Alexandru, detenuto romeno: una vita in salita tra disabilità e solitudine di Laura Badaracchi Redattore Sociale, 9 luglio 2016 Nelle parole e foto dell’inchiesta pubblicata sul numero di luglio di SuperAbile Inail il dramma di chi finisce in carcere con una disabilità raccontata da volontari e addetti ai lavori. La storia di Alexandru, solo al mondo: tra le sbarre ha trovato aiuto e solidarietà. I detenuti con disabilità nei penitenziari italiani sono 628, secondo una circolare del Dipartimento amministrazione penitenziaria che riporta i dati aggiornati allo scorso agosto. Quale assistenza dovrebbe esser loro garantita? E quale il ruolo dei caregiver? Storie, approfondimenti e voci di volontari e addetti ai lavori nell’inchiesta di luglio del mensile SuperAbile Inail, anche online al link. In copertina e nelle pagine dell’inchiesta, un racconto per parole e immagini (nel reportage di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto) di un detenuto disabile nel carcere circondariale di Regina Coeli, a Roma. Alexandru Jerbea è di poche parole. Ha superato l’esame del corso base di italiano, ma non padroneggia la lingua e preferisce esprimersi in romeno per raccontare la sua storia segnata dalla sofferenza. Nato 40 anni fa con un piede torto e il rispettivo braccio sinistro con disabilità ("non ricordo la diagnosi precisa"), viene abbandonato dai genitori naturali, ma la sorte sembra sorridergli: lo adotta una coppia di anziani, che però muore troppo presto e lo lascia di nuovo solo al mondo, circa un decennio fa. A causa della sua disabilità non riesce a trovare lavoro; per qualche tempo riceve un sussidio statale, poi nulla. "Sono venuto in Italia sette anni fa con alcuni amici, che poi mi hanno detto di arrangiarmi e lasciato al mio destino. Vivevo chiedendo l’elemosina", riassume velocemente, facendosi aiutare nella traduzione da Timoty, un altro detenuto di origine romena. Sì, perché nel dicembre del 2014 Alexandru è finito nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Non è possibile chiedergli per quale reato, fatto sta che la sua pena è in scadenza. "Mi trovo abbastanza bene, ho conosciuto degli amici con cui parlare e sfogarmi; alcuni compagni di cella mi danno una mano e anche la polizia penitenziaria". Un altro detenuto racconta che quando Alexandru andava a farsi la doccia, qualcuno gli portava uno sgabello per farlo sedere ed evitare che cadesse, visto il pavimento scivoloso. In cella gli hanno lasciato la branda al "piano terra", più accessibile. Lui si schermisce: "Sono autosufficiente, solo faccio le cose molto più lentamente degli altri". Magrissimo, lo sguardo perso nel vuoto, non ha molte prospettive per il futuro fuori dal penitenziario: "Spero nell’aiuto che mi hanno promesso alcuni amici e padre Vittorio Trani, il cappellano, che mi accoglierà per alcuni mesi in una delle strutture per gli ex detenuti. Poi si vedrà". Non riceve visite, qualche volta arriva il sacerdote ortodosso a dargli conforto: "La Bibbia è l’unico libro che mi interessa leggere", dice, e sogna di assaggiare di nuovo la ricotta di cui è goloso, una volta uscito di prigione, mentre in questi giorni guarda le partite degli Europei di calcio ("Non ho mai potuto giocare a pallone, ma sono appassionato e lo seguo in tv"). Stefania Tallei - volontaria della Comunità di Sant’Egidio, che segue questi detenuti in difficoltà durante e dopo la pena - gli ha spiegato dove può recuperare vestiario e biancheria, e si darà da fare per fargli riconoscere l’invalidità civile. Un percorso tutto in salita, e lui lo sa. Sorride timidamente solo quando si sente dire "grazie" per la disponibilità a raccontare la sua fatica di vivere. Anche gli agenti muoiono di carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 luglio 2016 L’ultimo caso è avvenuto nella Casa circondariale di Cremona. Si suicidano anche le guardie penitenziarie. Il degrado del nostro sistema carcerario non colpisce solo i detenuti. Sia i ristretti che gli operatori hanno un tasso di suicidi che è il doppio rispetto alla media nazionale di chi vive "fuori". Un malessere che diventa cronaca quando si fa tragedia. L’ultimo caso riguarda un poliziotto penitenziario di 47 anni in servizio alla Casa circondariale di Cremona. Faceva l’autista al Nucleo traduzioni e piantonamenti: si è tolto la vita poco prima di prestare servizio con l’arma di ordinanza. L’uomo, con più di 20 anni di servizio nella Polizia Penitenziaria, è stato trovato a terra mercoledì mattina verso le 7 nel garage di casa. "Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano", afferma il segretario del Sappe Donato Capece, che ricorda come "solo due settimane fa si era verificato il suicidio di un altro appartenente alla Polizia Penitenziaria, a Trieste. Tragedie che ogni volta che si ripetono determinano in tutti noi grande dolore e angoscia. E ogni volta la domanda che ci poniamo è sempre la stessa: si poteva fare qualcosa per impedire queste morti ingiuste? Si poteva intercettare il disagio che caratterizzava questi uomini e, quindi, intervenire per tempo?". Capece sottolinea che "allo stato non è possibile dire quali siano state le ragioni che hanno portato l’uomo a questo tragico gesto, e quindi non sappiamo se possano eventualmente esseri anche ragioni professionali. Certo è che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese mentre il fenomeno, colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette "professioni di aiuto", dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza". Per Capece, è necessaria "un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria". Il problema che porta al suicidio degli operatori penitenziari è dovuto da diversi fattori. Non è solo colpa del sovraffollamento carcerario che ancora non è stato risolto. Secondo un’analisi condotta dallo psicologo Marco Baudino per conto della rivista "Vittimologia", specializzata in criminologia e sicurezza, ci sono anche i fattori psicologici relazionali. L’Amministrazione Penitenziaria, considerata come organizzazione, può soffrire di alcune patologie strutturali e di funzionamento a livello psicologico, individuale, sociale e di gruppo. Esse sono principalmente la sindrome del burnout, i processi di istituzionalizzazione e la sindrome di prigionizzazione, a carico di detenuti ed operatori penitenziari, a causa della condivisione di spazi ristretti, nonché i processi di alienazione individuale derivati dalla routine mansionale. Il burnout è una sindrome comportamentale disfunzionale che si delinea quando un individuo inserito in un’organizzazione risponde a stimoli ambientali in maniera abnorme, creando disagio psicologico individuale ed organizzativo. Per burnout si intende un fenomeno caratterizzato da esaurimento fisico, emotivo, depersonalizzazione e bassa produttività, causato da un carico eccessivo di significato emotivo rilevante per la propria identità attribuito al lavoro. La prigione, per ovvie ragioni, è il luogo di lavoro "ideale" dove gli operatori vanno in "burnout". Poi c’è l’esaurimento emotivo. Lo stress è un processo fisiologico di adattamento all’ambiente, con effetti positivi o negativi, a seconda della direzione e dell’intensità della reazione. Esso può mettere in discussione due aspetti organizzativi: il raggiungimento degli obiettivi e la salute psico-fisica degli operatori. Nel caso della Polizia Penitenziaria, gli obiettivi prefissati sono quelli del mantenimento dell’ordine, di un regime di vita sostenibile all’interno del carcere. Ma sono tutti elementi messi in discussione per la carenza di psicologi, volontari, l’orario di lavoro non adeguato e tutto il resto delle criticità presenti nel sistema penitenziario. Le istituzioni totali come la prigione hanno dimostrato il loro fallimento e hanno totalizzato anche la vita di chi ci lavora. L’ossessione del controllo sui detenuti, le pressioni alle quali i guardiani sono sottoposti dalla società che intende punire e sorvegliare, il concetto di potere sul detenuto ed il sapere, avere informazioni costanti su di esso, espongono inevitabilmente la Polizia Penitenziaria, in quanto organizzazione, a modalità di funzionamento talvolta patologico. E alcuni di loro non ce la fanno più e si ammazzano. Consiglio di Stato: psicologi e criminologi penitenziari a "rotazione" di Alessandro Bruni (società italiana psicologia penitenziaria) Ristretti Orizzonti, 9 luglio 2016 Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che psicologi e criminologi penitenziari devono essere a "rotazione" e che l’interesse pubblico si persegue mediante il loro "ricambio"! Il Consiglio di Stato, nella sentenza depositata lo scorso 4 luglio, ha accolto il ricorso del Ministero della Giustizia e completamente ribaltato la sentenza del Tar Lazio dello scorso anno che aveva annullato una Circolare del Dap (del 2013) contestata da psicologi e criminologi penitenziari (i cosiddetti "esperti ex art. 80 O.P."). Il Consiglio di Stato stabilisce che il Ministero della Giustizia può e deve utilizzare a propria