeni, alle decine di attivisti arrestati in queste settimane si aggiunge Izz al-Din Khaled: artista 19enne del gruppo satirico Atfal al-Shawarei, è stato preso dalla polizia all’alba di domenica con la solita accusa di incitamento alle proteste. Il gruppo è nel mirino del governo perché critico del regime e molto seguito: i video satirici pubblicati su YouTube sono stati visti da centinaia di migliaia di persone. Regeni, nuovi insabbiamenti - Sono rientrati ieri dal Cairo gli investigatori italiani dopo l’incontro di domenica con la controparte egiziana. Secondo fonti egiziane la Procura di Roma ha reiterato la stessa richiesta: tutti i tabulati telefonici del 25 gennaio e del 3 febbraio nelle zone di scomparsa di Giulio e del suo ritrovamento e i video delle telecamere di sorveglianza. Ma, di nuovo, non li ha ottenuti. Gli egiziani avrebbero invece consegnato verbali di testimonianza che dovranno essere tradotti dall’arabo. Fredda la Farnesina: "Aspetto una valutazione della Procura - ha detto il ministro Gentiloni - Il fatto che siano ripresi dei contatti è un fatto positivo, ma bisogna vedere cosa c’è dentro" al faldone consegnato. Ma a preoccupare sono gli insabbiamenti operati dai servizi. L’ultimo giunge dal sito Vetogate, vicino all’intelligence del Ministero: il procuratore generale Sadeq avrebbe aperto un fascicolo sulla testimonianza dell’avvocato Mustafa Alawani secondo cui Giulio era in contatto con una banda di poliziotti corrotti guidata dal colonnello Mohammed Z., che poi lo avrebbe ucciso. Tramite l’organizzazione con cui aveva conti in sospeso, Alawani avrebbe incontrato Regeni un mese prima della scomparsa in un ristorante ad Heliopolis. L’avvocato - riporta Vetogate - aveva già conosciuto Giulio tempo prima come "funzionario del Ministero degli Esterni italiano". Regeni, in cambio di 150mila euro trasferiti in un conto Unicredit, avrebbe chiesto ad Alawani informazioni sull’eventuale implicazione di poteri stranieri nella deposizione del presidente Morsi; sulle identità dei vertici di esercito, polizia e magistratura responsabili degli attacchi ai Fratelli Musulmani e del massacro di Rabàa al-Adawiya; dei rapporti tra il palestinese Dahlan e i terroristi di Beit al-Muqaddes. Informazioni, dice l’avvocato, necessarie ad una causa che Giulio voleva presentare alle corti internazionali contro al-Sisi. Di nuovo spie e bande criminali che allontanano dalla verità. Egitto: "vi racconto come i servizi segreti possono aver ucciso Giulio Regeni" di Khaled Diab (traduzione di Rita Baldassarre) Corriere della Sera, 10 maggio 2016 Lo scrittore egiziano Diab: la sua morte dovrebbe temperare gli entusiasmi di alcuni politici e giornalisti italiani per Al Sisi; l’unica sorpresa è che sia toccato a uno straniero. Durante un discorso sconclusionato, e in alcuni momenti addirittura inquietante, in risposta alle accuse che il suo regime avesse "venduto" due isolotti strategici del Mar Rosso all’Arabia Saudita, il presidente egiziano Abdel-Fattah Al Sisi ha colto al balzo l’occasione per difendere l’operato del suo governo nel caso di Giulio Regeni. Le accuse - "Siamo stati noi egiziani a far circolare illazioni e menzogne, ci siamo creati questo problema con le nostre stesse mani, abbiamo orchestrato un caso imbarazzante per l’Egitto - ha detto Al Sisi, assumendo i toni del genitore arrabbiato che rimbrotta i figlioli disobbedienti -. Ve l’ho già detto, ci sono persone malvagie tra di noi che ci addossano la responsabilità di quanto accaduto". Malgrado le smentite e i dinieghi provenienti da molti settori del governo egiziano, e rimbalzati sui media controllati dal regime, io stesso, e come me moltissimi altri egiziani, in particolar modo gli attivisti e i giornalisti indipendenti, sono convinto dell’ipotesi che Regeni sia stato assassinato da uno dei molteplici tentacoli dei famigerati servizi segreti egiziani. Un’ipotesi che ai nostri occhi appare del tutto plausibile, e agghiacciante. Gli occidentali - Per me, in quanto egiziano, l’unica sorpresa è che questo sia toccato a uno straniero, proveniente da un Paese ricco e sviluppato. Secondo il copione ufficioso che reggeva il sistema legale parallelo in vigore in Egitto all’epoca coloniale, gli occidentali - proprio per evitare le immancabili rimostranze che i loro governi avrebbero sollevato - venivano solitamente lasciati in pace dai custodi delle insicurezze nazionali. A riprova del disprezzo che il regime egiziano mostra verso i suoi cittadini, persino la doppia cittadinanza assicura maggior protezione ai detentori rispetto alla semplice nazionalità egiziana. E questo, oltre al fatto che non so scrivere in arabo e vivo all’estero, è sicuramente uno dei motivi per cui non sono ancora finito nei guai per le mie critiche al governo. Sono convinto che l’interrogatorio di otto ore, al quale sono stato sottoposto in occasione della mia ultima visita in Egitto, sarebbe finito molto peggio se fossi