Tortura, il ddl in Aula con i diktat della polizia di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 luglio 2016 Senato. Oggi il voto sugli emendamenti. I nodi: reato specifico, gravità, reiterazione. Ma Gasparri insiste: “Così si paralizzano le forze dell’ordine”. È il testo voluto dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, al palo esattamente da un anno dopo essere stato adeguato in sede di commissione Giustizia alle richieste delle forze dell’ordine, quello del ddl per l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale che da ieri è tornato in Aula al Senato per la discussione generale, in seconda lettura. Oggi alcuni emendamenti proposti da senatori dem e di Si - Felice Casson, Sergio Lo Giudice, Luigi Manconi e Peppe De Cristofaro, tra gli altri - tenteranno di riportare la fattispecie del reato nel solco dettato dalle convenzioni Onu ratificate anche dall’Italia. O per lo meno, di cercare di tornare al testo licenziato dalla Camera il 9 aprile 2015, decisamente migliorato rispetto al pastrocchio legislativo che uscì da Palazzo Madama il 5 marzo 2014. Un ping pong tra le due camere, dunque, che fa poco onore a un Paese che attende da 30 anni di elevarsi al rango di “civile” e che oggi paradossalmente si batte per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni, il ricercatore friulano torturato e ucciso in Egitto. Il voto finale è previsto per martedì prossimo, ma c’è perfino chi, nelle fila del Pd, avrebbe preferito rinviare ancora, aspettando momenti meno tesi con il Ncd. In Aula ieri il senatore Manconi ha ricordato le parole di Paola Regeni pronunciate proprio in conferenza stampa al Senato - “Ho visto il volto di mio figlio diventato piccolo piccolo, su quel volto ho visto tutto il male del mondo” - e ha chiesto di riflettere sul testo che non contempla il reato specifico del pubblico ufficiale ma prevede solo un aggravante nel caso in cui a torturare sia un servitore dello Stato. Un ddl che, assecondando i timori di “denunce pretestuose” da parte dei sindacati di polizia, esclude dal novero delle torture violenze singole non “reiterate”, o non particolarmente “gravi”, non agite “con crudeltà”, o perfino pratiche come la “roulette russa”, perché il trauma psichico nella vittima deve essere chiaramente “verificabile”. “Non ci basta una legge, vogliamo una buona legge”, ha detto Manconi. Preoccupato invece che il dibattito non si sviluppi “pretestuosamente”, e al lavoro su un emendamento che metta al riparo le forze dell’ordine da punizioni “eccessive” durante l’adempimento del “proprio dovere”, è il socialista Enrico Buemi, membro della commissione Giustizia dove, prima di modificare il testo, nel luglio 2015, sono stati di nuovo auditi i sindacati di polizia. Più esplicito il Fi Maurizio Gasparri “Non vorrei che questo ddl e quello sui numeri identificativi per gli agenti (bloccato in commissione Affari Costituzionali, ndr) portasse alla paralisi dell’attività delle forze dell’ordine”. Al contrario, per l’associazione Antigone, che ieri ha scritto una lettera ai capigruppo del Senato, bisognerebbe fare ogni sforzo possibile per evitare “il ping pong parlamentare, dando via libera al testo licenziato dalla Camera nell’aprile 2015”: “Si tratta di una proposta di rilevanza eccezionale che colmerebbe una lacuna gravissima”. Perché l’Italia non si è mai allineata al trattato Onu che pure ha ratificato nel 1988, diventando così “spazio di impunità e luogo di rifugio per chi commette all’estero tale crimine lesivo della dignità umana”. “La Convenzione Onu contro la tortura - ricorda Antigone - impone che le fattispecie descritte a livello nazionale non possano essere più restrittive rispetto alla definizione Onu”. Se si vuole evitare di violare le imposizioni internazionali, dunque, “occorre che non vi sia alcun dubbio sul fatto che anche una sola condotta possa essere eventualmente qualificata come “tortura”. Pertanto - prosegue la lettera inviata ai senatori - sarebbe importante l’utilizzo del singolare “violenza o minaccia” (o, come minimo, “violenza o minacce”) al posto del plurale”. Stessa attenzione riguardo la soglia di gravità, che deve essere riferita alle sofferenze causate, come vuole la Convenzione Onu del 1984, e non alle violenze o minacce. Infine, ricorda ancora Antigone, la definizione di tortura delle Nazioni unite “richiama senz’altro l’ipotesi del reato proprio”, inteso “come violazione dei diritti umani commessa da organi statali nei confronti di persone poste sotto il loro controllo e affidate alla loro responsabilità”. Però, se non può essere data, secondo le prescrizioni internazionali, una definizione più restrittiva, è sempre possibile “accoglierne una più ampia”. L’importante, conclude Antigone, è “non snaturare il concetto: in questo senso l’ipotesi del reato proprio rimane certamente la più indicata”, anche se “la soluzione intermedia (reato comune con aggravante se il fatto è commesso da pubblico ufficiale) potrebbe, essere un’alternativa accettabile” perché non in contrasto con la Convenzione, “soprattutto se fosse prevista la non bilanciabilità dell’aggravante in questione con eventuali attenuanti”. Un ragionamento di fino che cozza con la posizione ultrà di Carlo Giovanardi (Idea) - solo per fare un esempio, il quale si scaglia contro la “confusione strumentale” di coloro che “continuano a citare i casi Aldrovandi, Uva, Cucchi e Magherini, tutti riguardanti fattispecie colpose, come esempio di comportamenti che dovrebbero costare l’ergastolo ai carabinieri e poliziotti coinvolti”. L’appello dell’associazione Antigone “il Senato approvi il reato di tortura” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2016 Il testo ha avuto il via libera della camera nel 2015, recependo le indicazioni delle Nazioni Unite. La legge per l’introduzione del reato di tortura ritorna a essere discussa in Senato. Ieri mattina l’associazione Antigone ha rivolto un appello ai senatori affinché si colmi l’attuale vuoto legislativo che ha creato enormi spazi di impunità e ha reso l’Italia un rifugio per chi commette all’estero tale crimine. “La proposta di introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - è di una rilevanza eccezionale e andrebbe a colmare una lacuna gravissima presente nel nostro ordinamento giuridico”. Gonnella poi prosegue: “L’Italia nel lontano 1988 ha preso un impegno con le Nazioni Unite ratificando il Trattato contro la tortura per sanzionare efficacemente proprio i comportamenti costituenti tortura. Da allora nulla è accaduto. In Italia non vi è il reato. Siamo divenuti spazio di impunità e luogo di rifugio per chi commette all’estero tale crimine lesivo della dignità umana”. E conclude: “Chiediamo pertanto ai senatori di fare quanto nelle loro facoltà affinché si arrivi nel più breve tempo possibile alla sua approvazione in via definitiva evitando il ping pong parlamentare e dando via libera al testo licenziato dalla Camera dei Deputati nell’aprile 2015 mettendo da parte le modifiche apportate in commissione giustizia del Senato che, oltre ad allontanare l’approvazione definitiva, presentano diverse e significative criticità”. La commissione Giustizia alla Camera a febbraio dell’anno scorso aveva dato via libera al progetto di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano. “L’impianto ? avevano spiegato Donatella Ferranti e Franco Fazio, rispettivamente presidente della commissione e relatore del provvedimento - è rimasto nella sostanza quello votato dal Senato, ma abbiamo meglio puntualizzato la norma recependo quasi letteralmente le indicazioni della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Non resta ora che calendarizzare celermente in aula il testo - aggiunsero i due esponenti del Pd - in modo che quanto prima si possa colmare un pesantissimo ritardo adempiendo agli obblighi internazionali”. La legge iniziale votata al Senato aveva infatti ricevuto ampie critiche perché, in sostanza, non faceva differenze tra persone comuni e funzionari dello Stato. Il progetto di legge votato dalla commissione aveva quindi ottenuto delle piccole modifiche. Il reato di tortura, in pratica, resta reato comune (punito con la reclusione da 4 a 10 anni), ma aggravato con pene da 5 a 12 anni se commesso dal pubblico ufficiale: “Abbiamo seguito le raccomandazioni del Comitato Onu contro la tortura e quanto emerso nel corso delle audizioni, da un lato - avevano sottolineato Ferranti e Vazio - marcando in maniera specifica gli elementi determinanti per il reato commesso dal pubblico ufficiale e dall’altro individuando gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta al fine di evitare sovrapposizioni improprie con altre fattispecie, quali per esempio le lesioni personali gravissime o i maltrattamenti, che sono già punite dal codice penale”. In realtà il testo rimane comunque morbido: la tortura viene vista come reato comune e non specifico del pubblico ufficiale. Quindi si discosta dagli standard internazionali. Ma non solo, nel ddl c’è una postilla la quale dice che affinché sia definito reato, la tortura diventa tale se è ripetuta più volte. Ma nonostante che il provvedimento sia edulcorato, non convince i “moderati” della maggioranza che risentono della contrarietà manifestata in più occasioni dalle forze dell’ordine. Quest’ultime hanno sempre interpretato questo progetto di riforma come un’onta, come un attacco all’affidabilità e alla loro credibilità. Ma nonostante le divisioni della maggioranza, tra l’altro in fibrillazione dopo il voto per le comunali e con i centristi sul piede di guerra per ottenere delle modifiche all’Italicum, la legge sul reato di tortura dovranno comunque approvarla: la sua inesistenza rimane un’inadempienza degli obblighi internazionali. Cosa Nostra ha fatto affari con gli stand per l’Expo di Luca Fazio Il Manifesto, 7 luglio 2016 Undici persone sono state arrestate ieri nell’ambito di un’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini. L’indagine ruota attorno alla Dominus Scarl, una società in odore di mafia attiva nell’organizzazione fieristica che si è aggiudicata lavori per l’allestimento di alcuni padiglioni di Expo. Gli inquirenti hanno precisato che l’indagine non riguarda la società Fiera Milano e l’organizzazione dell’esposizione universale. Il sindaco di Milano Beppe Sala si è complimentato con la magistratura: “Expo non c’entra nulla, la battaglia per la legalità non deve fermarsi mai, sosteniamo ogni azione degli organi dello Stato”. A un anno e due mesi dall’apertura di Expo, che ha chiuso i battenti otto mesi fa, la procura di Milano batte un colpo che sfiora solo lateralmente l’esposizione universale che fu. Si scopre che la mafia, nella fattispecie Cosa Nostra, avrebbe messo le mani su alcuni importanti appalti in Lombardia. Undici persone sono state arrestare ieri dalla Guardia di Finanza nell’ambito di un’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai pm Paolo Storari e Paola Ombra. Sette sono finite in carcere e quattro ai domiciliari per reati tributari, riciclaggio e associazione per delinquere con l’aggravante della finalità mafiosa. La figura principale dell’inchiesta, dicono gli inquirenti, è Giuseppe Nastasi, un imprenditore che guida un consorzio di società che si occupano di allestimenti fieristici. Tutto ruota attorno alla Dominus Scarl, una società attiva nell’organizzazione fieristica che è in affari con la Nolostand Spa (su 20 milioni di fatturato, 18 sono stati realizzati grazie a questa collaborazione). La “notizia” è che Nolostand è una società controllata da Fiera Milano Spa, per cui tra i lavori affidati alla Dominus Scarl ci sono anche alcuni allestimenti per i padiglioni di Expo: Francia, Qatar e Guinea, birra Poretti e stand di piazza Castello (per una cifra complessiva di 200 mila euro). Secondo l’accusa la società ricorreva a un sistema di fatture false per creare fondi neri, denaro che poi sarebbe stato riciclato in Sicilia dove gli indagati avrebbero avuto legami con una famiglia di Pietraperzia (Enna) affiliata a Cosa Nostra. “Un fiume di denaro contante e in nero che partiva da Milano e arrivava in Sicilia”, viaggiando in borse di plastica, in valigie, su camion (dove sono stati trovati 400mila euro) e anche dentro un canotto. Secondo Ilda Boccassini l’inchiesta è rilevante perché evidenzia “non le infiltrazioni della ‘ndrangheta ma di Cosa Nostra”, ma la precisazione più importante del procuratore aggiunto forse è un’altra: “Non sono individuate responsabilità penali in capo a Ente Fiera o a Expo”. Concetto ribadito anche dal pm Paolo Storari: “Qui non c’è il tema che Expo non ha controllato e questa non è un’indagine su Fiera Milano ma sul consorzio di Giuseppe Nastasi che si è infiltrato in Fiera che poi ha lavorato per Expo”. Detto questo, per il procuratore capo di Milano Francesco Greco si tratta di una “vicenda inquietante” perché dimostra che “le organizzazioni criminali sono riuscite ad inserirsi nelle partecipate pubbliche”. Deve essere per questo motivo che la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria per sei mesi della Nolostand Spa, la società del gruppo Fiera Milano che comunque non ha alcun dirigente indagato (Giuseppe Nastasi aveva anche un ufficio in Fiera Milano). “Questo è necessario per evitare altre infiltrazioni mafiose”, hanno precisato gli inquirenti. Beppe Sala, in viaggio d’affari a Londra, ha dettato un comunicato generico senza mai