discrezione le circolari in assenza di altre indicazioni e conclude che psicologi e criminologi penitenziari devono essere a "rotazione" e che l’interesse pubblico si persegue mediante il loro "ricambio". Non è in discussione il diritto del Ministero ad emettere una circolare per regolamentare il lavoro degli "esperti", ma il contenuto della circolare che non ha tenuto conto di una esperienza maturata in più di 35 anni di contratti rinnovati anno per anno, che il lavoro dei cosiddetti esperti è diventato - proprio grazie ad altre circolari - di fatto strutturato e continuativo, che lo stesso Dap negli anni scorsi aveva chiesto la stabilizzazione di tale ruolo, che dispone nuove selezioni per "esperti" senza valutare l’esperienza, ecc. Ma l’aspetto veramente difficile da comprendere e da accettare sotto profilo umano, etico, professionale e scientifico, è come si possa concepire che nel delicato lavoro di osservazione e trattamento del detenuto lo psicologo/criminologo possa essere a rotazione al massimo ogni 4 anni (per fortuna tale "rotazione" non vale per tutti gli altri operatori penitenziari così come il loro "ricambio"). La questione, come abbiamo sempre evidenziato, non è legata alla difesa di una categoria (psicologi/criminologi), di un "lavoro" (poche ore al mese) o ad un contenzioso a cui si è dovuti ricorrere per "legittima difesa" e tutela della dignità professionale, ma se il contributo psicologico/criminologico nell’ambito della attività di "osservazione e trattamento" dei detenuti sia ancora utile e non solo formale ed avere il necessario carattere di continuità. Su tale aspetto speriamo che il Ministro, i Dirigenti del Dap, i Magistrati di Sorveglianza, i Garanti dei detenuti, gli Operatori penitenziari e quanti si occupano di esecuzione della pena, facciano sentire la loro voce per suggerire una soluzione adeguata che tuteli i detenuti ed anche gli psicologi/criminologi che hanno garantito la loro attività per decenni. Reato di tortura, arma spuntata contro l’omertà di Errico Novi Il Dubbio, 9 luglio 2016 Reato di tortura: la locuzione risuona nelle cronache da quando si è insediato l’attuale Parlamento. Martedì l’aula del Senato riprenderà l’esame della legge che introduce la nuova fattispecie. Ma un episodio riaffiorato nelle ultime ore alimenta nuove perplessità sull’efficacia del provvedimento, pure sollecitato dalla Corte di Strasburgo. L’episodio riguarda la punizione "inflitta" a uno dei poliziotti della Diaz, Massimo Nucera, uscito con una multa di appena 47 euro da una storiaccia di prove falsificate per coprire i colleghi della "macelleria messicana" del 2001. L’agente disse di aver ricevuto una coltellata da uno degli antagonisti che si trovavano nella Diaz: tutto inventato, compresi gli squarci sul giubbotto che Nucera si procurò maldestramente da solo. La finta aggressione servì per "giustificare la violenza", attuata dalle forze dell’ordine, con una fantomatica "resistenza armata" dei giovani accampati nella scuola. Il poliziotto non ha mai scontato la condanna penale definitiva per falso (3 anni e 4 mesi): il reato andò prescritto. Restava il disciplinare: che si è risolto con la surreale penalizzazione di un giorno di paga (al netto delle indennità), 47 euro appunto, decisa dall’allora capo della polizia Alessandro Pansa. L’episodio dimostra il grado di resistenza che i corpi dello Stato sanno opporre all’accertamento della verità. C’è da chiedersi se una legge come quella che introduce il reato di tortura non rischi di produrre un ulteriore arroccarsi dei tutori dell’ordine nella logica dell’omertà. "Il rischio c’è", dice Altero Matteoli, presidente della commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama, chiamato a votare il provvedimento. "Noi di Forza Italia saremmo favorevoli al testo: ora alcune forzature potrebbero convincerci a una posizione diversa, ma a prescindere dal dissenso del gruppo su alcuni emendamenti, io ho perplessità personali, compresa quella su una possibile ulteriore chiusura degli agenti". Tra i sindacati di polizia anche quelli orientati a sinistra sono in trincea. È il caso di Anfp e Siap, che hanno invocato e ottenuto un emendamento sull’uso della forza nell’esecuzione di provvedimenti legittimi, come l’arresto: se il destinatario della misura resiste, non potranno essere considerati tortura interventi più energici attuati per imporre la legge. A presentare la modifica è stato il fittiano Tito Di Maggio: il Pd si è subito detto favorevole ed è arrivato il sì anche dal relatore di maggioranza Enrico Buemi (Psi). Ciononostante il nervosismo del fronte securitario permane. Ieri si è fatto sentire l’inimitabile Gianni Tonelli, leader del Sap, il sindacato dei "duri" della polizia, secondo il quale "a Dallas gli agenti esagerano, ma noi siamo troppo garantisti". Il primato spetta però al governatore della Liguria Giovanni Toti, ormai più leghista che berlusconiano e pronto a dire che nei giorni del G8 "le vittime sono state i cittadini di Genova, presi in ostaggio da teppisti alieni ad ogni dibattito democratico". Secondo la rilettura che Toti dà del 2001, bisogna dunque dire "grazie alle forze dell’ordine per aver protetto i cittadini e i beni dei cittadini come in molte altre occasioni". Al presidente ligure gli schizzi di sangue sotto al soffitto della Diaz trasmettono un senso di "protezione". Discorsi come quelli di Toti o del capo del Sap fanno capire quanto sia forte la tendenza a giustificare gli eccessi delle forze dell’ordine. E alimentano perciò il sospetto che la famigerata (tra i poliziotti) legge sul reato di tortura possa addirittura accentuare la tendenza all’occultamento dei reati. Forse la sola soluzione sarebbe introdurre numeri identificativi su caschi e divise della polizia. "Ho avuto la tentazione di proporre un emendamento su questo", spiega il relatore Buemi, "ma se nella legge avessimo inserito anche i numeri identificativi non l’avremmo approvata mai". Il provvedimento forse taglierà il traguardo. Ma pare improbabile che possa scoraggiare condotte omertose come quella che ha salvato Nucera. Caso Cucchi, i medici alla sbarra nel nuovo processo. Sentenza tra 10 giorni Il Manifesto, 9 luglio 2016 Fra una decina di giorni ci sarà la sentenza nel nuovo processo d’appello ordinato dalla Cassazione per i cinque medici che hanno avuto in cura Stefano Cucchi, il geometra arrestato il 15 ottobre 2009 perché in possesso di sostanza stupefacente e morto una settimana dopo nell’ospedale Pertini di Roma. Ieri, ultime arringhe difensive davanti alla III Corte d’assise d’appello; il 18 luglio eventuali repliche del Pg e della parte civile, e la camera di consiglio che porterà alla sentenza. Il Pg ha chiesto di ribaltare la sentenza assolutoria di tutti gli imputati e condannare per omicidio colposo i sanitari. "Manca del tutto la prova o è comunque incerta riguardo il profilo della colpa - ha detto l’avvocato di uno degli imputati - Mai c’è stata l’insorgenza di una situazione di rischio per la vita e la salute del paziente. Il caso era difficile perché il paziente era difficile. Alla base della condanna c’è un giudizio approssimativo. Che tipo di colpa viene contestata ai medici? Essenzialmente una colpa per imperizia. Ma i medici non sono onnipotenti, la medicina non è una scienza esatta". Ilaria Cucchi, la sorella della vittima, si è sfogata invece così su Facebook: "Qui si dice che Stefano è morto nelle stesse condizioni fisiche che aveva al momento del ricovero, e non si fa ovviamente alcun riferimento al fatto che questo sia stato determinato da un violentissimo pestaggio, tra pochi giorni a Bari si dirà sicuramente che non vi è stato alcun violentissimo pestaggio, che non vi è stata alcuna frattura della colonna vertebrale e che Stefano è morto semplicemente perché è dimagrito. Posso solo dire che è dura. È molto dura. Talvolta viene veramente voglia di arrendersi". Expo, spunta il "giallo" dei certificati antimafia di Sara Monaci Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2016 Nell’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose in alcuni subappalti per gli allestimenti e lo smontaggio di Expo - che martedì ha portato all’arresto di 11 persone con l’accusa di riciclaggio, reati tributari e appropriazione indebita - rimane da chiarire il perché il consorzio Dominus riuscì a superare i controlli antimafia delle istituzioni locali e della prefettura, oltre che della Dia e dell’Anac. Un centinaio di aziende sono state infatti interdette durante l’Expo (e talvolta il braccio di ferro si è spostato al Tar o al Consiglio di Stato, che hanno riammesso nei cantieri società che invece la prefettura espelleva). Ma per la Dominus, i cui referenti Giuseppe Nastasi e Liborio Pace sono finiti in custodia cautelare in carcere, le cose sono andate diversamente. E qualche errore nella catena dei controlli preventivi probabilmente è stato fatto. La prefettura di Milano, che nelcorsodel2014-2015harilasciato i certificati antimafia per le aziende impegnate nel sito espositivo