Senato, ddl tortura: è scontro tra Fi e Pd. Gasparri: "Sinistra criminalizza Polizia" di Alberto Custodero La Repubblica, 8 luglio 2016 I dem vogliono rendere applicabile il reato anche in presenza di un solo caso di violenza, i forzisti invece in presenza di "reiterati" comportamenti. Sindacati Anfp-Siap (tradizionalmente di area sinistra) per la prima volta a fianco dei forzisti: "Il testo sia scevro da qualsiasi forma di pericolosa ideologizzazione". È scontro, in Senato, tra Pd e Fi sul ddl tortura. I dem chiedono che il reato si configuri anche solo in presenza di un episodio di violenze e minacce. I forzisti invece sostengono che il reato ci sia se quei comportamenti violenti si ripetono più volte. I sindacati di polizia Anfp-Siap (tradizionalmente di ispirazione di sinistra) questa volta sono al fianco dei forzisti e contro i democratici. Se il reato fosse stato in vigore, sarebbe certamente stato contestato nei casi di Cucchi, Uva e Aldrovandi, tre cittadini morti dopo essere stati arrestati, picchiati e sottoposti a numerose violenze per più giorni da parte delle forze dell’ordine. Vista la tensione politica, l’Aula del Senato ha sospeso i lavori sul ddl per l’introduzione del reato di tortura che riprenderà la prossima settimana. La cronaca dello scontro a Palazzo Madama. Parere favorevole all’emendamento a prima firma del senatore M5s Cappelletti secondo il quale si elimina parola "reiterate" per tipizzare le violenze o minacce gravi attraverso le quali si può incorrere nel reato di tortura. È quanto ha annunciato in Aula il senatore Enrico Buemi - relatore del ddl tortura con Nico D’Ascola - confermando un emendamento, presentato dai relatori, che alza da 3 a 4 anni la pena di reclusione minima per chi è colpevole di reato di tortura. La presa di posizione dei relatori riporta, di fatto, l’impianto del testo a quello approvato alla Camera eliminando alcune delle modifiche principali apportate dalla commissione Giustizia del Senato. Ma Fi si infuria. "Il fatto che la partecipazione di Forza Italia ai lavori della Commissione viene stravolta da una nuova maggioranza dovrebbe far riflettere i componenti del Nuovo Centro Destra", sottolinea Nitto Francesco Palma, annunciando che Fi "non stipulerà più nessun accordo con la maggioranza in sede di Commissione". Il clima, in Aula, si è fatto subito incandescente, con Palma che ha annunciato come Fi farà dichiarazioni di voto su ogni emendamento, scelta dal chiaro intento ostruzionistico. E forte è stata l’opposizione anche del gruppo Ala che, con Ciro Falanga, ha chiesto di rinviare i lavori alla prossima settimana e di permettere ai senatori di sub-emendare gli emendamenti dei relatori. Relatori che, inoltre, hanno espresso parere favorevole anche a un emendamento che tocca il punto dell’aggravante quando il fatto è commesso da pubblici ufficiali. In particolare è stato dato parere favorevole ad una proposta di modifica del senatore Tito Di Maggio (Cor) secondo la quale l’aggravante (da 5 a 12 anni di carcere) entra in gioco quando i fatti sono "commessi da un pubblico ufficiale da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio" (ed eliminando, così la dicitura "nell’esercizio delle funzioni o nell’esecuzione del servizio" prevista dal testo uscito dalla commissione). I relatori hanno inoltre annunciato la riformulazione di un loro emendamento che va a toccare il punto dell’istigazione previsto dall’articolo 1 del ddl. Con quest’ultima riformulazione il reato di istigazione alla tortura si registra, con una pena fino a 3 anni di carcere, quando "il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo idoneo (e non più "concretamente idoneo" come prevedeva inizialmente l’emendamento) altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso". Favorevole il Pd. Per il senatore Giuseppe Lumia, capogruppo Pd in commissione Giustizia, "l’introduzione del reato di tortura ci fa fare un passo importante in avanti sui diritti umani e democratici". Critica Fi. Maurizio Gasparri, capogruppo dei senatori azzurri: "Bene ha fatto il senatore Nitto Palma a sposare le tesi sostenute nei miei emendamenti per evitare che dalla giusta lotta alla tortura si passi alla criminalizzazione delle forze di polizia, che resta il vero obiettivo del governo Renzi. Ma il ministro Alfano che cosa dice al riguardo?" I sindacati Anfp-Siap a fianco di Fi. Secondo due sindacati, i Funzionari (Anfp), e il Siap, tradizionalmente di area di sinistra, "la ripetizione delle condotte violente deve essere mantenuta. È indispensabile garantire una formulazione certa del nuovo reato e distinguerlo da altre ipotesi come ad esempio le percosse, le lesioni che sono già previste nel nostro ordinamento. "Riteniamo - aggiunge Lorena La Spina, segretario nazionale dell’Anfp - che debba essere introdotta una frase già presente nella convenzione antitortura: che non si ha tortura a fronte di sofferenze che costituiscono derivazione diretta di sanzioni legittime, come l’arresto e l’imposizione delle manette. E che sono comunque ad esse inerenti". Tortura, "ogni atto è da punire" di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 luglio 2016 Parla Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti ed ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. "Si torni al testo della Camera. Chi vuole attutire il ddl interpreta male la difesa della polizia". "La legge sulla tortura manda un messaggio chiaro: le forze dell’ordine del Paese sono forze sane che non hanno paura di strumenti per perseguire chi sbaglia. Perciò tutti quelli che vogliono spuntarla o attenuarla, per paura di non poter operare, implicitamente interpretano male un ruolo di difesa delle forze dell’ordine. Le forze di polizia si difendono con strumenti di questo tipo". Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, segue attentamente i lavori del Senato sul ddl tortura che ieri sono ripresi in Aula per poche ore con l’esame degli emendamenti all’articolo 1, per essere poi rinviati a martedì prossimo. L’ex Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura è in partenza per San José di Costa Rica, "che è un po’ la Strasburgo del continente americano", invitato dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo per parlare proprio di lotta alla tortura, essendo internazionalmente riconosciuto come un’autorità sul tema. Ancora ieri i sindacati di polizia hanno ripetuto la richiesta di non eliminare dal testo del ddl in esame il requisito della reiterazione delle violenze e delle minacce gravi, come sembra sia invece ora intenzionata a fare la maggioranza, visto il parere favorevole dei relatori all’emendamento del M5S che ha sollevato le accuse di "tradimento" dei verdiniani e di Forza Italia. Cosa ne pensa? Sono obiezioni di natura diversa, alcune condivisibili altre no. Premetto che, all’attuale testo, avrei preferito quello approvato ad aprile 2015 dalla Camera, che era una mediazione accettabile. E premesso che tutte le convenzioni internazionali non considerano tortura né trattamento inumano e degradante tutte le situazioni strettamente legate alla privazione della libertà per una legittima decisione delle autorità. Va invece chiarito che poiché la responsabilità penale è individuale, la violenza in sé agita da un individuo va sanzionata. Ogni atto. Al singolare, come stabiliscono molte definizioni internazionali e anche la Cedu, che parla esplicitamente di "ogni atto", non di una "pluralità di atti". E la motivazione è semplice: se più soggetti agiscono contemporaneamente all’interno di un gruppo, e ognuno infierisce sulla vittima con un atto singolo, si rischia che nessuno possa essere perseguibile per il reato di tortura. Forze dell’ordine (e centrodestra) sostengono poi che se si tipizza la fattispecie sulla gravità delle sofferenze inflitte anziché su quella delle violenze, c’è il rischio di considerare tortura anche le afflizioni derivanti da sanzioni legittime, come l’arresto e l’imposizione delle manette, o da azioni di forza necessarie nell’ambito delle "normali" operazioni di polizia. Il suo punto di vista? Il concetto di sofferenza e di gravità dell’atto è difficilmente definibile in termini normativi. La Corte di Strasburgo lo fa rientrare nel cosiddetto "margine di apprezzamento" di chi indaga o giudica. La Corte parla di "gravità della sofferenza inflitta", concetto dietro al quale c’è un misto di gravità dell’atto e gravità della sofferenza. Ricordiamoci di Beccaria, quando parlava di resistenza dei muscoli. Se guardo solo alla gravità della sofferenza, lego il concetto della tortura alla capacità di resistere che ha la vittima. È chiaro che se una persona è più vulnerabile - un minore o una donna - o è in un momento di maggiore vulnerabilità, la tortura inflitta può essere giudicata più grave. Ma la gravità è un elemento congiunto sia dell’atto compiuto che della sofferenza causata, e valutarla attiene al margine discrezionale di chi indaga e giudica. I relatori si sono espressi a favore anche di un emendamento proposto da Cor che prevede l’aggravante quando la tortura è commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, "con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio". In questo modo si elimina la dicitura "nell’esercizio delle funzioni o nell’esecuzione del servizio". È un passo avanti? No, mi sembra strana questa proposta, perché il testo originario tutela maggiormente chi opera. Del resto, la Convenzione internazionale lo dice chiaramente: non deve essere rinvenuta anche una specifica violazione dei doveri o un abuso dei poteri. L’aggravante va riconosciuta se il reato viene commesso nell’esercizio della funzione di chi ha in carico la tutela della persona fermata o arrestata. Detto questo, premetto che non mi straccio le vesti per il reato tipizzato contrapposto al reato di ordine generale. Cioè lei non considera necessario che il reato sia proprio di pubblico ufficiale? È vero che la Convenzione Onu parla di reato commesso da pubblico ufficiale, ed è vero che ha un valore quasi simbolico. Ma è pur vero che altre Convenzioni e testi, come ad esempio lo statuto della Corte penale internazionale, lo concepiscono anche come reato non tipizzato. Questo perché possa essere ugualmente perseguibile anche se ad agire è qualcuno che non è stato investito ufficialmente dalle autorità costituite. Faccio l’esempio di alcune repubbliche caucasiche che spesso si giustificavano sostenendo che ad agire erano "bande", non forze statali. Infatti si trattava spesso di settori paramilitari, non formalmente riconosciuti ma più che tollerati. Una situazione che potrebbe essere riscontrata anche in Egitto… Ecco, appunto, prendiamo l’Egitto: se fosse riscontrato che a torturare Giulio Regeni sono stati settori che non rispondevano agli ordini impartiti dalle autorità costituite, cosa dovremmo dire, che non sono perseguibili per tortura? Capisco che siamo in Italia, e qui tutto è diverso, però quando si definisce una figura di reato non ci si ferma all’applicazione nel proprio Paese ma lo si fa anche per il valore in sé del messaggio che si trasmette attraverso la definizione. Prescrizione, Ncd vuole la norma "acceleratoria" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2016 Resta caldo il fronte della prescrizione all’interno della maggioranza. Mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando ostenta fiducia su un possibile accordo in vista della prossima settimana, quando cominceranno le votazioni in commissione Giustizia, al Senato, sulla riforma del processo penale, Ap-Ncd fa invece sapere che al momento l’accordo "è bloccato" perché il Pd non vuole accettare una norma che gli alfaniani definiscono "acceleratoria" ma che già alcuni magistrati (alle prime indiscrezioni) bollano come "sabotatrice" del processo. Lo schema su cui si sta ragionando prevede anzitutto che il "bonus" della sospensione della prescrizione dopo la condanna di primo grado diventi di 18 mesi sia in appello che in Cassazione, e questa è già una prima vittoria di Ap-Ncd poiché il testo approvato dalla Camera prevede invece, rispettivamente, due anni e un anno di sospensione. Ma il Centrodestra alza ancora l’asticella e chiede di prevedere che, se entro quei 18 mesi non si arriva a sentenza, il "bonus" si azzeri e il relativo periodo entri nel computo della prescrizione. Supponiamo, ad esempio, che il reato per il quale si procede si prescriva in 7 anni e mezzo, che la condanna di primo grado arrivi dopo 6 anni (ne resta uno e mezzo) e che l’appello si concluda in 18 mesi (il tempo del bonus) più un giorno: con il testo-Camera si potrebbe tranquillamente andare in Cassazione e arrivare a sentenza definitiva entro 18 mesi; con la "norma acceleratoria" di Ap-Ncd, invece, il giudice d’appello sarebbe costretto a dichiarare subito la prescrizione perché, con lo sforamento di un giorno del bonus, i 18 mesi verrebbero interamente calcolati nella prescrizione, che a quel punto sarebbe interamente consumata. Bisognerà vedere se e come, nei prossimi giorni, quest’ostacolo verrà superato: se con un passo indietro di Alfano o con un passo avanti del Pd e di Orlando, oppure con un nuovo schema. Fra l’altro, pezzi del Pd sono critici con il testo-Camera quanto il Centrodestra. Che al momento ha già incassato anche un’altra modifica rispetto al testo-Camera riguardante i tre reati di corruzioni (propria, impropria, giudiziaria) per i quali era stato previsto un quasi raddoppio dei termini, frutto dell’aumento della metà del termine iniziale di prescrizione (articolo 151 Cp) più l’aumento di un quarto previsto dall’articolo 161 quando iniziano le indagini. Ap-Ncd ha chiesto (e ottenuto) di cancellare dall’articolo 157 l’aumento della metà e di prevedere soltanto l’aumento di un terzo (invece che di un quarto) nell’articolo 161. Con il risultato che, nel caso ad esempio della corruzione propria, la prescrizione scenderebbe da 18 anni e 3 mesi a 13 anni e 3 mesi. Si continuerà a trattare nelle prossime ore. Nel frattempo in commissione prosegue con sedute notturne l’illustrazione degli emendamenti, mentre dalla Commissione Affari costituzionali è arrivata una raffica di