nominare Fiera Milano o Expo: “La battaglia per la legalità non deve fermarsi mai a tutela dei cittadini e delle istituzioni - ha detto il sindaco di Milano - e sosteniamo ogni azione degli organi dello Stato. Abbiamo lavorato e stiamo lavorando per proteggere Milano dalle infiltrazioni malavitose e dai rischi di corruzione. Risultati importanti sono stati ottenuti, ma la forza delle organizzazioni criminali non può essere sottovalutata nemmeno per un momento”. L’ex candidato sindaco e consigliere comunale del centrodestra, Stefano Parisi, invece ha colto l’occasione per polemizzare con la commissione antimafia di Palazzo Marino che secondo lui sarebbe inutile. “Negli ultimi anni - ha attaccato Parisi - la mafia ha lavorato a Milano e questa è un’allerta molto importante. Per queste infiltrazioni però non serve la retorica ma una presenza forte dello Stato e un lavoro di tutte le istituzioni in alleanza con la procura”. Parisi contesta l’ipotesi caldeggiata da Beppe Sala di un comitato per la trasparenza e la legalità da affidare all’ex magistrato Gherardo Colombo: “Cosa potrà fare su queste cose? Serve parlare con Greco, il procuratore capo di Milano, non con un pensionato. L’ho detto ma mi hanno tappato la bocca dicendo che ero a favore della mafia”. Da annullare l’appello che ribalta il giudizio in primo grado senza esame dei testimoni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2016 Il giudice di secondo grado non può ribaltare, su appello del Pm, la sentenza di assoluzione senza procedere, anche d’ufficio, a una nuova istruzione dibattimentale sentendo i testi che hanno fatto dichiarazioni considerate decisive nel raggiungere il verdetto favorevole all’imputato. Se questo avviene la Corte di Cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata. Per le Sezioni unite (sentenza 27620 depositata ieri) la decisione di condannare in appello sulla base di un semplice riscontro cartolare senza assumere direttamente la prova dichiarativa è in netto contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. La previsione violata, contenuta nell’articolo 6 paragrafo 3 lettera d) della Cedu, è quella relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testi a discarico. Un principio vivente nella giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo, che pur non traducendosi in una norma di diretta applicazione nell’ordinamento nazionale, rappresenta un criterio di interpretazione “convenzionalmente orientata” al quale il giudice nazionale deve ispirarsi nell’applicazione delle norme interne. Questo impone al giudice di secondo grado che intenda affermare la responsabilità penale dell’imputo di procedere, anche d’ufficio, a una nuova istruzione dibattimentale come previsto dall’articolo 603, comma 3 del codice di rito. Le Sezioni unite sottolineano che la conclusione è perfettamente in linea con la proposta di introdurre l’esplicitazione di un simile dovere del giudice di appello nell’ambito di un apposito comma (4-bis) da inserire nell’articolo 603 del codice di procedura penale, formulata dalla Commissione ministeriale istituita con decreto del 10 giugno 2013 per studiare gli interventi da mettere in atto nel processo penale. Secondo il collegio l’assenza di una formale previsione sul punto non preclude la possibilità di ricavare la regola seguendo la strada dell’interpretazione sistematica, guardando alle “linee guida” alle quali la stessa Commissione si era ispirata come diritto “consolidato”. La seconda sezione penale ha rimesso alle Sezioni unite anche la soluzione del contrasto sui margini di intervento concessi alla Cassazione nel caso in cui il difensore, nel ricorso contro la sentenza di condanna, non faccia specifico riferimento alla violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Le Sezioni unite precisano innanzitutto che la mancata assunzione in appello delle prove dichiarative ritenute determinanti, deve essere considerato di per sé un vizio di motivazione e non una violazione di legge (articolo 606, comma 1 lettera e) che scatta per il mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” (articolo 533, comma 1). Il chiarimento è utile per affermare che la Cassazione può e deve intervenire d’ufficio, salvo nei casi di inammissibilità, quando il ricorrente impugna la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittoria o la manifesta illogicità della motivazione riguardo alla valutazione delle prove decisive. La Suprema corte deve dunque annullare con rinvio anche se manca il riferimento al principio Cedu. I giudici, avvertono, infine, che quanto affermato si applica anche nel caso di riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado, ai fini delle statuizioni civili, sull’appello proposto dalla parte civile. Ne bis in idem solo con atti definitivi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2016 Non c’è alcun vincolo - nemmeno potenziale - di ne bis in idem se il procedimento/ processo amministrativo non è diventato definitivo e non è più impugnabile. La Terza sezione penale della Cassazione (sentenza 27814/16, depositata ieri) torna ancora una volta sul tema più arato dalla giurisprudenza penal- tributaria degli ultimi anni, ribadendo che la questione “sostanziale” del doppio giudizio può essere posta se, e solo se, l’iter amministrativo è nel frattempo arrivato al capolinea. I fatti analizzati dalla Corte riguardavano un procedimento svolto davanti al Tribunale di Como per utilizzo di fatture per operazioni inesistenti per 2,5 milioni di euro (articolo 2 del dlgs 74/2000), della correlata emissione di fatture fasulle (articolo 8) di occultamento di documenti contabili (articolo 10) e di omesso versamento Iva (10-ter). La Cassazione ha però respinto sul nascere il motivo di ricorso incentrato sull’asserito bis in idem, rimarcando come, della sentenza della Commissione tributaria regionale di Milano prodotta in atti, non risulti la prova della intervenuta irrevocabilità. Peraltro la Terza sottolinea che resta tuttora pendente la questione se il ne bis in idem possa rientrare nell’ambito cognitivo della Cassazione, atteso che “l’orientamento maggioritario di questa Corte è in senso contrario” - da ultimo viene citata la sentenza 20887/15 della stessa sezione. Pertanto, argomenta il relatore. se manca qualsiasi prova della definitività della sanzione amministrativa, è “preclusa la deducibilità della violazione del divieto di bis in idem in conseguenza della irrogazione, per un fatto corrispondente sotto il profilo storico naturalistico a quello oggetto di sanzione penale, di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura “sostanzialmente penale” secondo l’interpretazione data della sentenza Grande Stevens, emessa dalla Corte Ue nel marzo di due anni fa. L’architetto primo esecutore della pena di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2016 “L’architetto della prigione è il primo esecutore della pena. Egli è il primo artefice dello strumento del supplizio” sosteneva nel 1838 il penitenziarista Moreau-Christophe. Questa affermazione continua a rappresentare un monito e un impegno per gli architetti. È nel pieno possesso di una dimensione culturale e con molteplici altre figure che l’architetto può assolvere, sino in fondo, al compito di progettare l’edificio carcerario costituzionale perché umanizzato. Nell’ambito degli Stati Generali Dell’esecuzione Penale è stato costituito il tavolo tecnico n. 1 sull’architettura penitenziaria che ha cercato di chiarie i termini della dimensione architettonica del carcere costituzionale ed i nodi irrisolti sul fronte delle infrastrutture penitenziarie nazionali. I primi si possono sintetizzare con la coerenza e sintonia delle strutture con la pena costituzionale, i secondi con la sostanziale mancanza di quella coerenza e sintonia. Con l’istituzione di quel tavolo l’architettura torna a pieno titolo nella dimensione penitenziaria; il mondo dell’architettura ha una grande opportunità di tornare protagonista anche nel settore delle infrastrutture penitenziarie. Quanti ne hanno la responsabilità politica ed amministrativa devono però operare perché ciò accada compiutamente. Penso che l’architetto progettando un carcere - come il medico che cura sotto il vincolo del giuramento di Ippocrate - debba adeguarsi ai principi delle norme ed ai valori condivisi universalmente in materia di trattamento penitenziario e svolgere il suo compito con eguale scrupolo e impegno, indipendentemente dai sentimenti che l’argomento ispira e prescindendo da ogni ideologia politica. Certo è che nella progettazione di un carcere, il margine di manovra dell’architetto è molto limitato, costretto come è da una serie di limitazioni securitarie e funzionali - ancorché in certi casi condizionato da pregiudizi endemici - incommensurabili rispetto ad altri programmi edilizi. Nei pochi spazi di libertà che gli sono concessi egli deve però provare a lottare a tutti i livelli, per realizzare condizioni di vita meno ansiogene e più dignitose, per le persone detenute ed il personale impiegato. Esempi in tal senso sono alcune realizzazioni straniere dove, ad esempio, l’effetto di soffocamento e di confinamento tipico del carcere è stato affrontato e risolto. Non si tratta di “ingentilire il patibolo” ma di dare concretezza ai principi di umanità e dignità a base del trattamento penitenziario riformato. Certamente l’architetto non può e non deve essere lasciato solo nell’arduo compito di progettare un carcere umanizzato, tanto di più se nel ruolo di tecnico ministeriale. Sono molti infatti i soggetti altri che possono concorrere a definire convenientemente l’edificio carcerario umanizzandolo: specialisti del settore, personale di custodia, operatori penitenziari, volontari, ma anche persone detenute, persone ex detenute e loro familiari. Come è noto la Costituzione italiana afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ; inoltre più volte in essa si ribadisce il concetto dell’incondizionata tutela della dignità personale di ogni individuo, quantunque detenuto. Questi stessi concetti si ritrovano ripresi ed estesi nell’apparato normativo che regolamenta la disciplina degli istituti di reclusione e la loro organizzazione (O.P. 1975 e R.E. 2000). Il quadro si rafforza e si completa con le Raccomandazioni e le Convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo e di trattamento penitenziario. La pena della privazione della libertà personale si afferma pertanto come pena che, privata di qualsiasi tratto afflittivo, salvo quello derivante dalla sua specificità, deve essere rispettosa dei bisogni e della dignità della persona che la sconta. La risposta architettonica a questi principi ci consente di dare forma all’edificio carcerario, pensato per quello che in realtà è e deve essere: un edificio di pubblica utilità concepito per il tempo della detenzione, costruito intorno ad una varietà di attività, consistenti nella formazione professionale, nel lavoro, nelle attività socioculturali o educative, tutte programmate con l’intento di favorire l’uscita dalla delinquenza. Il caso Ilaria Capua e il merito di sapere chiedere scusa di Paolo Mieli Corriere della Sera, 7 luglio 2016 Come fecero i radicali di Pannella nel caso Leone, ora i grillini dovrebbero ritrattare quanto hanno detto contro la scienziata ingiustamente perseguitata dalla giustizia. L’Italia ha scarsa considerazione per la scienza. Ne è prova l’incredibile vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per prima isolò il virus dell’aviaria e che, come ha raccontato ieri sul Corriere Gian Antonio Stella, di punto in bianco nel 2014 fu accusata di aver fatto ignobile commercio delle sue scoperte “al fine di commettere una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia”. Dopo essere stata accusata praticamente di tentata strage, per ventiquattro mesi fu pressoché ignorata dai giudici. Per essere infine prosciolta perché “il fatto non sussiste”. Ilaria Capua ha subito un torto dal sistema giudiziario del suo Paese. E non solo da quello. Ma qui da noi se uno scienziato subisce un’ingiustizia, sia pure un sopruso più che evidente, nessuno, possiamo starne certi, si sentirà in dovere di chiedergli scusa. Forse - per come ne conosciamo la storia - farà eccezione il settimanale L’Espresso che due anni fa decise di inchiodare la Capua in copertina alla stregua di una “trafficante di virus”. Forse. Il periodico aveva evidentemente ricevuto le “carte” da qualche magistrato o da qualche altro inquirente e non ebbe esitazione a puntare il dito contro la ricercatrice che, per giunta, era adesso anche una parlamentare del gruppo facente capo a Mario Monti. La deputata grillina Silvia Chimienti ne chiese le immediate dimissioni. Cose che sono capitate anche ad altri negli ultimi decenni. Del che qualcuno ha fatto ammenda, qualcun altro no. E i no sono infinitamente di più. Nei confronti degli scienziati - forse per il motivo di cui all’inizio, forse perché sono più indifesi, forse perché, a causa delle loro rivalità, non formano una comunità coesa - si è in genere restii a riconoscere torti (nostri) e ragioni (loro). Anche quando sono entrambi evidenti. Ilaria Capua ebbe la vita devastata dal combinato mediatico giudiziario. I colleghi deputati la abbandonarono al suo destino, i giornali anche. L’inchiesta, come spesso accade, fu “spacchettata” e finì nel nulla. Recentemente un’università americana le ha offerto un posto di grande prestigio, lei si è dimessa dal Parlamento e si è trasferita in Florida. Infine il proscioglimento, anche per reati che nel frattempo avrebbero potuto essere prescritti. Nulla di ciò che le è stato imputato “sussiste”. Già questo fa una certa impressione. Ma un dettaglio non può non aver colpito chiunque abbia letto con attenzione l’articolo di Stella. Lo trascriviamo per intero. “Lei ha visto il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta?”, domandava Stella. “Mai. O meglio, nel 2007 (molti anni prima della storia del traffico di virus, ndr.) per un’altra faccenda. Dove mi ero presentata per rendermi utile”, rispondeva Capua. “Ma in questi due anni?”, insisteva Stella. “Mai”. “Altri magistrati, forse?”