Il 41 bis spesso è illegale di Luigi Manconi* Il Dubbio, 6 luglio 2016 Ma perché mai documentare e criticare tutte le violazioni, grandi e piccole, dei diritti fondamentali della persona determinate dalla concreta applicazione del 41bis dovrebbe portare a definire "vera e propria tortura" quello stesso regime? Il circostanziato e dettagliato rapporto, approvato dalla commissione diritti umani del Senato, dopo un’indagine conoscitiva durata oltre due anni e dopo decine di visite e audizioni, documenta la realtà di un regime speciale che spesso viola diritti e garanzie, produce inutili afflizioni, mortifica la personalità dei reclusi, nega loro il soddisfacimento di bisogni essenziali. Il documento, disponibile sul sito della Commissione dallo scorso aprile, ha ricevuto, tra gli altri, i riconoscimenti più convinti e lusinghieri da parte di giuristi come Gherardo Colombo e Giovanni Maria Flick. Quanto da noi puntualmente descritto è spesso orribile, incompatibile col dettato costituzionale e umiliante per il nostro paese e per il nostro ordinamento. Il quale prevede che il regime di 41bis persegua l’unico ed esclusivo scopo di interrompere le relazioni tra il detenuto e la criminalità esterna. Tutto il resto, in quanto non previsto, quando si riveli afflittivo, è illegale. Non è - o almeno così non è apparso ai membri della Commissione che hanno effettuato l’indagine e così non è scritto in alcun passo del rapporto- "vera e propria tortura". Non per questo è meno illegale, non per questo è meno meritevole di essere al più presto modificato. *presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato Manconi: rapporto sul 41-bis apprezzato da Gherardo Colombo e Giovanni Maria Flick fanpage.it, 6 luglio 2016 Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di 41-bis, il regime carcerario nato all’indomani delle stragi mafiose del 1992. Sabato scorso il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo che titolava su una presunta dichiarazione del sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, il quale durante una visita alla Casa circondariale de L’Aquila avrebbe "svelato l’intenzione del governo di depotenziare il 41-bis" e sostenuto di voler concedere Skype ai reclusi sotto quel regime. Migliore ha successivamente smentito di aver pronunciato quella frase, confermando solo la direzione del "rispetto dei principi costituzionali e dei diritti umani", ma nel frattempo si era già creato un vespaio di polemiche. Il Movimento 5 stelle ha parlato di "uscita terribile", perché una modifica del 41-bis "si inserisce nella continuazione della Trattativa Mafia-Stato, una Trattativa mai interrotta". Anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi si è espresso in difesa dell’istituto, così come il magistrato Gian Carlo Caselli, che ha dichiarato che "eventuali modifiche del 41-bis non potrebbero che essere nel senso di un suo sostanziale svuotamento". Il cerchio di questo "attacco" al regime del carcere duro per i mafiosi si è chiuso con un nuovo articolo del Fatto Quotidiano, che ha parlato di un fantomatico "piano" per "smantellare il 41-bis". Quello a cui si fa riferimento, in realtà, è il lavoro svolto dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani di Palazzo Madama, presieduta dal senatore Pd Luigi Manconi, che lo scorso aprile ha pubblicato una relazione frutto di un’approfondita indagine fatta sul campo per verificare l’applicazione del 41-bis in Italia. Un regime che, secondo i dati aggiornati al 31 dicembre 2015, interessa 729 detenuti, tra cui sette donne. Il rapporto, approvato a maggioranza - con i voti favorevoli di tutti i gruppi tranne Forza Italia e M5S - ha consegnato a governo e parlamento alcune raccomandazioni, dopo aver raccolto segnalazioni che "riguardano aspetti materiali della vita quotidiana apparentemente di poca importanza, ma che risultano essere vitali in una condizione di reclusione così rigida come nel regime di carcere duro. E soprattutto vengono percepite dai detenuti come privazioni e afflizioni del tutto gratuite ed esercitate al solo scopo di intimidazione". Emblematica in questo senso è la frase in apertura della relazione, pronunciata da una detenuta incontrata dalla commissione: "Nonostante tutto, qui morti non siamo". Dal quadro dipinto dall’indagine si spera possa "nascere una riflessione", ha dichiarato il senatore Manconi, che abbiamo intervistato per capire quali siano realmente i termini della questione. Di cosa parliamo quando facciamo riferimento al 41-bis? Parliamo di una forma particolarmente pesante di reclusione nata in un contesto emergenziale, ma poi inserita in maniera permanente nel nostro ordinamento. Dunque, il 41-bis è un regime che oggi fa parte del nostro sistema giuridico. La Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato - che lei presiede - ha indagato sul regime del 41-bis. Cosa avete riscontrato? Abbiamo fatto un’indagine sul campo e ascoltato esperti. Non ci siamo limitati a visitare le sezioni del 41-bis, abbiamo incontrato in sede di audizione giuristi, funzionari dello stato, del ministero della Giustizia e dell’amministrazione penitenziaria e anche dell’Autorità nazionale antimafia per valutare insieme a loro come questo regime sia concretamente applicato. Le numerosissime visite che abbiamo realizzato avevano dunque l’obiettivo di confrontare ciò che era emerso da questo lavoro di discussione con la concreta realtà delle sezioni dove il regime viene applicato. Il nostro scopo non era tanto quello di mettere in discussione la normativa, cosa che non è stata mai nostra preoccupazione, né nostro intento, ma di valutare se la concreta, quotidiana, fattuale applicazione di quel regime rispettasse tutti i diritti e tutte le garanzie che la nostra Costituzione, il nostro ordinamento e il regolamento penitenziario prevedono per i detenuti. In questi giorni si parla del pericolo che si voglia "depotenziare" l’istituto. Mai sentito nulla del genere. Io so solo che il rapporto della commissione per la tutela dei diritti umani è stato approvato a maggioranza e ha avuto apprezzamenti lusinghieri, tra cui quello di Gherardo Colombo e Giovanni Maria Flick. Il resto mi sembra una polemica strumentale. Per capirci, quello che noi con il nostro rapporto abbiamo fatto è stato verificare come la legge sul 41-bis viene messa in pratica. E abbiamo indicato tutti i punti che dalla nostra indagine risultano non applicati, applicati malamente o applicati in una maniera non giustificata. Stando a quanto emerso dal vostro lavoro, cosa significa concretamente il regime del 41-bis? Ho parlato prima dello scopo della nostra indagine perché non va mai dimenticato che, nonostante quanto si vada ripetendo erroneamente in continuazione, il 41-bis non è il regime del carcere duro. Questa formula inganna: perché regime di carcere duro nel senso comune significa un carcere dove ci sia il massimo dell’afflizione, la pena più dura, la limitazione più acuta delle libertà e delle garanzie. Ecco, questo non c’entra nulla con il 41-bis, che ha uno scopo e uno solo: quello di impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità esterna. Se, paradossalmente, questo scopo fosse ottenibile attraverso un carcere "dolce", il 41-bis sarebbe comunque rispettato. Tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno sono legittime, ma non quelle che rendono insensatamente più intollerabile la pena. Quali sono i divieti "insensati" che avete riscontrato durante l’indagine? Possiamo dire che tutto ciò che esclude lo scopo di impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità esterna possa essere considerato illegale. Ad esempio, non si capisce perché una persona che si trovi in regime di 41-bis da un giorno all’altro non possa più disporre del numero di bloc notes cui aveva diritto il giorno prima, ma di un numero ridotto a un decimo. C’è una ragione in questo? Assolutamente no. E qualora ci fosse, questa ragione è stata mai documentata, argomentata, spiegata? Assolutamente no. Dunque è una limitazione alla lettera "insensata", cioè priva di un senso, di una sua vera finalità. Un altro caso che ci è capitato è quello di un anziano detenuto con l’hobby della pittura, cui è stata negata l’autorizzazione a tenere in cella tela e colori. Può dipingere solo un’ora al giorno nella stanzetta della socialità. Perché non può realizzare lo stesso quadro, con gli stessi strumenti, con gli stessi pennelli e sulla stessa tela nella propria cella? Poi ci sono detenuti che rimangono sottoposti al regime speciale fino al giorno precedente l’uscita dal carcere. Ci sono, dunque, una serie di limitazioni, insieme ad altre che potrei citare che non rispondono a una motivazione razionale. Nella parte delle raccomandazioni che la commissione fa al governo e al parlamento si parla dell’adeguamento a "standard minimi di abitabilità". Ci sono condizioni che non vengono rispettate per i detenuti al 41-bis? Esattamente, si tratta di standard che dovrebbero valere anche per loro, invece spesso non è così. Mi spiego meglio con un caso concreto: i detenuti al 41-bis hanno diritto per legge a un’ora di colloquio al mese. Si tratta di persone che magari stanno a Cuneo, con familiari che invece abitano in Sicilia. Se salta quell’ora prevista, ad esempio, per il mese di marzo, perché non è possibile recuperarla nel mese successivo? C’è forse una ragione di sicurezza nell’impedire che a quell’ora non utilizzata a marzo venga aggiunta quella di aprile? Ovviamente no, o comunque non c’è una ragione di sicurezza che venga spiegata o argomentata. E, dunque, si finisce per assumere nei confronti di quel detenuto una volontà afflittiva, cioè di indurimento del suo regime carcerario che non ha nulla a che vedere con ciò che la legge prevede attraverso il 41-bis. 41-bis: ideologia della dignità umana o della punizione? di Andrea Mascherin* Il Dubbio, 6 luglio 2016 Il Cnf non intende entrare nella vicenda riguardante la pubblicazione da parte di organi di stampa di affermazioni riferibili al Sottosegretario Gennaro Migliore, e da questi smentite, in tema di applicazione del regime di carcere duro. Ritiene invece di dover richiamare l’attenzione sul fatto che la funzione della pena e la sua esecuzione nei secoli sia stata al centro di studi e dibattiti e approfondimenti culturali ad opera di vari settori del sapere, dai giuristi, ai filosofi, dagli studiosi della psiche a quelli delle dinamiche sociali, dagli intellettuali agli operatori del settore, e così via. Non può negarsi che gli sviluppi di queste analisi abbiano fissato una netta distinzione tra sistemi sociali civili, basati sul rispetto della dignità umana, e sistemi che, in nome di varie ideologie, pongono al centro dei propri valori la punizione, magari esemplare, prima che il riconoscimento della persona. La scelta di civiltà è tanto più difficile e impopolare quanto più socialmente inaccettabile sia stato il comportamento del reo, ed è fuori di dubbio che di fronte a certi crimini e a certi pericoli per la collettività, sia "complicato" riconoscere al reo quel trattamento umano negato nei casi peggiori dallo stesso alle proprie vittime, così come è fuori di dubbio che di fronte a certi fatti delittuosi la tentazione emotiva della "vendetta" sia difficile da governare con la ragione. Tuttavia la differenza tra la realizzazione di una società avanzata che rispetta l’individuo, chiunque esso sia, e una società incline alla "vendetta", è tutta qui. I pericoli insiti nel secondo modello sono molti, primo fra tutti lo sgretolamento dell’idea di uno Stato custode e garante dei diritti di tutti. Sarebbe importante che su questi temi non ci si scontrasse e invece si lavorasse a soluzioni di civiltà che non calpestino mai il principio di umanità, e che, d’altro canto, abbiano presente anche l’importanza di risposte