di Expo e nelle opere connesse, sottolinea di non aver mai esaminato la società Dominus. Ha però dato il certificato a due aziende ad essa consorziate, la Map e la Job Service. All’epoca, fanno sapere dalla prefettura, non c’erano motivi per avere dei sospetti. Quindi furono legittimate a lavorare per Expo. Del consorzio Dominus invece nessuna traccia, per il semplice motivo che non fu inserita nella lista di imprese che la prefettura doveva analizzare. In queste ore ci si sta interrogando nelle istituzioni se questo elenco doveva essere predisposto dalla Nolostand o dall’azionista di riferimento, Fiera Milano, che rappresentava per l’Expo il referente per alcuni affidamenti diretti. Fiera Milano inviò alla prefettura un elenco di 216 fornitori. Ricostruzione simile arriva anche dalla Direzione investigativa antimafia di Milano, che può chiedere approfondimenti su alcune aziende e dare pareri alla prefettura. Da questi uffici non sarebbe mai partito alcun nulla osta nei confronti della Dominus. E questo perché, come è stato riferito da fonti giudiziarie, la società non figurava nella piattaforma informatica delle imprese (la Si.Prex) operanti per l’evento universale. Possibile dunque che Fiera Milano abbia prima scritto la Dominus in un elenco ma poi non l’abbia correttamente inserita nella piattaforma informatica? Alcuni controlli antimafia sarebbero stati intanto eseguiti dalla Dia anche sulla Nolostand, la controllata della Fiera, ma le infiltrazioni mafiose sono state escluse. Sembra comunque che alcune informazioni su Nastasi e possibili sospetti di infiltrazioni mafiose vennero comunicate il 30 luglio 2015 dalla Gicex, il gruppo interforze creato per l’Expo. Altra questione. La Dominus ha realizzato alcuni allestimenti in subappalto per il Padiglione Francia. I francesi firmarono un protocollo di legalità con la cooperativa italiana Cmc che ha realizzato la struttura, ma l’ambasciata francese sottolinea che il documento non vale per i subappalti e che quindi probabilmente la responsabilità del controllo spettava alla Cmc prima e alla Nolostand dopo. Intanto ieri sono iniziati gli interrogatori di garanzia in carcere. L’avvocato di Nastasi, Leonardo Tammaro, "ha respinto fermamente qualsivoglia collegamento con cosche mafiose, perché ha insistito sul fatto che lui, con i suoi pregi e i suoi difetti, nel bene e nel male, è un imprenditore e non vuole essere collegato con contesti di criminalità organizzata". Nastasi è accusato di avere messo in piedi un sistema di società cartiere che ruotava attorno al consorzio Dominus. Con le fatture false per creare fondi neri avrebbe poi finanziato la cosca mafiosa di Pietraperzia. "Per quanto riguarda le sue attività - ha aggiunto il difensore - Nastasi si riserva di chiarire che tutti gli appalti con il gruppo Fiera sono stati ottenuti legittimamente". Ieri, davanti al Gip Cristina Mannocci, è stato sentito anche l’avvocato ed ex presidente della Camera penale di Caltanissetta Danilo Tipo, accusato di riciclaggio con l’aggravante di aver favorito la mafia perché avrebbe trasportato 300mila euro in contanti in macchina verso la Sicilia. Anche Tipo, difeso dal legale Giuseppe Vaciago, così come Pace e Nastasi, davanti al giudice ha sostenuto che "con la mafia non c’entro nulla". "La escort paghi Irpef e Iva". Il giudice tributario: "Pecunia non olet" di Aldo Fontanarosa La Repubblica, 9 luglio 2016 La Gdf ha rintracciato i movimenti bancari di una escort che guadagnava 3mila euro al mese. Ora la Commissione Tributaria di Savona impone il pagamento dell’imposta sul reddito, delle addizionali locali, dei contributi e pure dell’Iva. Sui suoi conti correnti, la Guardia di Finanza ha trovato utili e ricavi che la bella escort si era guardata bene dal dichiarare al fisco: 36 mila euro nel 2010, 40 mila 523 nel 2011, altri 39 mila 395 nel 2012. Per questo, i finanzieri sono andati a fondo. Hanno perquisito l’abitazione della donna scovando - come prova ulteriore - un’agendina con gli appuntamenti e i relativi incassi, tutti rigorosamente in nero. Almeno 100 euro al giorno, 3000 euro al mese (nei momenti peggiori). L’Agenzia delle Entrate allora ha intimato alla escort di pagare l’Irpef, le addizionali Irpef sia comunali sia regionali, i contributi previdenziali, infine l’Iva al 21 per cento sugli "incassi lordi". Cifre che sono state calcolate al netto della pubblicità che la donna ha comprato sui giornali spendendo anche 4300 euro l’anno. Adesso la Commissione Tributaria provinciale di Savona - che respinge il ricorso della professionista del sesso - aggiunge a tutte queste imposizioni altri 2000 euro per risarcire le spese di giudizio. La Commissione Tributaria considera "irrilevante" che la professione di "cortigiana" (così nel testo della decisione) non sia regolamentata dall’Italia. E non conta che sia anche "riprovevole" sul piano morale. A questo proposito, la Commissione cita l’imperatore Vespasiano che non esitò a varare una specie di Iva sulla pipì. In sostanza, Vespasiano impose ai proprietari di latrine di versare la centesima venalium sull’urina che essi vendevano ai conciatori di pelle (smaniosi di ricavarne l’ammoniaca). Al figlio Tito che gli rimproverava di risanare le casse pubbliche con un’imposta indegna, Vespasiano rispose che "pecunia non olet". Il denaro non puzza. Motto che la Commissione Tributaria di Savona adesso fa proprio. La prostituzione - che la legge italiana non classifica come reato - è "una prestazione di servizio verso corrispettivo". Dunque può rientrare nel radar del fisco alla luce del Dpr 633 del 1972, soprattutto quando ha un carattere di "abitualità". Non solo. Anche la sentenza C-268/99 della Corte di Giustizia europea classifica la escort come "lavoratrice autonoma" e senza vincolo di subordinazione a fronte di una retribuzione "pagata integralmente e direttamente dal cliente". E dunque è legittimo che l’Agenzia delle Entrate reclami - oltre al versamento dell’Irpef - quello dell’Iva. La sentenza - di cui ha scritto il sito cassazione.net - spiega anche che i soldi trovati sui conti correnti bancari e postali, e non dichiarati, costituiscono indizio sufficiente della sospetta evasione. A quel punto, l’onere della prova si capovolge. Spetta al contribuente dimostrare che i "movimenti bancari non sono riferibili a operazioni imponibili", che quei guadagni non sono "fiscalmente rilevanti". Tutto legittimo, dunque. La legge italiana e le sentenze europee incastrano la professionista. Ma certo impressiona che la escort - solo sul reddito netto da lavoro autonomo del 2010, pari a 31 mila 700 euro - debba ora versarne oltre 24 mila tra Irpef, Iva e contributi previdenziali. L’impunità (dei giudici) è l’origine del maldigiustizia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 9 luglio 2016 Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo "Il Fatto". E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la "chimica" (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due "elementi" così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell’indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il "Fatto" è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all’indipendenza che fonda quella autolimitazione dell’indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull’indipendenza dal potere la propria - volontaria - rinuncia all’autonomia, e cioè all’indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il "Fatto". E si auto-colloca in una posizione di subalternità all’ideale - quasi religioso - del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l’hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l’Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell’aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). "Il Fatto" però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l’accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c’è assoluzione. Per capirci, c’è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all’imputato di rinunciare alla prescrizione e così’ si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi - ovviamente - si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c’era e dunque era doveroso svolgere l’inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa "Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi". In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell’indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell’obbligatorietà dell’azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent’anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l’unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano idiritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il "Corriere della Sera" parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la "Stampa" ha calcolato in 7000 all’anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall’Anm? Al lavoro ti dichiari ex detenuto? Il licenziamento è assicurato di Tamara Zito bcrmagazine.it, 9 luglio 2016 Questa piccola storia parte qualche anno fa nella