. “Mai”. “Quindi non è mai stata interrogata?”. “Mai”. Abbiamo letto e riletto queste parole. E speriamo che le abbia lette anche il presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Piercamillo Davigo. Di modo che abbia modo di spiegare, se crede, come è possibile che questo sia accaduto. E qual è la cosa grave? Non già che possa configurarsi un errore giudiziario e nemmeno che sia stata avviata un’inchiesta forse doverosa: tutte eventualità che la giustizia deve contemplare come possibili. Ma non è di questo che dovrebbero dare spiegazioni i rappresentanti della corporazione togata. Bensì di come sia concepibile che all’imputata non siano stati concessi neanche trenta secondi per offrire la propria versione dei fatti. In un periodo di tempo lungo oltre due anni, due anni nel corso dei quali la sua reputazione è stata fatta a brandelli, non c’è stato uno solo dei magistrati chiamati a occuparsi del caso che si sia premurato di darle ascolto. Ilaria Capua si è vista costretta a lasciare il suo incarico in Parlamento e la sua attività scientifica nel nostro Paese senza che si sia fatto vivo un solo magistrato per chiederle la sua versione sui terribili fatti per i quali era finita alla loro attenzione. Sorge in noi perfino il dubbio che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a Ilaria Capua solo perché la conosciamo, appunto, per essere lei una scienziata di fama internazionale. E che ci siano chissà quante persone che hanno vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua senza che nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro voce. Qualcosa di ben diverso, ripetiamo e sottolineiamo, da un errore giudiziario o da un’indagine che non porta a nulla. Un ultimo elemento di questa vicenda può offrire uno spunto di riflessione al mondo della politica. Ieri all’alba la parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui si è detto poc’anzi, Silvia Chimienti (quella che aveva chiesto le dimissioni immediate) ha telefonato oltreoceano alla Capua per esprimerle il proprio rammarico per la sua presa di posizione di oltre due anni fa. Lei lo ha fatto. Altri no. Nelle riflessioni che facciamo ogni giorno sulle evoluzioni politiche del nostro Paese e in particolare sulla natura degli appartenenti al Movimento di Beppe Grillo, forse questo minuscolo episodio è degno di considerazione. Nel senso che quelli capaci di chiedere scusa - come fecero a suo tempo i radicali di Marco Pannella in merito alla campagna che nel 1978 aveva portato alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone (anche allora, per una pura coincidenza, coprotagonista L’Espresso) - guadagnano titoli di merito che rendono le loro posizioni rispettabili. E più resistenti all’usura del tempo. Pietà l’è morta... la sepoltura non ha più nessun valore di Angela Azzaro Il Dubbio, 7 luglio 2016 Seppellire i morti. È il gesto più bello, più antico, su cui si è fondata la nascita della civiltà. Ma oggi non è più così. Basta vedere la reazione che c’è stata al recupero dei migranti in mare. È scoppiata una polemica feroce. Motivo: i costi. Come è possibile - è stata la reazione di molti - spendere del denaro, il nostro denaro per dare una sepoltura a persone considerate non degne?! “Lasciateli in mare, non preoccupatevi per loro”. Uno choc. Eppure da Priamo ad Antigone la storia della cultura greca ci ha insegnato a rispettare i morti, anche quando sono nostri nemici. Che cosa è accaduto alla nostra società per diventare così disumana? Seppellire i morti, dare loro degna sepoltura. Fare un ultimo gesto di pietà nei confronti di chi ci ha lasciati. È il gesto più bello, più antico, su cui si è fondata la nascita della cultura, della civiltà. Eppure questo gesto così antico, così fondante oggi sembra essere messo tra parentesi: dimenticato, calpestato, preso a calci. Il mostro nazionalista che si sta espandendo nel cuore dell’Europa porta con sé anche questo spauracchio: non vogliamo più seppellire i morti, i nostri morti. Vogliamo distruggere la nostra civiltà. La nostra umanità. Come altro infatti valutare le reazioni alla notizia che sono stati recuperati i corpi del più grande naufragio di migranti di un anno fa? Invece di apprezzare l’iniziativa che vede, tra gli altri, impegnata la marina militare italiana e che riporta a terra e identifica i cadaveri di circa 700 migranti, è scoppiata la polemica. Una polemica feroce. Motivo del contendere sono i costi: come è possibile - è stata la reazione di molti - spendere del denaro, il nostro denaro per dare una sepoltura a persone considerate non degne?! Uno choc. Un brutto risveglio per chi, pur conoscendo bene l’odio nei confronti dei migranti e del diverso, non pensava si potesse raggiungere un livello tale di barbarie, di inciviltà. Radiotre, con i programmi della mattina Prima Pagina e Tutta la città ne parla, hanno avuto modo di registrare questo odio, questo disprezzo. Persone apparentemente tranquille che però protestano: quei corpi non vanno recuperati, vanno lasciati lì. Senza pietà. Nel fondo del mare. Perché? “Perché così buttate i soldi”. Priamo - Il professore di Storia della filosofia, Umberto Curi, intervistato dal programma Tutta la città ne parla, ha spiegato che i greci, a differenza di quanto molti pensano, non amavano il mare. Non lo amavano perché chi moriva in mare, non poteva essere sepolto. “Solo il fatto di poter inumare i morti, - ha spiegato Curi - poteva far parlare di una degna sepoltura”. Le grandi civiltà del passato sorgono là dove è più forte il culto dei morti e dei sepolcri. Priamo, il re di Troia sconfitto, non ha dubbi: si umilia davanti al nemico Achille, gli stringe il ginocchio, gli bacia le mani. E gli chiede di poter riavere il corpo del figlio Ettore per poterlo seppellire. Lo spietato e sanguinario Achille non pensa ai costi, non pensa di infierire su chi ha già sofferto. No, lui no. È mosso a pietà e ridà al vecchio re il corpo del figlio. Antigone - La legge degli Dei vince su quella dell’uomo. È la legge morale, è il limite stabilito attraverso cui gli umani sono umani. Non c’è ragion di Stato che tenga davanti alla pietas nei confronti dei vivi e dei morti. L’Antigone di Sofocle rende celebre questo contrasto: da una parte la legge del re Creonte, dall’altra il rispetto dei morti. Creonte ordina di non seppellire Polinice, ma Antigone lo sfida per fare quello che gli Dei vogliono: non lasciare abbandonato il corpo del fratello. La giovane eroina viene punita. Ma preferisce morire piuttosto che tradire quello che considera un principio inderogabile. È la sfida all’autorità spietata, la sfida di una giovane donna all’uomo che detiene il potere. La catarsi avviene dopo tanto dolore, ma non ci sono dubbi: anche chi ha sbagliato, anche chi ha tentato l’assalto al cielo (Polinice vuole prendere il posto di Creonte e sfida il fratello Eteocle) deve essere sepolto. I nostri morti? - La cronaca di questi giorni ci ha offerto due scenari diversi, quasi opposti. La (giusta) accoglienza per le vittime dell’attentato in Bangladesh e la rabbia per il recupero dei migranti in mare. Il sospetto diventa realtà. Ciò che dà fastidio è che quei corpi non siano nostri. Non siano vittime “nazionali”, siano migranti, siano diversi. Questa è l’amara verità. Ma non è meno grave, non sminuisce la crisi di civiltà che stiamo provando a raccontare. Semmai la rende più drammatica. Gli esempi tratti dall’Iliade e dall’opera di Sofocle ci fanno riflettere. Achille cede alla richiesta del nemico. Il corpo di Ettore per lui rappresenta l’alterità, è colui contro cui si è battuto senza alcuna pietà. Ma quando muore, quando il suo corpo deve essere sepolto, non ha più resistenze. Priamo per convincerlo parla del padre che potrà rivederlo. Achille si identifica, entra nel cuore dell’altro. Ed è proprio questo meccanismo di identificazione che oggi manca. Quei morti non riescono a suscitare emozione perché, da una parte della società, sono considerati non tanto e solo nemici, ma fuori dal consesso umano. Non sono corpi di uomini e donne, sono numeri che possono solo essere registrati e contabilizzati. Quanto costano? Quanto ci costano? Non è meglio lasciarli in mezzo al mare? Invece per fortuna non sarà così. Verranno identificati grazie al lavoro di tante Antigoni e potranno essere sepolti. Alla fine di questa tragedia contemporanea, forse la “morale” è questa: l’umanità per quanto messa a dura prova, non è ancora del tutto sconfitta. Piemonte: intesa Garanti dei detenuti-Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria primapaginanews.it, 7 luglio 2016 Oggi mettiamo nero su bianco regole e relazioni che ci permetteranno di essere più operativi nel quotidiano e valorizzare la rete dei garanti comunali. Torino è stata una delle prime città a dotarsi di questa figura e su questo esempio abbiamo fatto partire le indicazioni di un garante per ogni sede di carcere”. Così il Garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, ha aperto, mercoledì 6 luglio, l’incontro per la firma del protocollo d’intesa fra i Garanti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale piemontesi e il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta. Si tratta del terzo Protocollo di questo tipo a livello nazionale, dopo quelli recentemente sottoscritti in Regione Toscana e in Regione Lombardia. Il documento va a regolare i rapporti istituzionali, le procedure operative e le modalità di accesso alle carceri. L’intesa coinvolge i dodici Comuni piemontesi sede di carcere: Alba, Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Fossano, Ivrea, Novara, Saluzzo, Torino, Vercelli, Verbania. Tutti i comuni piemontesi interessati hanno approvato una delibera istitutiva del Garante locale dei detenuti, e tutti - tranne per ora Novara - hanno provveduto alla nomina del proprio Garante comunale. “Dobbiamo sempre tenere presente che la pena non va scontata in un luogo di abbrutimento - ha sottolineato il vicepresidente del Consiglio regionale Nino Boeti durante i saluti - l’obiettivo della detenzione deve essere il reinserimento nella società e in questo percorso il tema del lavoro è centrale”. Per Luigi Pagano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria regionale “quello che possiamo auspicare è che il garante sia parte di una rete di intervento. Il grado di una nazione si valuta dalla qualità delle proprie carceri, diceva Voltaire. Se non c’è un ‘intornò dell’istituto, se non c’è una pressione anche della società civile, delle istituzioni, del volontariato il rischio è che il carcere si richiuda su di sé con effetti devastanti sulle persone”. “È fondamentale un lavoro capillare e di rete - ha concluso l’assessora regionale alle Pari Opportunità Monica Cerutti - intendiamo potenziarlo con la legge contro tutte le discriminazioni, che vede fra le diverse figure anche quella del garante come partecipe di questa rete. Altro tema è forte la presenza della popolazione straniera nelle carceri, dobbiamo aumentare occasioni di dialogo interreligioso e culturale”. Verbania: sopralluogo dei Radicali nel carcere “la situazione è peggiorata” di Luca Zirotti La Stampa, 7 luglio 2016 L’allarme sulla situazione: “Anche quattro detenuti per cella”. Problemi anche a Novara. “Dobbiamo tenere alta l’attenzione anche sulle condizioni delle carceri di Verbania e Novara, le ultime ispezioni fatte ci hanno permesso di riscontrare problemi che vanno affrontati”. Gianpiero Bonfantini, storico esponente radicale del Vco, commenta così le ispezioni condotte nei centri di detenzione delle due città. Il 14 giugno lo stesso Bonfantini ha guidato la delegazione con la presenza di esponenti della Fim-Cisl nel carcere di Novara. Il 28 invece è stata la volta di Verbania, dove erano presenti anche Rita Bernardini, Bruno Mellano, garante dei detenuti per il Piemonte, e per i sindacati Iginio Maletti della Fim Cisl. “Verbania è una realtà più piccola, ma deve fare i conti con una struttura vecchia - spiega Bonfantini. Abbiamo riscontrato la presenza di 54 detenuti in tre settori, ci è stato detto che una quarta sarà aperta per gli stalker. Rispetto a quanto visto quattro mesi fa l’impressione è di un peggioramento della situazione, abbiamo trovato anche meno pulizia. Ci sono celle vuote e chiuse per lavori: il problema è avere anche quattro detenuti per cella con spazi ridotti. Alle carenze strutturali poi si uniscono altre situazioni da chiarire, come aver ridotto la disponibilità da quattro a due ore d’aria al giorno per i vari settori”. “L’impressione è stata forte, per me era la prima visita - dice il sindacalista della Fim-Cisl Iginio Maletti. Alcuni ragazzi ci hanno detto ad esempio che si è rotto anche il