rassicuranti che lo Stato deve saper dare ai propri cittadini. Ecco perché il Cnf continua ad impegnarsi nella difesa di una democrazia dei diritti con al centro la persona, non lasciando solo chi, nell’esercizio della propria responsabilità politica e di governo, come, fra gli altri, il ministro Orlando e il sottosegretario Migliore, o chi, nello sviluppo del proprio impegno sociale, come tante associazioni, pensatori ed operatori, vuole guardare in tale direzione. *Presidente del Consiglio Nazionale Forense Carcere e pene alternative. "Partiamo da 20×20", la nuova campagna di Antigone agoravox.it, 6 luglio 2016 Partiamo da 20×20 è la nuova campagna promossa da Antigone. L’obiettivo è che, entro il 2020, il 20% del bilancio dell’Amministrazione penitenziaria venga speso per il sistema delle misure alternative. Oggi ci sono oltre 53.000 persone che stanno scontando la propria pena nelle nostre carceri. Nello stesso momento circa 23.000 persone la scontano fuori dal carcere, in misura alternativa, cui si aggiungono le oltre 8.000 che usufruiscono della nuova misura della messa alla prova. Si tratta di misure che si scontano nella comunità, meno costose e più efficaci del carcere nel promuovere il reinserimento ed evitare la commissione di nuovi reati da parte di chi ha scontato la propria pena. Ma per queste misure l’amministrazione penitenziaria spende meno del 5% del proprio bilancio. La parte più avanzata del nostro sistema di esecuzione delle pene dunque è anche di gran lunga quella con meno risorse. I soldi servono tutti per il carcere. In molti paesi europei oggi il più grande ostacolo alla diffusione delle alternative al carcere è connesso alla carenza di riconoscimento pubblico, di risorse e di personale, spesso insufficiente ad espletare compiutamente il proprio mandato, e non a caso le European Probation Rules (CM/Rec(2010)1) insistono moltissimo su questi aspetti. Anche in Italia è così, e per questo chiediamo innanzitutto che l’Italia arrivi a spendere, entro il 2020, il 20% del bilancio dell’Amministrazione penitenziaria per il sistema delle misure alternative. Ciò costituirà un primo atto concreto per dimostrare che l’Italia vuole puntare su un nuovo modello penale, nel quale il carcere non sia il metro di paragone di ogni possibile pena bensì venga riconosciuto per quello che è, un’invenzione che è nata in un momento ben preciso della storia dell’umanità e che non ha alcuna necessità di restare eternamente centrale. "Dobbiamo dare forza alla parte più moderna ed efficace del nostro sistema penale, quella delle alternative alla detenzione" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Alla campagna hanno finora aderito: A Buon Diritto, Arci, Associazione 21 luglio, Gruppo Abele, Cittadinanza Attiva, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Forum Droghe, Funzione Pubblica Cgil, Medici Contro la Tortura, Naga, Progetto Diritti, Ristretti Orizzonti, Società della Ragione, Società Italiana di Psicologia Penitenziaria, VIC/Volontari In Carcere. Associazione Antigone Onlus DAP e Telefono Azzurro rinnovano Protocollo d’Intesa per bambini con genitori detenuti Comunicato stampa Dap, 6 luglio 2016 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e il Presidente di Telefono Azzurro Ernesto Caffo hanno sottoscritto oggi il rinnovo del protocollo di intesa per la tutela e la promozione dei diritti dei bambini e degli adolescenti coinvolti in situazioni di detenzione genitoriale. L’intesa conferma e rafforza il precedente protocollo già siglato nel 2013 dal Ministro della Giustizia e dal Presidente di Telefono Azzurro. Il progetto "Bambini e Carcere", nato nel 1993 dall’impegno dei volontari di Telefono Azzurro e reso possibile grazie alla collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia è alla base dell’accordo che è stato rinnovato oggi. Sono stati oltre 10.000 i bambini e i ragazzi seguiti nel 2015 dalle attività del progetto, attraverso la costante presenza di 224 volontari adeguatamente formati e preparati, in 18 carceri in tutta Italia. Il progetto si muove in due direzioni: la fase del "Nido" che consente ai bambini di trascorrere i primi anni (0-6) con la mamma in carcere in una situazione affettiva, logistica ed organizzativa a misura di bambino, e la "Ludoteca" per attenuare l’impatto con la dura realtà carceraria al momento del colloquio con il genitore detenuto. Tutte le attività dei volontari sono finalizzate a creare un clima sereno e accogliente per il minore: per i più piccoli, l’obiettivo è di facilitare il rapporto con la mamma e rendere meno traumatica la convivenza in una struttura penitenziaria. Con le attività nella Ludoteca, invece, si cerca di allentare la tensione precedente all’incontro del bambino con il genitore detenuto. I volontari, in questo contesto, avviano attività che permettono a genitori e figli di essere i veri protagonisti: giochi, laboratori, animazione e assistenza, con l’unico obiettivo di tutelare la crescita psico-affettiva del minore e garantire un ambiente sereno per la coltivazione del rapporto con i genitori. Parallelamente a queste attività, i volontari si impegnano anche a costruire momenti di confronto con i genitori detenuti volti a far comprendere loro le finalità del progetto, ovvero il recupero degli affetti familiari, attraverso "gruppi di parola", momenti di condivisione di esperienze e emozioni, laboratori di scrittura e colloqui individuali. Santi Consolo ha sottolineato l’importante e qualificato contributo offerto dai volontari di Telefono Azzurro a sostegno della genitorialità delle persone detenute e dello sviluppo psico-fisico dei bambini e ha fatto il punto sulla presenza dei minori ospitati nelle sezioni nido e negli istituti a custodia attenuata per detenute madri: "Il nostro impegno è rivolto a far sì che agli Icam attivi a Milano, Torino, Venezia e Senorbì-Cagliari, che ospitano 26 bambini sui complessivi 43 che vivono con le mamme detenute, se ne possano aggiungere altri, tra i quali quello di Roma. Per migliorare il rapporto tra genitori detenuti e figli il Dap è fortemente impegnato nella realizzazione delle aree verdi in tutti gli istituti. Bisogna tutelate il diritto alla genitorialità e le condizioni in cui questi incontri si svolgono. Bella la sensibilità e l’attenzione di tutti gli operatori che migliora grazie alla collaborazione più che ventennale di Telefono Azzurro; risorsa preziosa che sono lieto di confermare con la sigla del nuovo protocollo d’intesa." "Il progetto Bambini e Carcere ha l’obiettivo di favorire il rapporto dei minori con i genitori detenuti, anche in un contesto come la realtà carceraria spesso difficile da comprendere, soprattutto per un bambino", ha commentato Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro e Docente di Neuropsichiatria Infantile, "Il Protocollo rafforza l’impegno del Ministero della Giustizia a fianco dei bambini e delle famiglie dei detenuti. Telefono Azzurro si impegna quotidianamente al fianco di minori e genitori in carcere, da oltre 20 anni, in istituti penitenziari di tutta Italia, intervenendo in prima persona - durante e dopo il carcere - per contribuire a ricostruire un tessuto sociale e familiare lacerato. Un progetto che intende mettere in pratica il principio sancito dall’articolo 9 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia secondo cui "il bambino i cui genitori, o uno dei due, si trovano in stato di detenzione, deve poter mantenere con loro dei contatti appropriati". Prosciolta dopo due anni la scienziata Ilaria Capua "ma ora mi sento sfregiata" di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 6 luglio 2016 "Non c’è nessun traffico di virus". "Mi sento sfregiata. Come se mi avessero buttato addosso l’acido. E certe ferite non se ne vanno...". Ventisei mesi dopo esser stata sbattuta in prima pagina da l’Espresso sotto il titolo "Trafficanti di virus", dove veniva additata tra i protagonisti di un’inchiesta sui business infami sulla pelle di persone innocenti, Ilaria Capua, fino a due anni fa un vanto della scienza italiana, ha appena ricevuto la notizia che il giudice per l’udienza preliminare di Verona l’ha prosciolta "perché il fatto non sussiste". No, non voleva diffondere il virus per fare soldi dall’offerta di un vaccino. Un verdetto giunto al termine di un’indagine partita da Roma e spacchettata un po’ qua un po’ là per finire, a Verona, tra le mani del pm Maria Beatrice Zanotti. Meglio tardi che mai, dice il proverbio. E forse per lei è così. Troppo tardi per l’Italia, però. Troppo tardi per la nostra ricerca scientifica. Troppo tardi per un Paese che, come ha scritto Paolo Mieli a proposito di questa vicenda di giustizia paralizzata quindi ingiusta, "detesta la scienza"... La "nostra" ricercatrice, la prima ad avere isolato il virus H5N1 (la "nasty beast", cioè la brutta bestia, dell’influenza aviaria umana), la prima a dire no alle offerte milionarie delle case farmaceutiche per mettere (gratis!) la sua scoperta a disposizione su "GenBank" di tutti gli scienziati del mondo tra lo stupore ammirato di colleghi e giornalisti scientifici, la prima donna e primo ricercatore sotto i sessant’anni a vincere il "Penn Vet World Leadership Award" cioè il riconoscimento più importante del pianeta per le discipline veterinarie, non è più "nostra". Se ne è già andata. Da tre settimane. A dirigere un dipartimento d’eccellenza all’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida. Un posto in pieno sole, dopo due anni di buio. Li aveva avvertiti, gli americani, dell’inchiesta in corso? "Ovvio. Ma lo sapevano già. Ne avevano parlato tutti. Anche Sciences". E loro? "Mi hanno risposto che conoscono bene la mia storia e che le accuse erano così assurde da non essere di loro interesse. Era una faccenda chiusa da anni, in America. Avevano fatto delle verifiche. Ero appesa da due anni a una inchiesta di cui non avevo notizie. Non ne potevo più. Mi sentivo un’anatra zoppa. Impotente. Nel vuoto. Mi son detta: e se vanno avanti altri dieci anni? Aspetto altri dieci anni la chiusura delle indagini?" Ha potuto parlare con i magistrati? "Mai. Dal primo giorno a oggi, quando mi hanno chiamata gli avvocati Armando e Tiburzio De Zuani di Verona per dirmi che era finita: mai". Due anni pesanti... "Un giorno arriva una mail da Lirio Abbate dell’Espresso: "Posso farle qualche domanda?" Pensavo fosse per Ebola. Gli mando il telefono, mi fa tre domande. E mi ritrovo in copertina: "Trafficanti di virus". Con le intercettazioni perfino di telefonate con papà, che era appena morto. Una mazzata alla nuca". Sorpresa totale? "Totale. Anche se si trattava di accuse senza senso, non avevo più il coraggio di uscire, di andare dal fruttivendolo, di girare per il paese padovano dove vivevo. La testa che girava, conati di vomito... Mi avevano imputata di reati gravissimi. Che prevedevano l’ergastolo. Dico: "Se pensi che io possa andare ad avvelenare un acquedotto, arrestami! Se pensi che sia pericolosa, mettimi le manette!" Invece mi ritrovavo addosso reati pesantissimi, "al fine di commettere una pluralità indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed epidemia…". Praticamente ero un mostro. Ma intorno non si muoveva niente. Niente. Una bolla di silenzio. Giorno dopo giorno. Silenzio. Giorno dopo giorno". E in Parlamento, dov’era stata eletta con Mario Monti? "Alcuni, di destra e di sinistra, mi rincuorarono: "Sono accuse che cadranno". Altri mi linciarono. Come in commissione cultura dove il grillino Gianluca Vacca mi aggredì con una violenza... Scoppiai a piangere. Lì, in commissione, davanti a gente che conoscevo appena. Un’altra grillina, l’onorevole Silvia Chimienti intimava sulla sua pagina Facebook: "Traffico illecito di virus. Nel dubbio dimettiti!". Di colpo ero una appestata". Certi furono ancora più duri, come i frequentatori