stato un normale cittadino egiziano. Chi va in esilio, chi lotta - Capisco perfettamente gli attivisti e i giornalisti egiziani che hanno scelto l’esilio. Per quelli che sono rimasti a continuare la lotta, tra mille pericoli e mettendo a rischio la libertà o addirittura la vita, provo una sconfinata ammirazione. Dai familiari ai giornalisti, fino ai difensori dei diritti umani come Hossam Bahgat, che continua a denunciare le trame oscure del regime nonostante le continue vessazioni e il congelamento dei suoi beni, oppure come Aida Seif Eldawla e il suo team al Nadeem Centre, che continuano ad aiutare le vittime della tortura e della violenza, malgrado i ripetuti tentativi di chiudere il loro centro operativo. Gli uccisi - Sebbene la stragrande maggioranza delle vittime del regime siano egiziane, negli ultimi cinque anni di instabilità le derive xenofobe sono cresciute a dismisura a seguito della propaganda governativa che ha accusato i fautori della rivoluzione del 2011 di essere agenti di congiure straniere. Per quanto ne sappia, tuttavia, finora nessun occidentale era mai stato torturato e ucciso dai servizi di sicurezza. L’unico caso che ci si avvicina è quello di un residente francese al Cairo, Eric Lang, che fu pestato a morte - a quanto riferito - dai compagni di cella. Il cameraman di Sky News, Mick Deane, fu colpito a morte durante la carica della polizia per disperdere i manifestanti al sit-in di Rabàa el-Adaweya, organizzato a sostegno del presidente deposto Morsi. I diritti umani - La morte di Regeni ha scoperchiato il marciume che esiste all’interno del regime egiziano, e questo dovrebbe temperare gli entusiasmi di tanti politici e giornalisti italiani nei confronti di Al Sisi, descritto come "coraggioso" perché alla testa di una "rivoluzione" all’interno dell’Islam. Agli occhi dei laici e degli intellettuali egiziani, molti dei quali rinchiusi oggi dietro le sbarre, l’idea che il nostro capo incoerente e inflessibile sia una sorta di riformatore illuminato potrebbe apparire come una crudele ironia. Al Sisi non è un rivoluzionario, ma un controrivoluzionario. I diritti umani devono restare la colonna portante nei rapporti dell’Europa con l’Egitto e il resto della regione. È venuto il momento che l’Italia e l’Unione Europea esigano concretamente, sia dall’Egitto che dagli altri Paesi del Mediterraneo, il rispetto di questi principi fondamentali. Mauritania: Cristian Provvisionato, lettera dall’inferno "io, prigioniero per un inganno" di Enrico Fovanna Il Giorno, 10 maggio 2016 L’italiano da 8 mesi "ostaggio" in Mauritania: "Mi hanno incastrato". "Da otto mesi sono detenuto in Mauritania per reati mai commessi, vittima di un inganno perpetrato... dalla Società per cui lavoravo, per liberare un altro italiano". Comincia così la lettera, diffusa ieri dalla famiglia, a firma di Cristian Provvisionato, 42 anni, ostaggio del governo islamico dallo scorso agosto, da quando ha perso 30 chili. Senza accuse o processo. Un caso che giorno dopo giorno si fa sempre più caldo per la Farnesina. L’accusa è precisa: "Il mio referente di questa società ad agosto mi propose di venire in Mauritania,... aveva preso accordi commerciali per rappresentare prodotti di cyber intelligence di una compagnia straniera. Mi disse che era tutto legale e che le persone della Società erano affidabili, dopo investigazioni svolte dal referente stesso. Ho una mail che lo prova. Si rivolse a me dicendomi che l’italiano presente in Mauritania doveva rientrare per motivi personali e che lui al momento non aveva altri dipendenti disponibili. Mi disse di non preoccuparmi. Benché non fosse il mio settore lavorativo, il mio compito sarebbe stato solo di supporto al tecnico indiano che sarebbe dovuto arrivare per una dimostrazione. Non mi era richiesta alcuna specifica conoscenza informatica. Anche questo è provato nella mail. La verità era un’altra,... nessuna presentazione, la vendita era già stata effettuata molto tempo prima senza che l’azienda straniera tenesse fede agli accordi presi, quindi con molta probabilità ha truffato sia il Governo mauritano che il mio referente, il quale... invece di rivolgersi alle autorità... usava il sottoscritto per togliere da una brutta fine il professore informatico presente in Mauritania". Insomma, Cristian ipotizza uno scambio di persona, una macchinazione ai suoi danni. "Non ha avuto scrupoli di sorta - continua -, vendendo la mia vita per liberare l’altro italiano, per poi abbandonarmi. Non una sola prova contro di me esiste. Mentre esistono molte prove dell’inganno subito". La lettera si chiude con le "condoglianze alla famiglia Regeni, vittima di una tragedia immane come la morte del figlio, sperando possa avere la giustizia che merita". Ora la parola passa a Roma, dove i ministri italiano e mauritano si incontreranno il 18 maggio. Ma prima Cristian comparirà con un interprete davanti a un giudice locale, per dire la sua verità. Stati