calcio-balilla che avevano e così oltre a non essere impiegati per tutto il giorno in nessuna mansione non hanno neppure qualche minuto di svago, ci siamo attivati per trovarne uno”. Su Novara Bonfantini parla di “situazione più complicata”, denunciando anche l’assenza di dati precisi. “Alla richiesta di raccogliere le informazioni di base non abbiamo ricevuto riscontri, mi riferisco a dati come il numero di detenuti attualmente presenti - spiega Bonfantini -. La cosa più impressionante è stata vedere in qualche caso il numero di detenuti per cella, anche sei”. Cagliari: il progetto “Archivio digitale”, prevede il reinserimento di dieci detenuti di Giampaolo Cirronis laprovinciadelsulcisiglesiente.com, 7 luglio 2016 Gli assessori Luigi Arru e Cristiano Erriu, con i direttori generali Stefania Manca ed Elisabetta Neroni, hanno presentato il progetto “Archivio digitale”, finanziato dall’assessorato delle Politiche sociali e portato avanti dall’assessorato degli Enti locali. Il progetto, con la collaborazione della direzione della Casa circondariale di Uta, del Ctm, dell’Archivio di Stato, del comune di Cagliari, della casa editrice Arkadia, della Cooperativa Sociale Cellarius, coinvolge dieci detenuti del carcere di Uta. Per un anno (da aprile 2016 a marzo 2017) i dieci detenuti lavoreranno alla digitalizzazione di documenti cartacei della Regione e dell’Archivio storico dell’ex carcere di Buoncammino: quattro saranno impiegati nell’Ufficio Tutela del Paesaggio, quattro nella Casa circondariale di Uta con i documenti forniti dall’assessorato dell’Urbanistica, due negli uffici dell’Archivio di Stato. “È importante che questa iniziativa di reinserimento avvenga nella Pubblica Amministrazione - ha sottolineato l’assessore degli Enti locali, Cristiano Erriu. Nello stesso tempo viene portata avanti un’azione di recupero della memoria storica e culturale della documentazione della Regione.” “L’obiettivo delle Politiche sociali e di interventi come questo - ha detto l’assessore della Sanità, Luigi Arru - è quello di recuperare le persone che si sono trovate in difficoltà e hanno sbagliato. Lavoriamo per l’inclusione attiva dei detenuti e perché, una volta scontata la pena e rimessi in libertà, non tornino in carcere”. Dall’inizio del progetto, e dopo un periodo di formazione di circa 3 settimane, i detenuti coinvolti hanno lavorato su 24 registri, digitalizzando circa 4.000 pagine (per un totale di circa 2130 immagini) ed effettuando circa 34.800 registrazioni sul database creato dall’Assessorato. Pistoia: ufficializzata concessione del convento dei Cappuccini per i detenuti semiliberi gonews.it, 7 luglio 2016 Siglato oggi a Pistoia l’accordo che ufficializza la concessione degli spazi dell’antico convento dei Cappuccini di via degli Armeni, a titolo gratuito, al carcere di Santa Caterina di Pistoia. Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, che com’è noto ha seguito in prima persona la vicenda dal 2014, ha rilasciato la seguente nota: “Oggi è un grande giorno per Pistoia e per tutta la Toscana perché questa concessione va analizzata anche come svolta culturale e di cooperazione fra le diverse realtà territoriali che insieme possono creare quella fitta rete sociale di sostegno e di solidarietà che può portare enormi vantaggi sia ai cittadini che alle istituzioni stesse. Ringrazio innanzitutto i frati cappuccini che hanno aperto le porte di “casa” per aiutare chi ha bisogno, la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia che ha reso possibile l’avvio dei lavori necessari per la ristrutturazione e tutta l’amministrazione penitenziaria: grazie a voi almeno venti detenuti in semilibertà potranno trascorrere la notte in questa struttura dopo la giornata trascorsa a lavorare, al fine di realizzare con efficacia quella rieducazione che un buon carcere deve garantire. I detenuti in semilibertà devono infatti, per ordinamento giudiziario, essere distaccati dal carcere e cominciare quel percorso socioriabilitativo su cui, come Ministero della Giustizia, stiamo puntando fortemente. Il carcere va visto infatti come struttura aperta e in relazione con le realtà territoriali circostanti e il caso di Pistoia va visto come importante rappresentazione di questo aspetto. Recuperare i detenuti e restituire alla società persone “cambiate” perché hanno capito le ragioni dei propri errori è la priorità assoluta per la concezione attuale di detenzione”. Monza: detenuto cerca di tagliarsi la gola, salvato dalla Polizia penitenziaria quibrianza.it, 7 luglio 2016 Nella sua cella, nascosto sotto le coperte e convinto di non essere osservato, ha preso una lametta per tagliarsi la gola. Un detenuto di 52 anni è stato trasportato d’urgenza all’ospedale San Gerardo. È in gravi condizioni ma non in pericolo di vita. Ha cercato di farla finita tagliandosi la gola con una lametta: un detenuto della casa circondariale di Monza è stato salvato dagli agenti di Polizia penitenziaria. È accaduto ieri verso l’ora di pranzo, poco dopo le 13, quando il cinquantaduenne si trovava nella sua cella. Cercando di non essere notato, coprendosi anche con le coperte, ha preso una lametta del rasoio per compiere il gesto insensato. Benché volesse farlo di nascosto, il suo tentativo non è pero sfuggito agli agenti. Sono prontamente intervenuti e hanno dato l’allarme facendo arrivare d’urgenza l’automedica e un’ambulanza della Croce Rossa. Il detenuto è stato portato in codice giallo all’ospedale San Gerardo di Monza. In gravi condizioni, ma non in pericolo di vita. Volterra (Pi): violenze alla Rems, il Nursind chiede l’intervento di Saccardi imolaoggi.it, 7 luglio 2016 “È inaccettabile l’idea di mettere una pezza sulle carenze di personale e soprattutto di sicurezza del personale infermieristico della Rems di Volterra attraverso contratti interinali”. È quanto dichiara Giampaolo Giannoni, coordinatore regionale Nursind, sindacato autonomo degli infermieri, firmatario di un appello indirizzato all’assessore regionale Stefania Saccardi. Già nelle scorse settimane il segretario provinciale Nursind Daniele Carbocci aveva denunciato la situazione di pericolo e le ripetute violenze ai danni del personale della Residenza per l’esecuzione delle misure detentive di Volterra, dove sono confluiti alcuni pazienti dell’Opg. “Violenze riscontrate anche dalle forze di polizia - sottolinea Giannoni - che espongono i lavoratori a un rischio continuo. E che contrastano profondamente con la politica di assunzioni condotta fin qui dalla Regione Toscana”. “I contratti del tipo libero professionale o tramite agenzie interinali - attacca il coordinatore regionale Nursind - non garantiscono né la dovuta esperienza prevista dalla normativa per strutture del genere né la necessaria motivazione, essendo forme contrattuali di precariato”. “L’assenza di personale di vigilanza all’interno della struttura - continua - non è in grado di garantire i requisiti minimi di sicurezza per il personale in servizio: la necessità di ricorrere all’intervento esterno delle forze dell’ordine comporta infatti lunghi tempi di attesa”. “Auspichiamo una presa di posizione urgente da parte di Saccardi - conclude Giannoni - per scongiurare la sottovalutazione del caso Volterra, fin qui rimasto fin troppo sottotraccia”. Taranto: doppia aggressione in carcere, allarme dei sindacati tarantosera.it, 7 luglio 2016 Doppia aggressione nel carcere di largo Magli. Alta tensione nel penitenziario tarantino dove ieri pomeriggio due detenuti, in momenti distinti, hanno reagito con violenza agli abituali controlli degli agenti di polizia penitenziaria. “Una situazione allucinante, tanto più grave se si considera che è stata posta in essere durante gli abituali controlli di sicurezza del personale di Polizia Penitenziaria e che nulla faceva presagire una tale ingiustificata violenza” commenta Federico Pilagatti, segretario regionale per la Puglia del Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “Il primo episodio si è verificato ieri mattina, in un reparto di reclusione- dice il sindacalista- un detenuto barese, non nuovo a comportamenti violenti ed aggressivi, ha assunto atteggiamenti prepotenti e strafottenti. Ha quindi prima offeso e poi aggredito l’assistente capo di Polizia Penitenziaria che svolgeva il servizio di vigilanza all’interno del reparto detentivo. Poi nel pomeriggio, un altro detenuto, brindisino, addetto alle pulizie in un reparto di alta sicurezza, pretendeva che venisse aperta la cella per far uscire un altro recluso che lo aiutasse nei lavori. Una richiesta assurda e senza senso, e giustamente il collega (che per altro controllava da solo due reparti con più di 100 detenuti presenti) non l’ha fatto. Per tutta risposta, il detenuto lo ha colpito con un violento pugno al viso facendolo cadere per terra. Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità - conclude Pilagatti - i numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni e i ferimenti si verificano costantemente, con poliziotti feriti e contusi”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, sollecita Ministro e Capo del Dap a intervenire. “Quelle di Taranto sono le ennesime gravi e intollerabili aggressioni da parte di detenuti ai danni di poliziotti penitenziari in un carcere italiano - dice - non dimentichiamo che nel carcere sono recentemente arrivati una quarantina di soggetti della mala tarantina e di clan contrapposti che hanno creato situazioni di costante tensione. La situazione nelle nostre carceri resta allarmante, nonostante si sprechino dichiarazioni tranquillanti sul superamento dell’emergenza penitenziaria: la realtà è che i nostri poliziotti continuano ad essere aggrediti senza alcun motivo o ragione. Cosa si aspetta di dotarli di bombolette di gas urticante, in uso anche alle altre forze di polizia, per fronteggiare le continue aggressioni? Eventi come quelli di ieri nel carcere di Taranto sono purtroppo sempre più all’ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il personale di Polizia Penitenziaria. Esprimiamo solidarietà ai poliziotti feriti a Taranto e auguriamo loro una pronta guarigione. Ma deve essere detto, con fermezza, che queste aggressioni sono intollerabili e inaccettabili e che ad esse si deve dare una risposta decisa, in termi­ni penali e disciplinari, sì da evitare effetti emulativi”. Modena: protesta dei lavoratori della Polizia penitenziaria del carcere di Sant’Anna mo24.it, 7 luglio 2016 Ieri, una trentina di lavoratori hanno effettuato un presidio di due ore davanti ai cancelli allo scopo di richiedere rinforzi e provvedimenti contro le aggressioni dei detenuti violenti all’interno della struttura. I sindacati segnalano: “Il carcere S. Anna di Modena vive un momento storico particolare: da una gestione amministrativa dei vertici molto discutibile, si passa a tutta una serie di eventi critici che mettono a repentaglio la sicurezza dell’intero istituto e l’incolumità fisica dei poliziotti penitenziari”. Quanto però preoccupa maggiormente gli agenti sono le problematiche di carattere sanitario dovute principalmente “all’assenza di consapevolezza da parte del servizio sanitario preposto all’attività carceraria, che continua a effettuare interventi di cura non adeguati soprattutto per quei detenuti con gravi problemi di tossicodipendenza”. Carcere, scoppia la protesta della Penitenziaria: “Servono provvedimenti drastici. Questa situazione di crisi si ripropone anche quest’anno visto che il carcere di Modena ormai viene utilizzato ciclicamente per ospitare detenuti particolarmente violenti e che vengono trasferiti da altri istituti penitenziari per ragioni di sicurezza. I sindacati spiegano: “A nulla sono valsi i ripetuti appelli delle Organizzazioni Sindacali affinché fosse predisposta un’organizzazione mirata dell’accoglimento anche per questi detenuti ma, soprattutto, che essi potessero essere seguiti adeguatamente dal punto di vista sanitario, visto che anche per questi detenuti i problemi di tossicodipendenza sono la causa principale di atti di insofferenza soprattutto verso i preposti alla vigilanza. Negli ultimi giorni la situazione è peggiorata anche a causa di una serie di criticità strutturali a partire dagli impianti elettrici e idraulici, che puntualmente sono stati segnalati dagli agenti”. Per tutti questi motivi tutte le Organizzazioni Sindacali Rappresentative dei lavoratori del S. Anna hanno proclamato lo stato di agitazione. Per i prossimi giorni sono previste ulteriori azioni di protesta e sarà formalizzata una richiesta di incontro al Prefetto di Modena e al Provveditore Regionale affinché da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vengano avviate tutte le iniziative per sanare le criticità”. Strage di Bologna, il libro del giudice Priore scatena una bufera politica di Francesco Grignetti La Stampa, 7 luglio 2016 Colpo di scena: Rosario Priore, il giudice che ha tanto indagato sui misteri d’Italia, ora in pensione e perciò più libero di scrivere quello che pensa, sta portando in libreria un nuovo libro, “I segreti di Bologna” (Chiare lettere editore, scritto assieme a Valerio Cutonilli), con cui polemizza a viso aperto con la sentenza che ha condannato i neofascisti romani Mambro, Fioravanti e Luigi Ciavardini per la strage del 2 agosto 1980. Una nuova teoria - Priore rilegge gli atti giudiziari di Bologna, ma anche di tante altre inchieste, mette insieme pezzi diversi, rivitalizza filoni