della pagina Facebook "noivotiamoM5S". Le rileggo qualche commento: "Poi la fanno ministro della sanità, troia". "Grandissima zoccola!" "Se la notizia fosse vera, meriterebbe di iniettarglielo a forza il virus..." "Hija de puta". "Iniettatela a lei!!!!" "Alla gogna!!!!" "Non volevo neppure vederli, quei commenti. Li ho letti dopo. Odio puro. Odio. Sul niente". Querele in arrivo, adesso? "Vediamo. L’Espresso l’avevo querelato subito. Ma in questo momento mi devo prima di tutto "de-comprimere". Troppa tensione accumulata. Vorrei tornare a dormire, finalmente." Si aspetterà almeno delle scuse. "Mah… Lei crede?" Ma si è fatta almeno un’idea del perché divampo’ questa inchiesta? "Mi sono fatta delle domande, questo sì. So che era un’indagine che riposava in qualche cassetto dal 2004. E che, come dicevo, era stata archiviata dagli Stati Uniti. Non so, forse qualcuno non mi voleva bene". Fatto sta che è rimasta due anni a bagnomaria. "Ogni tanto, dal silenzio immobile, arrivava una frecciata. E io lì, come San Sebastiano. Impotente". Ma l’ha visto almeno, il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta? "Mai. O meglio, nel 2007 ma per un’altra faccenda. Dove mi ero presentata per rendermi utile". Ma in questi due anni? "Mai". Altri magistrati, forse? "Mai". Quindi non è mai stata interrogata… "Mai". Tornerà, un giorno o l’altro, dall’America? Silenzio. "Gli amici mi mancano già. Molto. Però… Certo, una cosa, amara, l’ho imparata. Da un giorno all’altro puoi vederti rovesciare la vita. Chissà, magari succede anche in senso positivo...". La Mafia è entrata nella partita Expo, undici arresti a Milano di Fabio Poletti La Stampa, 6 luglio 2016 Tra loro anche un avvocato, sarebbero i terminali di aziende infiltrate a cui erano stati affidati appalti. La mafia aveva messo le mani su Expo. Quello che era solo un timore è diventato realtà stamattina quando la Guardia di Finanza ha iniziato ad eseguire 11 arresti di cui 4 ai domiciliari su richiesta dei magistrati milanesi antimafia Sara Ombra e Paolo Storari corrdinati dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini. Le accuse vanno dall’associazione a delinquere finalizzata a favorire gli interessi di Cosa Nostra, in particolare la famiglia Pietrapersa di Enna, a riciclaggio e frode fiscale. Gli uomini del Gico della Finanza hanno sequestrato pure alcuni milioni di euro, una goccia dei 20 milioni di euro elargiti in 3 anni dall’Ente Fiera al consorzio Dominus controllato dalla società Nolostand. In manette è finito pure l’avvocato Danilo Tipo di Caltanissetta, fino a pochi mesi fa presidente della Camera Penale nissena. Importanti i lavori sul Decumano di Expo finti nl mirino degli investigatori. Dalla costruzione dei padiglioni di Francia e Kuwait a quelli di Guinea, dello sponsor Birra Poretti, del Palazzo Congressi e dell’Auditorium. Non risultano indagati nè all’Ente Fiera nè alla società di gestione Expo 2015 ma i magistrati sono particolarmente puntigliosi nel sottolineare che nella gestion degli appalti da parte degli enti pubblici c’è stata una "censurabile sottovalutazione" e "nessuna riflessione su alcune evidenti anomalie". Cricca delle nomine puntava sui tribunali 2.0: "abbiamo visto Legnini, ora Lotti" di Giuseppe Scarpa e Fabio Tonacci La Repubblica, 6 luglio 2016 Il gruppo che ruota intorno al faccendiere Raffaele Pizza voleva diventare fornitore del sistema di digitalizzazione degli atti giudiziari. "Una mandrakata". Nell’ufficio di via in Lucina, a pochi passi da Palazzo Chigi, Raffaele Pizza stava combinando con due imprenditori la "mandrakata". Diventare fornitori esclusivi per la pubblica amministrazione della gestione del sistema Tiap, il "Trattamento informatizzato Atti Processuali", in uso anche alla procura di Roma. Il progetto, ambizioso, definito appunto "mandrakata" dispiega tutta la potenza relazionale del gruppo che ruota attorno al faccendiere. Arrivano al vice presidente del Csm Giovanni Legnini, vogliono agganciare il sottosegretario Luca Lotti, incontrano parlamentari del Pd, pensano di coinvolgere Marco Carrai. Insomma, puntano al Giglio Magico. E su questa "faccenda" i magistrati di Roma hanno aperto un filone di indagine autonomo. I fatti. Gli imprenditori della partita si chiamano Danilo Lucangeli, di Sky Media, e Gianni Nastri, legale rappresentante di Siline spa e di Europower Technologies, società di diritto inglese. Lucangeli, al telefono, sostiene più volte di poter fare dei controlli in procura tramite Nastri, "in quanto in grado di accedere ai fascicoli giudiziari". Annotano i finanzieri nell’informativa finale: "La fitta rete di contatti riguarda Roberto Rao (consigliere economico del ministro della Giustizia Orlando, e consigliere di Poste Italiane, ndr), Gianni di Pietro (ex deputato del Pd, molto vicino a Legnini, ndr), Agostino Ragosa (ex direttore Agenzia per l’Italia digitale)". Non solo. Interverranno anche Massimo Sarmi, ex ad di Poste, e Guglielmo Boschetti, imprenditore abruzzese "che da fonti aperte risulta implicato in varie inchieste legate alla P4". L’uomo che il 21 gennaio 2015 si è incontrato, stando a quello che raccontano gli indagati, con Legnini, in un meeting per il "loro progetto" dall’esito sconosciuto. Qualche giorno prima, il 15 gennaio, Pizza, Lucangeli, Nastri e Ragosa sono nello studio di via Lucina. Nel locale ci sono anche gli onorevoli Antonio Marotta (Ncd) e Luca Sani (Pd). E le cimici dei finanzieri. Lucangeli esordisce così: "Dobbiamo immaginare il percorso politico commerciale per far sì che la Presidenza del Consiglio faccia questo decreto ministeriale per il riuso del software Tiap con soluzioni tecnologiche innovative, perché di fatto questo software di proprietà del ministero della Giustizia è già in uso alle procure più importanti, è già stato validato da Ernesto Carbone (deputato pd, fa parte della segreteria del partito)". E ancora. "I soggetti da andare a sentire sono il ministro Orlando, eventualmente anche il Csm...". Si inserisce Pizza: "Con il vice presidente del Csm (Legnini), no, non c’è problema". Il prescelto per andare a parlare con il governo è Agostino Ragosa. Poi Pizza capisce che se devono puntare in alto, il nome è un altro. "Ma Carrai che interesse ha su ‘ste cose? Potrebbe essere funzionale? Io ti faccio una domanda di potere... no di cazzo... te lo dico io come dobbiamo fare... questa è un’opzione". Un’altra opzione è andare direttamente dal sottosegretario Luca Lotti, probabilmente la persona più vicina al premier Renzi. Qualcuno ci arriva prima, secondo Lucangeli. Il 27 gennaio 2015 la Engeneering (società di information technology) "si è incontrata con Lotti, è una notizia certa". Milano: muore detenuto al terzo raggio di San Vittore, la Scientifica esamina la cella La Repubblica, 6 luglio 2016 Polizia scientifica ieri a San Vittore, terzo piano del terzo raggio: è stato trovato senza vita Y. K., 31 anni, marocchino, problemi di tossicodipendenza prima di entrare in carcere, da tempo un "detenuto lavorante". L’allarme è stato dato intorno alle 10.30: escluso il suicidio, non esiste nemmeno, a un primo esame esterno, alcun segno di violenza fisica. L’ipotesi più accreditata, al momento, è quella del malore che colpisce un fisico già debilitato. Ieri era l’ultimo giorno del Ramadan, che prevede il digiuno dei fedeli, ma K., stando alle voci di "radio carcere", non rispettava il divieto (sospeso per altro per chiunque stia male o sia debilitato) di non bere e di non mangiare sino al calar del buio. Il corpo è stato portato all’obitorio per gli accertamenti, che sono obbligatori in ogni caso di morte dentro le carceri italiane, e un fascicolo, aperto dalla procura della Repubblica, contiene già i primi esiti della perquisizione in cella. Il carcere milanese non è ritenuto sovraffollato e, per di più, le celle hanno da circa un anno un orario di apertura più lungo. Y. K., che si occupava delle pulizie, non aveva denunciato di stare particolarmente male: aveva però alle spalle anni di uso di droghe pesanti. Cremona: suicida agente di Polizia penitenziaria originario di Gemona Comunicato stampa Sappe, 6 luglio 2016 Un poliziotto penitenziario di 47 anni in servizio alla Casa Circondariale di Cremona, autista al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, si è tolto la vita poco prima di prestare servizio con l’arma di ordinanza. L’uomo, originario di Gemona, più di 20 anni di servizio nella Polizia Penitenziaria, è stato trovato questa mattina verso le 7 nel garage di casa. A dare la triste notizia è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano", aggiunge, affranto, il leader del SAPPE, che ricorda come "solo due settimane fa si era verificato il suicidio di un altro appartenente alla Polizia Penitenziaria, a Trieste. Tragedie che ogni volta che si ripetono determinano in tutti noi grande dolore e angoscia. E ogni volta la domanda che ci poniamo è sempre la stessa: si poteva fare qualcosa per impedire queste morti ingiuste? Si poteva intercettare il disagio che caratterizzava questi uomini e, quindi, intervenire per tempo?". Capece sottolinea che "allo stato non è possibile dire quali siano state le ragioni che hanno portato l’uomo a questo tragico gesto, e quindi non sappiamo se possano eventualmente esseri anche ragioni professionali. Certo è che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese mentre il fenomeno, colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette "professioni di aiuto", dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza. Il riferimento è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’Amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere". "L’Amministrazione Penitenziaria non può continuare a tergiversare su questa drammatica realtà", conclude Capece. "Non si può pensare di lavarsi la coscienza istituendo un numero di telefono - di Roma! - che può essere contattato da chi, in tutta Italia, si viene a trovare in una situazione personale di particolare disagio. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del Personale di Polizia Penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria". Bari: Carlo Saturno morì suicida in carcere, per il pm non ci sono colpevoli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2016 Terza richiesta di archiviazione. Svanita per la terza volta la speranza di giustizia per Carlo Saturno, morto impiccato in carcere dopo che subì un pestaggio. Carlo si era affidato alla giustizia, ma trovò la morte. Era il 30 marzo del 2011, cinque anni fa. Dopo uno scontro fisico con un agente di polizia penitenziaria, alla presenza di altri agenti e di detenuti, Carlo Saturno, un ragazzo di soli 23 anni, veniva rinchiuso in una cella di contenimento del carcere di Bari e, dopo poco meno di un’ora, veniva ritrovato soffocato con un lenzuolo legato al collo e già in condizioni disperate. Il 7 aprile Carlo moriva. Nel 2010, era stato testimone in un processo penale a carico di agenti di polizia penitenziaria minorile imputati per lesioni, abuso dei mezzi di correzione, lesioni gravi ed altri reati. Carlo, come altri ragazzi, detenuti in quell’istituto minorile, veniva pestato, vilipeso, sbeffeggiato, costretto al silenzio, messo in celle di isolamento, legato nudo alle reti metalliche dei letti. Allora Carlo, come i suoi compagni di sventura, aveva appena 15 anni. Ebbe un enorme coraggio per la sua età: denunciò i fatti affidandosi alla giustizia. Con altrettanto coraggio, poi, si era presentato in aula ed aveva testimoniato su tutto ciò che aveva subito. Ma la denuncia, sofferta, rabbiosa e solitaria di Carlo non avrebbe prodotto alcun risultato. Dal 7 aprile 2011 ad oggi la Procura di Bari ha richiesto ben tre volte l’archiviazione e ben due volte è stata rigettata dal gip. La procura del capoluogo ritiene che quella morte non abbia colpevoli, nonostante