Uniti: le ultime grazie di Obama, liberi altri 58 detenuti tra loro anche 18 ergastolani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2016 Obama ha graziato altri 58 detenuti condannati per reati federali - tra cui 18 condannati all’ergastolo - e gran parte di loro usciranno il due settembre, il resto nell’arco di due anni. Solo due mesi fa, l’amministrazione presidenziale, ha liberato 61 detenuti condannati per reati di droga. Un ulteriore passo significativo verso la riforma della giustizia penale che Obama spinge da tempo. Ma il suo mandato è agli sgoccioli, quindi dipenderà tutto dal suo successore. Speranza vana se vincerà Donald Trump visto che auspica forme punitive perfino nei confronti delle donne che abortiscono. Con questo ultimo atto, finora Obama ha graziato 306 detenuti rinchiusi nelle prigioni federali degli Stati Uniti d’America. La grazia è stato uno strumento per stemperare una giustizia durissima nei confronti di chi ha violato la legge federale sulle droghe. Ad oggi, i detenuti ristretti delle prigioni federali sono all’incirca 197.561, a loro vanno poi aggiunti altri 1 milione e 800 mila ristretti nelle carceri statali, locali e private. Obama si è da tempo dimostrato sensibile soprattutto nei confronti della detenzione legata alla droga. In un’intervista rilasciata tempo fa al cofondatore di Vice News, il presidente degli Usa, ha detto che le droghe sono sicuramente un problema ma tenere in prigione una persona per 20 anni è inutile e con ricadute economiche e sociali. "Credo che il tema della legalizzazione della marijuana debba venire dopo temi più importanti come i cambiamenti climatici, la situazione economica, il lavoro, la guerra e la pace nel mondo. Soprattutto per quanto riguarda i più giovani - ha spiegato Obama durante l’intervista - ma credo, tuttavia, che questo tema possa rientrare all’ultimo posto di questa lista di priorità". Il focus del presidente nordamericano si è poi concentrato sulle ricadute negative dell’attuale orientamento normativo americano per coloro che vengono arrestati e condannati per uso e possesso di cannabis: "Sono convinto che si debba separare l’aspetto relativo alla criminalizzazione dell’utilizzo della marijuana da quello relativo all’incoraggiamento del suo utilizzo. È fuor di dubbio che il nostro sistema giuridico sia attualmente concentrato sul diminuire il numero di reati passivi legati a questo tema, comportando nell’applicazione pratica gravi problemi soprattutto per specifiche comunità del paese, come quella di colore". Poi Obama ha proseguito spiegando l’ingiustizia delle condanne da parte dei Tribunali e ha accennato alla legalizzazione delle droghe: "L’orientamento giuridico attuale ha comportato che molte persone sono state espulse dal mercato del lavoro interno, proprio perché hanno la fedina penale sporca. Questa situazione sta generando sia un costo sociale elevato per le sproporzionate sentenze di condanna in carcere, sia per le conseguenze successive alla detenzione. Molti Stati hanno compreso che questo è un problema da risolvere. A livello nazionale potremmo fare qualche significativo passo in avanti sul piano della legalizzazione delle droghe, se un numero sufficiente di Stati si muovesse in questa direzione. Mettendo così il Congresso nella posizione di prevedere un nuovo dibattito sulla marijuana". Obama poi conclude l’intervista con un discorso simile a quello portato avanti dai Radicali italiani: "La cosa che mi dà fiducia, in questo momento, è vedere che il tema della depenalizzazione delle droghe leggere non è toccato unicamente dai democratici, ma recentemente anche da esponenti dell’ala più conservatrice del partito repubblicano. Questi ultimi hanno capito che non ha più senso mantenere tale status quo. Credo che ci sia una preoccupazione legittima e condivisa relativa agli effetti sulla nostra società, in particolar modo delle parti più deboli di essa, derivanti dall’utilizzo delle sostanze stupefacenti. In generale l’utilizzo delle droghe, legali e illegali, rappresenta un problema della nostra società. Ma incarcerare qualcuno per vent’anni per un reato di questo tipo non è probabilmente la migliore strategia da adottare. E questo è un problema che deve essere affrontato da tutta la nostra comunità". Depenalizzazione, condoni, riduzione delle pene, legalizzazione delle droghe leggere. Tutte tematiche che riguardano anche l’Italia. Belgio: sciopero degli addetti carcerari, mobilitati 180 militari tgcom24.it, 10 maggio 2016 Uno sciopero degli addetti carcerari in Belgio sta creando gravi disagi ai detenuti e il governo di Bruxelles, per sopperire alle necessità, ha mobilitato 180 militari, che andranno a dare una mano nelle prigioni di Lantin, Saint-Gilles e Forest. Lo si apprende dal sito di Le Soir, secondo cui a molti detenuti la protesta degli addetti nega diritti fondamentali, come i tre pasti caldi al giorno, le docce e le visite dei familiari.