Casa circondariale di Pavia (Torre del Gallo) e può essere utile a tanti, non solo al suo protagonista. Nel gruppo di lettura ad Alta Voce, di Vivere con Lentezza, MC stava molto discosto e silenzioso, ma piano piano, acquisendo fiducia, è arrivato a recensire qualche libro per Numero Zero, il mensile del carcere. MC ha oggi 26 anni, una condanna (scontata) a poco più di 4 anni per spaccio, vive in una piccola città di provincia non distante da Milano, e una volta uscito di galera, si è messo alla ricerca di un lavoro. Il primo è stato di trainer in una palestra che purtroppo non navigava in buone acque. Così ha trovato posto in una grande multinazionale e dopo un anno di rinnovi trimestrali, è giunta la proposta di assunzione a tempo indeterminato. Alla presentazione del casellario giudiziario, quella che un tempo veniva chiamata fedina penale, l’azienda ha però deciso di interrompere qualsiasi rapporto. Le politiche aziendali in situazioni del genere risultano svariate così come le strategie consigliate per trovare lavoro in modo onesto. Quasi tutti i nostri ex sono però concordi sul fatto che sia meglio non segnalare i trascorsi dietro le sbarre. La motivazione è sempre la stessa: si rischia di venire esclusi a priori. La maggior parte delle aziende, grandi e piccole, pubbliche e private, evita queste assunzioni. Non tutte ovviamente, restano parenti, amici e qualche Onlus. In altri casi funzionano accordi locali, dove si distinguono alcuni comuni, tra cui Milano che nel 2008 ha stipulato un accordo con Amsa per favorire l’assunzione di ex detenuti dalle carceri di Bollate, San Vittore, Opera. Anche Cisco, uno dei giganti dell’Information Technology ha recentemente assunto ex detenuti, sviluppando un vero e proprio programma. Esperte in materia, come Rosanna Santonocito de Il Sole 24 ore e Barbara Demi di Etline e associati consigliano di segnalare "con le dovute maniere" almeno in fase di colloquio la propria permanenza al "fresco", puntando su di un rapporto di reciproca fiducia. In certe situazioni, però, se non si ha la fortuna di incontrare persone particolarmente attente e sensibili, si rischia la fine prematura del tentativo. È materia complessa, che andrebbe vagliata caso per caso, magari con l’aiuto del Giudice di sorveglianza. Ci sono associazioni che si impegnano a fondo su questo terreno. Tornando a MC, sono convinto che seppur l’azienda lo abbia allontanato in base al proprio codice, si tratta di un comportamento non etico che, oltretutto, non favorisce l’integrazione nella società di un giovane ex detenuto che ha saldato il proprio debito con la giustizia. Genova: il Governo e il torturato, è la prima volta insieme La Repubblica, 9 luglio 2016 Non è mai capitato in 15 anni dai fatti che un rappresentante del Governo sedesse allo stesso tavolo per un confronto con una delle vittime della brutalità di Stato del G8 del 2001. Succederà, finalmente, venerdì prossimo. Teatro dell’evento sarà il convegno "Perché non puniamo la tortura?" che si terrà il 15 luglio a palazzo Ducale nella sala del Minor Consiglio dalle 9,30 alle 19. In una giornata ricca di interventi, spunti e presenze, spiccano due nomi. Lorenzo Guadagnucci, giornalista e scrittore che la notte della Diaz dormiva all’interno della scuola. Venne pestato a sangue arrestato e poi finì a Bolzaneto per altre 36 ore di violenze e umiliazioni. In una parola (quella che manca dal nostro codice): tortura. Alla tavola rotonda del pomeriggio alla quale parteciperà, siederà anche Gennaro Migliore, deputato Pd e sottosegretario alla Giustizia. Dopo anni di imbarazzato silenzio o di parole scontate potrebbe essere l’occasione per un dialogo improntante, tenuto anche conto che Migliore è stato primo firmatario di un’interrogazione (rimasta senza risposta) con la quale nel 2013 chiedeva al ministro Alfano quali provvedimenti disciplinari fossero stati presi nei confronti dei poliziotti condannati per la Diaz e Bolzaneto. Più volte negli ultimi anni la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato lo Stato italiano per aver violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti e per non aver adeguatamente accertato e sanzionato i responsabili: durante il G8 di Genova 2001 si è arrivati a praticare la tortura e l’ordinamento italiano è strutturalmente inidoneo per reprimere e quindi prevenire il ripetersi di tali fatti. La lacuna maggiore è rappresentata dalla mancata codificazione del reato di tortura e della sua imprescrittibilità. Il Parlamento discute, ma non è ancora riuscito a trovare un accordo su una buona legge. Il convegno nasce su queste basi ed è organizzato dalla rivista "Critica del Diritto" in collaborazione con la rivista Altreconomia e l’associazione Antigone, con il Patrocinio del Comune di Genova. Dopo i saluti del sindaco Marco Doria la giornata del 15 luglio si svilupperà con interventi in mattinata e una tavola rotonda al pomeriggio. Tra i partecipanti: Stefano Anastasia (Università di Perugia, Garante dei detenuti della Regione Umbria. Presidente Onorario Associazione Antigone), Antonio Bevere (Fondatore e Direttore della rivista "Critica del Diritto". Già consigliere della Suprema Corte di Cassazione), Mimmo Franzinelli (Storico e scrittore), Marina Lalatta Costerbosa (Università di Bologna), Adriano Zamperini (Università di Padova), Maria Luisa Menegatto (Università di Verona), Enrico Zucca (Magistrato. Sostituto procuratore generale a Genova, già pm nel processo "Diaz"), Emanuele Tambuscio (Avvocato del foro di Genova. Difensore nei processi Diaz e Bolzaneto e nel processo dei "25" per i fatti del G8 a Genova), il senatore Sergio Lo Giudice, Pier Vittorio Buffa (giornalista de L’Espresso e scrittore, arrestato nel 1982 per non aver rivelato le fonti del suo articolo sui brigatisti torturati dalla polizia), Elena Santiemma (Amnesty International), Alessandro Gamberini (avvocato del foro di Bologna), Michele Passione (foro di Firenze, componente del Tavolo 13 degli Stati Generali del l’esecuzione penale), Elena Fiorini, Assessore per la Legalità e i Diritti del Comune di Genova. Aosta: un nuovo direttore per la casa circondariale di Brissogne aostaoggi.it, 9 luglio 2016 La Casa circondariale di Brissogne ha un nuovo direttore. È Annalaura De Fusco, 50 anni, già direttore aggiunto del carcere di Poggioreale (Napoli). De Fusco ha preso servizio lunedì scorso, 4 luglio, e ha sostituito Antonella Giordano, assegnata al carcere di Biella. Secondo i dati più aggiornati del Ministero della Giustizia, nel carcere valdostano sono detenuti 176 uomini, a fronte di una capienza regolamentare di 181, 106 dei quali stranieri. I condannati in via definitiva sono 152 e quelli in via non definitiva 19; 5 sono detenuti in attesa di giudizio. Alessandria: workshop al carcere di San Michele, i detenuti tutors di stampa e incisione alessandrianews.it, 9 luglio 2016 Da alcuni mesi il corso di xilografia offre la possibilità di seguire workshop di incisione e stampa aperti agli esterni. Una situazione in cui i detenuti, che da mesi frequentano il laboratorio, diventano così tutor di chi desidera sperimentare la tecnica artistica. Si terrà giovedì 28 nella scuola della Casa di reclusione di San Michele il terzo workshop artistico, ultimo prima della pausa estiva. Grazie all’impegno costante dell’associazione ICS Onlus con la collaborazione dell’ex direttrice Elena Lombardi Vallauri e del direttore attuale Domenico Arena e con la partecipazione dell’Ufficio educatori e con il prezioso lavoro degli Agenti di Polizia Penitenziaria, all’interno dello spazio delle arti attivo da circa sei anni si tengono numerosi corsi di pittura, di arte contemporanea, di fotografia e di incisione xilografica. I corsi sono frequentati dai un cospicuo numero di detenuti. Da alcuni mesi il corso di xilografia offre la possibilità di seguire workshop di incisione e stampa aperti agli esterni. Una situazione in cui i detenuti, che da mesi frequentano il laboratorio, diventano così tutor di chi desidera sperimentare la tecnica artistica; un ribaltamento dei ruoli che permette uno sviluppo delle responsabilità, una coscienza delle proprie competenze e un miglioramento della stima di sé, indispensabili per la riqualificazione dell’individuo che vive in situazioni di restrizione. Al tempo stesso, la possibilità di accedere all’ambiente carcerario, permette agli esterni di conoscere un mondo e soprattutto persone che spesso vengono segregate in categorie troppo facilmente etichettabili e giudicabili. In passato, questo tipo di iniziative hanno avuto un esito positivo, tanto che spesso i partecipanti sono tornati per vivere insieme ai detenuti questi momenti di crescita artistica e personale. Questo workshop propone però una novità rispetto ai precedenti, in quanto unisce la tecnica della xilografia con la stampa su immagini fotografiche. Un percorso condivisibile da chi desidera sperimentare due linguaggi molto diversi che possono integrarsi mescolando segni e cromie con interessanti risultati. Il corso, coordinato