pareri negativi su tutti gli emendamenti (come quello dei relatori Casson-Cucca) che fanno decorrere la prescrizione dall’acquisizione della notizia di reato, in quanto contrastante con la ragionevole durata del processo. Non sono pareri vincolanti ma potrebbero diventare un ostacolo qualora gli emendamenti non fossero ritirati. Intanto i 5 Stelle attaccano Orlando per aver dichiarato che la maggioranza presenterà proposte di modifica al testo sulla prescrizione. "Tutto questo significa - dice Enrico Cappelletti, capogruppo in commissione - che la riforma sarà scritta da Alfano, al centro dello scandalo sulle assunzioni a Poste italiane, e da Verdini, mentre la proposta del relatore Casson, del Pd, che coincide con quella del M5S verrà definitivamente abbandonata". Prescrizione, il Pd stoppa Ncd: "La sospensione non si tocca" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2016 "Il sistema della sospensione non si tocca. Se Ap-Ncd ha intenzione di fare la faccia feroce, vuol dire che noi proporremo di tornare al testo iniziale del governo sulla prescrizione. Che peraltro loro hanno votato, a differenza di quello della Camera". È netto il "no" del responsabile Giustizia del Pd, il renziano David Ermini, alla cosiddetta "norma acceleratoria" rivendicata dagli alfaniani. È lui che in questi giorni ha cercato di tessere la trama di un accordo sulla prescrizione con il Centrodestra, interloquendo in particolare con il senatore Nino D’Ascola, presidente della commissione Giustizia del Senato dove è in corso l’esame del Ddl sul processo penale. Accordo che si è bloccato perché gli alfaniani hanno puntato i piedi sull’inserimento di una norma - definita "acceleratoria" - in base alla quale, se in appello o in Cassazione il processo non si conclude entro i 18 mesi di sospensione della prescrizione, quel bonus si perde e i 18 mesi vengono computati nel termine complessivo della prescrizione. Dalla prossima settimana, in commissione Giustizia cominciano le votazioni sugli oltre 700 emendamenti al Ddl e il governo punta a trovare un’intesa nella maggioranza per blindare il testo, approvarlo prima della pausa estiva e poi farlo ratificare dalla Camera a settembre. La prescrizione è un punto cruciale (insieme a intercettazioni, indagine "breve", notificazioni), che peraltro divide anche il Pd, poiché alcuni Dem (pochi) sono favorevoli all’emendamento dei relatori Casson-Cucca - che fa decorrere la prescrizione dall’acquisizione della notizia di reato e la blocca definitivamente dopo la condanna di primo grado (ma la commissione Affari costituzionali ha espresso parere negativo) - mentre altri sono più vicini alle posizioni di Ap-Ncd, quindi critici sul testo licenziato dalla Camera - che sospende la prescrizione per due anni in appello e uno in Cassazione dopo la condanna di primo grado, e per tre reati di corruzione raddoppia la prescrizione. Nelle trattative in corso, Ncd ha posto una serie di condizioni (fra l’altro, di non modificare il capitolo dell’indagine breve). E se, fino a qualche settimana fa, sembrava accontentarsi di tornare al ddl del governo (stop di due anni in appello e di uno in Cassazione), più di recente ha alzato il tiro, chiedendo la sospensione di un anno in appello e di due in Cassazione (il che è insensato visto che in Cassazione i tempi medi di decisione sono di 9 mesi mentre il vero ingolfamento del processo è in appello) e poi l’inserimento della "norma acceleratoria". Proposta respinta dal Pd, che ha controproposto: 18 mesi di sospensione sia in appello che in Cassazione, sostituzione del quasi raddoppio della prescrizione per i tre reati di corruzione con l’aumento di un terzo dopo l’inizio delle indagini, ma "no" alla "norma acceleratoria". Ed è su quest’ultimo punto che l’accordo si è impantanato, perché Ap-Ncd non vuole rinunciare a quella norma. Un muro contro muro che fa dire a Ermini che, a questo punto, si torna al ddl del governo (anche se Ala è contraria). "Quella norma ha un effetto perverso tutt’altro che acceleratorio - osserva Donatella Ferranti, presidente Dem della commissione Giustizia della Camera -. Finirebbe per incentivare il superamento dei tempi massimi di sospensione anche per pochi giorni, al fine di recuperare quel tempo nel calcolo della prescrizione... Il risultato opposto cui deve tendere il sistema attraverso la riforma: garantire tempi certi ragionevoli ed evitare manovre dilatorie della difesa, perché il cittadino, vittima o imputato che sia, ha diritto a una pronuncia di merito". L’inutile miniriforma della giustizia di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2016 Nei giorni scorsi la stampa ha dato due notizie importanti (si fa per dire!). La prima, su Repubblica il 29/6, riguarda il silente capo dello Stato: "Mattarella in pressing, riforma della giustizia, al voto entro luglio". La seconda, sul Fatto Quotidiano del 2 luglio, riguarda il guardasigilli Orlando che sarà presente alla festa provinciale de l’Unità di Genova, trasformata addirittura in "Festa nazionale sulla giustizia". Chi legge può pensare che si è finalmente in presenza di una svolta epocale sulla giustizia. Viceversa, la netta impressione che si ricava dai 35 articoli del disegno di legge ("Rafforzamento delle garanzie difensive e durata ragionevole dei processi") è che essi, anche se di qualche utilità marginale, non incidono per nulla sul perverso sistema processuale causa prima degli intollerabili ritardi ?della giustizia penale. Si tratta di una inconsistente "mini riforma" - cui è abbinato un impresentabile disegno di legge sulla prescrizione - che si limita ?ad apportare modifiche non consistenti, ai fini della rapidità dei processi, in tema di archiviazione, inammissibilità delle impugnazioni, di ripristino del patteggiamento in appello, di presentazione del ricorso per Cassazione e di partecipazione a distanza all’udienza dell’imputato detenuto. Il ddl ?prevede inoltre la delega al governo per la riforma delle intercettazioni e dell’ordinamento penitenziario. Nulla, quindi, di veramente strutturale. Un intervento strutturale poteva essere abolire, come auspicato su questo giornale da Gian Carlo Caselli, l’appello ove si riscontrano, spesso, ritardi inaccettabili. È stato, però, giustamente osservato, sempre su questo giornale, da Armando Spataro, che il doppio grado di giudizio è ineliminabile garanzia per i cittadini. Un intervento strutturale poteva e doveva essere, invece, quello di eliminare l’udienza preliminare e, cioè, quella udienza "filtro" che si è dimostrata del tutto inutile e che, soprattutto nei processi complessi, allontana non di poco la data di inizio del dibattimento, portandoli a sicura prescrizione. Del resto, appare coerente con il sistema processuale e con il principio cardine del processo penale secondo cui la prova si forma in dibattimento che il pm - che può richiedere l’archiviazione qualora ritenga l’accusa non sostenibile in giudizio - disponga, negli altri casi, il rinvio a giudizio richiedendo al giudice di fissare la data dell’udienza (ed è a tale momento che va bloccato, definitivamente, il decorso della prescrizione). Utile sarebbe eliminare il Tribunale del riesame sostituendolo con un giudice collegiale che provveda sulle richieste di misure cautelari, prevedendo il ricorso per Cassazione per violazione di legge. Questo sistema tutelerebbe maggiormente il cittadino (la collegialità è sempre preferibile alla monocraticità) e consentirebbe a un numero ingente ai magistrati e cancellieri di essere destinati alla definizione del processo principale. Basti pensare che un processo di criminalità organizzata con 50 arrestati (il che non è infrequente), può determinare 50 istanze di riesame con relative udienze e provvedimenti, avverso i quali sono possibili 50 ricorsi per Cassazione, 50 appelli e ancora 50 ricorsi per Cassazione con il proliferare assurdo di procedimenti incidentali che, peraltro, non avranno alcuna incidenza sul procedimento principale. Infine - oltre a emanare provvedimenti destinati a sanare la cronica mancanza di organico del personale e a riammodernare un inefficiente sistema di notifica degli atti (altra causa, non secondaria, di continui rinvii) - è necessario modificare l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario elevando ad ?almeno 5 anni la permanenza minima dei magistrati nello stesso ufficio, ?(attualmente di tre), in maniera da procrastinare i continui trasferimenti, soprattutto dei magistrati di prima nomina che aspirano a ritornare nelle regioni di provenienza o a essere trasferiti in uffici giudiziari più importanti. ?Tutto questo comporta una serie continua di rinvii dei processi sia per il "congelamento" dei ruoli di udienza del magistrato trasferito, e, di regola, quasi sempre tardivamente sostituito, sia in virtù del principio della immutabilità del giudice che impone che sia lo stesso giudice (come persona fisica), che ha tenuto l’udienza, a provvedere alla delibazione, pena la rinnovazione del dibattimento che comporta, di regola, la nuova acquisizione di prove già lentamente e faticosamente espletate. Sul punto, sarebbe utile conoscere l’opinione del Csm e della Anm e sarebbe interessante verificare la percentuale di incidenza dei rinvii dei processi determinati dal trasferimento dei magistrati giudicanti (verifica che darebbe, sicuramente, esiti davvero sorprendenti). Aspettiamo con ansia che cosa dirà il "diplomatico" ministro alla "Festa nazionale della Giustizia". Giù le mani dai tribunali per i minorenni, ddl di riforma da rivedere di Gabriele Ventura Italia Oggi, 8 luglio 2016 No all’abolizione dei tribunali per i minorenni. Serve un tavolo di confronto tra il ministero della giustizia e gli operatori del settore per rivedere, tramite emendamenti, la parte contenuta nel disegno di legge Orlando che riguarda la giustizia minorile. O, qualora i tempi non lo permettessero, è necessario stralciare direttamente l’articolato. È quanto emerso nei giorni scorsi nel corso del convegno organizzato dall’Unione nazionale delle camere minorili che si è tenuto presso il Senato, dal titolo "La giustizia minorile e di famiglia. Quale riforma?". Al dibattito hanno partecipato diversi esponenti del mondo minorile, parlamentari di maggioranza e opposizione e il sottosegretario alla giustizia, Federica Chiavaroli. "Tutti i partecipanti hanno manifestato viva preoccupazione per questo provvedimento", ha spiegato Rita Perchiazzi, presidente Uncm, "che contiene soluzioni che impoverirebbero di molto la tutela minorile con la mancata previsione di un analogo organismo dedicato alla giustizia dei minori. Siamo disponibili ad avviare un confronto costruttivo con il ministero per trovare soluzioni, senza alzare barricate. Spero che questa comunanza di vedute", ha sottolineato la Perchiazzi, "possa convincere il ministro della necessità di ripensare la materia, se non addirittura di stralciare la parte che riguarda la giustizia minorile dal ddl, per dedicarvi un maggiore approfondimento. Peraltro, ci sono altri disegni di legge già presentati che prevedono una diversa impostazione assicurando continuità ai tribunali per le famiglie. Il nodo cruciale, in ogni caso, è la necessità di garantire la giustizia ai minori". Riguardo alla possibile apertura di un tavolo di confronto, invece, gli operatori attendono il via libera da parte del ministero. "Il provvedimento", ha spiegato la presidente Uncm, "dovrebbe essere calendarizzato non prima di settembre, ci ha assicurato via Arenula, per cui l’eventuale stralcio o modifica del ddl dipende esclusivamente dai tempi e dall’eventuale carattere di urgenza della riforma della giustizia. Tra i punti critici vi è sicuramente il mantenimento del doppio binario e lo smantellamento del presidio di giustizia rappresentato dalla procura minorile. In questo modo, anziché tagliare i costi, si verificherà un aumento in termini di costi sociali". Al convegno è intervenuto anche il Cnca Lombardia, che con una petizione lanciata due mesi fa, che ha raccolto a oggi 18 mila firme, ha chiesto di fermare l’abolizione dei tribunali dei minori. "Chiediamo che la commissione giustizia non proceda alla discussione prima di aver convocato il tavolo di confronto promesso", ha dichiarato Liviana Marelli del Cnca, "questo tavolo dovrà rispettare la pluralità di voci, magistrati, avvocati, società civile, organizzazioni e coordinamenti nazionali e ordini professionali. Infine, abbiamo chiesto che la commissione assuma l’orizzonte finale di costituzione di un unico, autonomo e specializzato organo giurisdizionale". L’apparato giustizialista ora punta Cantone di Errico Novi Il Dubbio, 8 luglio 2016 L’appuntamento è per l’inizio della settimana prossima. Quando Pd e Ncd dovranno trovare un’intesa sulla prescrizione. Costi quel che costi. Un rinvio della commissione Giustizia di Palazzo Madama sulla riforma del processo sarebbe disastroso. Ma è sicuro che qualunque ragionevole intesa sarà impallinata senza pietà dai Cinque Stelle. Il che sarebbe avvenuto anche senza la tempesta mediatico-giudiziaria scatenatasi su Alfano, evidentemente. Certo il clima di questi giorni complica le cose. A tal punto da mettere la maggioranza in grave difficoltà sulla giustizia. E da scaraventare sul banco dei presunti colpevoli persino una figura apparentemente inattaccabile come quella di Raffaele Cantone. Le polemiche che insidiano sempre più spesso il presidente dell’Anac danno la misura esatta di quanto il governo, che lo ha nominato, sia allo stremo. Soprattutto sulla giustizia. Cantone come Renzi. L’utilità dell’Agenzia da lui presieduta come la riforma della prescrizione. Snodo quest’ultimo che si annuncia come un vero e proprio calvario, per il Pd e gli alleati. L’approvazione in Senato del ddl sul processo penale sarà una sofferenza, considerato l’attacco mediatico-giudiziario a cui è sottoposto il leader di uno dei due partiti, Angelino Alfano. Un’aggressione a colpi di intercettazioni polverose e poco consistenti a cui si aggiungerà sicuramente l’offensiva grillina. La certezza viene dal destino segnato degli emendamenti che invece il Movimento cinquestelle voterebbe