d’inchiesta ormai dimenticati, mescola il tutto con citazioni da libri, interviste, acquisizioni delle commissioni parlamentare d’inchiesta, e alla fine sforna una teoria assolutamente nuova: a Bologna, secondo lui, forse volutamente, forse per errore, c’erano i terroristi tedeschi affiliati al gruppo Carlos. A muoverli, però, era un’anima nera palestinese, un tal Abu Ayad, che all’epoca era conosciuto come braccio destro di Arafat e “responsabile dei servizi segreti dell’Olp”. Il famoso Abu Ayad che interloquiva con i nostri 007, a cominciare dal famoso colonnello Stefano Giovannone e che è ben noto alle cronache per avere avuto un ruolo nei depistaggi attorno alla strage. I terroristi teleguidati da Mosca - Ebbene, secondo Priore, nel 1980 Ayad era divenuto il referente del Kgb per le azioni terroristiche in Europa. Aveva sostituito in quel ruolo il dottor Wadi Haddad, un altro palestinese marxista, a sua volta braccio destro di George Habash, leader del gruppo Fplp, deceduto da un anno. Il Kgb aveva infatti bisogno di una schermatura per organizzare azioni terroristiche in Europa che non riconducessero a Mosca. E in quell’estate del 1980 - all’apice della tensione tra Est e Ovest per gli euromissili - i terroristi teleguidati da Mosca non colpirono solo l’Italia. In rapida successione ci fu un attentato alla sinagoga di Parigi e all’Oktoberfest di Monaco. In entrambi i casi, furono operati dei depistaggi che indirizzarono le indagini della magistratura francese e tedesca verso gruppi neonazisti. In entrambi i casi, le due magistrature stanno esaminando piste che portano all’Est. Lo stesso Abu Ayad, incontrandosi in seguito a Parigi con Giovanni Senzani, divenuto il nuovo capo delle Br, spiegò che era stato necessario punire i paesi europei perché stavano cercando di incapsulare e rendere inoffensivo Arafat (erano i mesi in cui la Cee fece una famosa dichiarazione a favore dell’Olp, subordinandola al principio della pari dignità tra “due popoli e due Stati” per palestinesi e israeliani), così di fatto spezzando il fronte palestinese e cacciando in un angolo chi lottava ancora per distruggere Israele. La polemica - Fin qui, la tesi di Priore. Il libro, in libreria da venerdì, è ricchissimo di spunti. Una girandola di notizie edite e inedite, montate con ritmo sapiente. Sennonché al solo sentire di piste alternative, è saltato su il presidente dell’Associazione famigliari delle vittime, l’onorevole Paolo Bolognesi, Pd, che non ha potuto ancora leggere una sola pagina del libro, ma ha già minacciato l’autore di denuncia. “Il giudice Rosario Priore - sono le parole di Bolognesi - deve stare attento perché da ieri è passata la legge che ha istituito il reato di depistaggio e potrebbe essere chiamato a rispondere, dalla magistratura, di tutte le sue stupidaggini su Bologna”. Già, il reato di depistaggio. Qualcuno in Parlamento aveva posto il problema che non si trasformasse in un’arma contundente contro chi cerca verità non ufficiali. Gli storici erano perplessi. La questione è stata poi risolta con la delimitazione che il reato si può applicare esclusivamente a un pubblico ufficiale che abbia sabotato dall’interno un’inchiesta, non a uno scrittore. Bolognesi: si cerca di deviare l’attenzione - Per l’onorevole Bolognesi, invece, “Priore ha sempre seguito la pista palestinese. Visto che è stata archiviata non più di un anno fa dal procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso, sapevo che sarebbe venuto fuori con un’altra storiella e ora, infatti, parla di un cadavere mai trovato. Come al solito si cerca di allontanare il più possibile l’attenzione dalla pista della Loggia P2 e dei servizi segreti”. Il suo delitto, dunque, sarebbe questo? Cercherebbe a posteriori, a Gelli defunto, di riabilitare la P2? Bolognesi non conosce il valore del dubbio. “Per me e per i parenti delle vittime che fanno parte dell’associazione 2 agosto 1980, la verità sarà sempre e solo questa. Sono stati i neofascisti condannati gli autori della strage, anche se nessuno dei tre è in carcere. Nei loro confronti è stata usata un’indulgenza mai vista”. Quanto a Priore, “la pista palestinese è stupida e ha fatto perdere sette anni ai giudici. Era una pista già fabbricata tre mesi prima della strage. Priore deve stare attento visto che ora c’è il reato di depistaggio. Potrebbe pagare cari i suoi 10 minuti di celebrità”. La guerra ci riguarda: non giriamo la testa dall’altra parte di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 7 luglio 2016 La lezione che viene da Dacca è chiara: l’Italia non è al riparo. Il fatto che il Bangladesh sia lontano non può essere motivo di autoconsolazione o di indifferenza. Nel novembre 1961, tredici aviatori italiani di una missione Onu furono trucidati a Kindu, nell’ex Congo belga, e sepolti in una fossa comune. Probabilmente erano stati confusi con mercenari belgi. Tra i reporter che fecero luce sul massacro si distinse un giovane inviato: Alberto Ronchey. Oggi una lapide all’ingresso dell’aeroporto di Fiumicino è tra i pochi segni che ricordano un lutto quasi del tutto assente dalla memoria nazionale. Rimosso. Dimenticato. Non possiamo accettare che la stessa sorte di oblio avvolga la tragedia di Dacca. Purtroppo, le premesse ci sono tutte. Sabato sera l’ottimo speciale del tg3 in diretta ha avuto uno share dell’1,22% (è vero che c’era la partita, ma hanno avuto share più alti i film “Ti va di ballare?” “Beethoven 2”, “Look again. Inganno mortale” e il telefilm “Ncis. Unità anticrimine”). Il giorno dopo, i discorsi per strada e sui social erano tutti sul balletto di Zaza e sull’errore di Pellé. Nove italiani assassinati, alcuni sgozzati dopo che gli assassini avevano verificato che fossero proprio italiani, non hanno scosso la coscienza del Paese. Certo, ci sono stati anche segnali in controtendenza. Il presidente Mattarella ha interrotto il suo viaggio in America Latina per andare a ricevere le bare dei connazionali. C’è un’Italia attenta al mondo, al sociale, al volontariato, che ha reagito con commozione e indignazione. Però, evitiamo ipocrisie: mentre l’assassinio di Valeria Solesin e di Giulio Regeni avevano suscitato profonda emozione, qui si discute al più se un marito avrebbe dovuto essere più coraggioso. Come se il massacro di Dacca non rappresentasse una svolta nella storia del Paese: l’ingresso dell’Italia nella guerra che scuote il mondo, o meglio la conferma che questa guerra coinvolge anche noi. Non si tratta di stabilire se gli attentatori, attaccando un locale vicino alla nostra ambasciata, volessero colpire specificamente italiani o genericamente occidentali. La lezione che viene da Dacca è chiara: l’Italia non è al riparo. Il fatto che il Bangladesh sia lontano non può essere motivo di autoconsolazione o di indifferenza. Questa idea strisciante per cui chi va all’estero per lavoro o per turismo in qualche modo se la va a cercare, mentre a chi resta a casa non può accadere nulla, prima che essere cinica è un’idea ingenua. La guerra ci riguarda, grida il nostro nome, interpella la nostra coscienza. A ben vedere, è più che una guerra; è un’epoca. È il tempo che ci è dato in sorte. E dobbiamo attrezzarci, non solo con l’intelligence e gli apparati di sicurezza, ma anche culturalmente. La consapevolezza è più dolorosa ma anche più utile dell’ignavia. Se da una parte è importante tenere i nervi saldi, evitare reazioni sciocche come prendersela con i poveri ambulanti bengalesi, badare a non equiparare l’Islam al fondamentalismo e le migrazioni al terrorismo, dall’altra parte la discussione deve essere aperta e libera dai ricatti ideologici. Si deve essere liberi di porre questioni senza essere tacciati di razzismo o di islamofobia. Ci si può domandare se un Paese in cui in un solo giorno sbarcano 4500 migranti - senza contare quelli arrivati per terra o per aria - è un Paese che sta proteggendo le sue frontiere, senza sentirsi chiamare xenofobi. Si può chiedere ai musulmani d’Italia di prendere posizione e impegnarsi in concreto contro l’estremismo, senza sentirsi rispondere che non c’entra niente e il problema è sempre un altro. È possibile affrontare le prove durissime che ci attendono senza perdere l’umanità che da sempre contraddistingue il nostro popolo, e di cui siamo giustamente orgogliosi. Ma far finta di nulla, girare la testa dall’altra parte e trattare chi pone il problema come un importuno non ci aiuterà. Nigeriano ucciso da un ultrà: noi non siamo questo Paese, serve un antidoto ai veleni di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 7 luglio 2016 Scampato alla follia islamista di Boko Haram, ammazzato da un razzista nostrano. C’è tutta la nauseante “modernità” dei nostri giorni nella morte assurda di Emmanuel Chidi Namdi, il giovane nigeriano ucciso a botte nella cittadina marchigiana di Fermo per aver provato a difendere la sua compagna, Chimiary, che qualche squallido imbecille stava insultando in strada, chiamandola “scimmia”. Servisse un monito, per quei politici che pensano di lucrare voti seminando vento e odio tra gli ultimi e i penultimi della nostra società, questo sarebbe il momento di fermarsi a riflettere, perché c’è sempre qualche idiota che infine trasforma quel vento in tempesta. Ma non ci sono moniti che bastino, non c’è orrore che fermi la paura dell’altro quando questa diventa cieca stupidità, come non è bastata - lo sappiamo - in Inghilterra la morte di Jo Cox a fare arretrare i populisti demagoghi che incassavano qualche consenso in più sulla fobia dei migranti. La piccola terribile storia di Emmanuel e di Chimiaryha risvolti tragicamente paradossali che s’aggiungono alla banalità del male in una rivoltante sommatoria. I due ragazzi scappavano dal fondamentalismo musulmano. Erano profughi, rifugiati nel seminario arcivescovile di Fermo dal settembre scorso, dopo aver passato le pene dell’inferno: i terroristi di Boko Haram avevano ucciso la loro figlioletta di due anni, devastato il loro villaggio, assaltato la loro chiesa. Nel cammino della speranza verso l’Italia, i ragazzi erano stati aggrediti e pestati in Libia. Durante la traversata verso la Sicilia, su uno dei barconi che qualche demagogo nostrano vorrebbe “rimandare a casa” magari con un panino e una bottiglietta d’acqua, Chimiaryaveva avuto un aborto. Sappiamo poco, per adesso, dei loro aggressori nella nostra terra. Chi ha assassinato Emmanuel, bastonandolo con un palo di ferro, pare sia un tifoso ultrà della squadra di calcio di Fermo. Secondo monsignor Vinicio Albanesi, presidente della fondazione Caritas in Veritate che assiste migranti e profughi nella cittadina, i razzisti che hanno aggredito il ragazzo nigeriano sarebbero dello stesso “giro” che ha piazzato quattro bombe davanti alle chiese cittadine per “punire” la comunità cristiana di quell’accoglienza insopportabile a chi professa un cristianesimo di spada e identità senza la misericordia di Gesù. Ci verrebbe da dire che importa poco. Che la storia di Emmanuel e Chimiary travalica la verità giudiziaria, quando mai verrà accertata. Perché questa storia parla, prima ancora che alle nostre coscienze di italiani, alle coscienze della classe dirigente del Paese, di qualsiasi colore politico essa sia. Da quasi dieci anni, da quando in Italia esplose la prima grande emergenza securitaria (a Roma, con la comunità romena), ci sono parti politiche, leader e fazioni che pensano di poter mettere all’incasso la cambiale della paura. È una dannata illusione, perché quella cambiale porta solo nuovi debiti, fino alla rovina. Perché c’è sempre qualcuno pronto a interpretare alla lettera uno scatto polemico, una frase sopra le righe: e troppe sono, nel triste dibattito italico, le frasi fuori misura, gli atteggiamenti gladiatori. La morte di Emmanuel dovrebbe insegnare a ciascuno moderazione e senso del limite. Descrivere l’altro come nemico, i migranti come chi ci porta via il pane (è vero il contrario, i migranti pagano le pensioni dei nostri vecchi col loro lavoro), ripetere il mantra “prima gli italiani” (come se qualche razzista si fosse mai interessato agli italiani poveri prima di contrapporli ai migranti), beh, tutto questo è veleno. Emmanuel e la sua storia ci insegnino a riconoscerlo, ci aiutino almeno a trovare un antidoto. Chimiary ha deciso di donare gli organi: salveranno un italiano. Il razzismo a bassa intensità di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 7 luglio 2016 Dallo “squadrone della morte” di Parma ai bangladesi picchiati dopo Dacca, la xenofobia cresce. Di Emmanuel, il trentaseienne nigeriano ridotto in fin di vita da un italiano a Fermo, sappiamo che era arrivato in Sicilia a bordo di un barcone con la compagna Chimiary, costretta ad abortire per le botte subite in Libia. Fuggiva dai fondamentalisti islamici di Boko Haram ed è stato ammazzato da un bullo di casa nostra. Pochi mesi fa aveva contratto un matrimonio da “irregolare”, officiato da un don Vinicio Albanesi in vena di disobbedienza civile, ora è in coma irreversibile a causa delle sprangate ricevute per aver tentato di difendere sua moglie dall’aggressione di un pasdaran di casa nostra, secondo i sospetti componente di una banda che negli ultimi tempi ha preso di mira, con attacchi dinamitardi, alcune chiese della cittadina marchigiana perché ospitano più di un centinaio di profughi. Emmanuel era uno di questi, sopravvissuto alle intemperie della vita e morto in una stagione di