dall’illustratrice e xilografa Valentina Biletta e dal fotografo Mattia Marinollli, dura dalle 9 alle 15,30 con una pausa pranzo di un’ora circa, tutto il materiale è fornito dall’organizzazione. Le iscrizioni all’workshop terminano domenica 17 luglio. Per informazioni e iscrizioni si può scrivere a valecolori@alice.it o info@mattia marinolli.com. Taranto: accordo con il Comune di Manduria, i detenuti al lavoro per ripulire la città di Katja Zaccheo lavocedimanduria.it, 9 luglio 2016 È stata firmata una convenzione, tra la casa circondariale "Carmelo Maglie" di Taranto e il Comune di Manduria, per l’inserimento lavorativo dei detenuti. Un programma sperimentale, fortemente voluto dall’assessore ai Servizi sociali, Lorenzo Bullo, che offrirà l’opportunità ai reclusi, per la durata di un anno con possibilità di essere rinnovata, di svolgere attività volontaria gratuita a favore della collettività, nella piena convinzione che il lavoro e l’impegno accrescono le responsabilità dell’individuo, diventando ingrediente fondamentale per il recupero sociale. In accordo con la direzione dell’Istituto i detenuti del carcere di Taranto con i requisiti di legge per effettuare lavoro esterno al carcere, svolgeranno una prestazione senza alcuna spesa per il Comune che si farà carico della copertura assicurativa per ogni detenuto impiegato nei lavori di pubblica utilità oltre all’acquisto di abbonamenti mensili per i mezzi di trasporto pubblico da Taranto a Manduria. Non rientrano in questo progetto di borse di lavoro, tirocini formativi, lavori socialmente utili quali forme di avviamento al lavoro. Un’iniziativa già collaudata con successo in molte altre città che potrebbe servire per le iniziative di pulizia delle spiagge, manutenzione e pulizia dei siti di interesse pubblico come il parco archeologico, le piazze e molti altri siti che rientrano nel territorio comunale. Avellino: convegno sui diritti dei detenuti, arriva il Sottosegretario Migliore irpinianews.it, 9 luglio 2016 Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Avellino ha organizzato, per il giorno Lunedì 11 Luglio 2016, alle ore 15:30, il convegno "Finalità rieducativa della pena: l’esecuzione penale e i diritti dei detenuti", che si terrà presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Avellino. L’incontro è dedicato alla delicata ed attuale tematica dei diritti dei detenuti, delle loro condizioni all’interno degli istituti carcerari e di tutte le problematiche connesse all’esecuzione della pena, con uno sguardo al reinserimento sociale dei detenuti. Interverranno, per i saluti, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati, avv. Fabio Benigni, il Presidente del Tribunale di Avellino, dott. Michele Rescigno, e il Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Avellino, dott. Vincenzo D’Onofrio. L’avv. Giuseppe Saccone, neo-Presidente della Camera Penale Irpina, curerà l’introduzione del convegno che vedrà, quali relatori, l’avv. Ennio Napolillo, Presidente dei Giovani Penalisti Irpini, l’avv. Gaetano Aufiero, penalista del Foro di Avellino, la dr.ssa Adriana Tocco, Garante Regionale dei Diritti dei detenuti, e la dr.ssa Maria Teresa Orlando, Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. Le conclusioni, invece, saranno affidate al Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Onorevole Gennaro Migliore. Il moderatore dell’evento sarà Berardino Zoina. Oristano: il riscatto dal carcere passa attraverso l’arte di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 9 luglio 2016 Continua la collaborazione tra la Casa circondariale e la Curia arcivescovile I quadri e i mosaici realizzati da sette detenuti saranno messi all’asta martedì. Detenuti che fanno beneficienza: ci vuol quasi un ossimoro per riuscire a spiegare il significato di "ComunichiAmo l’arTe", l’asta dei lavori realizzati nel carcere di Massama che si svolgerà al Museo Diocesano. Il valore delle opere che nella serata di martedì prossimo, saranno battute all’asta (dal commercialista Giorgio Mento), va ben oltre a quello artistico. È un valore sociale, proprio perché quei 34 fra dipinti e mosaici sono stati realizzati da sette detenuti della sezione di Alta sicurezza del carcere di Massama: solo immaginare che siano stati creati all’interno di una cella da chi la libertà, in attesa di poterla riguadagnare, la cerca (forse anche ritrovandola) con pennelli e colori. Opere che diverranno ancora più preziose dopo la vendita: l’intero ricavato dell’asta, infatti, andrà alla Onlus "Casa del sole" che si occupa di aiutare le persone in difficoltà economiche. L’evento, occasione di riflessioni profonde, è stato presentato ieri mattina nel corso di una conferenza stampa, alla presenza del sindaco, Guido Tendas, del coordinatore dell’area Educativa del carcere, Olga Melis e da Marinella Foddis, responsabile dell’agenzia "Eventor" che per prima, in occasione della manifestazione medioevale tenuta nell’ex carcere di piazza Manno, aveva esposto all’esterno i lavori dei detenuti. Martedì l’asta, che rappresenta anche il proseguimento del lavoro rieducativo che si svolge fra i detenuti del carcere oristanese, che con la cultura e l’arte hanno stretto ormai un sodalizio culminato con l’esposizione del dossale "Madonna con Bambino e Santi" all’interno del penitenziario e con la partecipazione e diverse campagne di scavi archeologici. La più importante nell’area del ritrovamento dei giganti di Mont’e Prama. E poi l’apertura di corsi di scuola superiore, con tre classi di Ragioneria e una di Liceo artistico. Che l’istruzione e la cultura siano uno strumento di libertà, del resto, nelle carceri, in particolare a Oristano, è un concetto consolidato da tempo. Negli anni scorsi detenuti hanno potuto conseguire il diploma di maturità (in questi giorni uno di loro è impegnato con gli esami di diploma Alberghiero) altri studiano all’università, e poi ci sono i corsi per la licenza media e di alfabetizzazione. C’è poi una ricerca ulteriore di comunicazione fra la Città e il carcere: non è un caso, infatti, che la mostra delle opere realizzate da dietro le sbarre, allestita al piano terra del Museo Diocesano sia aperta al pubblico e che asta e mostra siano state inserite dall’Ascom fra gli eventi di "Shopping sotto le stelle", assieme alle apertura notturne dei musei, i concerti e i negozi aperti fino a tardi. "Segnale non trascurabile, l’inserimento della nostra manifestazione nei programmi dell’Ascom - ha sottolineato l’educatrice Olga Melis - per il nostro lavoro è un grande riconoscimento". Del resto anche le istituzioni locali hanno da tempo avviato un percorso per non far percepire il carcere, benché su oltre 300 detenuti appena una cinquantina siano locali, come una realtà estranea. Non è un caso la recente nomina del Garante dei detenuti da parte del Comune. E in questo percorso di dialogo un ruolo di spicco lo ha avuto la Diocesi, portando il preziosissimo Dossale in mostra a Massama. "Il dono", lo definirono i detenuti. La lettura solo economia del terrorismo è sbagliata di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 9 luglio 2016 L’attentato in Bangladesh, con i suoi autori di estrazione agiata, ci ha aperto gli occhi su un errore di valutazione derivato dall’impostazione marxista: chi semina odio non lo fa in nome dei "dannati della terra", ma di una religione portata agli estremi. Dopo la strage di Dacca, abbiamo scoperto ancora una volta che i terroristi non sempre vengono dai ceti diseredati, non appartengono ai "dannati della terra". Lo abbiamo ri-scoperto nel senso che qualcosa, nella nostra cultura profonda, ci impedisce di prendere atto una volta per tutte del fatto che non è, o è solo in parte e neppure quella principale, il disagio sociale ad armare la mano del terrorismo jihadista. Nel caso del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del globo, i terroristi erano figli addirittura delle classi agiate; e ce ne siamo molto stupiti, quasi avessimo dimenticato che Salah Abdeslam, protagonista degli attentati parigini del novembre scorso, veniva pur sempre da una famiglia di ceto medio che abitava in un dignitosissimo palazzo borghese. Gli esempi ulteriori non mancherebbero, almeno da quando la strage dell’11 settembre fu guidata dall’ingegnere egiziano Mohamed Atta, agli ordini di Osama bin Laden, figlio di un miliardario. Ma è come se fossimo rimasti tutti discepoli di Marx e della sua idea che ideologie e religioni (dunque anche il fondamentalismo islamista) appartengono al mondo della "sovrastruttura", laddove invece le cause vere dei fenomeni sociali e della storia in generale andrebbero cercate altrove, a livello della "struttura", cioè dei rapporti sociali di produzione e, in sostanza, dell’economia. Un’idea particolarmente in sintonia del resto con i caratteri più profondi della cultura occidentale, che pone appunto l’economia al vertice di tutto, che da tempo ne ha fatto la dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione europea?). Per di più, la centralità dell’economia