a scatola chiusa, compresi quelli iper giustizialisti di Felice Casson, il senatore dem che è anche relatore del ddl al cui interno sono inserite le norme sulla prescrizione. Quelle ipotesi di modifica sono state stroncate dalla commissione Affari costituzionali del Senato, chiamata a esprimere un parere su tutti gli emendamenti alla riforma penale. È da escludere che Luigi Zanda, nel suo confronto con gli alfaniani, possa forzare e rimettere in ballo le proposte di Casson. Basta questo per certificare l’inevitabilità dell’attacco a cui di qui a pochi giorni sarà sottoposto l’ampio testo presentato dal ministro Orlando e già rimaneggiato dalla Camera. Il Pd e il suo maggiore alleato dovranno offrire il petto alle bordate provenienti dal cosiddetto apparato giustizialista. Ma proprio la giustizia è ormai il fronte sul quale l’azione dell’esecutivo è più esposta alle critiche. Non per l’opera del ministro, quell’Andrea Orlando a cui difficilmente si possono muovere rilievi personali, ma per una questione, si può dire, estetica. Sintetizzabile in una dichiarazione fatta dal grillino Cappelletti, secondo il quale in calce alla riforma del processo ci saranno le firme di "Alfano e Verdini". Ed è chiaro come l’assimilazione del ministro dell’Interno al leader di Ala sia conseguenza del clamore suscitato dalle intercettazioni che chiamano in causa il fratello e il padre di Alfano, oltre che lui personalmente, seppure come terminale di chiacchiere dal sapore millantatorio. La vulnerabilità della maggioranza sulla giustizia tocca però il punto più alto negli attacchi a Raffaele Cantone, presidente dell’Anticorruzione e figura non propriamente governativa. Cantone sarebbe in apparenza inattaccabile: apprezzato da tutti, magistrato anticamorra che ha messo in gioco la propria incolumità, figura di tale equilibrio da ricorrere persino nelle discussioni sulle newsletter della magistratura come possibile futuro candidato premier. Ebbene, ieri Cantone ha sentito il bisogno di difendere la sua Agenzia anticorruzione dalle accuse di fallimento nella prevenzione delle infiltrazioni mafiose all’Expo emerse nell’inchiesta milanese. Interpellato ieri sulla questione da Radio 24, Cantone ha detto che "qualcuno in questa vicenda sta provando a speculare, ma, diciamo, i fatti parlano molto più delle speculazioni. La domanda vera è che cosa sarebbe successo se non ci fossimo stati noi". E fa riferimento alle intercettazioni dell’indagine milanese in cui si dimostra, dice, che "qualcuno si è preoccupato di quello che noi facevamo e soprattutto sa che noi siamo andati a sparigliare le carte". Cantone risponde indirettamente ad attacchi come quelli, sistematici, che gli muove il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo. È quest’ultimo, più di tutti, a sollevare il tema della presunta "inefficacia" dell’Anac nel prevenire la corruzione. Giornali schierati su posizioni spesso vicine a quelle della magistratura associata, come il Fatto, non hanno mancato di prendersela con l’uomo dell’Anticorruzione. Il quale dovrebbe farsi perdonare un peccato imperdonabile: è stato scelto dal governo Renzi. E in un momento del genere questa banale verità rischia di costargli caro. E prevalere sulla stima che pure nutre nei suoi confronti gran parte dell’opinione pubblica. Alla vicinanza all’esecutivo si somma la tradizionale diffidenza dei magistrati nei confronti di quei colleghi che fanno carriera fuori ruolo. Ma le difficoltà di una figura come Cantone sarebbero inspiegabili senza la caduta che vede rovinare giù nell’indice di gradimento l’intero esecutivo. Mai stato così debole e su nessun altro versante vulnerabile come sulla giustizia. Dai detenuti "aiutanti" alle app delle udienze: le buone prassi della giustizia di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2016 Approvato il "Manuale" con le migliori pratiche organizzative degli uffici giudiziari italiani. Non è vero che l’inefficienza della giustizia - dall’eccessiva durata dei processi all’enorme mole di prescrizioni - dipende dalla scarsa cultura organizzativa dei capi degli uffici giudiziari e dalla loro incapacità di ottimizzare le risorse disponibili. "È una critica infondata" dice il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, mostrando alla stampa il Manuale delle buone prassi organizzative diffuse negli uffici giudiziari italiani, realizzato per la prima volta dal Csm e approvato ieri dal plenum all’unanimità. Una sorta di "vademecum" in cui sono selezionate 251 delle 1500 buone prassi inviate negli anni a Palazzo dei Marescialli e archiviate in una Banca dati: le migliori sul piano dei risultati ottenuti e della loro riproducibilità in altri contesti. "Un lavoro preziosissimo di straordinaria complessità - spiega Legnini - che non costituisce solo un censimento delle buone pratiche ma è l’espressione di un salto culturale del Csm e della magistratura italiana". Difficile non cogliere una velata polemica con il ministro della Giustizia Andrea Orlando e con chi, nel governo e nella maggioranza, invece di colmare le gravi carenze di risorse (mancano 9mila cancellieri e mille magistrati) o di approvare quanto prima riforme di sistema efficaci (come sulla prescrizione), continua a prendersela con l’incapacità organizzativa dei capi degli uffici e con il Csm che li nomina. "Ora il governo e il Parlamento diano risposte urgenti sul tema del personale amministrativo e sugli organici" chiosa Legnini, come a dire che il Csm e i magistrati hanno fatto la loro parte, la politica non ancora (il decreto legge "efficienza" è sempre bloccato a Palazzo Chigi). Al vademecum si è arrivati dopo un anno e mezzo di lavoro, coordinato dai togati Antonello Ardituro (Area) e Francesco Cananzi (Unicost) che si sono alternati alla presidenza della settima commissione del Csm e che ieri - in una conferenza stampa con Legnini - hanno riassunto il senso e l’obiettivo dell’iniziativa, rivolta a tutti i capi degli uffici (affinché attingano alle buone prassi là dove è possibile), al ministro della Giustizia (affinché consideri le buone prassi e i modelli di organizzazione indicati nel manuale per lo sviluppo delle iniziative in materia di innovazione e per il proseguimento del progetto ministeriale sulle buone prassi), alla Scuola della magistratura (affinché utilizzi il progetto nella programmazione della formazione dei magistrati). La lettura del manuale rivela, in effetti, grandi sforzi e progettualità degli uffici, che in molti casi hanno utilizzato il lavoro dei detenuti (a volte gratuitamente) per migliorare la qualità del servizio. Come al Tribunale di Locri, per ritinteggiare lo stabile in stato di abbandono, o alla Procura di Cagliari, per digitalizzare i fascicoli, o alla Procura e al Tribunale di Milano, dove è stata affidata a cooperative di detenuti ammessi al lavoro all’esterno la dematerializzazione degli atti giudiziari. Ancora: alla Corte d’appello dell’Aquila si è puntato sul registro informatico dei procedimenti pendenti con selezione delle priorità, riuscendo ad abbattere il 40% dell’arretrato; la Procura di Sciacca, attraverso protocolli d’intesa ad hoc, ha istituito una rete con l’ufficio anagrafe per la diretta estrapolazione dei certificati in via telematica; il Tribunale di Ancona ha eliminato l’arretrato grazie a un utilizzo innovativo della magistratura onoraria; nelle Procure di Torino e Palermo, ma anche di Roma e di Firenze, è possibile chiedere il certificato al casellario con un clic sul pc; a Forlì basta una app scaricabile da qualunque utenza per scorrere il calendario settimanale delle udienze e a Bologna tra poco non sarà più necessario andare al Palazzo di giustizia per il deposito di atti e documenti ma basterà raggiungere un Punto di accesso del Comune al processo telematico del ministero della Giustizia per provvedere con modalità digitali risparmiando tempo e denaro (si calcolano 146 euro per il cittadino). Paradossalmente, però, alcuni degli uffici più virtuosi quanto a buone pratiche si ritrovano - nonostante lo sforzo di supplire alla carenze di risorse - nella lista ministeriale di quelli meno virtuosi sul fronte prescrizione (come i Tribunali di Nuoro, Isernia, Ancona, Foggia, o le Procure di Milano, Nola, Cagliari)... Ma tant’è. Nell’ultimo anno sono state inserite 709 buone prassi - di cui 445 dagli uffici giudicanti e 264 da quelli requirenti - e da esse sono stati estratti 33 modelli di organizzazione classificati in 7 macroaree. "Non c’è più un forte divario tra Nord e Sud" sottolinea Ardituro, salvo Milano e Brescia che restano due "eccellenze", così come anche negli uffici più piccoli "c’è un impegno rilevantissimo". "La diffusività delle buone prassi - aggiunge Cananzi - dà uno spaccato della dirigenza e dell’attenzione all’organizzazione, nata per supplire alle difficoltà ma ormai diventata un habitus mentale per dare ai cittadini il miglior servizio possibile". Dimmi dove vivi, ti dirò che giustizia avrai di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 8 luglio 2016 A seconda delle sedi cambia tutto: a Trieste per chiudere un fallimento servono tre anni, a Siracusa 16. Ma non sempre il Sud è messo peggio del Nord. Quanto dista Trieste da Siracusa? Mille e cinquecento chilometri. Ma si può anche rispondere: sedici anni. Quanto tempo ci vuole dal capoluogo friulano all’altra città siciliana? Un’ora e mezza in aereo. Ma si può anche dire: 4.800 giorni in tribunale. Dipende solo da cosa si considera. Perché, se si calcola ad esempio quanto tempo occorra alla giustizia per chiudere una procedura di fallimento, la calcolatrice impazzisce di fronte all’abissale differenza fra appunto le 680 settimane (circa 16 anni) di Siracusa e invece i 3 anni di Trieste. È l’ennesima radiografia della forse maggiore patologia che attanaglia i tribunali italiani, e cioè quella sorta di preterintenzionale "federalismo" giudiziario che fa sì che tempi, capacità e prevedibilità dei procedimenti siano sempre più divaricati da territorio a territorio. Non necessariamente secondo l’usurato schema per il quale il Sud sarebbe sempre peggio e il Nord starebbe sempre meglio, luogo comune ribaltato ad esempio dalle performance del Tribunale di Marsala, passato in quattro anni dalla parte bassa del tabellone al secondo posto della graduatoria nazionale per efficienza nei processi ultra triennali. Ma resta pur sempre vero che la forbice ormai si fa dilagante in quasi ogni "disciplina" dello "sport" giustizia. Lo si vede nei tassi di prescrizione dei processi penali, dove l’incidenza tra processi definiti e processi estinti per "tempo scaduto" può oscillare dal disastroso 34,3 per cento di Torino al più accettabile 8,8% di Napoli, sino al solo 4% di Firenze e Roma o al quasi zero di Bolzano. Lo si registra nei tempi di durata dei procedimenti civili, dove una meritoria mappatura statistica promossa dal Ministero della Giustizia individua tredici tribunali che guidano il gruppo di testa avendo solo il 6% di cause civili più vecchie di tre anni (come la qui virtuosa Torino), ma altri dodici tribunali (come Foggia o Salerno) che annaspano nel fondo classifica schiacciati dal 40% di cause civili più vecchie di tre anni. Lo si coglie nel peso degli indennizzi per irragionevole durata dei processi o nei risarcimenti per ingiuste detenzioni, anch’essi a macchia di leopardo in Italia. Lo si verifica persino nella difforme geografia delle scoperture d’organico dei 9.000 cancellieri che complessivamente mancano negli uffici giudiziari dell’intero Paese, o in quelle dei magistrati che ad esempio vedono la Procura di Padova all’ultimo posto in Italia nel rapporto tra giudici e popolazione con oltre mille procedimenti l’anno da gestire per ogni singolo pm, un rapporto più che triplo rispetto ad altre Procure. Adesso sono da poco state rilasciate le conclusioni di una ricerca condotta dall’agenzia di rating Cerved, grazie ai dati del Registro delle imprese su base della sede provinciale delle aziende, sulla durata dei fallimenti chiusi in Italia nel 2015. E di nuovo ecco farsi bella o brutta una Italia tutta diversa a seconda di dove le si scatti la fotografia. L’unica notizia buona è che la media nazionale di 2.700 giorni, cioè di 7 anni e 4 mesi, è un po’ meglio degli 8 anni della precedente rilevazione 2014, e bene o male riporta le lancette dell’orologio alla situazione del 2006: boccata d’ossigeno in parte incentivata dal fatto che una delle previsioni del decreto legge n.132/2015 sulla giustizia civile abbia stabilito che l’incarico del curatore è revocato se la liquidazione dell’attivo non viene esaurita nel giro di due anni. Il lieve miglioramento della media nazionale è però l’unica (peraltro magra) consolazione se si guarda non soltanto l’estemporaneo testacoda record fra la "maglia rosa" Trieste e la "maglia nera" Siracusa, ma anche il più strutturale (e quindi più preoccupante) gap tra il gruppo di testa dei tribunali che come Bolzano o Milano o Como, ma anche come Crotone o Vibo Valentia, concludono una procedura di fallimento nel giro di 3-4 anni, e invece la pattuglia di retroguardia che, a Messina come però anche a Vercelli, naviga cinque volte più lenta, attorno (o persino sopra) ai 14 anni di procedura. La virologa Capua e l’inchiesta rimasta nel cassetto per 7 anni di Carlo Bonini La Repubblica, 8 luglio 2016 La vicenda giudiziaria della virologa Ilaria Capua e dei suoi trentanove coimputati accusati di aver trafficato in virus esponendo il nostro Paese a un’epidemia di influenza aviaria per assicurare un posto al sole a un cartello di società farmaceutiche nella corsa ai vaccini, è in una domanda cui, da martedì scorso, nessuno ha saputo o ha avuto voglia di rispondere. E che conviene riproporre. Perché ci sono voluti 12 anni per concludere che non esisteva materia per procedere vista "l’insussistenza del fatto" e, lì dove pure sarebbe esistita, prendere atto che, ormai, i fatti erano prescritti? Ieri, il consigliere laico in quota Forza Italia, Pierantonio Zanettin, ha chiesto al Csm l’apertura di una pratica per "incompatibilità ambientale" a carico del Procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, il magistrato che, di questa storia, è stato il solitario dominus inquirente. E, da ieri, il Procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo ha ritenuto di non rendersi disponibile ad alcune domande di Repubblica. Bisogna dunque accontentarsi delle "carte" - circa 20mila fogli - e di qualche data certa. Abbastanza, come vedremo, per correggere qualche ricordo dei protagonisti non esatto e capire dove, come e quando questo affaire si è trasformato nella catastrofe giudiziaria ora sotto gli occhi di tutti. La faccenda ha il suo incipit il 18 marzo 2005. Quel giorno, Robert S. Stiriti, dell’Immigration and Customs Enforcement statunitense, agenzia appartenente all’Homeland Security, informa con una nota protocollata "RM 07PQ03PM0001 (EPA), al capitano Marco Datti, Comandante del Nas dei Carabinieri di Roma, che dall’attività di indagine svolta sull’azienda Maine Biological laboratories nell’ambito di un’inchiesta su un contrabbando di virus tra Stati Uniti ed Arabia Saudita, è emerso che, nell’aprile del 1999, un ceppo del virus dell’influenza aviaria, denominato H9, è stato spedito con corriere Dhl a un impiegato della ditta Merial Italia senza le prescritte autorizzazioni. Quel signore si chiama Paolo Candoli, è un manager Merial, divisione veterinaria del colosso farmaceutico Sanofi e, interrogato dagli americani, patteggia la propria immunità mettendo a verbale quanto dice di sapere sul contrabbando dei virus. I suoi verbali vengono trasmessi nella seconda metà del 2005 ai carabinieri del Nas. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo apre un fascicolo e, partendo proprio dalla figura di Candoli, chiede e ottiene che vengano disposte intercettazioni telefoniche. Il fascicolo prende il numero 24117/2006. Due anni di intercettazioni e indagini convincono i Nas prima e Capaldo poi di aver afferrato il bandolo di un’associazione a delinquere che traffica in contrabbando di virus per consentire ad un cartello di aziende farmaceutiche di acquisire posizioni di vantaggio nella sintesi e vendita dei vaccini. E che di questa associazione snodo cruciale sia Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, in quel momento responsabile del Dipartimento di Scienze Biomediche comparate dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie con sede a Padova. Una scienziata classificata dalla rivista Scientific American tra i primi 50 al mondo e nota non solo per i suoi studi sul virus dell’influenza aviaria umana H5N, ma per aver reso pubblica, proprio nel 2006, la sequenza genetica del virus. Di più: l’indagine coinvolge il marito della Capua, Richard John William Currie, dipendente dell’altra azienda farmaceutica interessata alla sintesi di vaccini, la Fort Dodge Animal di Aprilia, e altri 38 indagati, tra cui tre scienziati al vertice dell’Izs di Padova (Igino Andrighetto, Stefano Marangon e Giovanni Cattoli), funzionari e direttori generali del Ministero della Salute (Gaetana Ferri, Romano Marabelli, Virgilio Donini ed Ugo Vincenzo Santucci), alcuni componenti della commissione consultiva del farmaco veterinario (Gandolfo Barbarino, della Regione Piemonte, Alfredo Caprioli dell’Istituto superiore di sanità, Francesco Maria Cancellotti, direttore generale dell’istituto zooprofilattico di Lazio e Toscana, Giorgio Poli della facoltà di Veterinaria dell’università di Milano, Santino Prosperi dell’università di Bologna), e Rita Pasquarelli, direttore generale dell’Unione nazionale avicoltura. Nel 2007, la vicenda, da un punto di vista investigativo, potrebbe dirsi chiusa. E la circostanza è tanto vera che, il 2 luglio di quell’anno, contrariamente a quanto sostenuto nelle interviste rilasciate nei giorni scorsi ("nessuno mi ha mai sentito"), Ilaria Capua viene interrogata da Giancarlo Capaldo, alla presenza dell’avvocato Oliviero De Carolis, che in quel frangente sostituisce l’avvocato Paolo Dondina (oggi l’Espresso pubblicherà sul suo sito il dettaglio di quell’interrogatorio, mentre ieri la Capua non ha dato seguito ai messaggi lasciati da Repubblica). È una circostanza che, al di là del merito della vicenda processuale, prova come, in quel 2007, il Procuratore aggiunto di Roma e gli indagati si muovano su un terreno di cui ormai è stato definito il perimetro. E per il quale è dunque possibile andare rapidamente a una conclusione dell’indagine. Che, invece, non arriva. Il procedimento 24117/2006 entra infatti in un letargo da cui i Nas dei carabinieri provano inutilmente a destarlo con un’ultima informativa nel 2010. Ma senza esito. Nel frattempo, la vita della Capua cambia. Nel febbraio del 2013 viene eletta deputata di Scelta civica. Della sua vicenda giudiziaria nessuno, tranne gli interessati, sa. E persino il nuovo procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ne rimane all’oscuro fino al 2014. Quando di quell’inchiesta, in aprile, dà conto nel dettaglio, anche temporale, il settimanale Espresso e la Capua decide di rivolgersi all’avvocato Giulia Bongiorno, nominata subito dopo la pubblicazione dell’articolo. La Bongiorno sollecita più volte Capaldo a una definizione del procedimento, che, di fatto, è ormai solo un processo di carte per giunta invecchiate di sette anni. Non fosse altro perché delle due l’una. O quelle accuse sono fondate e un’associazione a delinquere di quella pericolosità va messa nelle condizioni di non nuocere, o invece non reggono e allora gli indagati vanno liberati del fardello. L’avviso di conclusione indagini e le richieste di rinvio a giudizio per i 40 indagati arrivano a giugno 2014. L’udienza preliminare, nel maggio dell’anno successivo, vede il gup di Roma, Michela Francorsi, dichiarare l’incompetenza territoriale di Roma e "spacchettare il processo" in tre tronconi. A Verona, Padova e Pavia. A Pavia molti reati arrivano già prescritti. Lo stesso a Padova, dove il pm chiede l’archiviazione per prescrizione (il Gup non si è ancora pronunciato). A Verona, dove la Capua è difesa dall’avvocato Armando De Zuani, il gup Laura Donati pronuncia il non luogo a procedere perché "il fatto non sussiste". Con una sola eccezione, un’accusa di concussione per induzione che risulta tuttavia prescritta. Il caso è chiuso. Dodici anni buttati. Per tutti. "Perché il pm non ha interrogato la Capua?". Il Csm apre un fascicolo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 luglio 2016 Bufera sul magistrato che ha indagato la virologa italiana. Il Consigliere laico Pierantonio Zanettin ha chiesto formalmente l’apertura di una pratica in Prima Commissione per valutare se sussistano "profili di incompatibilità" nei confronti di Giancarlo Capaldo, l’Aggiunto della Procura di Roma che ha indagato per anni Ilaria Capua, la virologa italiana di fama mondiale che per prima ha isolato il virus H5N1 (influenza aviaria). La Commissione disciplinare del Csm dovrà verificare se la condotta del magistrato sia stata effettivamente "terza ed imparziale". La vicenda è nota. Secondo i carabinieri del Nas di Roma, Capua e suo marito facevano parte di un’associazione a delinquere finalizzata a speculare sulla vendita dei vaccini contro l’influenza aviaria. Per i magistrati, Capua, pur di arricchirsi, sarebbe arrivata a diffondere il virus negli allevamenti del Nord Italia in modo da causare una epidemia e aumentare così le vendite dei vaccini. Le indagini, inziate nel 2005 con ampio ricorso alle immancabili intercettazioni telefoniche, terminarono 10 anni dopo. Quando la Procura di Roma chiese il rinvio a giudizio per 41 tra ricercatori, funzionari del ministero della Salute e manager di case farmaceutiche. L’inchiesta ebbe, però, il suo momento di gloria un anno prima, allorquando l’Espresso pubblico, con le indagini preliminari ancora in corso. tutte le carte del procedimento penale "top secret". "La cupola dei vaccini", il titolo dello scoop. Nel frattempo il procedimento era stato "spezzettato" per competenza territoriale fra diverse Procure, tra cui quella di Verona che l’altro giorno ha chiesto e ottenuto il proscioglimento degli indagati, fra cui Capua, perché "il fatto non sussiste". Appena si era diffusa la notizia dell’indagine, Capua, che era stata anche eletta in parlamento nella fila di Scelta Civica, divenne oggetto di un linciaggio mediatico feroce. Alcuni commenti? "Grandissima zoccola! " o "Iniettategli a forza il virus! ". I grillini gli avevano addirittura intimato di dimettersi. Travolta dalla gogna, "la signora dei virus" come venne definita da l’Espresso, lasciò il Parlamento e l’Italia. Trovando ospitalità negli Stati Uniti, dove da qualche settimana dirige un prestigioso dipartimento presso l’Emerging Pathogens Istitute dell’Università della Florida. Una perdita per il paese che ha visto andar via una delle migliori scienziate attualmente in circolazione, la prima sotto i sessant’anni a vincere il Penn Vet World Leadership Award, il riconoscimento più importante del pianeta nell’ambito delle discipline veterinarie. Gli americani non si sono fatti influenzare dai carichi pendenti della Capua. Reati che in Italia gli avrebbero impedito di partecipare ad un qualsiasi concorso pubblico, anche ad una semplice selezione per un posto di bidello. La rivista Science aveva fin da subito fatto a pezzi l’indagine. "I documenti non sembrano siano stati revisionati da esperti scientifici", scrissero. Il dott. Christianne Bruschke, scienziato esperto di patologie veterinarie presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità arrivò a definire le accuse contro Capua "ironiche". Quando Capua, presentandosi all’università della Florida, disse che in Italia per i reati contestati rischiava la condanna all’ergastolo, risposero che conoscevano le accuse e che erano talmente campate in aria da non essere di loro interesse. Evidenziando in questo modo grande considerazione per gli inquirenti. Intervistata questa settimana dal Corriere, Capua ha dichiarato che i magistrati, in questi anni, si sono sempre rifiutati di ascoltarla. Forse, diciamo noi, per il timore che avrebbe potuto fornire giustificazioni ad accuse talmente lunari. Spazzando via il teorema accusatorio, costruito in anni di indagini costose. A questo punto il Csm dovrà verificare se il procuratore Capaldo abbia esercitato il suo ruolo seguendo la Costituzione, e cioè con "imparzialità" e "terzietà". Magari anche se abbia svolto "accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini", come recita l’art. 358 cpp. Nel frattempo il danno è fatto. Capua lavorerà negli Stati Uniti. Ed un’altra indagine mediatica si è risolta in un costoso buco nell’acqua. Caso Contrada, la Cassazione dice "no" alla revisione della condanna La Stampa, 8 luglio 2016 Inammissibile il ricorso straordinario presentato dall’ex dirigente del Sisde condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione ha dichiarato "inammissibile" il ricorso di Bruno Contrada contro la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa emessa dalla Suprema Corte nel 2007 e contestata dalla sua difesa in seguito alla sentenza dello scorso aprile con la quale la Corte di Strasburgo aveva "censurato" la condanna a 10 anni di carcere inflitta all’ex 007. La difesa aveva fatto ricorso per "errore materiale". In particolare la Corte di Strasburgo, in base a quanto sostenuto dalla difesa di Contrada, lo scorso aprile aveva ritenuto "ingiusta" la condanna di Contrada per concorso esterno rilevando che "questa figura di reato è stata costruita in epoca successiva ai fatti contestati", che risalgono agli anni 1979-1988, mentre il concorso esterno è stato configurato all’inizio degli anni 90. L’udienza si è svolta ieri a porte chiuse innanzi alla Seconda Sezione penale e il pg aveva chiesto il rigetto del ricorso di Contrada. La dichiarazione di inammissibilità del ricorso, spiegano fonti della difesa, indica che non era ‘percorribile´ la strada della ‘correzione´ della sentenza con il ricorso per "errore materiale". Ieri il ricorso è stato discusso dall’avvocato Massimo Krogh. Oblio, non convince la stretta sul web di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2016 Con sentenza n. 13161 del 24 giugno 2016, la I sezione civile della Cassazione ha stabilito che costituisce illecito trattamento di dati personali il mantenimento online di un articolo, pubblicato due anni prima, che dava conto della sussistenza di un procedimento penale, nel frattempo non ancora concluso. Più precisamente, nell’ottobre del 2010 un soggetto lamentava la violazione del proprio diritto all’oblio perché in un sito di informazione locale era presente dal 2008 la notizia del suo coinvolgimento in una vicenda di natura penale. La Corte conferma la scorrettezza del trattamento, quantomeno per il periodo di oltre otto mesi, dal settembre 2010, quando il ricorrente aveva inviato una richiesta di rimozione, al maggio 2011, quando la cancellazione era stata eseguita. In particolare, il tratto illecito viene individuato nel "mantenimento del diretto e agevole accesso" al servizio, nonché nella diffusione sul web. Infatti, la ricerca in rete del nome del ricorrente faceva comparire, oltre alla home page del sito in questione, anche il link all’articolo del 2008. Per la Corte, quindi, la facilità di accesso via web alla notizia, ben maggiore rispetto ai giornali cartacei, determina in breve tempo il venir meno dell’interesse pubblico nei confronti della vicenda. Per di più, la lesione della riservatezza e della reputazione discende dalla peculiarità delle operazioni del trattamento, caratterizzate da sistematicità e capillarità. Una simile conclusione non convince. Anzitutto non pare condivisibile la posizione della Corte, secondo la quale il mantenimento dell’articolo online equivalga a una costante pubblicazione. Il più agevole reperimento del testo, grazie ai motori di ricerca, non consente di equiparare la mera conservazione dell’articolo a una incessante diffusione, come viceversa sembra fare la sentenza. Per intenderci: la pubblicazione si risolve nella offerta al pubblico di un certo prodotto confezionato per la diffusione. Solo a tale condotta, cioè alla pubblicazione, si applicano le regole previste per l’attività giornalistica e, in particolare, quella secondo cui i dati possono essere diffusi, senza consenso, purché corretti ed essenziali per comprendere una notizia di interesse pubblico. Il diritto all’oblio è una specificazione di questa regola: è violato quando viene pubblicata una notizia non più attuale, ovvero non essenziale. Diverso è il caso della conservazione dell’articolo. Questa condotta somiglia all’archiviazione, che ubbidisce a regole differenti. E infatti il trattamento per scopi storici - quelli di chi tiene un archivio - può essere effettuato anche oltre il periodo di tempo necessario per gli scopi in relazione ai quali sono stati in origine trattati i dati (ed esempio la pubblicazione). Inoltre, anche a voler ritenere che la mera disponibilità del pezzo possa considerarsi una pubblicazione, si potrebbe discutere sul fatto che l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti sia venuta meno. Se è vero infatti che sono passati più di due anni dalla prima diffusione, è anche vero che il procedimento di cui si dava notizia non era terminato, circostanza che fa ritenere ancora di rilievo la notizia. Questa decisione pare derogare al tradizionale bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e altri diritti. Se infatti finora la libertà sembrava essere la regola e i divieti l’eccezione, le particolari caratteristiche della rete, che ha aumentato esponenzialmente le notizie e dunque i dati a disposizione, paiono indurre a un ripensamento che, tuttavia, allo stato non pare né costituzionalmente bene orientato né auspicabile. Procedure speciali senza traduzione di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2016 Gli obblighi in materia di interpretazione e traduzione nei procedimenti penali non si estendono alle procedure speciali che servono solo a dare effetto a una sentenza di condanna definitiva resa in un altro Stato membro. Che, tra l’altro, sono contrarie al diritto Ue. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 9 giugno nella causa C-25/15 con la quale la Corte ha colto l’occasione per chiarire che i procedimenti speciali di riconoscimento violano il diritto Ue perché vanificano l’obiettivo dello scambio di informazioni rapide nello spazio europeo. Al centro della pronuncia, la direttiva 2010/64/ UE sul diritto all’interpreta- zione e la traduzione nei procedimenti penali, recepita in Italia con il Dlgs 32/2014. A rivolgersi agli euro-giudici è stato il tribunale di Budapest chiamato a pronunciarsi sugli effetti di una sentenza di un tribunale austriaco nei confronti di un cittadino ungherese condannato a una pena detentiva per furto aggravato. Le autorità austriache avevano trasmesso il provvedimento ai colleghi ungheresi. Il tribunale di Budapest è chiamato a decidere sul riconoscimento della pronuncia in Ungheria, senza un riesame dei fatti e senza poter mettere in discussione la condanna. Tuttavia, i giudici nazionali hanno chiesto alla Corte Ue di chiarire se la direttiva 2010/64 sia applicabile a un procedimento speciale di riconoscimento della pronuncia resa in un altro Stato membro. Lussemburgo ha, in primo luogo, chiarito, per tracciare il perimetro di applicazione della direttiva 2010/64, che l’atto Ue, che riconosce a tutela dell’imputato il diritto all’interpretazione e alla traduzione nella propria lingua, fissa l’ambito oggettivo di attuazione che va dal momento in cui un individuo è messo a conoscenza di esse- re indagato o imputato di un reato fino alla conclusione del procedimento che coincide con l’adozione della decisione definitiva di accertamento del reato, inclusa la fase dell’irrogazione della pena e dell’esaurimento delle istanze in corso. Di conseguenza, la fase successiva alla pronuncia della decisione definitiva non è oggetto dell’assistenza linguistica imposta dall’atto Ue. D’altra parte, se nel procedimento che ha portato alla condanna l’interpretazione è stata assicurata - come era avvenuto in Austria - il diritto è stato attuato in modo effettivo e, quindi, non è necessaria la nuova traduzione della sentenza nel corso di un procedimento speciale funzionale al riconoscimento dell’efficacia della pronuncia. La Corte, però, ha anche bocciato in toto il sistema di riconoscimento che è in contrasto con l’obbligo, in base alla decisione quadro 2009/315 sull’organizzazione e il contenuto degli scambi tra Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario (recepita con il Dlgs 74/2016) e alla decisione 2009/316 che istituisce il sistema europeo di informazione dei casellari giudiziari (Ecris, recepita con Dlgs 75/2016)) di iscrizione immediata, per mezzo di Ecris, nel casellario giudiziario dello Stato membro della cittadinanza, senza attendere il procedimento di riconoscimento giudiziario delle condanne. In caso contrario, sarebbe compromesso l’obiettivo degli atti Ue che è assicurare "un sistema rapido ed efficace di scambi di informazioni relative alle condanne penali pronunciate nei vari Stati membri dell’Unione". Umbria: Ugl; dopo l’accorpamento del Provveditorato situazione difficile nelle carceri di Adriano Lorenzoni terninrete.it, 8 luglio 2016 "Dopo i decreti del Governo sulla depenalizzazione dei reati e le direttive europee della Corte di Strasburgo con la sentenza Torreggiani (che ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani ) le due case circondariali di Terni e Perugia e la casa di reclusione di Spoleto si ritrovano quasi nelle stesse condizioni di un paio di anni fa." Lo denunciano Alessandro De Pasquale e Francesco Petrelli della Ugl Polizia Penitenziaria. "L’accorpamento del Provveditorato Umbria con il Provveditorato della Toscana ha sensibilmente peggiorato le condizioni dei tre istituti, non si segnalano cambiamenti per l’istituto a custodia attenuata di Orvieto, contribuendo allo sfollamento di detenuti disagiati e incontrollabili dal penitenziario di Firenze "Sollicciano" verso le "case" dell’Umbria. Partendo dai numeri -aggiungono De Pasquale e Petrelli - l’Umbria "zona neutra e isola tranquilla" fino a qualche anno fa ormai si ritrova in pianta stabile fra le regioni con un indice di criminalità fra i più alti d’Italia, tra quella percepita e quella subita. Gli istituti di Terni e Spoleto sono tra i più pericolosi d’Italia con detenuti di tutte le tipologie di reato, dai Protetti agli As2, dai 41bis agli As3, ovviamente non mancano i detenuti comuni. Sottovalutate tutte le possibilità della penetrazione della criminalità nel territorio circostante e completamente disatteso il principio comunitario della territorialità della pena. Allo stato dei fatti la capienza regolamentare totale dei detenuti in Umbria è di 1336 detenuti ma al momento soggiornano in Umbria circa 1450 detenuti, non includendo tutti gli As3 fuori per giustizia tra Spoleto e Terni. A Terni sono circa quaranta detenuti e a Spoleto una trentina e la permanenza effettiva in Umbria supererebbe i 1500 presenti. Solo il carcere di Perugia accoglie detenute donne, la capienza regolamentare dell’Umbria per gli uomini è di 1261 a fronte di 1350 presenti, non includendo i fuori per giustizia. Riassumendo a Perugia sono presenti 125 italiani e 241 stranieri per un totale di 366 detenuti, a Terni 341 italiani e 126 stranieri per un totale di 467 detenuti mentre a Spoleto sono 409 italiani e 78 stranieri per un totale di 487 detenuti. Il carcere di Sollicciano solo un mese e mezzo fa contava più di 800 detenuti, ora la presenza è scesa sotto i 700 detenuti". Secondo i due sindacalisti, "troppi trasferimenti per motivi diversi, che non sempre rientrano tra i parametri dell’ordinamento penitenziario, troppe tipologie di reato che non consentono una gestione uniforme dei detenuti, poche videoconferenze che permetterebbero meno spostamenti dei detenuti in giro per l’Italia, con più sicurezza per l’istituto e per gli stessi operatori e poca attenzione delle istituzioni verso un mondo che sembra sconosciuto e lontano ma che fa parte della nostra società." "L’Ugl - concludono De Pasquale e Petrelli - non ha mai nascosto le sue perplessità sulla superficiale gestione dei detenuti e sull’assenza di politiche connesse ad un reinserimento e ogni volta si trova a denunciare l’assenza di strategie a lungo termine degli organi competenti. Nuoro: emergenza sanità penitenziaria, Badu e Carros senza psicologo La Nuova Sardegna, 8 luglio 2016 Il Garante dei detenuti Gianfranco Oppo: "Un servizio essenziale sospeso ormai da quattordici mesi" Carcere dimenticato ai margini. "Eppure il "male oscuro" è la patologia più diffusa tra le celle". "Ma il carcere rientra nel sistema territoriale regionale di prevenzione, cura e tutela della salute? La domanda è più che mai lecita, posto anche che la tutela della salute, soprattutto nei confronti di coloro che patiscono qualsiasi forma di privazione della libertà, è qualcosa che va più in là del binomio dovere/diritto". È Gianfranco Oppo, garante dei detenuti, che lancia l’ennesima pietra nello stagno del silenzio. È da oltre un anno, infatti, che il carcere di Badu e Carros resta ancora senza uno psicologo. "Pare evidente che ci sono tanti modi di pensare la salute - insiste Oppo, ma in questo caso appare chiaro che si tratta di un modo inefficace di concepire come tutelare i cittadini più deboli, coloro che non possono decidere di rivolgersi altrove perché il servizio non funziona, di color che dovrebbero avere maggiore attenzione visto che chi è privato della possibilità di muoversi, non può presentarsi allo sportello dell’ufficio per le relazioni con il pubblico per "alzare la voce" o semplicemente per reclamare quello che dovrebbe spettargli di diritto". Quello della sanità penitenziaria è un problema per alcuni versi irrisolto, "è un nodo culturale, è una questione di sensibilità, che pure hanno dimostrato in tutti i modi di possedere coloro che dovrebbero provvedere e fare in modo che quello del carcere sia un nodo a tutti gli effetti della rete regionale di tutela della salute" spiega ancora il garante Oppo. Eppure così non è. I fatti smentiscono qualsiasi dichiarazione o proclama. "Da quattordici mesi è stato interrotto il servizio psicologico nella casa circondariale di Badu ‘e carros. Un servizio che non c’era, strappato con i denti, passo dopo passo, attraverso i momenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla medicina penitenziaria a quella regionale. Un servizio che stava dando i suoi frutti e che alleggeriva il servizio di psichiatria di tutti quei casi in cui non esiste una diagnosi conclamata di sofferenza mentale". "Non è il caso di dilungarsi troppo sul significato e sulla necessità estrema di una presa in carico di casi di sofferenza psicologica in un luogo in cui la vita in spazi angusti, le celle sovraffollate, i processi di infantilizzazione che induce un sistema totalizzante, la cosiddetta sindrome di prigionizzazione che tocca indistintamente ergastolani e nuovi giunti, rende più che mai necessario avere una figura dell’area medica cui potersi rivolgere per poter dire, raccontare, sfogarsi e capire se si è sull’orlo dell’uscita di testa o di qualche azione ancora più inconsulta. Lo psicologo in carcere è una figura fondamentale nel continuum della salute mentale così come prevede la legge - ribadisce Oppo: è impegnato fin dal colloquio di primo ingresso per scorgere eventuali situazioni critiche o a rischio; segue i detenuti nei momenti di maggiore sofferenza, placca il "male oscuro" che è la patologia più diffusa tra le celle. È una figura indispensabile quando muore un familiare e si è costretti lontano, quando un parente si ammala e chi è ristretto non può dare un aiuto in alcun modo, quando la sofferenza di avere bambini piccoli, non poterli abbracciare, non poter provvedere sia materialmente che dal punto di vista educativo ai loro bisogni, produce un rimorso ben più pesante che la privazione della libertà e produce idee autodistruttive. Qualcuno per protesta ha intentato lo sciopero della fame, che ha smesso dietro la promessa del dirigente medico e mia di una soluzione imminente del problema: non è accaduto niente, siamo arrivati al limite della sopportabilità. Vox clamantis in deserto verrebbe da dire quella di chi ha cercato di trovare una soluzione sempre prospettata, ma mai realizzata. Sembra di essere di fronte a un sistema inceppato che non è in grado, trascorso più di un anno, di dare risposte ai cittadini più deboli. Come diceva Primo Levi: "giudicate voi se questo è un uomo"". Cagliari: il direttore del carcere "mancano 130 agenti e il reparto del 41-bis è incompleto" castedduonline.it, 8 luglio 2016 Mancano 130 agenti nell’organico della Polizia Penitenziaria del Carcere di Uta, numerosi impiegati e il reparto 41 Bis ancora da completare. Per andare a regime nel carcere di Uta si deve completare la struttura che deve ospitare il 41 BIs dove i lavori sono stati sospesi. Ma si attende che arrivino anche 130 agenti che mancano nell’organico. Per il Carcere di Uta, nuovo di zecca sulla carta, si deve attendere quindi ancora parecchio tempo perché funzioni veramente a regime normale e non siano sottoposti a stress gli operatori che devono sopperire alla mancanza di tante unità nell’organico. Da non sottovalutare anche i collegamenti che non sono ancora soddisfacenti e che creano tanti problemi ai parenti dei detenuti che non sono motorizzati. "La ditta che ha costruito l’istituto è fallita" ha spiegato il direttore del Carcere di Uta Gianfranco Pala "il 41 Bis è la parte più grossa mancante ma non sono stati completati anche altri lavori. L’altro settore è completo e ospita 600 detenuti con reparto femminile e centro clinico". Nel nuovo carcere non mancano i lavori che i reclusi possono svolgere all’interno, ma molti lavorano all’esterno: "Ci sono 40 detenuti che lavorano all’esterno" Ha continuato il direttore del carcere "Il personale purtroppo è insufficiente, sia come Polizia Penitenziaria, sia come operatori amministrativi. Come organico siamo sotto di circa 130 unità ma abbiano carenze anche nel settore amministrativo e ragioneria. Purtroppo è una situazione per lo Stato abbastanza seria e non siamo l’unico settore che ha queste