bonaccia. Quella accaduta a Fermo è una brutta storia di razzismo destinata a cadere presto nel dimenticatoio, schiacciata da mille altri eventi terribili. Forse non sarà l’ultima ma di sicuro non è la prima: appena un mese e mezzo fa abbiamo appreso da questo giornale dello “squadrone della morte” che, nel silenzio generale, ha massacrato un tunisino a pochi chilometri da Parma. Nella stessa città in cui qualche anno fa fece notizia il pestaggio di Emmanuel Bonsu, un diciannovenne studente ghanese detenuto illegalmente e pestato da una squadretta di vigili urbani (saranno poi condannati in otto) in una stanza del locale Comando. Da ultimo, due giorni fa sul lungomare di San Benedetto del Tronto, ancora una volta nelle Marche, è toccato a due malcapitati venditori di rose bangladesi finire vittima di una sorta di legge del taglione all’italiana per vendicare i morti di Dacca: non conoscete il Vangelo? E allora giù botte. A leggere le Cronache di ordinario razzismo di cui l’associazione Lunaria tiene il conto giorno per giorno con meticolosità, ci si rende conto di quanto diffusa sia questa intolleranza a bassa intensità che raramente squarcia il velo dell’indifferenza mediatica. Ne va consigliata la lettura a chi si stupisce quando un estremista di destra fredda due senegalesi a Firenze o un commando di killer dei Casalesi stermina sette africani a Castelvolturno, e pure quando un ultras di una tranquilla cittadina di provincia finisce a colpi di segnale stradale un nigeriano sfuggito a jihadisti, contrabbandieri di vite umane e intemperie mediterranee. Non era un pazzo il primo e non erano solo camorristi i secondi. Anche Amnesty International ha denunciato la “pericolosa china razzista” del nostro Paese, alimentata dalle campagne politiche e mediatiche di criminalizzazione degli immigrati. Bisogna essere consapevoli che il razzismo in Italia è diffuso e a volte uccide. Per contrastarlo, cominciamo a portarlo in prima pagina, dunque. L’odissea degli studenti stranieri: troppo poveri per diventare italiani di Brahim Maarad L’Espresso, 7 luglio 2016 Per non essere espulsi dall’Italia migliaia di giovani, spesso immigrati di seconda generazione bene integrati e nel nostro paese da quando sono piccoli, devono dimostrare di avere un reddito sufficiente. “Sentirsi italiani non può avere a che fare solo con i soldi”. Non è un Paese per studenti, specie se sono stranieri. Di quelli non ricchi, che hanno bisogno di lavorare per pagarsi gli studi, che non hanno alle spalle una famiglia benestante che li supporti. E che spesso quando arrivano all’università rischiano di diventare illegali, un modo diverso di definire i clandestini, e si trovano costretti a scegliere tra lo studio e il permesso di soggiorno. Il primo pretende che gli venga dedicato tanto tempo e il secondo richiede che venga dimostrato un reddito. Riuscire in entrambi è quasi impossibile. Ecco quindi che ragazzi di seconda generazione, arrivati in Italia negli anni Duemila, si ritrovano quasi vent’anni dopo a studiare sotterfugi per poter restare ancora in quello che è ormai diventato il loro Paese. I casi sono migliaia. I permessi di soggiorno che all’inizio sono concessi per motivi familiari, raggiunta la maggiore età vengono trasformati in documenti per motivi di studio. In questo caso gli studenti sono costretti con una cadenza almeno annuale a lunghe file davanti alla questure. Sono chiamati ogni volta a dimostrare di essere ancora studenti e quando non ci riescono, perché hanno sospeso gli studi o sono finiti fuori corso, allora devono presentare un reddito. In tanti casi ciò che portano non basta, anche per colpa del tasso di disoccupazione giovanile. Sono ragazzi che parlano perfettamente l’italiano, spesso fanno da mediatori culturali e interpreti, e sono in perenne rischio espulsione. Ancora più complicato tentare di diventare cittadini italiani. Prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica per molti è solo un sogno che si portano dietro da anni. L’ultimo caso arriva da Reggio Emilia. Protagonista Ihssan Ait Yahia, 24 anni, trascorsi in buona parte in Italia. Studia giurisprudenza, per cinque anni è stata pioniera della Croce rossa e ora è presidente di un’associazione interculturale giovanile. Di lei si può dire tutto tranne che non sia integrata. Per lo Stato però non è sufficiente: la settimana scorsa si è recata in prefettura a chiedere aggiornamenti sulla sua pratica per l’ottenimento della cittadinanza. È stata semplicemente respinta. “Il suo non profilo non raggiunge il reddito minimo per poterla ottenere. Sarebbe meglio, signorina, che lei andasse a lavorare invece di frequentare l’università”, le ha detto l’impiegata. “È stata una giornata umiliante. Mi sono sentita rifiutata da uno Stato che ho sempre considerato mio”, racconta Ait Yahya, “Sono stata colta da un attacco di panico perché in quell’istante ho visto tutti i miei sogni frantumarsi. Non potete avere idea di cosa si provi a sentirsi non degni di essere italiani perché troppo poveri”. Ihssan non si vuole rassegnare. “Sentirsi italiani non può avere nulla a che fare con il reddito. Io ho sempre fatto in modo di essere una risorsa per questa società mettendomi in gioco ogni qualvolta venivo chiamata. Sono fiera di vivere in un Paese con una Costituzione così bella ma per ora la mia cara Italia ha deciso di tenermi in panchina in attesa che la mia situazione economica muti. Io invece vorrei che mutasse prima di tutto la legge”. Diverse associazioni si sono mobilitate per il caso di Ait Yahya, in attesa che venga sbloccata la riforma della cittadinanza ora bloccata al Senato dopo l’approvazione alla Camera. Il testo prevede l’introduzione di Ius soli temperato e ius culturae: con il primo otterranno la cittadinanza tutti i nati in Italia con un genitore in possesso di un permesso di lungo periodo. Con lo ius culturae invece saranno considerati italiani i ragazzi arrivati in Italia entro i 12 anni che abbiano concluso almeno un ciclo di studi. Ne beneficerebbero oltre 800mila persone. Attualmente chi nasce in Italia da genitori stranieri viene considerato un immigrato, come tutti gli altri, fino ai 18 anni. Ha poi un anno di tempo per chiedere la cittadinanza. Nel caso non rispettasse questa scadenza dovrà seguire l’iter di concessione per anzianità di residenza. Dimostrare quindi di essere residente nel Paese da dieci anni e attendere dai due ai quattro anni per l’ottenimento del nuovo status. Spesso però gli studenti stranieri faticano a mantenere persino il permesso di soggiorno. Un’odissea burocratica, che brucia tempo e denaro, a cui sono condannati tanti universitari di origine straniera. E qualche volta risulta davvero difficile essere in regola con i documenti. È emblematica la storia di una studentessa di origini marocchine che frequenta l’università di Bologna. Arrivata in Italia nel 1998, 16 anni dopo si è ritrovata irregolare perché ha mancato una scadenza di quattro giorni. “Ho atteso otto mesi per ricevere un rigetto della mia domanda. Ci hanno messo otto mesi per dirmi che il mio permesso di soggiorno non è più valido e che quindi non potevo più lavorare, studiare o prendere una casa in Italia. Questo perché da sempre non ho mai avuto il reddito sufficiente. I lavoretti part-time che ho sempre ottenuto non mi hanno mai aiutato. Pur di poter respirare sono stata costretta a farmi assumere come colf e pagare di tasca mia i contributi. Era l’unico modo per avere un reddito minimo. E io faccio l’educatrice e spesso ho incarichi da interprete per tradurre a persone che hanno la cittadinanza ma che non sanno ancora parlare l’italiano. Quelle persone sono ricche, io no. Ed è ciò che conta per il nostro Stato. Sì, dico nostro perché nonostante tutto sento di farne parte. Alla partita mi ero ripromessa di non tifare per l’Italia, ma al primo gol dei tedeschi mi sono messa a urlare contro la Germania. Volenti o nolenti noi siamo parte di questo Paese. Attendiamo solo di essere riconosciuti con la dignità che meritiamo”. Ecomafie, meno reati ambientali e più arresti: merito della legge sugli eco-reati di Franco Brizzo La Stampa, 7 luglio 2016 Più illeciti nell’agro-alimentare e incendi, meno reati nel ciclo dei rifiuti. Il rapporto 2016 di Legambiente: resta la morsa dell’ecomafia nel Mezzogiorno, mentre la corruzione dilaga in Lombardia. Nella lotta all’ecomafia e agli eco-reati arrivano i primi segnali di una inversione di tendenza, dopo l’introduzione della legge sui delitti ambientali nel codice penale e un’azione più repressiva ed efficace. Nel 2015 diminuiscono gli illeciti ambientali accertati, sono 27.745. Per dirla in altro modo, più di 76 reati al giorno, più di 3 ogni ora. Salgono a 188 gli arresti, mentre diminuiscono le persone denunciate 24.623 e i sequestri 7.055. Sono 18mila gli immobili costruiti illegalmente. In calo le infrazioni nel ciclo del cemento e dei rifiuti. Crescono, invece, gli illeciti nella filiera agro-alimentare, i reati contro gli animali e soprattutto gli incendi, con un’impennata che sfiora il 49%. Roghi che hanno mandato in fumo più di 37.000 ettari, più del 56% si è concentrato nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso. In calo il business delle ecomafie che nel 2015 è stato di 19,1 miliardi, quasi tre miliardi in meno rispetto all’anno precedente (22 miliardi). Un calo dovuto principalmente alla netta contrazione degli investimenti a rischio nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, che hanno visto nell’ultimo anno prosciugare la spesa per opere pubbliche e per la gestione dei rifiuti urbani sotto la soglia dei 7 miliardi (a fronte dei 13 dell’anno precedente). Sono questi i primi dati che emergono da Ecomafia 2016 di Legambiente, le storie e i numeri della criminalità ambientale in Italia, edito da Edizioni Ambiente con il sostegno di Cobat, e presentato oggi a Roma al Senato. Numeri e risultati che raccontano il lento ma grande cambiamento che ha preso il via nel 2015, con l’approvazione della legge sugli eco-reati, e continua nel 2016, anno in cui si cominciano a raccogliere i primi frutti di un’azione repressiva più efficace e finalmente degna di un paese civile che punisce davvero chi inquina. Nei primi otto mesi dall’entrata in vigore della legge sono stati contestati 947 eco-reati, con 1.185 denunce dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto e il sequestro di 229 beni per un valore di 24 milioni di euro. Sono 118 i casi di inquinamento e 30 le contestazioni del nuovo delitto di disastro ambientale. Ma per contrastare le ecomafie c’è ancora da fare, dato che la criminalità organizzata la fa ancora da padrone (sono 326 i clan censiti) e la corruzione rimane un fenomeno dilagante, è il volto moderno delle ecomafie che colpisce ormai anche il nord Italia. Senza dimenticare che la criminalità organizzata continua la sua pressione nelle aree boschive e agricole, e nel mercato illegale del legno, del pellet e della biodiversità. Per questo Legambiente, torna oggi a ribadire l’importanza di continuare a rafforzare il quadro normativo con leggi ad hoc che tutelino anche la filiera agroalimentare, i beni culturali e l’istituzione di una grande forza di polizia ambientale diffusa sul territorio. Alla presentazione del Rapporto Ecomafia hanno partecipato Rossella Muroni, Presidente di Legambiente, Piero Grasso, Presidente del Senato, Andrea Orlando, Ministro della Giustizia, Gian Luca Galletti, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Franco Roberti, Procuratore Nazionale antimafia, Tullio Del Sette, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Rosy Bindi, Presidente Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Ed ancora Alessandro Bratti, Presidente Commissione Parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati, Donatella Ferranti, Presidente Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Ermete Realacci, Presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, Giancarlo Morandi, Presidente Cobat - Consorzio Nazionale Raccolta e Riciclo, e Stefano Ciafani, Direttore generale di Legambiente. “Anche quest’anno il Rapporto Ecomafia - dichiara Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente - ci racconta il brutto dell’Italia, segnata ancora da tante illegalità ambientali, ma in questa edizione 2016 leggiamo alcuni fenomeni interessanti che lasciano ben sperare. Dati e numeri, in parte in flessione, che dimostrano quali effetti può innescare un impianto normativo più efficace e robusto come i nuovi eco-reati, in grado di aiutare soprattutto la prevenzione oltreché la repressione dei fenomeni criminali. La prevenzione è la moneta buona che scaccia quella cattiva: è necessario creare lavoro, filoni di sviluppo economico e produttivo nei territori più a rischio, sostenere le centinaia e centinaia di cooperative e di imprese, che anche nel sud stanno cercando di invertire la rotta, puntando su qualità ambientale e legalità. E nel prevenire le ecomafie, oltre all’impegno dei territori e dei singoli cittadini, è importante una presenza costante dello Stato che deve essere credibile e dare risposte sempre più ferme, perché quando lo Stato è assente la criminalità organizzata avanza con facilità invadendo i territori, l’ambiente e le comunità locali. Quando invece lo Stato è presente, difficilmente gli ecomafiosi possono rubare e uccidere il nostro futuro”. Nonostante il calo complessivo dei reati nel 