il gip abbia ripetutamente indicato la necessità di individuare gli agenti di polizia penitenziaria responsabili del pestaggio, i medici che ebbero in cura il ragazzo, gli psicologi e tutti coloro che permisero che restasse solo nella cella in cui fu trovato cadavere, nonostante fosse un soggetto pericoloso per se stesso. "Le indagini non risultano complete" aveva affermato il gip alla penultima richiesta di archiviazione. Tra le anomalie del tutto senza spiegazione, rilevava anche la circostanza che incredibilmente un soggetto che era considerato fragile e assumeva psicofarmaci, dopo uno scontro fisico con alcuni agenti di polizia penitenziaria, era stato lasciato solo in una cella asfittica dove, forse da solo, aveva avuto la possibilità di stringersi una corda al collo. Agli atti del pm che chiedeva l’archiviazione, non c’erano i verbali delle sommarie informazioni rese dagli altri detenuti presenti quel giorno nel carcere di Bari, né le cartelle mediche e psichiatriche del ragazzo che ne attestavano la condizione psicologica determinata dalle violenze in passato subite, né erano state raccolte le dichiarazioni dei medici che lo avevano visitato dopo il pestaggio, né di quelli che lo avevano accompagnato in ospedale dopo il tentativo di suicidio, né della sua educatrice cui, a quanto pare, non era stato consentito di incontrarlo sebbene Carlo, dopo quanto accaduto, ne avesse chiesto la presenza perché era in stato di grande agitazione emotiva. Una inspiegabile voragine investigativa a fronte della notizia di reato elaborata: istigazione al suicidio. Un’ipotesi, in realtà, già oltremodo circoscritta che esclude l’accertamento sulla dinamica del suicidio ed allontana il sospetto sulla eventuale responsabilità di terzi nella drammatica morte del giovane sebbene una perizia disposta dalla Procura ed eseguita dal medico legale Francesco Introna, abbia stabilito che i segni intorno al collo sarebbero compatibili sia con un salto nel vuoto che con un eventuale strangolamento da parte di altri. Ufficialmente non si conoscono i nomi di coloro che picchiarono Carlo e che lo condussero a forza nella cella di isolamento lasciandolo poi morire. Però in maniera informale i nomi erano emersi all’ascolto dei testimoni, ma nessuno di loro è stato mai iscritto nel registro degli indagati. Il ragazzo poteva essere salvato. Forse non sarebbe morto se il magistrato della Corte di appello dell’epoca gli avesse accolto la richiesta di essere assegnato ad una casa famiglia al nord nella quale avrebbe potuto imparare ad occuparsi dei più bisognosi e avrebbe potuto studiare. Invece fu mantenuto "ristretto" come un giovane adulto fino al triste epilogo. La famiglia si oppone alla terza richiesta di archiviazione. La speranza per la giustizia è di nuovo sospesa. Firenze: muro di cinta a rischio, il carcere di Sollicciano tra crolli e infiltrazioni d’acqua di Franca Selvatici La Repubblica, 6 luglio 2016 "Il carcere più buio e tetro che abbia mai visto". Così lo ha descritto Giuseppe Gulotta, vittima di uno dei più terrificanti errori giudiziari della storia italiana, che vi fu rinchiuso nel 1990. "Sollicciano è un carcere costruito male e con carenze evidenti", dichiarò il primo aprile 2004 il ministro della giustizia Roberto Castelli. Per anni l’istituto fiorentino - ultimato nel 1982 e non 200 anni fa - ha sopportato infiltrazioni di acqua, con allagamenti nei corridoi e muffa alle pareti. "Pioveva dentro come fuori", sintetizza il garante dei detenuti Eros Cruccolini. La presidente del tribunale Marilena Rizzo ha spiegato ieri che ci sono problemi di sicurezza statica del muro di cinta. In effetti nel settembre 2015 una parte del muro è crollata. Hanno ceduto circa dieci metri di cemento armato. In gennaio una parte del carcere è restato al gelo per il guasto dell’impianto di riscaldamento. Dopo una serie di denunce della Asl, il ministero della giustizia ha stanziato tre milioni per gli interventi più urgenti. Sono in corso i lavori per riparare il tetto, così da scongiurare nuove infiltrazioni d’acqua e sono state bandite le gare per l’ampliamento dei passeggi, per realizzare una seconda cucina nel maschile e per garantire acqua calda e servizi igienici con doccia nel femminile. Sulla situazione di Sollicciano si sono già tenuti due incontri al ministero e il terzo è in programma il 19 luglio. "Noi puntiamo al miglioramento delle condizioni di vita", spiega Cruccolini: "Neppure dieci giorni fa un detenuto si è ucciso e domenica scorsa una ragazza ha tentato il suicidio". Franco Corleone, garante regionale dei detenuti, spiega che fra le proposte vi è quella di un centro di osservazione psichiatrica per tutti i detenuti che entrano in carcere e una articolazione psichiatrica, cioè una sezione non carceraria per persone che soffrono di disturbi psichici. E c’è l’ipotesi di spostare la sezione femminile al Gozzini, più noto come Solliccianino. Non è chiaro, però, se pur con tutta la buona volontà sia possibile porre rimedio ai difetti strutturali di Sollicciano, Donato Capece, segretario del Sappe, riconosce che sono state stanziate risorse ma sostiene che ancora non è migliorato niente: "Molte carceri - spiega - patiscono ancora gli effetti di scandali e scandaletti". Sollicciano fu progettato come un carcere modello, con una pianta che si ispirava al giglio di Firenze, ma sui lavori realizzati dall’impresa Pontello cadde a fine 1982 la giunta di sinistra guidata da Elio Gabbuggiani, perché il vicesindaco socialista Ottaviano Colzi denunciò che il direttore dei lavori Alessandro Chimenti (iscritto al Pci) prestava la sua attività libero professionale alla Pontello. Il pm Ubaldo Nannucci aprì un’inchiesta. Una consulenza rivelò che l’impresa aveva risparmiato su ferro e calcestruzzo. Nella cinta muraria l’acciaio era presente solo al 61% rispetto al capitolato d’appalto. Secondo i consulenti ciò non creava problemi di sicurezza statica ma avrebbe inciso sulla durata dell’opera. Alla fine tutti gli indagati furono prosciolti o amnistiati. Fra questi anche il direttore dei lavori per le opere statali, ingegner Angelo Balducci, divenuto anni dopo protagonista dell’inchiesta sulla cricca delle Grandi Opere e condannato per corruzione nel processo sulla Scuola carabinieri di Castello. Modena: presidio di protesta de i lavoratori di Polizia penitenziaria davanti al carcere modena2000.it, 6 luglio 2016 La Casa circondariale S. Anna di Modena vive un momento storico particolare: da una gestione amministrativa dei vertici molto discutibile, si passa a tutta una serie di eventi critici che mettono a repentaglio la sicurezza dell’intero istituto e l’incolumità fisica dei poliziotti penitenziari. I continui episodi di autolesionismo da parte dei detenuti, ai quali devono far fronte quotidianamente i lavoratori di polizia penitenziaria, stanno determinando una situazione non più sostenibile con evidenti e rilevanti situazioni di stress e pericolo per gli agenti. Peggio ancora, si continua a convivere con una serie di problematiche di carattere sanitario dovute principalmente all’assenza di consapevolezza da parte del servizio sanitario preposto all’attività carceraria, che continua a effettuare interventi di cura non adeguati soprattutto per quei detenuti con gravi problemi di tossicodipendenza. La situazione del carcere di S. Anna è ormai divenuta non più sostenibile e i lavoratori della polizia penitenziaria ormai ogni giorno devono contrastare episodi di autolesionismo violento, non escludendo per il futuro - viste le esperienze passate - la messa in campo di atti di aggressione nei confronti di chi è preposto alla vigilanza. Questa situazione di crisi si ripropone anche quest’anno visto che il carcere di Modena ormai viene utilizzato ciclicamente per ospitare detenuti particolarmente violenti e che vengono trasferiti da altri istituti penitenziari per ragioni di sicurezza. A nulla sono valsi i ripetuti appelli delle Organizzazioni Sindacali affinché fosse predisposta un’organizzazione mirata dell’accoglimento anche per questi detenuti ma, soprattutto, che essi potessero essere seguiti adeguatamente dal punto di vista sanitario, visto che anche per questi detenuti i problemi di tossicodipendenza sono la causa principale di atti di insofferenza soprattutto verso i preposti alla vigilanza. Negli ultimi giorni la situazione è peggiorata anche a causa di una serie di criticità strutturali a partire dagli impianti elettrici e idraulici, che puntualmente sono stati segnalati dagli agenti. In tal senso anche nello scorso autunno le delegazioni sindacali modenesi, nel corso di appositi incontri presso il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, avevano rappresentato i problemi esistenti e previsto tutte le inevitabili conseguenze a cui si sarebbe andati incontro nel caso in cui le rassicurazioni fornite non si fossero tradotte in fatti. Oggi stiamo vivendo un ennesimo triste epilogo derivante dai suddetti problemi ma soprattutto da una situazione organizzativa del sistema penitenziario che è carente e determina conseguenze per la sicurezza. Lo sconforto e il senso di abbandono dei lavoratori e delle lavoratrici del corpo di polizia penitenziaria sono i sentimenti prevalenti che esplodono in tutta la loro drammaticità quando iniziano il turno di servizio. Per tutti questi motivi tutte le Organizzazioni Sindacali Rappresentative dei lavoratori del S. Anna hanno proclamato lo stato di agitazione e hanno organizzato per domani mercoledì 6 luglio dalle ore 10 alle ore 12 un presidio di protesta davanti all’istituto penitenziario modenese (strada Sant’Anna, 370). Per i prossimi giorni sono previste ulteriori azioni di protesta e sarà formalizzata una richiesta di incontro al Prefetto di Modena e al Provveditore Regionale affinché da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vengano avviate tutte le iniziative utili a rimuovere una situazione che non può più essere tollerata. Sindacati Polizia Penitenziaria: Sappe, Osapp, Uilpa, Sinappe, Cgil, Cisl Fns, Uspp, Cnpp, Alsippe, S.Pp Reggio Calabria: lavoro penitenziario, sinergia tra Comune e Casa circondariale reggiotv.it, 6 luglio 2016 Una collaborazione sempre più stretta tra l’Amministrazione comunale e la Casa Circondariale reggina per la promozione del lavoro sociale nell’ambito del regime penitenziario. Un modus operandi da proporre anche agli altri Comuni che fanno parte della Città Metropolitana, secondo un modello che punta all’emulazione delle pratiche positive già messe in atto nel contesto reggino. La proposta è stata avanzata dal Consigliere delegato alla Città Metropolitana Riccardo Mauro che nei giorni scorsi ha incontrato la Direttrice della Casa Circondariale di Reggio Calabria Maria Carmela Longo. "L’incontro è servito a tracciare le linee guida di una sempre più stretta e proficua sinergia tra la nostra Amministrazione e il carcere di Reggio. Più volte, il Sindaco Falcomatà ha dichiarato interesse per le iniziative che vanno nella direzione del lavoro sociale dei detenuti perché, sostiene il Sindaco "il lavoro per chi è sottoposto a misure di sicurezza, si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti". "L’ottima sinergia portata avanti con la Casa Circondariale reggina costituisce per la città una grande ricchezza in termini sociali. L’obiettivo è quello di accorciare le distanze tra il carcere e la società contribuendo a rendere più umana la pena e supportando percorsi di cambiamento personale e sociale, con importanti riflessi in termini di abbattimento della recidiva del reato, di sicurezza per la comunità e di sottrazione di terreno alla sottocultura criminale" ha proseguito il consigliere. "Ringrazio la Direttrice Maria Carmela Longo per la grande sensibilità dimostrata - ha concluso Mauro - nella certezza che il percorso intrapreso