carenze perché i concorsi sono bloccati, la gente va in pensione e non viene sostituita". Per quanto riguarda i collegamenti Gianfranco Pala a confermato che stanno migliorando ma non sono ancora insufficienti. Insomma un quadro non allarmante quello dipinto dal direttore Gianfranco Pala ma preoccupante perché la mancanza di 130 persone nell’organico della Polizia Penitenziaria vuol dire sottoporre a lavori supplementare con turni extra e impegnativi gli attuali agenti in forza addetti al controllo dei detenuti ma anche ai loro spostamenti per udienze etc. Guardate il video con l’intervista. Milano: dal carcere le nuove luci Led di Chiara Organtini L’Espresso, 8 luglio 2016 A volte anche una start-up con un milione di euro e una buona idea rischia il flop. Era accaduto a Invector Led, azienda milanese che, pur avendo acquisito costosi brevetti per operare nell’illuminazione pubblica, non era riuscita a sviluppare la produzione. A salvarla, un dirigente del ministero di Giustizia, Vincenzo Lo Cascio, che si è messo in aspettativa, l’ha rivoltata come un calzino e avviato il progetto "Luce per il futuro". Nel giro di poco, Invector Led ha acquisito CC Illumination, ditta in fallimento ma dal passato glorioso, portandosi in casa il know-how, nonché trasferito la produzione delle lampade intelligenti nelle carceri: minori spese e un lavoro pagato per i detenuti grazie alla legge Smuraglia, con cui ì reclusi possono scontare il costo della detenzione, che una volta fuori sarebbe a loro carico. La start up sta ora bussando alle porte del neo sindaco di Roma, Virginia Raggi, per portare la produzione nel carcere di Rebibbia e rischiarare almeno un quartiere della capitale. E altrettanto farà a Trapani, nel carcere di San Giuliano. Le sue luci fanno risparmiare il 50 per cento di elettricità, illuminano meglio e memorizzano immagini come uno smartphone, fornendo dati sui passaggi nella zona sottostante. Lo Cascio, presidente, insieme al direttore operativo Enrico Conti e a Gilda Magni, architetto che ha lavorato all’illuminazione del Colosseo, hanno iniziato l’avventura con la produzione nel carcere di Opera. Prima commessa San Giovanni Rotondo, in Puglia, poi all’estero, in Grecia. Palermo: martedì convegno "Espiazione della pena e diritti fondamentali della persona" filodirettomonreale.it, 8 luglio 2016 Martedì prossimo, 12 luglio presso il Castello di Carini verranno tracciate le conclusioni del convegno: Espiazione della pena e diritti fondamentali della persona. Martedì prossimo, 12 luglio, alle ore 16.00, presso il Castello di Carini il Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando traccerà le conclusioni del convegno: Espiazione della pena e diritti fondamentali della persona. Una riflessione sulla situazione carceraria italiana. All’evento, organizzato dall’Ufficio Diocesano per la Pastorale Sociale e del Lavoro, il Movimento Cristiani Lavoratori e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, relazioneranno il Presidente del Tribunale di Palermo, Dott. Salvatore Di Vitale, il Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dott. Santi Consolo, il Garante detenuti Reg. Sicilia, prof. Giovanni Fiandaca, l’Ordinario Diritto Penale Univ. Palermo, prof. Bartolomeo Romano. Durante l’assise l’Arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi, firmerà un protocollo d’intesa con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia. Lo scopo del protocollo è quello di promuovere azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale. Inoltre, intende promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività, oltre favorire la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti ammessi a misura alternativa o ammessi alla sospensione del procedimento con messa alla prova che hanno aderito ad un progetto riparativo. Si tratta di una convenzione per l’accoglienza, nelle parrocchie, dei carcerati e di chi deve ancora scontare residui di pena o svolgere pene alternative. Una disponibilità già attuata da diversi parroci e che va colta come un’opportunità nell’anno giubilare della Misericordia. Modererà l’incontro il presidente dell’Ordine degli Avv. Di Palermo, Avv. Francesco Greco. Vista l’importanza dell’evento saranno presenti anche il Presidente delle Corte d’Appello di Palermo, dott. Gioacchino Natoli, l’Assessore Regionale BB.CC. Avv. Carlo Vermiglio, il vice Presidente Nazionale MLC, avv. Vincenzo Massara, nonché il Sindaco di Carini, prof. Giuseppe Monteleone. Stupro, in Germania basta dire "no" di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 8 luglio 2016 "No means no!", no significa no. Con 601 voti e un solo astenuto il Bundestag ha varato ieri la nuova legge sulla violenza alle donne. In contemporanea a Colonia il tribunale ha emesso le prime due condanne per il sex mob di Capodanno. È di un anno di carcere (con la condizionale) la pena inflitta a un iracheno ventunenne e a un algerino di 26 anni. Il primo è stato riconosciuto colpevole di aver circondato, baciato e leccato sul volto una donna. L’altro per complicità e per aver molestato sessualmente la stessa vittima. Finora il tribunale a Colonia aveva perseguito solo reati come furto e ricettazione, nell’ambito del dossier del 1 gennaio scorso (1.100 denunce penali, tra cui circa 500 per reati sessuali). Ma ora in Germania le donne sono più tutelate. A cominciare dallo stupro, la cui definizione giuridica cambia in modo netto: alle vittime non serve la resistenza fisica o attiva, basta un esplicito diniego nei confronti dell’approccio a far scattare l’accusa di violenza sessuale. Manuela Schwesig (Spd), ministro della Famiglia, commenta visibilmente soddisfatta: "Prima c’erano casi di donne violentate senza che vi fosse la possibilità di punire i colpevoli. Il cambiamento della legge contribuirà ad aumentare il numero di chi sceglie di denunciare e ridurrà quello dei procedimenti penali destinati a essere accantonati. In buona sostanza ora le aggressioni sessuali sono adeguatamente punite". Sulla stessa onda, il ministro federale della Giustizia Heiko Maas, anche lui dell’Spd: "La nuova normativa interviene nei confronti delle "scappatoie palesi" contenute nella legge precedente, ma soprattutto amplia la giurisprudenza sullo stupro: si tratta di attività sessuale contro la volontà visibile della vittima", specifica. E aggiunge: "Adesso è tutto più chiaro. Anche di fronte allo stato inerme di chi è considerato "preda", i colpevoli vengono severamente puniti. Come ho detto in aula, se gli stupratori non possono essere perseguiti, si tratta di una seconda amara umiliazione per le vittime". Eva Högl, responsabile Giustizia Spd, evidenzia la svolta epocale: "Finalmente, è cruciale che sia stato inserito il principio di No means no! all’interno del nostro codice penale. Ogni singolo atto sessuale senza il necessario consenso ora diventa un reato perseguibile e punibile". I dati statistici restano tuttavia preoccupanti: 8 mila segnalazioni di aggressioni sessuali all’anno in Germania con appena l’8% che si traduce in un processo con condanna. Con la nuova legge si gira letteralmente pagina e non ci sono più margini di equivoco. Lo sottolinea con forza Christina Clemm (avvocato specializzato in diritto penale) nel sito di Deutsche Welle, la compagnia tedesca di informazione internazionale che fa parte del consorzio della tv di Stato. "Ci sono stati casi di vittime molestate sessualmente in treno: uomini con le mani nelle camicette, pronti a strofinarsi sul seno o sul sedere. Una donna aveva ospitato un amico perché aveva perso l’ultima corsa per tornare a casa e poi se lo è trovato ad armeggiare intorno a lei e, alle sue rimostranze, le ha infilato un dito nella vagina". Ora opporre resistenza non è più necessario: fino a ieri il reato di stupro era acclarato solo se la vittima protestava fisicamente. Una vittoria per attivisti, legali e associazioni per i diritti delle donne che si sono battuti per inasprire la normativa e soprattutto far passare il principio che basta dire "no". La maggioranza dei tedeschi aveva già manifestato pieno accordo sull’idea di "autodeterminazione sessuale". Kristina Lunz, tra le promotrici della campagna No means No! sottolinea: "È la fine del medioevo. Tanto più che la Repubblica federale aveva già sottoscritto la convenzione di Istanbul secondo cui tutto il sesso non consensuale rappresenta un crimine. Appunto, il principio che un diniego è più che sufficiente. La Germania finora non aveva mai ratificato quella convenzione. Ma ora finalmente c’è la legge". Il pm Gratteri: "legalizzare la marijuana non colpisce le cosche" di Gaetano Mazzuca La Stampa, 8 luglio 2016 La replica del procuratore all’apertura del procuratore antimafia. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, 58 anni, dal 1989 vive sotto scorta per le sue inchieste contro la ‘ndrangheta in Calabria. "Penso che uno Stato democratico non si possa permettere il lusso di liberalizzare ciò che provoca danni alla salute dei cittadini". Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, da 30 anni magistrato in prima fila nella lotta alla ‘ndrangheta calabrese, non usa giri di parole per esprimere la sua totale contrarietà all’ipotesi di una legalizzazione delle droghe leggere. Il disegno di legge in discussione in parlamento, che ha trovato il parere favorevole del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, non sembra convincere il magistrato calabrese. "Uno stato democratico si deve occupare della salute e della libertà dei suoi cittadini, noi sappiamo invece che qualsiasi forma di dipendenza genera malattie, in particolare psichiche, ma genera anche ricatto. Non possiamo liberalizzare ciò che fa male". Solo una questione etica? "Il guadagno che si sottrarrebbe alle mafie è quasi ridicolo rispetto a quanto la criminalità trae dal traffico di cocaina e eroina. Un grammo di eroina costa 50 euro, un grammo di marijuana costa 4 euro. Non c’è paragone dal punto di vista economico". Insomma non servirebbe per arginare il potere delle cosche? "Ogni 100 tossici dipendenti solo il 5% usa droga leggere. Di questa percentuale solo il 25% viene utilizzato da maggiorenni, l’altro 75% sono minorenni. Se noi pensiamo di liberalizzare e vendere droghe leggere e allora dovremmo ipotizzare di vendere hashish e marijuana anche ai minorenni. Di sicuro non risolveremmo il problema di contrasto alle mafie. Le mafie per coltivare canapa non pagano luce, acqua e soprattutto personale, se si legalizza invece bisogna assumere operai, pagare acqua, luce, il confezionamento, il trasporto. Si è fatto un esperimento a Modena creando delle serre, si è capito che in questo modo un grammo costerebbe 12 euro, tre volte in più di quanto costa al mercato nero. È evidente che il "consumatore" andrà comunque dove paga meno". Che ruolo hanno le droghe leggere per il mondo della criminalità organizzata? "Spesso è il primo passaggio. Nel momento in cui una piccola organizzazione criminale si conquista una piazza di spaccio con la marijuana il passo poi è breve per utilizzare quella stessa piazza per vendere eroina e cocaina". Il contrasto allo spaccio di hashish e marijuana sottrae tempo e risorse a obiettivi più importanti? "Le attività investigative dimostrano che le organizzazioni criminali che vendono al dettaglio gli stupefacenti diversificano e quindi spacciano cocaina, eroina, ma anche marijuana, hashish e droghe sintetiche. Non vedo una dispersione di uomini e mezzi". La ‘ndrangheta che spaccia cocaina in mezzo mondo ha ancora interesse per il mercato delle droghe leggere? "Ci sono vaste aree dell’Aspromonte controllate dalle cosche in cui si produce marijuana. Così come accadeva nella stagione dei sequestri, il pastore che custodiva il gregge allo stesso modo controllava il sequestrato, ora fa da guardiano alla piantagione. Non c’è nessun dispendio di energia o risorse per i clan". Tutto prodotto locale? "Non solo, una parte arriva da Marocco e Albania". E i talebani? "Da lì arriva l’eroina. La guerra in Afghanistan è servita solo ad arricchire i talebani, il prezzo dell’eroina si è abbassato e il consumo è cresciuto". Il rapporto Chilcot sull’Iraq conferma quello che Pannella diceva tredici anni fa di Valter Vecellio Il Dubbio La commissione britannica, presieduta da sir John Chilcot, ha rese note le conclusioni del suo lavoro sulla guerra in Iraq. A quelle stesse conclusioni era giunto tredici anni fa Marco Pannella che tentò di convincere la comunità internazionale sulla via da seguire: l’esilio di Saddam. Sette anni di lavoro, sette anni, anche, di stop and go, ma alla fine la commissione britannica presieduta da sir John Chilcot rende note le conclusioni del suo mastodontico lavoro. Ed è qualcosa che "pesa": L’intervento in Iraq è definito "affrettato". Si potevano considerare altre opzioni pacifiche prima di entrare in guerra, visto che l’intervento non era l’ultima possibilità. Nel 2003 non esistevano minacce imminenti da parte di Saddam. Secondo il rapporto le circostanze nelle quali fu deciso che c’era un fondamento legale per un intervento militare sono "tutt’altro che soddisfacenti". I servizi segreti non avevano stabilito "al di là di ogni ragionevole dubbio" che Saddam era in possesso di armi di distruzione di massa. "A nessun livello è stata esaminata la possibilità che l’Iraq potesse non avere armi o programmi chimici, biologici o nucleari". Secondo il rapporto Chilcot non è vero che non si poteva prevedere la rapida ascesa del terrorismo. Blair fu messo in guardia sulla minaccia che le attività di al Qaeda, in seguito all’invasione, potessero aumentare. Blair era stato avvertito del pericolo che gli armamenti dell’esercito iracheno potessero finire nelle mani dei terroristi una volta distrutto il regime. Sapeva che le conseguenze negative si sarebbero protratte. La conferma di quello che per anni non si stancava di dirci Marco Pannella. Lui e quattro gatti di radicali (Matteo Angioli, Laura Hart, Maurizio Turco, Sergio D’Elia e, diciamolo pure: l’incredulità e lo scetticismo di tanti tuoi stessi compagni di partito), si sono battuti come leoni, alla vigilia della guerra perché