si è accompagnata soprattutto in Europa a un processo impetuoso di secolarizzazione che ha reso un luogo comune l’idea che la religione sia il regno dell’illusione e della mera apparenza, quando non della superstizione; qualcosa che i "lumi" della modernità presto cancelleranno definitivamente, sicché non è da cercare lì, nei riferimenti religiosi, alcuna vera motivazione dell’agire umano, neppure dell’agire di un terrorismo che proclama apertamente la guerra santa contro i "crociati" e risparmia chi si mostra in grado di recitare i versetti del Corano. C’è davvero qualcosa di singolare nel fatto che un’Europa che è stata dilaniata tra 500 e 600 dalle guerre di religione, e prima ancora - nella Francia meridionale del XIII secolo - è stata testimone di una crociata contro gli eretici (sterminati, a quel che dicono le cronache del tempo, al grido: "uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi"), c’è qualcosa - dicevo - di singolare nel fatto che ora quella stessa Europa non riesca a considerare seriamente la componente evidentemente religiosa del terrorismo islamico. Siamo così dimentichi di quel passato, che per timore d’essere tacciati di islamofobia ci sentiamo in dovere di dire e scrivere sempre una cosa ovvia, cioè che non tutti gli islamici sono terroristi. Come se dovessimo precisare che al principio del XIII secolo c’erano in Provenza i crociati che sterminavano gli eretici, ma c’era anche altrove San Francesco che faceva tutt’altre cose. Naturalmente la differenza tra il fondamentalismo cristiano (chiamiamolo così) della guerra agli eretici di allora e il fondamentalismo islamista di oggi risiede in gran parte nella differente, per molti aspetti mancata, evoluzione della cultura e della religione dell’Islam rispetto a ciò che è accaduto nel continente europeo nel corso di svariati secoli. Fatto sta che è attraverso il riferimento alla religione islamica (naturalmente una religione interpretata secondo le sue letture più estremiste e violente) che oggi i giovani jihadisti ritengono di dare una risposta al "risentimento dei musulmani di fronte all’arrogante e imperialistica civiltà occidentale", come ha scritto di recente Luciano Pellicani (L’Occidente e i suoi nemici, Rubbettino). Il fondamentalismo islamico si presenta così come l’ultima, e in un certo senso al momento unica, ideologia radicalmente anticapitalistica e antioccidentale. Stati Uniti: spari sui poliziotti, 5 morti a Dallas di Luca Celada Il Manifesto, 9 luglio 2016 Per gli investigatori il cecchino era Micah Xavier Johnson, ex militare afroamericano di 25 anni residente a Mesquite, un sobborgo della città. La polizia lo ha ucciso con un robot armato. Cinque poliziotti morti e sette feriti: è il bilancio dell’agguato che ha seminato il panico a Dallas nella notte di ieri, trasformando il centro della città texana in una campo di guerriglia urbana. L’attentato è avvenuto la sera di giovedì durante una manifestazione di protesta contro le uccisioni d Alton Sterling e Philando Castile, i due afroamericani giustiziati da agenti di polizia in Louisiana e Minnesota nelle precedenti 48 ore. Quella di Dallas era una delle decine di proteste organizzate in molte città del paese, Seattle, Denver, St. Paul, Chicago e New York fra le altre. Il corteo texano si è svolto pacificamente con la partecipazione di un migliaio di persone. Quando il corteo volgeva al termine, nei pressi di Dealey Plaza, d’improvviso sono risuonati spari. Dai video caricati in rete si contano una cinquantina, forse sessanta colpi di arma semiautomatica in rapida successione. La sparatoria ha provocato il panico fra la folla che si è dispersa in ogni direzione mentre il centro veniva invaso da volanti e agenti in assetto di guerra. La polizia ha parlato di cecchini appostati su tetti o postazioni elevate. In un video trasmesso dalla Fox si vede però anche un uomo armato che sorprende alle spalle e apparentemente uccide un poliziotto a bruciapelo. La guerriglia è proseguita per tutta la notte. Nella notte sono stati effettuati alcuni arresti: due individui visti gettare borse in un auto di grossa cilindrata e allontanarsi precipitosamente, fermata dopo in inseguimento. Un’altra persona, una donna, è stata arrestata separatamente anche se non è ancora chiaro il loro possibile ruolo nella dinamica dell’attacco. Di certo per ora il ruolo di un individuo, forse autore unico della strage: Micah Xavier Johnson, ex militare afroamericano di 25 anni residente a Mesquite, un sobborgo della città. È lui che si è asserragliato in un parcheggio tenendo testa per diverse ore all’assedio della polizia con cui a più riprese a scambiato fuoco mentre era in corso anche un negoziato per via telefonica. Ai negoziatori Johnson avrebbe detto che "la fine è vicina" che avrebbe "ucciso bianchi e poliziotti bianchi" per vendicare le uccisioni di neri da parte dell polizia. Prima dell’alba le forze speciali del Dallas hanno usato un robot anti esplosivi per trasportare un ordigno vicino a Johnson e farlo esplodere uccidendolo. Alla la notte di sangue è seguito un day after altrettanto confuso. Dallas non è stata una spontanea esplosione di rabbia al termine di una manifestazione come molti si sono inizialmente precipitati a dire, ma di un operazione ben pianificata da un individuo. Rimane il dato di una settimana di sangue che ha condensato nelle uccisioni di Sterling e Castile e nella strage di Dallas tutta la forza bruta dello "scompenso razziale" di cui ha parlato Obama, costretto dal summit di Varsavia ad occuparsi di una guerra civile tutta americana. Perché se è chiaro che le azioni di Dallas sono state quelle di un individuo forse squilibrato, esistono in un contesto storico e politico inequivocabile. Rimane il dato del "law enforcement" dell’ordine imposto sui cittadini - e di più sui cittadini di colore - da una polizia armata nei fatti e nella mente. Certo non poteva esserci località più simbolica che Dealey Plaza a Dallas, a poche centinaia di metri dall’assassinio di John F. Kennedy, il fatto che aveva dato alla città il nomignolo di City of Hate, per fotografare un America in preda alla violenza armata. Il cuore "mitologico" del meridiano di sangue in cui si dibatte il paese. La solidarietà compatta e i discorsi di circostanza del giorno dopo sono destinati a degenerare in un intensificazione dello scontro fra America bianca e nera, una ulteriore esplicitazione di un conflitto razziale mai cessato neanche nei mandati del presidente nero. Ieri il ministro di giustizia, Loretta Lynch, anche lei nera (come lo è David Brown il capo della polizia di Dallas), ha detto: "la risposta a questa settimana di insondabile tragedia non deve essere ulteriore violenza". Più lucida l’analisi di Shray Santora, madre nera di tre bambini ed ex marine che aveva marciato nel corteo di Dallas. "L’agguato è stato scioccante ma la gente è in preda alla rabbia e all’impotenza atavica; non sa come reagire. Black Lives Matter tenta di recuperare pacificamente lo spazio pubblico che ci è stato sottratto Ma ci sono persone che sono piene di rabbia che non sanno che esprimere in modo aberrante". La amara verità è che, come scrive Ta Nehishi Coats nel suo Tra Me e il Mondo, il corpo di un nero è sempre in pericolo e che "la polizia esprime l’America in tutta la sua volontà e paura". È una coscienza atavica contenuta nel discorso che ogni genitore nero deve fare ai propri figli per spiegare loro che il colore della pelle li rende cittadini di un mondo a parte dove non si applicano le regole dei bianchi. Il discorso che anche Obama ha ammesso di aver fatto alle figlie dopo l’assassinio (impunito) di Trayvon Martin. La solidarietà di circostanza si sta dunque già stemperando in una retorica di scontro, a partire dalle piccole cose, la trasformazione del nome di Micah Xavier Johnson in Micah "X" Johnson su molta stampa per assicurarsi di associarlo proditoriamente a Malcolm e alla Nation of Islam. I titoli già apparsi sui siti conservatori di "Blue Lives Matter" per valutare le vite dei poliziotti contro quelle delle vittime nere in un macabro listino di valori. O le accuse lanciate ad Obama come quella dell’ex parlamentare Joe Walsh: "Attenti Obama Black e Lives Matter, la vera America è sulle vostre tracce". A pochi giorni dalla convention repubblicana si preannuncia un estate rovente, visto che a Cleveland verrà acclamato un leader le cui esternazioni razziste hanno quasi raddoppiato il traffic internet verso siti suprematisti. Stati Uniti: quella pace sociale mai arrivata di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 9 luglio 2016 L’America teme che l’estate delle Presidenziali divenga una stagione torrida di disordine e violenza, a cominciare dalla convention repubblicana di Cleveland, tra nove giorni. "Guerra civile" titola il New York Post. E adesso l’America teme che l’estate delle Presidenziali divenga una stagione torrida di disordine e violenza, a cominciare dalla convention repubblicana di Cleveland, tra nove giorni. Ma il fuochista