porterà la nostra città a diventare un vero e proprio laboratorio d’avanguardia su questo fronte, mettendo a disposizione le migliori pratiche applicate anche agli altri comuni della nostra Città Metropolitana e alle altre Città italiane". Bollate (Mi): da detenuto senza speranza a informatico, una storia di rinascita e riscatto di Giovanni Tizian L’Espresso, 6 luglio 2016 Le violenze da naziskin. Poi l’omicidio del padre. Ora è un superesperto di sicurezza informatica. Grazie ai corsi di alta formazione e all’impegno di un volontario nel carcere di Bollate. Ecco cosa è accaduto a Luigi e ad altri come lui. Il passato da skinhead, con risse e aggressioni. Il padre violento che gli ha distrutto la vita. L’omicidio per salvare la madre e il fratello da quel genitore che entrava e usciva dal carcere. E li minacciava, urlando, che non avrebbero visto il sole del giorno dopo. La galera nelle celle-loculi di San Vittore prima e di Opera poi. Infine, la rinascita e il riscatto nel penitenziario di Bollate. Da detenuto senza alcuna speranza di salvezza a esperto di sicurezza informatica per importanti multinazionali. Proteggere da attacchi esterni di spioni e ficcanaso la rete internet è compito di estrema delicatezza. Per questo il salto in lungo di Luigi Celeste, da carcerato comune a responsabile di progetti "sensibili", non ha eguali in Italia e in Europa. Luigi non ha avuto il privilegio di una vita semplice. Certo, in alcuni casi i guai se li è andati a cercare. Spesso, però, sono loro che hanno trovato lui. I fanatici delle etichette avrebbero definito il suo un caso perso. E in un Paese dove gli istituti di pena sono sinonimo di marginalità e non di reinserimento, il destino di Luigi sembrava segnato per sempre. Eppure fin dalla prima sosta nel girone dei condannati, a San Vittore, Luigi aveva già sognato tutto del suo futuro. Non gli restava altra scelta che realizzare quel desiderio di riscatto confessato una notte d’inverno al suo compagno di cella. Un tossicodipendente con il quale aveva stretto amicizia e a cui aveva chiesto di fargli da padrino per la cresima: A lui Luigi aveva raccontato di voler investire ogni grammo della sua energia per diventare uno specialista di cyber security. Così codici cifrati, algoritmi, numeri, stringhe sono diventati un’ossessione negli 8 anni trascorsi in cella. L’unico scoglio al quale aggrapparsi per salvarsi dall’alienazione. Luigi Celeste è finito dentro per omicidio. Parricidio, per l’esattezza. Ha ucciso il padre a colpi di revolver: un gesto covato per mesi nei confronti dell’uomo che stava rendendo impossibile la vita di sua madre e di suo fratello, il bravo ragazzo della famiglia. Un gesto estremo vissuto come una liberazione. Poi la fuga, a casa della compagna. Infine, la corsa per costituirsi dai Carabinieri. Luigi non è stato quel che si dice un ragazzo modello. Cresciuto senza una figura maschile di riferimento. Il padre rapinatore, che trascorre gran parte della sua esistenza nelle celle dei penitenziari milanesi. Così Luigi si avvicina al mondo dell’estremismo politico. Diventa un temibile skinhead della Milano dal cuore nero. E inizia a frequentare gli ambienti della destra più estrema. Con il gruppo di cui fa parte finisce più volte nei guai per rissa e violenza. Un passato che poi, negli anni della galera, ha tentato in tutti i modi di espellere dal suo curriculum. Oggi è solo un ricordo sbiadito. Un capitolo cestinato per sempre, ripete spesso durante l’intervista concessa a "l’Espresso". Ma una volta scontata la pena quel passato non lo ha abbandonato. Certe etichette ti restano incollate sulla pelle. E basta un piccolo passo falso per ripiombare nell’incubo. L’errore è stato fidarsi di alcuni vecchi camerati. Si sentiva in debito perché lo avevano sostenuto durante il processo. Accettò la loro proposta di diventare il modello per magliette del circuito nazi. "Non avevo visto simboli strani sulle magliette, ma chiesi di non fotografarmi in volto. I miei tatuaggi, però, erano ben visibili. Fu facile per i giornalisti capire di chi si trattava. E scrissero. Entrai di nuovo in quel tunnel che credevo di essermi lasciato alle spalle: Il tribunale sospese la semilibertà. Decisi allora di recidere per sempre ogni legame con quel mondo che continuava a portarmi solo guai". Il successo della riabilitazione di Luigi non è solo questione di volontà individuale. Alla radice c’è l’incontro con un professionista del settore, Lorenzo Lento. È lui la mente che ha partorito l’idea e l’ha realizzata quasi 15 anni fa nel carcere modello di Bollate. Da esperto di informatica avanzata, ha scelto di dedicare parte del suo tempo a insegnare ai detenuti. Grazie al suo impegno ha spinto la Cisco, società leader mondiale dell’informatica, ad aprire una Academy all’interno della casa di reclusione milanese. Il cuore del progetto sono i corsi di formazione di altissimo livello riconosciuti in tutto il mondo. Conoscenze tecniche che una volta acquisite garantiscono un buon posto di lavoro. "Nel 2002, quando è stata firmata la convenzione, eravamo gli unici al mondo. Tanto che, nel 2003 in Sud Africa a Johannesburg, l’allora direttrice Lucia Castellano ha ritirato il premio per il progetto più innovativo di formazione", racconta Lento. Che aggiunge: "Oggi nel mondo esistono oltre 30 penitenziari fra Europa e Usa che accolgono una Academy, ma nessuno ha mai raggiunto i nostri livelli di certificazione. Dopo tanti anni e tanti governi l’unico ad essersi accorto del potenziale di questo progetto è il ministro Andrea Orlando che dice di volere espandere questo esperimento virtuoso di Bollate". Formazione e lavoro, dicono i dati, abbattono la recidiva dell’80 per cento. In pratica, studiare, imparare un mestiere, sono solidi mattoni su cui costruirsi una vita onesta una volta fuori dal microcosmo carcerario. La questione è in cima alle priorità del Guardasigilli. È un suo cruccio, forse la missione del suo mandato a cui tiene di più: riformare la galera. "Il carcere viene usato come strumento di propaganda e di paura. Paure spesso legate più alla realtà percepita. Dobbiamo quindi spiegare che serve a realizzare sicurezza, ma a patto che non sia sinonimo di segregazione. All’interno devono prevalere percorsi che siano condizione per una reintegrazione sociale. Abbiamo bisogno di strutture, insomma, che siano strumenti contro il crimine e non scuole di formazione della criminalità pagate dai contribuenti". Un intervento potente pronunciato da Orlando durante gli Stati generali dell’esecuzione penale due mesi fa. Concluso con la promessa di investire 10 milioni di euro per potenziare il sistema: "Anzitutto potenziando il settore dell’esecuzione penale esterna, quella delle "misure di comunità" verso le quali deve progressivamente spostarsi la sanzione penale e che i sindaci dovrebbero utilizzare di più. I cittadini vi ringrazieranno quando vedranno i giardini puliti dai detenuti". I numeri, in effetti, sembrano dargli ragione. Da quando è diventato ministro il trend è in continua crescita. E i 14 mila del 2014 sono diventati 15.524. Con una crescita anche delle persone impegnate in lavori esterni. Con contratti, cioè, che non gravano sulle casse dello Stato. Ma soprattutto sono la frontiera più importante del reinserimento sociale. La regione più virtuosa è la Lombardia. Qui, grazie anche all’esperienza di Bollate, in quasi 3 mila hanno scelto di rimboccarsi le maniche provando a inventarsi un futuro. Di questi ben 639 lavorano per aziende, cooperative, società varie. Un doppio primato nel Paese delle gabbie disumane. Non è un caso, quindi, che la "pazza idea" di Lorenzo Lento abbia preso forma e sostanza proprio in Lombardia. Ora, Lento, vorrebbe esportare, tra tante difficoltà, il modello anche in altri istituti: "Avevamo aperto un laboratorio al minorile di Firenze, ma poi la burocrazia si è messa di traverso. È davvero un peccato per questi ragazzi. Anche a Milano Opera vorremmo avviare il progetto, ma è da più di un anno che attendiamo risposte definitive sulla disponibilità dei locali per iniziare l’attività". Lento per l’impegno di volontario a Bollate ha ricevuto anche un prestigioso premio internazionale: miglior istruttore Cisco. In effetti il riconoscimento, da quel che racconta, è meritato. In questi anni si sono certificati con il massimo dei voti Giuseppe P, ex rapinatore seriale; Massimo U e Abdel K., ex trafficanti internazionali di droga; Bogdan S, alle spalle più di un omicidio; Anier S, ex rapinatore di gioielli. Di questi, in due hanno già in tasca un contratto a tempo indeterminato. È il caso di Abdel, per esempio, che ora si occupa di migliorare le reti interne e i server per una società lombarda con 13 sedi aperte. E di Luigi, la punta di diamante del gruppo, che da qualche tempo ha persino aperto una partita Iva e si è messo in proprio. Continua a lavorare per la multinazionale con cui ha iniziato e in più ha ampliato il suo portafoglio clienti. "Il lavoro non manca e si guadagna anche bene", sorride soddisfatto Luigi. Prima di raggiungere la vetta, però, il cammino è stato faticosissimo. "Ho tentato in tutti i modi di arrivare a Bollate, sapevo dell’esistenza dell’Academy. Ci sono riuscito nel 2010, dopo aver visto San Vittore, terribile, e Opera, che i detenuti chiamano la tomba dei vivi. Poi, finalmente ricevo la comunicazione tanto attesa: Bollate aveva accettato il mio inserimento. Qui ho conosciuto Lorenzo e ho iniziato a studiare: ho fatto 43 esami complicatissimi e un test che la maggior parte delle persone deve rifare due volte. Per farlo, tra l’altro, ho dovuto aspettare i primi permessi premio perché si svolgono in aule particolari dell’azienda con computer sofisticati. L’ho superato al primo colpo. È stato come fare il pieno di autostima. Non solo per me, ma anche per chi mi ha guidato lungo tutto il percorso. In particolare Lorenzo Lento, che in quel momento, dopo la bella notizia, decise di aprire una cooperativa. Mi assunse subito e nel 2013 mi fu affidato un progetto al conservatorio Giuseppe Verdi, all’epoca diretto da Arnoldo Mosca Mondadori. Il mio compito era gestire la rete informatica. Nello stesso periodo mi sono iscritto, a mie spese, a un altro corso di alta formazione Cisco. Finito con il conservatorio è arrivata la proposta che mi ha cambiato la vita: proteggere la rete informatica di una grande multinazionale. Avrei dovuto mettere in collegamento le vari sedi estere con connessioni sicure, a prova di hacker. Una sfida enorme, ma stimolante". Risultato? "Chiuso quel progetto mi chiesero di portarne avanti altri. Nel frattempo è arrivato, nel febbraio 2016, il fine pena. E da qui la decisione di camminare solo sulle mie gambe: sono diventato un professionista autonomo con la mia partita Iva e con i miei clienti". Luigi in qualche modo si è salvato proprio nel momento in cui ha commesso il reato. Da quel momento tutta l’esistenza ha assunto un valore diverso. Mai come allora gli appariva così nitido l’obiettivo che voleva raggiungere. Ne ha percorsa di strada Luigi. "Prima della condanna non sapevo molto di informatica, per me era solo una passione che non potevo coltivare perché molto costosa. Montavo condizionatori, facevo l’operaio. Di pc capivo il giusto. Quando però ho saputo di questi corsi mi sono detto: posso realizzare un mio sogno". Nella sua memoria sono scolpiti i ricordi bui degli anni trascorsi aspettando l’ora d’aria e la doccia insieme a criminali di ogni risma. Prima di arrivare a Bollate, ha vissuto le peggiori contraddizioni del sistema carcerario italiano. Quelle per cui l’Europa ha sanzionato l’Italia. Spazi minuscoli, affollatissimi, sporcizia. Dal passato riaffiorano immagini drammatiche. Che ancora oggi lo angosciano. Non dimenticherà facilmente, per esempio, la sezione del 41 bis vista dalla finestrella della