si praticasse l’altra via, quella dell’esilio di Saddam, e di una transizione dell’Iraq verso la democrazia sotto la guida dell’Onu. Ne indicarono le tappe, i possibili e credibili percorsi, individuando perfino i possibili "protagonisti": esponenti di primo piano della Lega Araba, il socialista francese Michel Rocard? È opportuno, a questo punto, ripercorrere quei giorni, perché il ricordo non si smarrisca e si "perda". Dalla Casa Bianca, in video-conferenza il presidente americano George W. Bush si rivolge al suo segretario alla Difesa Donald Rumsfeld: "Signor ministro, per la pace nel mondo e per il bene della libertà del popolo iracheno, do l’ordine di avviare l’operazione ?Irak freedom’. Dio benedica le truppe". È il 19 marzo 2003. Comincia così la seconda guerra contro Saddam; guerra da Bush e dalla sua amministrazione fortissimamente voluta, e che vide accodarsi il leader britannico Tony Blair, Silvio Berlusconi e tanti altri della famosa coalizione dei "volenterosi". Cosa poi accade, lo sappiamo: conquistata Bagdad, rovesciato il regime, giustiziato Saddam, quell’area di mondo continua a essere tormentata e dilaniata da mille sanguinose lotte di faida. Che Bush e Blair abbiano mentito ai loro popoli e al mondo per scatenare la guerra è acclarato; ricordiamo bene il segretario di Stato Colin Powell all’Onu, il 5 febbraio 2003: mostra le "prove" della pericolosità dell’armamento iracheno. Cinque anni dopo, è il 2008, Powell ammette che quel giorno l’ha vissuto come "l’umiliazione più terribile della mia vita": quelle prove erano fasulle, inventate di sana pianta, per giustificare l’intervento. Menzogna, dunque, e non solo. L’amministrazione americana fa sparire una quantità di documenti elettronici di rilievo storico per sapere l’intera verità. Vengono cancellate migliaia di e-mail scambiate tra Casa Bianca, Pentagono, CIA e Dipartimento di Stato; spariti interi files che avrebbero comprovato le manipolazioni mirate a giustificare l’invasione; distrutti i video che documentavano i metodi ?muscolari’ usati dalla Cia per interrogare i detenuti; scomparse intere giornate di comunicazioni in entrata ed uscita dalla Casa Bianca? Fatti di inaudita gravità. Il Presidential Records Act impone alle amministrazioni di consegnare ogni documento agli Archivi Nazionali, che ne devono "curare la custodia, il controllo e la conservazione". Solo i documenti lesivi per il buon nome degli ex presidenti o dei loro consiglieri possono essere trattenuti (ma non distrutti) per dodici anni prima di essere depositati. Tuttavia appena insediato Bush emana un decreto esecutivo che autorizza a trattenere indefinitamente qualsiasi dossier in suo possesso? Trattenere, tuttavia non significa distruggere. E questo dovrebbe valere anche se Cheney, nell’inchiesta aperta a suo carico all’inizio del 2009 ? e insabbiata ? rivendica il diritto di essere "il solo competente a decidere quali documenti sono da considerare vice-presidenziali e quali personali", ossia non trasferibili negli Archivi Nazionali. Qui siamo, evidentemente, nel campo dell’alto tradimento. Che in America, ancora scottati dalla vicenda Richard Nixon e dal suo traumatico impeachment, si preferisca soprassedere, e si sia siglato un tacito patto tra democratici e repubblicani (tanto più che entrambi i partiti erano schieratissimi per l’intervento); che si abbia il timore che troppi imbarazzanti "altarini" possano essere scoperchiati, è cosa che si può ben comprendere. Tutto "logico", insomma. Ma certo non è giusto, e chi "copre" si assume una grave responsabilità politica e storica, al pari di chi dopo aver sostenuto il falso ha nascosto e distrutto le prove della macchinazione. Insomma: si può concludere con sufficiente certezza che la guerra del 2003 poteva essere evitata. Non solo perché le due ragioni principali per giustificare l’attacco non erano vere: non c’erano armi di distruzione di massa e neppure impossibili abbracci strategici tra Saddam Hussein e il vertice di Al-Qaeda, ma perché fu fatta fallire la più realistica delle soluzioni: l’esilio del dittatore iracheno. Se questa strada fosse stata seguita si sarebbero evitate decine di migliaia di vittime da una parte e dall’altra, e forse oggi il paese sarebbe meno instabile di quel che non sia. Tanto più che Saddam era disponibile ad accettare l’esilio; come condizione aveva solo posto che la richiesta non venisse da parte "occidentale", ma dalla Lega araba. Per questo motivo nel marzo del 2003 si svolge un vertice straordinario della Lega araba a Sharm el-Sheik; e qui si dispone di una testimonianza in diretta, quella dell’inviato del "Corriere della Sera" Antonio Ferrari: "La proposta, presentata dagli Emirati Arabi, doveva essere approvata. Chi mandò tutto all’aria, con una sceneggiata che seguimmo prima in diretta televisiva dall’ufficio stampa di Sharm el-Sheik e poi ascoltammo, con l’aiuto dell’interprete, senza vedere più nulla perché la tv egiziana si era dimenticata di spegnere l’audio, o forse lo aveva lasciato aperto perché tutti potessero capire. La provocazione di Gheddafi che fece il diavolo a quattro, compresi i pesanti interventi delle sue guardie del corpo donne, indebolì la volontà dei fratelli e la proposta dell’esilio si diluì, anzi si spense in un generico e pavido "bla bla". Nessuno può dire che cosa sarebbe successo se la proposta dell’esilio a Saddam fosse stata sostenuta con vigore. L’attacco all’Iraq, voluto da troppi a tutti i costi, avvenne il 19 marzo e sappiamo tutti come è andata a finire". Com’è finita, sì. Ma ancora non sappiamo come è cominciata. Quanto al perché, a suo tempo si scandiva lo slogan: "No blood for oil". Temo si sia sottovalutato il ruolo da sempre giocato dalla fortissima lobby del complesso militar-industriale statunitense. Giocato allora, e probabilmente anche ora, e in grado di mettere a tacere tantissime voci. Non quella di Pannella e della sua sparuta pattuglia di radicali, che instancabili ci continuano a dire: "Dove c’è strage di diritto, c’è strage di popoli". Non ha avuto la soddisfazione, Pannella, di poter leggere il rapporto Chilcot, che gli dà ragione su tutta la linea, ma sono certo che ne aveva indovinato il contenuto. Per questo, fino all’ultimo giorno si è impegnato allo spasmo in quella che è la logica conseguenza di quella battaglia che aveva cominciato nel 2003: la conquista dell’ennesima concreta utopia: un nuovo diritto umano da aggiungere alla lista di quelli scolpiti nella Dichiarazione universale: il diritto alla conoscenza. La riteneva la madre di tutte le iniziative politiche su cui impegnarsi, altro che bizzarra, senile mania, come l’hanno definita in tanti, e tra loro anche chi avrebbe dovuto essergli più vicino. Matteo Angioli e l’ambasciatore Giulio Maria Terzi hanno dato vita al "Comitato Globale per lo Stato di Diritto": uno "strumento" costituito per trovare e indicare soluzioni creative con cui affrontare le sfide del nostro tempo. Una proposta è quella di affermare a livello Onu il Diritto alla Conoscenza come nuovo diritto umano. Un Diritto per il pieno esercizio della libertà di espressione, di opinione e controllo dell’operato dell’autorità pubblica nel momento in cui le cose accadono. Un Diritto alla Conoscenza che riguarda il futuro di tutti noi: la formazione di possibili alternative nei processi decisionali che devono essere dibattuti apertamente con le opzioni e le alternative politiche a confronto per meglio orientare le scelte politiche e prevenire decisioni sbagliate. Il modo migliore e più giusto per mettere a frutto quanto emerge dalla commissione Chilcot. Egitto: RegeniLeaks; il ruolo di Mahmoud, il figlio di Al Sisi ufficiale dei servizi segreti di Brahim Maarad e Marco Pratellesi L’Espresso, 8 luglio 2016 I figli del dittatore occupano posti chiave nei servizi e negli apparati dello Stato. E potrebbero avere avuto un ruolo nel caso Regeni come sembra emergere da alcune segnalazioni giunte alla nostra piattaforma protetta. "In verità non vi ho mai parlato di me, ma voi avete bisogno di sapere alcune cose. Permettetemi quindi di raccontarvele. Parlo a tutti gli egiziani, chi è nell’esercito mi conosce bene. Conosce i miei modi e la mia educazione. Ma non tutti gli egiziani sanno ogni cosa su di me e questo è normale". Sono le parole del presidente Abd al Fattah al Sisi, il 13 aprile scorso, davanti ai rappresentanti della società civile. In piena crisi di governo con il caso Regeni e la cessione delle due isole egiziane Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Il generale ha voluto raccontare se stesso al popolo per rassicurarlo. Queste le parole che ha speso: "Quando fui nominato ministro della Difesa (durante il governo Morsi, ndr) chiunque si sarebbe pronunciato a favore del governo. Io no, ho detto loro chiaramente che non appartengo ai Fratelli musulmani e non mi unirò mai a loro, non sono salafita e mai lo sarò". Un applauso fragoroso lo ha interrotto. "Io sono un egiziano d’onore, non mi vendo e non mi faccio comprare. Sono dell’esercito e quest’istituzione mi ha insegnato a rispettare e proteggere ogni egiziano". Al Sisi è questo, prima di tutto: un soldato. Un uomo che ha dedicato la propria vita all’esercito. Dall’accademia militare fino alla nomina come membro più giovane del Consiglio supremo delle forze armate. L’organismo che, sotto il suo comando, avrebbe poi destituito il presidente Morsi e preso il controllo del Paese. Al Sisi negli anni è passato dalla direzione dei servizi segreti militari alla guida del ministero della Difesa. Un ufficiale circondato da ufficiali. Anche in casa. Gli armadi della famiglia sono pieni di divise. Dei figli ha parlato in poche occasioni, in televisione solo una volta durante la campagna elettorale per la candidatura alla presidenza: "Ho tre maschi e una femmina. Mahmoud, il più grande, è un ufficiale nell’apparato di Informazioni generali; Mustapha lavora nell’Autorità per la sorveglianza amministrativa. Ma per favore, vi dico subito che io sono contrario a raccomandazioni e nepotismo. Hassan, il terzo figlio, ha presentato due volte domanda al ministero degli Esteri ed è sempre stato respinto. La prima volta quando ero direttore dei servizi segreti militari e la seconda quando ero ministro della Difesa. Non sono mai intervenuto. È vero che lo diciamo tutti e alla prima occasione facciamo passare i nostri figli, ma io non sono fatto così. La mia famiglia lo sa". La realtà è più complicata. La famiglia del presidente è un intreccio di potere, tra amicizie di lunga data, matrimoni semi-combinati e nomine fiduciarie. Il caso più eclatante riguarda proprio il figlio Mahmoud. Molti lo indicano come successore del padre. Il percorso intrapreso lascia pochi dubbi. È un ufficiale dei servizi segreti generali, la sezione più potente dei Mukhabarat egiziani. Quella che si occupa in modo prevalente di sicurezza interna e controspionaggio, con la possibilità anche di svolgere operazioni di intelligence all’estero. In pochi mesi la sua carriera è schizzata dal grado di maggiore a quello di colonnello. È solo questione di tempo prima che arrivi in testa alla catena di comando. Il padre in passato è stato direttore dei servizi segreti militari, l’altro ramo dell’intelligence cairota. Difficile non pensare che il figlio di al Sisi non sia stato a conoscenza degli spostamenti di Regeni ancora prima della sua sparizione. Eppure finora nessuno ne ha mai fatto cenno. Alcune segnalazioni anonime arrivate attraverso RegeniLeaks, la piattaforma protetta creata da "l’Espresso" per cercare verità e giustizia sul ricercatore italiano, riferiscono dettagli inquietanti in merito. Per la delicatezza della materia sono ancora al vaglio della redazione. Il secondogenito del generale al Sisi non è da meno. È diplomato all’accademia militare, tenente colonnello all’Autorità per la sorveglianza amministrativa. In sostanza l’anticorruzione, una delle istituzioni più importanti dello Stato egiziano. Pur non essendo (ancora) ai vertici dell’apparato, ha un ruolo indiscutibile nella gestione dell’authority. Fonti rivelano che entrambi i figli siano costantemente presenti alle riunioni del presidente. Hanno peso nelle decisioni che vengono assunte. Mahmoud per ciò che riguarda la sicurezza nazionale (spesso gli sono stati affidati i casi più sensibili) e Mustapha quando si parla di amministrazione e gestione delle finanze. Il potere familiare di al Sisi non finisce qui. Il terzo figlio, Hassan, che non ha potuto accedere alla diplomazia estera (è laureato in lingue), ha un incarico da ingegnere in una importante società petrolifera. E ha sposato Dalia Hegazy, la figlia del tenente generale Mahmoud Hegazy, l’attuale capo di Stato maggiore e vicepresidente del Consiglio supremo delle forze armate. In passato è stato direttore dei servizi segreti militari. Ha in sostanza un curriculum identico a quello del consuocero. Nell’aprile scorso Dalia è stata assunta dalla procura amministrativa del Cairo, uno degli incarichi a cui aspirano tanti giovani laureati egiziani. Sui social non sono state risparmiate le critiche al presidente per l’ennesimo schiaffo alla meritocrazia. Aya, l’unica femmina, si è dimostrata all’altezza dei fratelli. È diplomata all’accademia navale. È convolata a nozze con il figlio del generale Khaled Fouda, ex capo delle protezione civile ed attuale governatore del Sud Sinai. Del suo operato si ricorda in particolare la trasformazione di un liceo in una scuola militare, la prima del governatorato. Così facendo al Sisi sembra avere concentrato tutto il potere in una cerchia ristrettissima composta in primis dalla propria famiglia e dagli uomini di fiducia più vicini. In particolare, grazie al ruolo dei due figli e del consuocero riesce ad avere l’assoluto controllo sugli apparati dei servizi segreti, sia civili che militari. L’attuale presidente sembra muoversi per scongiurare ciò che egli stesso ha portato avanti ai danni dell’allora presidente Morsi: un colpo di Stato dall’interno. Stati Uniti: due neri uccisi in un giorno, polizia nella bufera di Victor Castaldi Il Dubbio, 8 luglio 2016 Da Ferguson al Minnesota, la lunga scia di