capo di questa campagna elettorale, Donald Trump, percepisce la gravità del momento e sceglie una linea assai meno incendiaria, esprimendo cordoglio e chiedendo il ritorno alla legalità e a condizioni di sicurezza nelle strade. Parole che, in questo caso, non sono troppo diverse da quelle di Hillary Clinton e dello stesso Obama che, dopo aver criticato gli eccessi della polizia nei casi che hanno sconvolto gli Stati Uniti nei giorni scorsi, condanna con estrema durezza ogni vendetta e rende omaggio al sacrificio delle forze dell’ordine. Ma le parole di responsabilità dei politici rischiano di avere un peso relativo in questo clima arroventato e davanti all’apparente fallimento dei tentativi di spingere le polizie che adottano i comportamenti più brutali e discriminatori a cambiare rotta. Il rischio è che qualcuno trasformi il cecchino di Dallas nell’angelo vendicatore che incarna una selvaggia visione della giustizia popolare. La sensazione è che proprio nell’ultima estate della presidenza Obama, il leader che doveva essere l’uomo della riconciliazione, si stiano pericolosamente moltiplicando le crepe nella diga che fin qui ha contenuto le manifestazioni di odio di una società violenta come quella americana. Colpa delle violenze della polizia ma anche di chi, come Jesse Jackson, condanna i killer di Dallas ma li vede come la reazione ai "linciaggi legali" perpetrati dagli agenti. E adesso, con l’incubo che in altre manifestazioni pacifiche di "Black Lives Matter" spuntino imitatori degli assassini di Dallas, ci si chiede come sia stato possibile che l’America sia stata di nuovo scossa dalla discriminazione razziale, almeno nel mantenimento dell’ordine pubblico, proprio negli anni della presidenza Obama. Tra le promesse mancate dell’uomo andato al potere otto anni fa promettendo cambiamenti profondi e il superamento delle divisioni, l’insuccesso sul fronte della comunità nera è quello che brucia di più. Un insuccesso che è frutto di un’impressionante concatenazione di eventi negativi. I più appariscenti sono stati quelli a sfondo politico: l’America conservatrice non ha mai digerito l’elezione di un presidente nero e ha fatto di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote, impedendogli di governare: due ministri della Giustizia di colore determinati e competenti, Eric Holder e Loretta Lynch, non sono riusciti a fare nulla per riformare un sistema di giustizia criminale squilibrato ed eccessivamente punitivo, soprattutto per la non collaborazione del Congresso. E in questo clima gli Stati e le contee più conservatori si sono sentiti ancor più liberi di adottare il "pugno di ferro". Nell’era del terrorismo globale e delle infiltrazioni "jihadiste" in quasi tutto l’Occidente, poi, gli Usa fino a poco tempo fa avevano dovuto fare i conti solo coi lupi solitari razzisti sostenitori della supremazia dei bianchi. I disordini razziali, da Ferguson a Baltimora, per quanto gravi, non avevano mai prodotto sconfinamenti nel terrorismo, salvo, forse, nella notte dei roghi nel sobborgo di St. Louis. Ma un ruolo importante ce l’hanno altri due fattori "ambientali" che complicano il rapporto tra forze dell’ordine e cittadinanza. Da un lato la diffusione sempre più capillare delle armi da fuoco. I casi di uso eccessivo della forza da parte degli agenti sono in continuo aumento (più 7 per cento dall’inizio dell’anno secondo l’ultima indagine del Washington Post) nonostante tutti gli appelli alla calma e i corsi di "rieducazione" nelle caserme. Mano pesante dei poliziotti, ma è difficile non essere nervosi e sospettosi quando si sa che la persona che viene fermata con ogni probabilità ha un’arma in tasca col colpo in canna. L’altro fatto è la diffusione delle "body camera" dei poliziotti e dei video girati nei luoghi dei conflitti. Dovevano funzionare da deterrente anti-violenza, ma per adesso non è successo. Così queste immagini che inchiodano gli agenti, alimentano anche l’odio e allargano le crepe della diga sociale. Stati Uniti: l’eredità della "tolleranza zero" di Guido Caldiron Il Manifesto, 9 luglio 2016 Dai riots di Los Angeles all’11.09: la polizia è ormai militarizzata. "Attraverso questo fiume di sangue, dall’altra parte 41 colpi tagliano la notte (…) È una pistola? Un coltello? O un portafoglio? (…) Il segreto, amico mio è che puoi essere ucciso perché vivi nella tua pelle americana". Quando Bruce Springteen dedicò alla vicenda di Amadou Bailo Diallo, un ragazzo africano di 23 anni abbattuto nel febbraio del 1999 a New York da un gruppo agenti in borghese che non gli diedero il tempo di estrarre dalla tasca i documenti, la canzone American skin (41 Shots) - i poliziotti, poi assolti, esplosero 41 colpi prima di accorgersi di aver sbagliato persona -, il cantautore fu attaccato dalle associazioni dei cops e dallo stesso sindaco repubblicano della Grande Mela, quel Rudy Giuliani oggi consigliere in materia di "sicurezza" di Donald Trump. "C’è ancora gente che cerca di creare l’impressione che i poliziotti, nonostante siano stati prosciolti, fossero colpevoli", disse all’epoca Giuliani. Era la stagione della cosiddetta "tolleranza zero" verso il crimine, cui il politico italoamericano che aveva fatto carriera durante l’amministrazione Reagan legherà la propria notorietà. Basandosi sulla teoria del "Broken Windows", letteralmente "vetri rotti", annunciata già negli anni Ottanta dai criminologi di destra e che prevedeva il controllo totale dello spazio pubblico da parte della polizia e la dura repressione di ogni comportamento deviante con pene detentive spesso sproporzionate, come sulla "war on drugs" reaganiana di cui era stato uno dei pilastri, Giuliani definì per molti versi "il modello" della nuova polizia statunitense cui molti sembrano ispirarsi ancora oggi. E questo malgrado durante la sua amministrazione il "racial profiling" avesse superato ogni record. La pesante eredità del "sindaco sceriffo" e dell’infausta filosofia della "tolleranza zero" - durante l’"era Giuliani" si registrò un aumento del 41% delle denunce per abusi commessi dagli agenti, del 53% del numero delle persone decedute durante "il fermo" e del 35% del numero di civili uccisi dalla polizia - non è però l’unico elemento che ha contribuito a rendere così "pericolose" le forze dell’ordine per una parte almeno della popolazione americana. Iniziata già alla fine degli anni Sessanta, come reazione alle rivolte urbane che scossero il paese, la progressiva militarizzazione dei corpi di polizia locali è diventata infatti una delle caratteristiche peculiari della realtà sociale del paese. Prima la già citata "war on drugs", quindi l’ulteriore escalation militarista seguita ai riot di Los Angeles del 1992, infine l’allarme terrorismo successivo all’11 settembre e i cospicui fondi provenienti dalla Homeland Security come dallo stesso Pentagono, hanno contribuito a rendere molti uffici degli sceriffi di contea del tutto simili a piccole guarnigioni delle forze armate. La Scuola di studi sulla polizia dell’Università del Kentucky Orientale ha così documentato come centinaia di dipartimenti delle forze dell’ordine si siano dotati nel corso degli ultimi decenni di veri e propri corpi paramilitari, in grado di scegliere quali armi e quale tipo di addestramento seguire. Inoltre, l’industria degli armamenti ha puntato molto su questa tendenza, riciclando sul mercato interno armi e mezzi non più utilizzabili sui teatri di guerra. Dal 2006 ad oggi qualcosa come 432 veicoli blindati, 533 aerei ed elicotteri, oltre a 90mila armi automatiche sono passati direttamente dalle mani dei militari a quelle degli agenti: un arsenale in grado di trasformare in tutto e per tutto le ronde in un ghetto nero in un pattugliamento dei marine a Baghdad. Dopo l’uccisione da parte di un agente bianco, poi prosciolto, del giovane afroamericano Michael Brown a Ferguson nell’agosto del 2014, Obama ha nominato una commissione per indagare proprio sulla militarizzazione della polizia, riuscendo alla fine a bloccare i fondi federali utilizzati da parte di questo o quel corpo di polizia locale per acquistare veicoli corazzati, fucili di grosso calibro o uniformi mimetiche. D’ora in poi sarà perciò solo più difficile, ma non certo impossibile visto che restano a disposizione le risorse dei singoli stati e delle amministrazioni locali, vedere degli agenti che ricordano i "guerrieri ninja" a spasso per un quartiere difficile. La popolazione è avvertita. Turchia: dove gli avvocati sono i nemici numero uno di Ezio Menzione* Il Dubbio, 9 luglio 2016 Il 22 giugno, 6 giorni prima della strage dell’aeroporto, si è svolta a Istanbul la prima udienza del processo contro, fra gli altri, 2 avvocati. In Turchia non sono rari i casi di processi contro avvocati per reati di opinione. In altri casi la loro attività difensiva viene interpretata dai Pm come "fiancheggiamento" delle organizzazioni eversive cui i loro assistiti appartengono o si presume che appartengano. A luglio prosegue il grande processo contro più di 40 avvocati curdi "rei" di