sua cella nel carcere di massima sicurezza di Opera. "Vedevo i mafiosi reclusi. Più che i loro corpi, mi sono rimaste impresse le loro ombre proiettate sui muri. La luce sempre accesa e le finestrelle sigillate dal plexiglas. Mi davano l’idea di fantasmi murati in una tomba di cemento e ferro". Così come non potrà mai scordare il limbo di San Vittore: "Un porto di mare, tutti in attesa di giudizio. Motivo per cui non c’è assolutamente nulla da fare. Nessuna attività, nessun corso. Un’estenuante attesa del giorno del giudizio per essere poi trasferiti in un carcere per condannati". Ma ciò che custodirà per sempre sono le parole spese dal pubblico ministero durante il processo in cui è stato condannato con tutte le attenuanti del caso: "Il padre di Celeste ha infierito da vivo" ha scandito il magistrato durante la requisitoria, "non permettete che infierisca anche da morto". Volterra (Pi): un tavolo per due in carcere, laddove la parola lavoro significa merito di Stefania Zolotti informazionesenzafiltro.it, 6 luglio 2016 Volterra non è solo l’alabastro che campeggia in ogni bottega, impossibile negare che l’artigianato sia uno strato della sua pelle ma non è l’unico. Proprio dietro quelle vie del centro storico, su in cima alla città, la Fortezza Medicea - se la guardi da fuori - quasi dissimula la sua natura perché si atteggia a monumento turistico come gli altri e invece custodisce un carcere. Lo chiamano "trattamentale" ma quel carcere bisogna farselo aprire con le chiavi lunghe e pesanti per capirci qualcosa e bisogna anche aspettare che ogni porta si richiuda col rumore secco prima di aprire la successiva e fare un passo verso la normalità rieducativa che il Direttore penitenziario Maria Grazia Giampiccolo lì dentro disegna e struttura da anni. I detenuti arrivano a 150: per due terzi italiani, quasi un terzo con pene superiori a 24 anni o con l’ergastolo, la fortuna di non sapere però cosa sia il sovraffollamento. Di speciale c’è che la parola lavoro risuona forte nel carcere di Volterra per i detenuti che si sentono ancora un pezzo di società civile e là vogliono tornare con una dignità recuperata. Sono 68, ad oggi, le persone impiegate con turnazioni mensili. "Non tutti possono accedere alle attività lavorative previste nel nostro Istituto e al tempo stesso non tutti hanno interesse a farlo. Il carcere del resto è uno spaccato rappresentativo delle singole personalità e individualità che ritroviamo nella vita di ogni giorno. Ci sono criteri rigidi per essere ammessi, ispirati non tanto al tipo di pena da scontare quanto soprattutto a importanti valutazioni sulla persona e sul profilo in questione", sottolinea il Direttore. "I servizi prestati a supporto delle attività della struttura prevedono una retribuzione che non deve essere inferiore ai 2/3 di quella stabilita dai lavoratori di pari categoria dal contratto di lavoro collettivo nazionale. Chi lavora segue indicativamente l’orario dalle 5.30 alle 12.30 più tre ore la sera per chi si occupa dei pasti". È chiamata da sempre mercede, in ogni carcere d’Italia, quella paga prevista dall’art. 22 dell’Ordinamento Penitenziario che spesso finisce al centro di polemiche e denunce da parte degli stessi detenuti nei confronti di uno Stato che, mentre li rieduca alla legalità, li sottopaga per carenza di fondi: i livelli di retribuzione, all’incirca sui 2,5 euro all’ora, sono addirittura fermi al 1994 e non sono pochi i casi di condanne in capo alla Pubblica Amministrazione. È il paradosso estremo se si pensa che nel frattempo è anche aumentata la cosiddetta quota di mantenimento, somma che i detenuti pagano per i servizi che vengono loro corrisposti. "Tra avere soldi e non averli c’è una grande differenza anche qui dentro. Lavorare e guadagnare - seppur poco - restituisce ai detenuti una autonomia nell’acquisto di piccoli oggetti personali ma soprattutto li libera da qualsiasi forma di dipendenza nei confronti degli altri". Una sociologia profonda restituita con parole semplici quella dell’Ispettore Paolo Iantosca che ci tiene a segnare un solco ulteriore per rimarcare quanto sia necessario il carattere socializzante del lavoro. "All’interno del nostro carcere è stato istituito un Istituto Alberghiero dove studenti esterni entrano per venire a lezione e per diplomarsi mescolandosi ai nostri detenuti che, in possesso dei requisiti, hanno scelto di intraprendere una formazione professionalizzante che li agevoli nella reintegrazione in società una volta estinta la pena. È il primo esempio in Italia. I corsisti sono già 30, 3 le classi sono miste e a settembre se ne aggiungerà una quarta. Ma l’aspetto più sorprendente è che già alcuni di loro - in regola con le norme che consentono di lavorare esternamente e rientrare in cella la sera - lavorano in strutture cittadine. Il lavoro è un atto sociale e per questo ha bisogno di collaborazione da parte di tutti, l’apertura della città e degli abitanti di Volterra ne testimoniano perfettamente il senso". I banchi di prova intermedi, dalle sbarre a un ristorante, servono ai detenuti per ricostruirsi un’etica, per riabituarsi alle relazioni e per raddrizzare nuovamente la schiena. Non sarà forse un caso che la strada da solcare sia quella della cucina: dura, sfrontata, faticosa. Attraverso il cibo trasferiamo del resto la nostra identità. Serve anche a questo il progetto "Cene Galeotte", dieci anni di storia nel 2016 e all’attivo ben dieci mila ospiti accomodati e serviti grazie al supporto del Ministero della Giustizia ma ancor più di Unicoop Firenze che ha in carico la retribuzione dei detenuti che partecipano attivamente alla realizzazione delle serate prestando servizio in cucina a supporto dello chef famoso di turno o di sera ai tavoli. Sono tutti aspiranti cuochi, camerieri e sommelier quelli che ti ritrovi davanti quando i cancelli del carcere si aprono per dare inizio alla serata. Se ne stanno tutti in fila mentre la gente entra con gli inarrestabili punti di domanda in fronte. Loro invece sguardo dritto, emozione in faccia, divisa nera, camicia bianca, gilet e papillon di rito. Se li meritano tutti a fine serata quegli applausi e quella commozione nell’aria perché accettare di cambiare in meglio non è mai un controsenso e lavorare non è mai una scelta di cui pentirsi, a maggior ragione per loro. Non a caso le Cene Galeotte spaccano il carcere in due, tra chi sceglie di riconsegnare al lavoro e al sacrificio la dignità che meritano e chi invece continua a preferire l’ombra in ogni sua espressione. La guardia carceraria che di pomeriggio guida il giro di ronda sotto le celle sembra inizialmente distante, non molla il ruolo, sposta passi lenti e guardinghi per deformazione, parla solo dietro domande, il mazzo di chiavi custodito con cura. A fine giro è completamente diverso e racconta d’istinto: "Faccio questo lavoro da 35 anni, non potrei più farne a meno. Ho vissuto in tante realtà carcerarie ma questa è davvero un esempio di rieducazione e di rispetto. Il nostro lavoro diventa una seconda pelle anche quando siamo fuori di qui e se lo fai come si deve, con l’intuito e col cuore, riesci a dargli un senso anche in contesti impensati. Mi è successo più di una volta di uscire con mia moglie e riconoscere in qualche gesto o movenza di perfetti sconosciuti la condizione di persone ex detenute ora di nuovo a contatto con la libertà di situazioni normali. Non ti sbagli mai quando impari un codice di vita e la relazione che instauri con l’altro è la base di tutto, sempre. Molto spesso, nel lavoro, per riconoscersi e capirsi le parole non servono". Prato: Sdr; senza risposta da un anno richiesta di trasferimento ergastolano sardo Comunicato stampa Sdr, 6 luglio 2016 "Nonostante le norme dell’ordinamento penitenziario, rese ancora più cogenti dalle recenti circolari e raccomandazioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, un ergastolano sardo, in carcere dal 1995 e da 12 anni lontano dall’isola, non vede soddisfatta la sua richiesta di trasferimento nella regione. Da un anno inoltre non ottiene neppure una risposta. Una situazione intollerabile e paradossale che lede diritti sanciti da leggi e ribadite dallo stesso Dap". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al caso di Sebastiano Demontis, 61 anni, di Buddusò, da 3 anni nel carcere di Prato, che chiede un trasferimento ad Alghero. "Sono consapevole della gravità del reato - ha sottolineato nella lettera inviata all’associazione - mi dispiace aver causato un immenso dolore ai familiari delle vittime. Dopo 21 anni di carcere effettivamente espiati di cui 12 anni in vari Istituti della Toscana, chiedo un avvicinamento colloqui. Sono stato trasferito dalla Sardegna nel 2004. Da allora, non sono state accolte le insistenti richieste per avvicinamento e trasferimento in Sardegna. Un’istanza mi è stata rigettata l’anno scorso in quanto stavo frequentando il quinto anno di Ragioneria. Terminati gli studi, a luglio ho inoltrato un’altra richiesta di avvicinamento e fino ad oggi non ho avuto risposta, nonostante abbia fatto due solleciti". "Il mancato riscontro alle domande di trasferimento del detenuto - evidenzia la presidente di SDR - è stato segnalato a Franco Corleone, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Toscana e Coordinatore dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti. Demontis inoltre ha inviato una dichiarazione al Magistrato di Sorveglianza di Firenze per poter usufruire di un permesso premio finora negatogli". "Condannato all’ergastolo per tentata rapina e concorso in triplice omicidio avvenuto in Sardegna, Demontis non chiede sconti di pena o particolari benefici, spera soltanto che il positivo comportamento in carcere, l’avere conseguito il diploma secondo quanto previsto nel suo percorso rieducativo e l’autocritica maturata per i suoi gravi errori possano consentirgli di fruire, come correttamente avvenuto per gli altri suoi coimputati, dei diritti sanciti dalla legge. Negarglieli sembra potersi configurare come una discriminazione - conclude Caligaris - non degna di uno stato civile". Lodi: festa estiva dei papà detenuti che hanno partecipato al "Gruppo genitorialità" di Manuela Cibellis (Agente di Rete del carcere di Lodi) Ristretti Orizzonti, 6 luglio 2016 Anche quest’anno si è svolta presso la Casa Circondariale di Lodi la festa estiva dei papà detenuti che hanno partecipato al "gruppo genitorialità" nei 9 mesi precedenti. Il ciclo di incontri ha impegnato i papà in un lavoro di gruppo che ha permesso di confrontarsi su una serie di problematiche relative all’essere genitori dal carcere. La festa, momento conclusivo del percorso, ha come sempre impegnato tutti gli operatori dell’Istituto, dalla Direzione nella persona della Dott.ssa Stefania D’Agostino agli agenti e al Comandante, dott.ssa Melania Manini, l’Ufficio Educatori, l’agente di rete. I detenuti padri hanno potuto riunirsi con le relative famiglie e incontrare mogli e figli in un clima di spensieratezza. Numerosissimi quest’anno gli infanti, che hanno reso la giornata più dolce per tutti, ma hanno anche sollecitato la riflessione di come l’impatto della carcerazione possa intervenire davvero precocemente nella storia di un nucleo familiare, in una fase delicata del suo sviluppo. L’allegria dei bambini è stata tenuta viva dal collaudatissimo clown-educatore Claro che ha integrato nella sua traccia di animazione i contributi dei partecipanti al gruppo: per l’occasione infatti i papà del gruppo genitorialità, coadiuvati dalle dr.sse Laura Astorri e Martina Peracino, avevano composto una bellissima storia, che è stata stampata e data ai partecipanti alla festa, e anche recitata e registrata su cd per i loro figli. Questa scelta ricalca quella già effettuata qualche edizione fa, permette ai figli di sentire la voce del loro papà che ogni sera può