sangue afroamericano versato dalle forze dell’ordine non smette di scuotere il Paese, le sue fondamenta civili e la sua cattiva coscienza incarnata da una polizia in cui serpeggiano il razzismo e il mito della forza. E una comunità nera che si sente sotto assedio, scaraventata negli anni bui della segregazione razziale e ignorata da una giustizia a geometria variabile. Altri due afroamericani sono stati infatti uccisi nel giro di poche ore da poliziotti bianchi; due episodi distinti accaduti a Baton Rouge, capitale amministrativa della Louisiana, e in un piccolo centro del Minnesota. In un video che appare sul web si può osservare la dinamica che ha portato alla morte del 37enne Alton Sterling, padre di cinque bambini, ucciso con sei colpi di arma da fuoco al petto e alla schiena; nel filmato si vedono due agenti che hanno un’accesa discussione con Sterling, ne nasce una colluttazione finirta tragicamente con l’esplosione dei colpi di pistola. Abdul Muflahi, proprietario del negozio davanti al quale si è verificato l’incidente, riferisce all’emittente locale Wafb Tv che, a differenza di quanto sostiene la versione ufficiale della polizia, Sterling "non impugnava nessuna arma". Nelle stesse ore in cui parenti e amici di Sterling scendevano per le strade in segno di protesta contro l’ennesimo omicidio di un nero, si è saputo dell’altro episodio Minnesota, precisamente nella località di Falcon Heights. Anche in questo caso l’omicidio è stato immortalato da un video girato dalla fidanzata della vittima che si chiamava Philando Castile e aveva 32 anni. Si tratta di una testimonianza agghiacciante: nelle immagini riprese all’interno di un’automobile fermata da una pattuglia di polizia appare Castile seduto al posto di guida mentre sta cercando portafoglio da mostrare a un agente. Quando i poliziotti gli intimano di mettere le mani diestro la testa Castile compie un movimento brusco e partono cinque colpi di pistola che lo abbattono all’istante; l’ultimo fotogramma mostra la vittima con la cintura ancora allacciata e il busto all’indietro. Secondo quanto racdcontato dalla compagna gli agenti avrebbero sparato "quattro o cinque volte". Se le forze dell’ordine affermano che Castile possedeva una pistola, è spettato ai suoi familiari specificare che aveva un regolare porto d’armi. Sull’accaduto indagheranno il Dipartimento di Giustizia e l’Fbi. "Questo è un linciaggio legale. La giustizia deve prevalere", ha protestato sul suo account Twitter il reverendo Jesse Jackson, icona del movimento per i diritti civili degli afroamericani tra gli anni ?50 e ?60 del secolo scorso. Stati Uniti: cinque agenti uccisi a Dallas dopo protesta contro la violenza della polizia di Alberto Flores D’Arcais e Katia Riccardi La Repubblica, 8 luglio 2016 Tre cecchini sparano sui poliziotti schierati nel centro cittadino durante una marcia contro gli abusi delle forze dell’ordine. Il capo del dipartimento: "Volevano ucciderne il più possibile". Tre arresti, un quarto uomo sostiene di aver piazzato bombe. Obama: "Non è una questione solo nera o ispanica, ma americana". Cinque poliziotti morti, sei feriti. La veglia notturna contro l’uccisione di due afroamericani in Louisiana e Minnesota è finita in un bagno di sangue a Dallas. Circa un centinaio di poliziotti era stato dispiegato nel centro cittadino dove si stava svolgendo una marcia contro gli abusi delle forze dell’ordine. Non solo a Dallas, altre manifestazioni erano in corso in varie città del Paese. Almeno tre cecchini hanno sparato a ripetizione colpendo alle spalle gli agenti. "Volevano ferire o uccidere il più alto numero possibile di poliziotti" ha detto il capo della polizia David Brown. I poliziotti erano schierati per evitare che le proteste diventassero violente. I cecchini hanno colpito nascosti, da una posizione alta. Un vero e proprio agguato in stile militare, nella città in cui oltre mezzo secolo fa il più famoso cecchino della storia d’America uccise il presidente Kennedy e i sogni della Nuova Frontiera. "Un quarto sospetto sostiene di aver piazzato delle bombe", spiega Brown. Le forze dell’ordine stanno negoziando. Le autorità hanno deciso di chiudere lo spazio aereo cittadino. È cominciato alle 20:58 (2:58 in Italia). Una serata estiva, ancora calda, a Dallas durante il giorno c’erano stati quasi 40 gradi. Diverse centinaia di persone si erano radunate e stavano marciando verso City Hall, a fare barriera lungo la strada che porta alla sede del Comune c’erano i poliziotti, schierati e pronti a impedire assalti di ogni genere. Ma la marcia era pacifica, tranquilla. All’improvviso si sono sentiti colpi d’arma da fuoco (pistole o forse fucili d’assalto) e mentre la folla si disperdeva nel tentativo di trovare rifugio, una dozzina di agenti è rimasta a terra. Per quattro di loro non c’è stato nulla da fare, sono morti sul colpo, altri sette sono stati trasportati d’urgenza nel più vicino ospedale, di questi un quinto poliziotto non ce l’ha fatta ed è morto in ospedale. Molti testimoni parlano di decine di colpi d’arma da fuoco provenienti da un’arma semi-automatica. "Gli spari arrivavano da un tetto", racconta un manifestante. L’arresto dei cecchini. Gli Swat, le squadre speciali di polizia anti-terrorismo, hanno preso posizione ingaggiando una sparatoria con uno dei cecchini, che stretto in un angolo alla fine si è consegnato. Anche altri due sono stati arrestati. Secondo la ricostruzione del capo della polizia, i cecchini hanno "sparato contro i poliziotti da una posizione piuttosto elevata" durante la manifestazione, proprio quando la marcia stava per concludersi. "Siamo devastati - si legge sull’account Twitter del Corpo. La persona di cui circolavano le immagini si è consegnata. Un altro sospetto, che ha dato il via a una sparatoria con lo Swat team, è stato arrestato". La polizia ha aggiunto che una squadra di artificieri è stata inviata sul luogo dopo il ritrovamento di un pacco sospetto e a seguito delle dichiarazione di uno dei due arrestati che ha affermato di aver collocato ordigni nell’area. Stati Uniti: se l’ingiustizia (per esistere) deve diventare "virale" di Davide Casati Corriere della Sera, 8 luglio 2016 Diamond voleva che quel video venisse visto da milioni di persone. Sapeva che senza le immagini quanto stava vivendo sarebbe finito nei labirinti delle verità contrapposte. "Don’t stop recording", non smettere di registrare, le ha detto uno degli utenti che in diretta, su Facebook, stava osservando la morte di Philando Castile. Diamond Reynolds non l’ha fatto: nonostante il dolore, lo choc, la disperazione di vedere colpito il proprio fidanzato con una violenza insensata. Perché Diamond - lo ha spiegato ieri - voleva che quel video diventasse virale, venisse visto da milioni di persone. Voleva che il mondo vedesse. Sapeva che, senza quelle immagini, quanto le stava accadendo sarebbe finito nei labirinti legali delle verità contrapposte; che senza la potenza terrificante di quelle immagini, senza la forza angosciante di quella diretta, quell’ingiustizia in qualche modo non sarebbe esistita. E se è vero che le dirette sui social network sono spesso lo specchio deformato di una continua fiera della vacuità, è vero pure che hanno il potere di trasformarsi nell’unico numero di emergenza nelle mani delle vittime di torti compiuti da chi, i torti, dovrebbe raddrizzarli. Il gesto, immediato e durissimo, di Diamond ha in sé la consapevolezza dell’ingiustizia, e la coscienza di quel che può contrastarla. A noi resta il rimpianto per quel che non avremo mai: a partire dalla diretta dall’account di Giulio Regeni, con i volti dei suoi aguzzini. Somalia: a scuola con gli Shebab "qui imparano a vivere senza uccidere" di Pietro Del Re La Repubblica, 8 luglio 2016 Reportage dal primo Centro di riabilitazione degli islamisti a Baidoa, nel sudest del paese. Gli studenti iscritti sono 118, molti sono pluriomicidi dichiarati. Dopo gli esercizi di ortografia, gli assassini seriali stanno adesso ripassando la tabella della moltiplicazione. Così, seduti in classe e con una matita in mano, troviamo gli Shebab che hanno imboccato la strada della redenzione accettando, dopo essersi costituiti, di partecipare a un ambizioso e segretissimo programma per un loro reinserimento sociale. "La maggior parte di essi è cresciuta nella savana e sa soltanto combattere e uccidere. Prima di imparare un mestiere devono acquisire i rudimenti della scrittura e del calcolo", spiega Adam Hussein, che dirige il primo centro per la riabilitazione degli islamisti a Baidoa, malconcia città nel sud-est della Somalia. I partecipanti sono volontari e fino a pochi mesi fa appartenevano tutti al gruppo terrorista responsabile, nella Pasqua dell’anno scorso, del massacro di 150 studenti all’Università keniota di Garissa. "Con l’aiuto di psicologi e di consiglieri religiosi facciamo loro un lavaggio del cervello al contrario, spiegando che per andare in paradiso non è necessario farsi saltare in aria in un mercato o sgozzare un poliziotto, e ripetendo che nessuno è costretto a morire prima del tempo, che vivere non è peccato". Il centro sorge tra i ruderi degli uffici dell’amministrazione coloniale italiana, quando Baidoa era il florido capoluogo del Commissariato dell’Alto Giuba. Difeso da una mitragliatrice pesante e circondato da sacchi di sabbia, ha l’aspetto di un carcere di massima sicurezza, o di un fortino militarizzato, perché le forze islamiste sono oggi appostate soltanto a pochi chilometri dal centro della città. Al suo interno, la struttura ricorda invece un liceo tecnico, con laboratori di meccanica, falegnameria e cucito, e con gli ex Shebab, tutti giovanissimi, al posto degli alunni. Dice ancora il suo direttore: "Ne abbiamo già rilasciati 40, i quali si sono perfettamente integrati alla vita civile dopo aver trascorso mediamente 6 mesi qui da noi. Al momento, nessuno di loro ha fatto ritorno nel bush". Il centro ne ospita ancora 118. Uno di questi è Bashir Hassan Yusuf, 26 anni, alto e magro, che confessa di aver ammazzato più di una dozzina di uomini. "Sì, mi pare di averne uccisi quattordici, sia con il fucile sia con il pugnale. Ma non provo rimorso, perché se non l’avessi fatto i miei capi avrebbero giustiziato me". Dalla sua testimonianza, l’organizzazione terrorista appare come un regime tirannico nelle mani di pochi uomini, che sono più simili a spietati boss mafiosi che a religiosi radicali. "Sono fuggito perché disgustato dalle loro bugie dei capi, dalla loro avidità e la loro ferocia. Per meritare la morte è sufficiente rifiutarsi di cedere quello che ti chiedono o anche obiettare un ordine impartito dall’alto. E poi, dei soldi estorti alla popolazione non spartiscono nulla con le truppe, ma si costruiscono case lussuose e aprono commerci per conto loro". Dopo Bashir incontriamo Hamed Hassan Adam, che quand’era Shebab non impugnava le armi bensì riscuoteva le tasse imposte dagli imam. Dice: "Tutto gira attorno ai soldi e loro usano la religione per compiere crimini abominevoli. Li ho visti trascinare fuori dalle moschee dei fedeli e freddarli uno dopo l’altro per futili motivi. Quando ho saputo che venendo qui sarei stato amnistiato dal governo federale ho subito tagliato la corda". Tra le 36 donne del centro incontriamo Hajira Abdullahi Issac, 22 anni, vedova di un terrorista ucciso al fronte. "Dopo la sua morte sono stata stuprata da un suo amico. Sono subito andata a chiedere giustizia nella speranza che lo condannassero, ma mi è stato detto che per portare avanti la mia denuncia servivano quattro testimoni. Quando un altro Shebab, sicuro dell’impunità, ha tentato a sua volta di violentarmi ho capito quale sarebbe stato il mio destino se fossi rimasta con loro e sono scappata", racconta Hajira. Sulle devastazioni e la miseria causati da 25 anni di guerra civile, in Somalia s’è incistato l’estremismo musulmano, prima con le Corti islamiche e adesso con gli Shebab, che con i loro attacchi funestano di continuo le città del Paese. L’ultimo, una decina di giorni fa, contro un hotel di Mogadiscio, ha provocato 45 morti. Come può una nazione così malandata offrirsi il lusso di un tale programma di reinserimento di ex terroristi? "All’origine del progetto di riabilitazione c’è l’Organizzazione per le migrazione di Ginevra, che lo gestisce grazie a un budget di 1,5 milioni di dollari l’anno forniti dal governo tedesco", spiega il direttore del centro. Tra poche settimane Bashir, Hamed e Hajira Yussuf lasceranno Baidoa per mischiarsi a coloro contro i quali combattevano. In forma di viatico riceveranno una piccola somma per iniziare un’attività: Bashir vorrebbe diventare meccanico, Hamed e Hajira commercianti. Ma una volta fuori non dormiranno sonni tranquilli perché saranno tutti e tre bersagli prediletti degli islamisti. Infatti, prima di essere integrati nel programma di riabilitazione, i "disertori" subiscono severi interrogatori da parte degli agenti dei servizi somali, non solo per valutare la loro idoneità all’inserimento nel centro (i profili "ad alto rischio" sono ovviamente scartati) ma anche per carpire preziose informazioni militari. "Ho paura per le possibili rappresaglie da parte dei miei ex compagni. Alla prima minaccia, chiederò di essere arruolato nell’esercito somalo. Altrimenti emigrerò a Nord, nel Somaliland, dove gli Shebab non ci sono", dice Bashir. Ma com’è possibile che gli islamisti ancora controllino il 70% del Paese pur avendo contro di loro i caccia delle forze internazionali e i 20 mila uomini dell’Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia, e non disponendo di un solo aeroporto dove ricevere soldi e armi da al-Qaeda e dallo Stato Islamico cui sono affiliati? Per il governatore della capitale, Yusuf Hussein Jim’ale, la spiegazione è una sola: la mancanza di fondi per l’esercito somalo. "Per sbarazzarci degli Shebab basterebbe pagare gli stipendi ai nostri soldati. Gli ugandesi dell’Amisom ricevono 1000 dollari al mese. A quelli somali, ne spetterebbero 200, ma loro non vedono neanche quelli". In altre parole, il governatore è convinto che soltanto i somali potranno salvare la Somalia. E ha probabilmente ragione.