avere richiesto che i processi contro i curdi si svolgano in curdo. A settembre continua il processo contro 26 avvocati dell’organizzazione di assistenza legale Chd. In questo caso i due avvocati sono un uomo e una donna, Ramizan Demir e Aisce Acinikly, curdi, molto giovani, ma già noti come capaci difensori dei diritti umani. Alla data dell’udienza erano da 78 giorni in custodia cautelare in carcere. Anzi, per la precisione, erano già stati posti in custodia cautelare alcuni giorni prima, ma una corte superiore aveva annullato il provvedimento e li aveva rimessi in libertà. Era stato emesso a ruota, quindi, un secondo provvedimento restrittivo, del tipo che anche noi italiani abbiamo conosciuto come "provvedimento a catena". Al processo si presentano con altri 6 imputati detenuti e un certo numero a piede libero. L’accusa contro gli avvocati, contenuta in una quarantina di pagine del PM e in 70 faldoni di indagine - ignoti agli imputati e ai loro difensori fino a due settimane prima del processo, perché tutta l’inchiesta era stata secretata - li vuole imputati per ciò che i due hanno fatto come difensori, a favore dei loro assistiti. Nulla di particolare, si badi: non si tratta in questo caso di avere fatto da tramite fra fuori e dentro operativamente o cose del genere. Bensì "essere andati troppe volte in carcere per parlare coi loro assistiti", "avere trovato per i detenuti un medico che li visitasse su richiesta", "essere rimasti in tribunale fino a ora tarda per ricevere i propri assistiti o i loro parenti" e cose simili. Prova regina contro Ramizan: avere presentato alla Cedu ricorsi contro il governo turco e, in qualche caso, averli vinti. Da qui la qualificazione giuridica dei fatti: partecipazione ad associazione terroristica e propaganda sovversiva. L’associazione terroristica sarebbe il Pkk, come tale definito dalla Turchia e dagli Usa, anzi, più esattamente, un’associazione di sostegno ai detenuti curdi, denominata Tuhad: una specie di "Soccorso Rosso". Pena base: quindici anni. Non ci sono controlli particolarmente severi né per accedere all’enorme palazzo di giustizia (una grandezza e una forma paragonabile al Colosseo) né per entrare in aula. Ma si respira un clima molto nervoso. Il Presidente non consente che alcuno stia in piedi. L’aula contiene più o meno 200 posti a sedere; ma fra imputati, difensori (formalmente circa 200 - in Turchia non vi è limite al numero di difensori - ma, naturalmente ne parleranno di meno), osservatori internazionali (circa una trentina, di cui 4 italiani) e pubblico assommano a più di quanti non ne possano stare seduti. Il Presidente fa sfollare chi è rimasto in piedi e chiude le porte dell’aula dall’interno perché nessun altro affluisca: alla faccia del processo pubblico! Gli stessi osservatori internazionali vengono relegati nelle ultime file del pubblico, contrariamente a quanto è accaduto in altri processi turchi, dove gli osservatori internazionali di solito sedevano nelle primissime file, ben visibili alla corte. Ha iniziato a parlare per prima l’avvocatessa, poi l’avvocato, ambedue detenuti: colleghi di vaglia, senza artifizi retorici, hanno smontato l’accusa dimostrando che null’altro era loro addebitato se non ciò che rientra pienamente nel mandato difensivo: visite in carcere ai detenuti, trovare assistenza per i detenuti malati, riportare ai parenti quanto oggetto di colloquio, ove possibile, poiché i detenuti, quasi tutti curdi dell’est della Turchia vengono rinchiusi in carceri dell’ovest, lontane mille miglia dalle città di origine e appartenenza. È difficile confrontarsi con accuse dal tenore men che generico, ma Ramazan le smonta comunque pezzo a pezzo. Le intercettazioni non avevano dato alcun risultato utile per l’accusa. Poi parlano gli altri detenuti, quasi tutti attivisti di rilievo nelle associazioni per i diritti umani e dunque per questo membri o in contatto con l’associazione Tuhad. Associazioni che operano alla luce del sole e spesso anche con commissioni parlamentari. I non detenuti rinunciano a parlare. Seguono le arringhe dei difensori, non troppo lunghe ma per questo efficaci. Essi ribadiscono l’inconsistenza delle prove, ma anche alcune macroscopiche nullità: intercettazioni durate mesi più delle autorizzazioni del giudice ed altre ancora, fra cui spicca il mancato nulla osta da parte del Ministero della Giustizia per procedere contro gli avvocati, così come, invece, prescrive l’art. 58 della legge professionale. Aveva sostenuto l’accusa che quelle poste in essere dai due colleghi fossero attività che non potevano essere ricondotte al mandato difensivo e dunque il nulla osta non occorreva. I due legali e i loro difensori avevano giustamente obiettato che in buona sostanza si trattava di assistenza ai propri clienti detenuti e che comunque, se si fosse all’interno o all’esterno del mandato, solo un giudizio poteva stabilirlo e dunque il nulla osta era necessario, pena la nullità dell’intera indagine. Viene il momento delle richieste. Il Pm - un ceffo coi mustacchi spioventi, alla Taras Bulba, si sarebbe detto l’unico malfattore in aula - conclude per il rigetto delle nullità, ma per la rimessione in libertà di tutti gli otto detenuti, sia pure disponendo controlli. Si tira un sospiro di sollievo e i cuori si dispongono ad una legittima speranza. I difensori che prendono la parola tagliano un po’ degli argomenti, guadagnandone in efficacia. Il Tribunale si ritira per una ventina di minuti, poi esce disponendo la scarcerazione per due imputati detenuti, che però non sono i due colleghi. Il processo è rinviato al 7 settembre. Lo sconforto è parecchio. Forse, più fra gli osservatori internazionali che fra i colleghi turchi, abituati a un certo andazzo. Uscendo, il grosso schieramento di polizia e camionette accenna ad una carica per sgombrare l’accesso da parenti e amici che gridano slogan, ma si interpongono gli avvocati e tutti defluiscono. Il segnale politico sembra chiaro: due imputati detenuti vengono rimessi in libertà, ma non sono i due avvocati, come tutti potevano aspettarsi. Per loro non viene usata né particolare clemenza né viene riconosciuto il particolare ruolo, quello difensivo, che essi sono chiamati a sostenere. Anzi, si individua in loro gli oppositori, se non addirittura i nemici, utilizzando il solito canone paradigmatico per cui se difendi i terroristi sei anche tu terrorista (e se difendi i mafiosi sei mafioso e via enumerando). Ma cosa significa e a cosa porta questo identificare ogni possibile mediatore come un nemico? L’avvocato, per la natura stessa della funzione svolta è sempre un mediatore e il processo è un luogo di, sia pur parziale, composizione del conflitto (eccetto che nei contro-processi, alla Verger, in cui viene negata l’autorità stessa della giurisdizione): il luogo in cui si prendono in considerazione le argomentazioni delle parti - dei "nemici" - e se ne tiene più o meno conto in sede di sentenza, riuscendo così (nei casi migliori) a giungere a una pronuncia autorevole perché, almeno in parte, condivisa. Naturalmente sappiamo bene che nei momenti di crisi questo schema si offusca oppure può subire distorsioni, anche gravi. Però esso sussiste ed è bene che sussista: l’avvocato è riconosciuto come portatore di diritti e di argomenti contrapposti a quelli dello Stato-Pm, ma gli si riconosce anche, oltre alla razionalità della funzione, anche lo sforzo di fare rientrare nel quadro istituzionale o psicologico o sociologico le posizioni degli imputati. È questo il motivo per cui la funzione degli avvocati è tenuta in più o meno alta considerazione in tutti gli stati democratici, e comunque non si intende farne a meno. Quando invece gli avvocati vengono appiattiti sulle posizioni dei loro assistiti e cominciano ad essere perseguiti per la funzione che svolgono, allora inizia un processo di crisi della democrazia o, anzi, meglio, si constata che la democrazia è già in profonda crisi. Lo stato si taglia i ponti alle spalle e rinuncia al ruolo "mediatorio" degli avvocati: rinuncia cioè a fare rientrare nel quadro democratico anche le istanze contrapposte. Lo scontro si accentua e la democrazia ne soffre. Questa è esattamente la cornice in cui oggi si muove la Turchia, che aveva fatto sforzi di democratizzazione (abolizione della pena di morte, riscrittura dei codici, riconoscimento dei diritti dei soggetti prima neppure presi in considerazione, trattative con la minoranza curda ecc.) all’epoca in cui era realistica la prospettiva di ingresso nella Ue e poi, soprattutto a partire dal secondo mandato di Erdogan come primo ministro, è andata ripiegandosi verso un conclamato autoritarismo. La democrazia vi è in sofferenza, se gli avvocati diventano "il nemico" ed in questa stretta persino il terrorismo trova spazi di azione. Non a caso 6 giorni dopo l’udienza che ho raccontato, all’aeroporto di Istanbul i terroristi hanno fatto una strage. *Avvocato, osservatore internazionale per l’unione Camere Penali al processo che vede imputati e detenuti due avvocati