leggergli la storia composta proprio per loro. Abbiamo salutato i detenuti e le loro famiglie con l’auspicio di avere la possibilità di proseguire questo importante lavoro anche il prossimo anno. Il Papa: "Basta al traffico di armi, la pace è possibile" di Luca Kocci Il Manifesto, 6 luglio 2016 Nomi Bergoglio non ne fa, ma sul banco degli imputati siedono i principali governi occidentali e i Paesi della Nato, che per anni hanno venduto armi alla Siria e da un po’ di tempo le vendono agli oppositori di Assad. Dito puntato, ancora una volta, da Papa Francesco contro tutti i Paesi occidentali di area Nato, ma anche contro le monarchie saudite e la Russia, che vendono armi alla Siria o ai ribelli anti Assad mentre contemporaneamente invocano la pace. "Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?", chiede retoricamente il pontefice in un videomessaggio diffuso ieri in occasione del rilancio della campagna per la pace in Siria ("Siria, la pace è possibile") promossa dalla Caritas Internationalis, organismo a cui aderiscono 165 Caritas di tutto il mondo, tra cui quella italiana. "Mentre il popolo soffre - si ascolta nel videomessaggio di Francesco -, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei Paesi fornitori di queste armi, sono anche fra quelli che parlano di pace". Nomi Bergoglio non ne fa, ma sul banco degli imputati siedono i principali governi occidentali e i Paesi della Nato, che per anni hanno venduto armi alla Siria e da un po’ di tempo le vendono agli oppositori di Assad (fra cui si annidano anche gli jhiadisti dell’Isis e di Al Qaeda), ma anche la Russia di Putin. E qualche giorno fa il New York Times ha rivelato che una grande quantità di armi che la Cia - in collaborazione con i sauditi - aveva destinato ai ribelli siriani contro il regime di Assad è stata rubata dai servizi segreti giordani e collocata sul mercato nero. Si tratta di una guerra, ricorda il papa nel videomessaggio, "oramai entrata nel suo quinto anno. È una situazione di indicibile sofferenza di cui è vittima il popolo siriano, costretto a sopravvivere sotto le bombe o a trovare vie di fuga verso altri Paesi". E a questo proposito la Rete italiana per il disarmo rilancia il rapporto della ong olandese Stop Wapenhandel ("Border wars") che denuncia come "le principali aziende europee di armamenti coinvolte nella vendita di sistemi militari al Medio Oriente sono le stesse aziende che stanno traendo profitti dalla crescente militarizzazione delle frontiere dell’Unione europea". Insomma un affare doppio. Non è la prima volta che papa Francesco denuncia il commercio internazionale delle armi come causa prima delle guerre. E non è la prima volta che interviene sulla Siria, da quando, nel settembre 2013, alla vigilia di quello che sembrava un imminente attacco occidentale alla Siria di Assad, scrisse a Putin (contrario all’azione militare) che presiedeva un G20 a San Pietroburgo per chiedere ai capi di Stato e di governo di abbandonare "ogni vana pretesa di una soluzione militare" contro Damasco; e pochi giorni dopo promosse una giornata di digiuno e una grande veglia per la pace in piazza San Pietro che contribuì a fermare l’intervento armato. "Appelli puntualmente inascoltati - spiega Giorgio Beretta (Rete disarmo) - le responsabilità sono tutte dei governi occidentali che continuano a vendere armi nonostante siano ben coscienti delle continue violazioni dei diritti umani in Medio Oriente. Se vogliamo fermare le guerre, il primo passo è la trasparenza e un controllo rigoroso sull’export di armamenti, che invece è in aumento, come confermano i recenti contratti firmati da Finmeccanica e Fincantieri" Ancora papa Francesco: "Non c’è una soluzione militare per la Siria, ma solo una politica. La comunità internazionale deve sostenere i colloqui di pace verso la costruzione dì un governo di unità nazionale. La pace in Siria è possibile!". Calano gli affari delle ecomafie, ma boom di abusivismo edilizio di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 6 luglio 2016 Legambiente. Rapporto a otto mesi dalla legge su eco-reati. Gli affari delle ecomafie vanno male. Il loro business nel 2015 si è attestato a 19,1 miliardi di euro, 3 miliardi in meno rispetto all’anno prima. Lo segnala in evidenza il rapporto annuale di Legambiente presentato ieri a Palazzo Madama con un parterre d’eccezione, dal ministro dell’Ambiente Galletti, alla presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, al procuratore capo Antimafia Roberti. Il calo è dovuto principalmente dalla netta contrazione degli investimenti a rischio nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) dove si sono prosciugate le spese per opere pubbliche e gestione dei rifiuti urbani: da 13 miliardi la spesa si è ridotta a 7 miliardi. Mentre restano sostanzialmente invariati gli affari negli altri settori di attività, anzi con aumenti per quanto riguarda l’abusivismo edilizio privato (soprattutto in Campania e in particolare in provincia di Napoli), le truffe agroalimentari (olio, vino, parmigiano, pane), lo smaltimento illecito dei "preziosi" rifiuti speciali, l’archeomafia (in quest’ultimo campo c’è stato nel 2015 un boom di reperti recuperati, per un valore di 3,3 miliardi). Legambiente però sottolinea come, ottenuta dopo 21 anni di battaglia, la nuova legge che inserisce gli eco-reati nel codice penale - approvata il 19 maggio dell’anno scorso - stia iniziando a funzionare, anche se le procure dovrebbero sviluppare una prassi operativa "comune e condivisa" - propone l’associazione ambientalista - sulla base di linee guida nazionali. Negli otto mesi di applicazione sono stati oltre 24mila le denunce, oltre 7 mila i sequestri, gli illeciti ambientali sono calati ma sono comunque 76 al giorno, 3 ogni ora, E si concentrano sempre più i Campania, Calabria, Puglia e Lazio. "Le mafie laddove trovano varchi e possono fare affari, entrano. Passano laddove noi decidiamo di farle passare", ha commentato i dati del dossier Rosy Bindi. La corruzione è l’altra faccia delle ecomafie e resta un fenomeno dilagante che vede il più alto numero di indagini in Lombardia. Mentre per gli illeciti ambientali il record nel Sud va alla Campania, al Lazio nel Centro e alla Liguria nel Nord. Secondo il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti è però "riduttivo" parlare solo di ecomafie, quando si tratta soprattutto di "criminalità d’impresa". "è l’imprenditore - specifica - il protagonista e principale responsabile di reati in materia di rifiuti, agroalimentare, inquinamento dell’ambiente. Il mafioso interviene interagendo con l’imprenditore per lo smaltimento illecito o altre attività. Sempre più spesso sono gli imprenditori che si rivolgono alla criminalità e spesso questi reati sono accompagnati da corruzione e falso documentale". Sono 326 i clan censiti dal cemento ai rifiuti, al traffico di legno tagliato o importato illegalmente. L’abusivismo edilizio è il fenomeno in crescita più pesante (insieme agli incendi dolosi con un’impennata impressionante, che sfiora il 49%), concentrato nelle regioni del Centro-sud: se nel 2007 pesava dell’8% sul totale del costruito nel 2015 la percentuale è raddoppiata con 18 mila immobili completamente fuori legge. In testa Napoli, Avellino, Salerno e Cosenza. Il ministro Gian Luca Galletti ha ricordato - senza dare scadenze e prendere impegni - che "dobbiamo fare la legge sui parchi e quella sul consumo di suolo". Legambiente chiede ora soprattutto uno sveltimento e semplificazione delle procedure per l’abbattimento degli ecomostri e degli abusi edilizi, l’approvazione veloce del ddl per aggravare le frodi enogastronomiche dei prodotti Igp e Dop e un intervento più deciso di repressione del caporalato in agricoltura. L’anno scorso le ispezioni nei campi sono aumentate del 59% ma nelle aziende controllate il 56% dei lavoratori sono risultati irregolari. Galantino (Cei): no all’equazione tra immigrazione e terrorismo Avvenire, 6 luglio 2016 Un fermo "no" all’equazione tra immigrazione e terrorismo, ma anche una condanna per chi all’integralismo dell’islam contrappone una visione integralista del Vangelo. A sottolinearlo è monsignor Nunzio Galantino, nel suo intervento durante la presentazione del 25esimo Rapporto immigrazione di Caritas e Migrantes. Prendendo spunto dal brutto fatto di cronaca avvenuto ieri sul lungomare di Porto d’Ascoli, quando due ragazzi bengalesi che vendevano fiori sono stati pestati a sangue perché non hanno saputo recitare il Vangelo, il segretario generale della Cei ha sottolineato quanto sia sbagliata la "lettura ideologica del Vangelo". Galantino ha ricordato che bisogna affrontare il tema dell’immigrazione "lasciando sullo sfondo luoghi comuni e facendo leva su alcuni punti-chiave". Innanzitutto, il linguaggio. "L’uso di alcune parole come invasione, emergenza, crisi - ha detto - non aiuta certamente ad affrontare correttamente le trasformazioni corso; contribuisce, piuttosto, a falsare i dati reali e ad allargare la forbice tra percezione e realtà del fenomeno migratorio. Occorre, inoltre, riconoscere come delle politiche migratorie si continui a fare una lettura prevalentemente, se non esclusivamente, economica, ma di un’economia falsata. Infine, rispetto ad altre epoche segnate dalla migrazione, in questa fase c’è un elemento di novità, costituito dalla forte presenza dell’islam - aggiunge -. La lettura integralista dell’islam, che è alla base del terrorismo, sta ritardando, se non escludendo, la possibilità di incontro con l’esperienza di un islam moderato. Da qui, due conseguenze, da cui è necessario guardarsi: alla lettura integralista dell’islam da parte di alcuni, si va facendo strada una lettura integralista e, quindi, ideologica del Vangelo, fino ad arrivare a quello che due giovani hanno fatto ieri sul Lungomare del Porto d’Ascoli. Inoltre assistiamo alla riaffermazione del ruolo pubblico della religione cristiana, che alcuni Stati e alcuni movimenti stanno veicolando, in realtà riduce l’esperienza religiosa a uno strumento da opporre all’altro. Se e quando si riesce a guardare al fenomeno migratorio liberandolo da facili, deformanti e disinformate equazioni, è possibile percorrere un’altra strada, che è quella nella quale la Chiesa si riconosce". Secondo il segretario della Cei, inoltre, "la strage di Dacca ha inferto un colpo decisivo all’equazione, data per scontata dagli imprenditori della paura, tra immigrazione e terrorismo. Dobbiamo riconoscere che a tutt’oggi gli attentatori non sono praticamente mai gente arrivata in Belgio, in Francia o in Bangladesh con i barconi - sottolinea -. Non a caso i commenti sull’identità degli autori del massacro oggi si appuntano sul fatto che si tratta di giovani rampolli di famiglie note e di ampie possibilità economiche, ben diverse dalla popolazione poverissima che abita il Paese". L’intervento di monsignor Perego: numeri stabili - I numeri e le analisi del XXV Rapporto immigrazione di Caritas italiana e Fondazione Migrantes presentato oggi a Roma dimostrano che la presenza di immigrati in Italia è stabile "con una crescita annuale di soli 11mila immigrati nel 2015 e i primi cali di numeri di immigrati nel Nord Est, nelle Marche e in Umbria". Nonostante ciò "si continua a parlare di ‘invasione inarrestabilè in riferimento a 130mila richiedenti asilo e rifugiati accolti nelle diverse città e regioni del nostro Paese. Falsificazioni che impediscono ancora un’adeguata politica dell’immigrazione": lo ha affermato oggi monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, durante la presentazione del volume. "Sono 25 anni che Caritas e Migrantes, organismi pastorali della Cei, hanno sentito il dovere di leggere e raccontare, anche con i numeri, un fenomeno importante, quale è l’immigrazione, che sta rinnovando i luoghi fondamentali della vita sociale