2015, cresce l’incidenza degli illeciti nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), dove se ne sono contati ben 13.388, il 48,3% sul totale nazionale (nel 2014 l’incidenza era del 44,6%). La Campania con 4.277 reati, più del 15% sul dato complessivo nazionale, è la regione con il maggior numero di illeciti ambientali seguita da Sicilia (4.001), Calabria (2.673), Puglia (2.437) e Lazio (2.431). Anche su base provinciale la Campania gode di un primato tutt’altro che lusinghiero: le province di Napoli e Salerno sono tra le due più colpite, rispettivamente con 1.579 e 1.303 reati, seguite da Roma (1.161), Catania (1.027) e Sassari (861). Quando amianto, mercurio e rifiuti tossici vengono usati per scuole e autostrade di Paolo Fantauzzi L’Espresso, 7 luglio 2016 Infrastrutture, abitazioni civili e perfino istituti per i piccoli. Spesso il materiale con cui vengono edificati è pieno di veleni, come hanno dimostrato numerose inchieste. Ma una stima della diffusione del fenomeno e dei rischi è impossibile. Più che sotto il tappeto, la “polvere” è finita nei manufatti che ci circondano. Autostrade, ferrovie, parcheggi, infrastrutture varie, abitazioni civili, perfino scuole: quasi non c’è tipologia di costruzione che, stando alle inchieste degli ultimi anni, sia stata risparmiata dalla presenza di rifiuti tossici. Metalli pesanti come fluoruro, bario, piombo, arsenico, mercurio, diossine o sostanze altamente cancerogene come il cromo esavalente. Tutti impastati nei conglomerati da cui si ottiene il cemento e il calcestruzzo, in modo da risparmiare e smaltire scorie che avrebbero dovute essere sottoposte a tutt’altro trattamento. Migliaia di tonnellate che rappresentano una bomba ecologia pronta a esplodere, col rischio di tenuta per le opere così realizzate ma anche di rischi per la salute, a cominciare dall’inquinamento delle falde acquifere. Ma praticamente impossibile da censire. Su questo business le organizzazioni criminali hanno ovviamente puntato gli occhi. Ad Acerra, ha raccontato un imprenditore pentito alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, la camorra avrebbe perfino costruito una scuola materna con cemento in cui era stato miscelato anche l’amianto, oltre ai “consueti” liquami industriali, scarti di acciaierie, solventi e perfino polveri di camini industriali. E amianto, miscelato con la terra per farne materiale da pavimentazione, sarebbe stato usato anche nella ricostruzione post-sismica in Emilia, scuole comprese, secondo le carte dell’inchiesta Aemilia della Procura di Bologna sulla penetrazione delle ‘ndrine nella regione. Negli anni scorsi ne sono state trovate fibre sbriciolate in grandissima quantità in un enorme cantiere nell’hinterland di Palermo in cui era prevista la realizzazione di un ipermercato e la ‘ndrangheta in Calabria si sarebbe spinta ancora oltre: a detta del pentito Antonino Lo Giudice le scorie radioattive, affondate nelle cosiddette “navi dei veleni”, sarebbero state tombate anche in una galleria della statale Jonio-Tirreno. Ma non c’è solo la criminalità organizzata o la zona grigia che le ruota attorno. Al contrario, sono proprio aziende senza alcuna connessione con le ecomafie che di questo modus operandi sembrano aver fatto un “sistema”, tanto da arrivare a mettere in commercio conglomerati cementizi contenenti rifiuti pericolosi ma riuscendo a farli risultare come inerti. Con un doppio guadagno: risparmiare sui materiali e fare soldi con lo smaltimento illecito. Rilcem, Conglogem, Concrete green, Green compost: i loro nomi dicono poco ma per anni questi prodotti hanno inondato il mercato edile, grazie a certificazioni in base alle quali risultavano del tutto in linea con la legge, come ha ricostruito la commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie in un dossier sul Veneto realizzato dal deputato Cinque stelle Alberto Zolezzi e dai democratici Alessandro Bratti e Miriam Cominelli. Proprio questa pare infatti una delle caratteristiche più allarmanti: aziende al di sopra di ogni sospetto, senza alcun legame con le consorterie criminali ma in grado di allestire un meccanismo in grado di proiettarsi anche fuori dai confini nazionali, dal momento che alcuni di questi prodotti sono arrivati fino in Cina, India e Malesia. A produrre il Rilcem ad esempio era la Mestrinaro spa di Zero Branco (Treviso), ottenuto mescolando nei composti oltre 40 mila tonnellate di rifiuti speciali provenienti dall’area di Marghera, per lo più scorie di fonderia non trattate e calce usata per la pulizia degli altiforni. I carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Venezia ne hanno trovate tracce a Roncade, in una rampa d’accesso dell’autostrada Serenissima e in un parcheggio dell’aeroporto Marco Polo di Venezia. Ma non è solo questo il punto: il Rilcem infatti è stato venduto in tutta Italia e usato anche per la costruzione di immobili per uso residenziale. E quindi è finito anche nelle armature di chissà quante abitazioni private costruite da un capo all’altro dello Stivale. Proprio come il Conglogem, prodotto dalla C&C di Permunia e contenente anche idrocarburi, fanghi industriali, ceneri pesanti e scorie derivanti dall’incenerimento di rifiuti solidi urbani e ospedalieri. Anche in questo caso, migliaia di tonnellate usate non solo nei sottofondi di strade, come accaduto a Granze e Padova, o in un tratto della linea ferroviaria che collega il capoluogo patavino a Venezia (in entrambi i casi l’inquinamento era tale da rendere necessaria la bonifica delle aree interessate). Pure stavolta gli scarti sono finiti nella costruzione di edifici a scopo abitativo. E oltre al danno (ambientale), la beffa: la C&C è fallita e solo allontanare le 52 mila tonnellate di rifiuti pericolosi rimasti nei suoi capannoni costerà alle casse pubbliche una decina di milioni. Situazione simile, secondo una inchiesta della Dda di Venezia, per il Concrete green realizzato dalla Tavellin Green Line, che sforava le concentrazioni di fluoruro, bario e piombo consentite dalla legge: ne sono state impiegate almeno 45 mila tonnellate solo a Piacenza d’Adige nel troncone compreso fra Rovigo e Vicenza della Valdastico sud, autostrada già interessata da varie indagini della magistratura sull’impiego di rifiuti tossici nei cantieri . Nemmeno in questo caso è possibile accertare l’estensione esatta dell’impiego perché, si legge nel dossier, “il problema dei conferimenti riguarda una pluralità indeterminata di ditte”. Del resto lo smaltimento illecito di scorie tossiche nei sottofondi stradali non è una novità, come ha dimostrato il caso della Brebemi, dove sono state trovate concentrazioni altissime anche del temibile cromo esavalente, cancerogeno, oltre a scarti vari di fonderia. Nei cantieri della Brescia-Bergamo-Milano hanno lavorato anche alcune aziende finite poi nelle inchieste relative sulla costruzione Valdastico sud. Compresa la Locatelli spa, il cui titolare nei mesi scorsi è stato condannato in primo grado a 6 anni: traffico illecito di rifiuti nel processo sulla realizzazione della tangenziale di Orzivecchi, in provincia di Brescia. Lapidario il giudizio della commissione Ecomafie: “Ciò che sorprende è il fatto che la Locatelli spa, nonostante indagini e condanne, abbia continuato a lavorare con società pubbliche come se nulla fosse mai accaduto nel frattempo e, dunque, nell’assenza di adeguati controlli”. Bangladesh: vittime di Dacca, le autopsie confermano torture Avvenire, 7 luglio 2016 Ferite causate da proiettili e ordigni esplosivi, ma anche mutilazioni e altri colpi inferti per far soffrire gli ostaggi senza ucciderli subito. Segni inequivocabili di tortura. Emergono particolari strazianti sulla morte dei nove italiani coinvolti nell'attentato di Dacca in Bangladesh. Le autopsie sulle salme effettuate oggi al policlinico Agostino Gemelli di Roma hanno messo in luce una vera mattanza durante la quale i terroristi hanno infierito sulle vittime per straziare senza senza dare il colpo di grazia. Secondo quanto si apprende in ambienti investigativi il modo atroce in cui sono stati uccisi gli ostaggi rappresenterebbe una anomalia negli attentati jihadisti nei quali, solitamente gli omicidi sono più rapidi. E un'altra circostanza apparentemente insolita è legata al fatto che nessuno degli attentatori, che hanno usato diverse armi dai macete ai kalashnikov, si sarebbe fatto esplodere. Intanto stasera il pm Francesco Scavo, che indaga per la procura di Roma sulla vicenda, ha firmato il nulla osta per il rilascio delle salme ai famigliari che potranno organizzare i funerali dei defunti. Le esequie saranno in forma privata nei rispettivi luoghi di origine. I carabinieri del Ros che indagano sulla strage hanno sentito anche Gian Galeazzo Boschetti. L'uomo scampato alla carneficina, nella quale è stata uccisa tra gli altri sua moglie Claudia D'Antona. Boschetti ha ripercorso quanto accaduto la sera dell'attentato al quale l'imprenditore è uscito indenne solo grazie a una telefonata ricevuta pochi istanti prima dell'irruzione dei terroristi nel locale della strage. Boschetti, uscito nel giardino del ristorante per parlare al telefono, quando ha visto gli uomini armati si è nascosto dietro una siepe dove è rimasto per ore prima di scappare. Nel frattempo l'Isis avverte in un video in cui si vede un combattente identificato come il bengalese Abu Issa al-Bengali. "Quel che avete visto in Bangladesh è un assaggio. Ciò si ripeterà, ripeterà e ripeterà, sino a quando voi avrete perso e noi avremo vinto, e la sharia sarà applicata in tutto il mondo". E mentre l'Italia piange i suoi morti domani il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, riferirà domattina in Senato sul macabro attentato di Dacca. Egitto: RegeniLeaks, un successo tra gli attivisti egiziani di Federica Bianchi L’Espresso, 7 luglio 2016 “È la prima volta che un giornale straniero si sia preso tanto a cuore la questione di diritti umani in Egitto. L’Italia ci può aiutare bloccando la fornitura di software di spionaggio all’Egitto”. RegeniLeaks, l’iniziativa lanciata dall’Espresso per cercare la verità sulla morte di Giulio Regeni, è un’idea meravigliosa. A dirlo è Abdelrahem Mansour, un attivista egiziano esiliato negli Stati Uniti per scappare alla repressione del dittatore Abdel Fattah al-Sisi. “È un’idea estremamente popolare tra gli attivisti egiziani che già hanno preso a usare la piattaforma, ed è anche la prima volta che un giornale straniero si sia preso tanto a cuore la questione di diritti umani in Egitto”. Indossa scarpe nere lucide come i suoi occhi quando parla della rivoluzione dell’11 gennaio 2011 Mansour. Perché lui era uno di quei giovani egiziani, liberal e un pò naive, convinti che fosse davvero possibile liberare l’Egitto dal pugno duro di Mubarak senza avere un piano politico alternativo. Fu uno di quei ragazzi, sono già passati sei anni, che dopo l’omicidio da parte della polizia di Khaled Said, un giovane che aveva scoperto l’illecito traffico di droga da parte delle forze dell’ordine, aveva lanciato su Facebook la campagna per denunciare la brutalità e diffondere indignazione e solidarietà. “Forse non sarebbe una brutta idea fare un parallelismo tra Giulio e Khaled, tra le loro madri”, suggerisce Mansour: “Hanno vite e destini simili sulle due sponde del Mediterraneo”. Un merito però l’assassinio Regeni l’ha avuto ed è quello di avere posto l’attenzione internazionale sulle malefatte del regime dittatoriale di al Sisi in un Paese dove agli attivisti è oramai impedito di andarsene e agli attivisti stranieri di entrare. “Cinque anni fa al Sisi si fece una foto con dieci attivisti della rivoluzione del 2011”, commenta: “Passavano da uno show televisivo all’altro. Oggi la metà sono in carcere e l’altra metà vive all’estero. Nemmeno sotto Mubarak mancava completamente uno spazio per la società civile come manca oggi in Egitto. Ormai è resistenza, resistenza pura all’interno e, sempre di più, al di fuori dell’Egitto”. La violenza in patria è impressionante. Delle 41mila persone arrestate tra il luglio del 2013 e il maggio del 2014 ben 11.877 sono scomparse. Tra coloro al momento in carcere perché si sono esposti in difesa di Giulio Regeni ci sono Ahmed Abdulla, coordinatore della Commissione per i diritti umani, e Malik Adli, uno degli avvocati della famiglia Regeni. “Non chiedo un intervento diretto di potenze straniere, dobbiamo riuscire noi a cambiare lo status quo ma paesi come l’Italia ci possono aiutare ad esempio bloccando la fornitura di software di spionaggio all’Egitto”. O di armi leggere, le stesse con cui la polizia uccide gli attivisti, di cui l’Italia è grande esportatrice, come da tempo ribadisce Amnesty International. Mansour per il momento non ha progetti di rientrare in Egitto. Al contrario, la sua famiglia si è appena trasferita negli Usa. Ma non ha perso la speranza. “Continueremo a lottare per il cambio di regime. Questa volta con meno ingenuità e con un piano politico per la transizione. Sono certo che tra 10-15 anni rientrerò in Egitto da ministro”. La guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo di Bernardo Valli La Repubblica, 7 luglio 2016 Dal rapporto della Commissione Chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l’invasione spezzò i fragili equilibri regionali. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l’invasione dell’Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per “crimine di guerra” a carico dell’inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l’autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per “l’aggressione militare basata su un falso pretesto”. E ha parlato di “violazione della legge internazionale”, da parte di un primo ministro laburista, quel era all’epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l’inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l’obbediente Tony Blair fosse il “barboncino”. Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell’Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l’invasione di allora. La situazione era pronta per un’esplosione. È vero. La guerra nell’Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l’Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l’Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l’Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l’Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell’Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c’era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall’iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c’erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L’uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l’altro, quando era in guerra con l’Iran, un alleato obiettivo. L’irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L’ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c’erano gli americani, sia a Bassora dove c’erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L’esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un’amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L’impatto dell’intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell’impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l’Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L’intervento americano con l’appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d’accusa sul piano politico e morale, ma l’analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l’amico Blair hanno ignorato la Storia. Iraq: dall’Isis alla corruzione di Stato, l’eredità dell’invasione è il caos di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 luglio 2016 Tredici anni dopo il paese è preda di estremismi e settarismi. La lunga lista della barbarie: il fosforo bianco su Fallujah, gli abusi di Abu Ghraib, mezzo milione di morti e miliardi di dollari scomparsi. La guerra contro l’Iraq, cominciata il 20 marzo 2003, non è mai finita. Non è finita il primo maggio 2003 quando George W. Bush la dichiarò chiusa con la famigerata espressione “mission accomplished”, sputando altre bugie su un paese collassato. Non è finita a dicembre di quell’anno quando Saddam Hussein fu catturato né maggio del 2006 quando Nouri al-Maliki venne eletto primo ministro. Non è finita a dicembre 2011 quando le truppe Usa vennero pomposamente ritirare dal presidente Obama. La guerra permanente irachena continua ad uccidere in forme sempre diverse. Quell’operazione disgraziata non hai mai liberato l’Iraq ma lo ha costretto in mille altre prigioni: corruzione di Stato, estremismo islamista, esorbitanti tassi di tumori (macabro lascito del fosforo Usa), dipendenza dall’estero, divisione settaria e fisica, famiglie distrutte, vedove e mutilati di guerra. Di bilanci, a 13 anni dall’inizio del conflitto, è difficile farne. In molti hanno provato a calcolare l’esatto numero di morti e feriti, ma ogni volta emergono risultati diversi. Un rapporto del 2013 del Ministero della Salute di Baghdad e un gruppo di università canadesi e statunitensi è arrivato a contarne mezzo milione al 2011, bilancio lontano dai 115mila riferiti dall’esercito Usa. Vanno aggiunti poi almeno 250mila feriti, molti mai tornati ad una vita normale, due milioni di rifugiati all’estero e due di sfollati interni (dati Unchr fino al 2007). Non mere statistiche, ma la misura della distruzione del paese e l’esplosione di una grave crisi economica. E non va dimenticato da quale situazione l’Iraq giungeva all’appuntamento: 23 anni di embargo che hanno negato uno sviluppo normale, fatto evaporare il Pil e provocato indirettamente un milione di vittime. La crisi è stata facilitata dalla sparizione del denaro per la ricostruzione. Non si sa che fine abbiano fatto 6,6 miliardi di dollari in aiuti statunitensi né 17 miliardi del Development Fund, finanziato con proventi del petrolio e ricchezze di Saddam. Della scomparsa del primo gruzzolo è accusata la leadership emersa dalle macerie istituzionali dell’Iraq e la cancellazione del partito Baath. Per quella del secondo, il dito è puntato su Washington che gestiva il fondo. Sullo sfondo sta la nascita di una nuova classe politica imposta da fuori: se gli sciiti, maggioranza del paese, ne hanno assunto il controllo, in breve il potere economico e politico è stato abilmente diviso tra i partiti di ogni schieramento e confessione per creare una vasta rete di influenze e fedeltà clientelari che ha bloccato la ripresa. Gli effetti si vedono oggi con le proteste della comunità sciita, in rivolta contro la sua leadership che costringe il popolo in un limbo di disoccupazione, povertà, carenza d’acqua, blackout elettrici e chiusura di migliaia di piccole e medie imprese. Sul piano militare le epurazioni volute da Washington della componente sunnita delle forze armate ha lasciato un esercito debole e male addestrato che ha palesemente svelato i suoi limiti nel 2014 quando l’Isis ha preso Mosul in 24 ore: l’abbandono di elmetti e divise ha raccontato meglio di tante analisi il fallimento della strategia Usa. E mentre l’esercito regolare collassava, gruppi armati sciiti e sunniti si rafforzavano (dalle tribù dell’Anbar all’esercito del Mahdi di al-Sadr) e con appoggi esterni imbastivano la resistenza contro l’occupazione Usa accusata di massacri di civili. La narrazione della violenza di quell’invasione può essere riassunta con le immagini di due luoghi che su tutti hanno rappresentato la barbarie. Fallujah, la città delle moschee, su cui durante l’Operazione Furia Fantasma (la più pesante battaglia urbana Usa dai tempi del Vietnam) è piovuto fosforo bianco e uranio impoverito (quasi 6mila le nuove malattie individuate dall’Onu dal 2006, per lo più tumori e malformazioni alla nascita), ha assistito in un mese alla distruzione di 10mila edifici e alla morte di migliaia di civili sotto 6mila colpi di artiglieria e 600 bombe e missili. E poi il carcere di Abu Ghraib, sinistro luogo di inimmaginabili torture e umiliazioni di iracheni sospettati di un qualsiasi crimine. Prigione Usa dal 2003 al 2006, ha “ospitato” almeno 3.800 detenuti, abusati sessualmente e fotografati dai marines nei famigerati blocchi 1A e 1B. Le macerie dell’Iraq si sono dimostrate ottimo humus per le reti estremiste islamiste: al-Qaeda ha messo in ginocchio il paese e fatto crescere in seno il suo attuale rivale, lo Stato Islamico. Creatura del leader qaedista al-Zarqawi, l’Isis è attivo da ben prima la caduta di Mosul, metà anni 2000, mentre il futuro “califfo” al-Baghdadi veniva arrestato dai marines e poi liberato “incondizionatamente” nel 2009 da Camp Buqqa (considerato centro di indottrinamento e preparazione militare), aprendo a supposizioni di addestramenti della Cia e diretti legami con il Golfo. Oggi la guerra del 2003 ha il suo naturale prosieguo nell’occupazione di Mosul, le violenze sui civili di qualsiasi etnia e confessione, le autobombe che devastano Baghdad. Benvenuti in Australia, l’inferno dei migranti di Lorenzo Carbone Il Dubbio, 7 luglio 2016 Il trattamento disumano dei rifugiati in un paese ricco e deserto. Sam Wallman è un ragazzo australiano che vuole aiutare i bisognosi, così contatta la Serco, una multinazionale che gestisce i centri per rifugiati in Australia e che tra le altre cose è a capo della difesa nucleare britannica. Appena assunto Sam riceve le prime istruzioni su come comportarsi nei campi per rifugiati che sorgono su tre isole in mezzo al mare, a centinaia di chilometri tra la Nuova Guinea e l’Australia. Il primo giorno, davanti ai futuri impiegati, il trainer della Serco confida che in passato lavorava in un carcere: “L’unica differenza qui sta nei vestiti che indossano. Il reparto vuole che li chiamiamo clienti, e noi li chiamiamo clienti. Se ci dicessero di chiamarli criceti, li chiameremo criceti. Ma noi sappiamo che sono detenuti”. Attraverso disegni semplici ma raffinati, ironici e drammatici, Sam Wallman racconta la sua breve esperienza alla Serco, nei campi per rifugiati in Australia. Ma il suo lavoro dura poco e, mentre soffre di attacchi di pianto, si lascia con la compagna, poi abbandona la Serco, realizza un fumetto sulla sua esperienza pubblicato da The Global Mail. La Pacific Solution, così denominata dall’ex primo ministro Howard, non è cambiata. Già da quindici anni, la politica di asilo del governo australiano è la seguente: le navi della marina, in continua perlustrazione sulle rotte dei rifugiati, scortano i barconi su tre isolotti in mezzo all’oceano, l’isola Christmas, di Nauru e di Manu. Qui, in centri detentivi gestiti dalla Serco, i rifugiati sono imprigionati fino a che decidono di tornare sui propri passi, attraverso la Cambogia. In un limbo surreale delimitato da reti di metallo, i profughi camminano in tondo tutto il giorno, scavano tombe, si sdraiano dentro in segno di protesta, si feriscono e si mutilano per parlare con il loro avvocato. Gli impiegati della Serco fanno sempre attenzione a tubi e punti in cui vi si potrebbe passare un laccio o una corda. Il Ministro per la Protezione dei Confini Peter Dutton ha dichiarato a Sky News che i rifugiati che volano in Australia “sono a malapena alfabetizzati nelle loro lingue, figuriamoci in inglese”. E ha affermato che ruberebbero lavoro agli australiani o finirebbero ciondolando a spese dello Stato. Un anno fa, un rifugiato curdo è stato trovato morto dai suoi compagni reclusi nel campo dell’Isola Christmas. Una rivolta di tutti i detenuti ha costretto gli impiegati della Serco ad abbandonare l’isola e chiudere l’acqua come azione repressiva. Ad aprile Omid Masoumali, un iraniano di 23 anni si è dato fuoco ed è morto. Un mese dopo Hodan Yasin, somala di 21, si è data fuoco ed è tuttora in condizioni gravi. A maggio la Corte Suprema della Papua Nuova Guinea ha dichiarato incostituzionali le strutture di detenzione australiane. Il territorio è stato preso in concessione dal governo per allontanare il pericolo che i rifugiati si infiltrino in Australia. Pochi giorni prima delle elezioni il primo ministro Turnbull, messo alle strette dai continui richiami di Amnesty International e altre ong, ha affermato, mentendo, che i centri di detenzione sono sotto la giurisdizione di Nauru e della Papua Nuova Guinea. Eppure lo scorso anno l’Australia aveva accettato di ricollocare e dare i visti a circa 12mila siriani, ma per adesso i ricollocati legali sono un migliaio. Nello stesso periodo il Canada ne ha accolti e ricollocati 27mila. La politica xenofoba e razzista dell’Australia è trasversale a tutte le forze politiche, infatti i laburisti di Bill Shorten, sebbene un pò più morbidamente, sono d’accordo con la politica della “protezione di confine” (border protection) che comporta l’uso di navi militari per pattugliare le coste. I Verdi hanno chiesto un approccio “più compassionevole” durante la campagna pre elettorale, ma la verità è che gli ecologisti hanno fatto parte del governo laburista tra il 2010 e il 2013, assecondando la politica di accoglienza disumana e contro le leggi internazionali d’asilo. Non solo, lo stesso partito sostiene che bisognerebbe portare in Australia solo skilled refugees (rifugiati con abilità particolari) e ha suggerito la riapertura di centri di accoglienza in territori asiatici come l’Indonesia, gestiti dalle Nazioni Unite. Tra il 1979 e il 1996 questi campi in Indonesia sono stati accusati di violenze e detenzione illegale di più di 170mila rifugiati. Sulle isole Christmas, Nauru e Manu, circa 1500 persone che scappano da guerre e crisi umanitarie sono rinchiuse, vessate, umiliate, costrette a darsi fuoco per disperazione. Tutto questo accade in un paese del primo mondo che possiede una quantità di territorio disponibile e risorse che pochi possiedono: su una popolazione di 23 milioni circa di persone e 8 milioni di chilometri quadrati, la densità per chilometro quadrato è di 2,79. E sarebbe importante ricordare, giusto per par condicio, che questo territorio lo hanno acquistato attraverso il metodico massacro dei veri proprietari della terra, gli aborigeni. In una situazione economica e finanziaria di ristagno, le elezioni anticipate per il rinnovamento di Camera e Senato sono state indette affinché una delle due coalizioni possegga una maggioranza che permetta di approvare le riforme necessarie. Ma i due partiti in lizza sembrano essere vicinissimi e molto probabilmente nemmeno i voti per corrispondenza daranno una maggioranza assoluta in parlamento, creando una instabilità che noi in Italia e in Europa in generale, conosciamo bene. “Un giorno è arrivata una chiamata di emergenza”, scrive Sam Wallman disegnando un walkie talkie che suona, “ho girato l’angolo, e c’era un tizio con la bocca piena di pezzi di vetro. Ha detto che li avrebbe ingoiati se non accoglievamo le sue richieste. Non chiedeva molto, se ricordo bene voleva solo vedere il suo assistente sociale. Gli agenti Serco mi hanno detto di continuare a camminare?”.