del nostro Paese: il lavoro, la scuola, la famiglia, la città, la Chiesa - ha ricordato -. L’esigenza di una lettura attenta e puntuale, statistica e sociologica, ripetuta ogni anno, è nata dal rischio - mai cessato in questi 25 anni - di raccontare l’immigrazione più affidandosi alla percezione del fenomeno migratorio che alla sua realtà. Un rischio di ieri - quando 25 anni fa si iniziava a parlare sulla stampa di "invasione inarrestabile", smentita dai dati del primo Rapporto immigrazione del 1991, che fece la fotografia di un popolo di 356mila persone - e un rischio di oggi". Al contrario questo "popolo di 5 milioni di persone arrivate o nate in Italia" sta "diventando sempre più una componente strutturale per la crescita del nostro Paese. Ogni chiusura, ogni discriminazione, ogni ritardo nel riconoscimento della cittadinanza, ogni esclusione impoverisce, indebolisce la vita delle nostre città e, in esse, della Chiesa", ha concluso. Monsignor Di Tora (Migrantes): cittadinanza per i minori stranieri - "Una cittadinanza per i minori stranieri (oltre 1 milione in Italia), ma anche un esercizio della cittadinanza per gli adulti sono due binari su cui corre una cultura dell’incontro che si traduca nella capacità anche di riconoscere peso alla rappresentanza del popolo dei migranti, superando anche le paure di chi vede nell’allargamento dell’esercizio del voto una debolezza e non una forza nel rinnovamento del nostro Paese": sono alcune delle richieste avanzate oggi a Roma da monsignor Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma e presidente della Fondazione Migrantes, durante la presentazione del XXV Rapporto immigrazione Caritas/Migrantes. "Gli immigrati non possono essere qualificati solo come lavoratori: sono mariti, padri di famiglia, figli - ha sottolineato. La famiglia, il ricongiungimento familiare, una politica familiare attenta alle nuove famiglie miste, sempre più crescenti, è il secondo luogo fondamentale da tutelare nella costruzione di una cultura dell’incontro". Anche "ritardare i ricongiungimenti, lasciare troppi anni le persone, soprattutto i figli in un contesto di famiglia spezzata, amputata - ha ricordato - significa ritardare processi di inclusione sociale e di integrazione". Purtroppo, ha rilevato, i tanti minori migranti presenti nelle nostre scuole, negli oratori, nelle associazioni, "non sono riconosciuti ancora come cittadini italiani pur essendo nati nella maggior parte di casi in Italia o pur avendo studiato in Italia: un grave ritardo che si trascina ancora oggi e che speriamo venga superato al più presto". All’incontro sono intervenuti anche il direttore della Caritas monsignor Francesco Soddu, Oliviero Forti (Ufficio Immigrazione Caritas Italiana), Elena Besozzi (Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università Cattolica Sacro Cuore di Milano), Enzo Pace (Docente di Sociologia della religione, Università di Padova). Per le istituzioni ci sono stati gli interventi di Piero Fassino (presidente Anci), di Rosa De Pasquale, delegata del ministro all’Istruzione Stefania Giannini, Paolo Masini, delegato del ministro ai Beni culturali Dario Franceschini. Ha coordinato i lavori il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: "legalizzare le droghe leggere" di Francesco Grignetti La Stampa, 6 luglio 2016 "Così si combattono i produttori taleban afghani e i clan che hanno saldamente in mano il monopolio del traffico". Per battere davvero i taleban, che in Afghanistan si finanziano con le coltivazioni di papavero da oppio, occorre legalizzare le droghe leggere in Italia (e nel resto del mondo). A sostenere le ragioni dell’antiprobizionismo scende in campo nientemeno che il superprocuratore antimafia e antiterrorismo Franco Roberti. Qualche giorno fa, invitato dal Parlamento a dare un parere su un ddl antiproibizionista - prima firma è Roberto Giachetti, ma sono 220 i deputati di vari gruppi che lo sostengono - che mira a legalizzare la cannabis, Roberti presenta il suo contributo "propositivo, pragmatico, scevro di pregiudizi politici e ideologici, fondato sui fatti". E che fatti. Il superprocuratore riconosce che la lotta al narcotraffico si trascina stancamente e che la lotta la stanno vincendo i trafficanti. Basandosi sui dati ufficiali, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo stima che in Italia circolino almeno 1,5 tonnellate di cannabis all’anno; sarebbero 3 milioni i consumatori stabili. È un dato riconosciuto - scrive Roberti - che le mafie hanno saldamente in mano il monopolio del traffico e che i taleban afghani sono i principali produttori al mondo. "Equivale a dire che la produzione di cannabis è una delle fonti di finanziamento del terrorismo". Se si vuole dare un colpo alle mafie e ai taleban, bisogna togliere dall’illegalità questo straordinario canale di finanziamento. Oltretutto - è il ragionamento di Roberti - "per una schizofrenia del sistema", si assiste a un enorme spiegamento di forze, di polizia e della magistratura, a contrasto delle droghe leggere, le meno pericolose, a discapito del contrasto alle droghe pesanti. "I sequestri di cannabis sono 100 volte di più di quelli di eroina e cocaina, 800 volte maggiori dei sequestri delle droghe sintetiche". Per questo motivo che la Superprocura è favorevole a far produrre la marijuana come si fa attualmente con il tabacco, sotto il controllo dei Monopoli, e a venderla nelle tabaccherie. Roberti giustifica la rivoluzione in cinque punti: liberare risorse da indirizzare nella lotta alle droghe pesanti, sollevare i tribunali da migliaia di procedimenti che portano troppo spesso a sanzioni che restano sulla carta, togliere ricchezza alle mafie, far guadagnare lo Stato con nuove entrate, prosciugare il canale di autofinanziamento dei taleban afghani. Roberti è invece contrario all’autoproduzione e agli shop dedicati come in Olanda. Il pericolo è che la criminalità, cacciata dalla porta, rientri dalla finestra, si veda il settore delle scommesse. "Questo nuovo affare attirerebbe inevitabilmente gli interessi del crimine organizzato". No all’autoproduzione per uso domestico. Peggio ancora, Roberti teme l’autoproduzione associata, "ulteriore cavallo di Troia per far rientrare nell’affare la criminalità organizzata che potrebbe acquisire una ulteriore opportunità per produrre e commerciare la cannabis". Bisogna guardare in faccia la realtà, dice Roberti. E così come intende essere pragmatico nella scelta di depenalizzare, ugualmente non ci si può nascondere che "come insegnano migliaia di procedimenti che passano all’attenzione delle Direzioni distrettuali antimafia, le possibilità per la criminalità di creare governare associazioni "fantasma" (se ne vedono moltissime in tutti i settori, da quello agricolo a quello dei servizi) composte da persone spesso inconsapevoli, ovvero da meri prestatori d’opera, o semplicemente da chi presta il proprio nome, sono inesauribili". Il rischio è di creare di nuovo un mercato illegale, oltretutto senza i controlli sanitari che sarebbero obbligo dei Monopoli. Già, perché c’è cannabis e cannabis. E se si interviene sulla concentrazione del principio attivo Thc, il rischio torna elevato. Il viceministro degli Esteri Benedetto Della Vedova, crede che il ddl in arrivo alla Camera il 25 luglio abbia una "vasta maggioranza trasversale" e auspica una "limpida battaglia. Se ciò non accadesse, mi auguro che il gruppo del Pd rispedisca le pressioni al mittente e lasci la piena libertà di voto per i deputati dem". Canapa, l’Antimafia la vuole legalizzata di Marco Perduca Il Manifesto, 6 luglio 2016 Negli ultimi decenni "in Italia, sotto il profilo macro-economico (ma non solo) il narcotraffico è stato il più rilevante ed efficace moltiplicatore di ricchezza, creando in pochi anni enormi accumulazioni patrimoniali che nessuna attività economica è stata in grado produrre. Una ricchezza illecita che, inevitabilmente, è rifluita sul mercato finanziario ed economico legale, alterandone le regole essenziali e, fra queste, la più importante che è quella che, in un sistema liberal-democratico, assicura giustizia, equità e progresso sociale: la parità di partenza fra i diversi operatori economici". Non è l’incipit del capitoletto "antiproibizionista" di un movimento politico contrario alla "guerra alla droga" né una delle analisi ospitate solitamente su queste pagine, bensì un estratto dal parere inviato dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo alle Commissioni giustizia e affari sociali della Camera dei deputati che in questi giorni sta terminando un’indagine conoscitiva relativa alle proposte di legge per la legalizzazione della cannabis previste per l’Aula entro la fine di luglio. A differenza delle cose dette, e dei documenti presentati alle Commissioni nelle scorse settimane da decine di esperti, associazioni e cultori della materia, il Sostituto Procurato Nazionale, Francesco Curcio e il Procuratore Nazionale, Franco Roberti hanno "espresso un parere sui progetti di legge". Per quanto riguarda la legalizzazione della cannabis, purché avvenga con la creazione di un monopolio e scongiuri il consumo associato, Curcio e Roberti esprimono parere favorevole. "Negli ultimi 20/25 anni si stima che in termini assoluti in Italia le narco-mafie abbiano disposto di un patrimonio "ripulito" presente sui mercati finanziari, immobiliari e mobiliari, pari a circa 400 miliardi di euro. Un patrimonio che, sulla base dei dati forniti dalle Nazioni unite, si incrementa di 20 miliardi di euro di anno in anno". Il "parere" della Direzione Nazionale Antimafia segnala che "le mafie nazionali e internazionali godano di una posizione di sostanziale monopolio nella gestione dei traffici di stupefacenti" ivi compresa quella della cannabis e che "la crescente domanda di cannabis ha trovato una pronta risposta, nella straordinaria, nuova, produzione afgana" e non, come si pensava, nella produzione diffusa in Europa. La Direzione Nazionale denuncia inoltre che "il traffico di stupefacenti - compreso quello della cannabis - alimenta e moltiplica le risorse finanziarie delle organizzazioni di tipo mafioso (nazionali e non) e dunque, fra l’altro, la loro capacità di produzione della cannabis"; relativamente al racconto afgano, si ritiene che sia "controllata da gruppi fondamentalisti e terroristi. Il che equivale a dire che la produzione di cannabis è una delle fonti di finanziamento del terrorismo". Segue una lista di sequestri di quantitativi che, in Italia, sono di 100-150 volte superiori a quelli di eroina e cocaina e addirittura di 8000 di quelli delle droghe sintetiche: "Si sequestra in misura infinitamente più ampia la sostanza meno dannosa rispetto a quelle ben più nocive se non letali". La Direzione Nazionale entra poi nel merito del testo unificato a prima firma Giachetti articolando ulteriormente il proprio parere favorevole auspicando che il circuito penale resti l’extrema ratio anche per chi dovesse violare la nuova normativa. Con 300 parlamentari che hanno sottoscritto proposte per la regolamentazione legale della marijuana, un iter ormai incardinato alla Camera, una raccolta di firme su una legge d’iniziativa popolare per la legalizzazione della cannabis e questi auspici così autorevoli, cosa aspetta il Governo a prender posizione? Coltiva la cannabis per curarsi, è in carcere da 4 mesi di Riccardo Magi* e Antonella Soldo** Il Dubbio, 6 luglio 2016 Fabrizio Pellegrini, pianista di 47 anni, dal fisico estremamente esile, malato di fibromialgia, si trova recluso nel carcere di Chieti da circa un mese per aver coltivato 4 piante di cannabis nel suo appartamento. Le usa per curarsi. Mentre la Camera dei deputati si appresta finalmente ad avviare la discussione di un disegno di legge per la legalizzazione della cannabis, nel Paese si continua a faticare per liberarsi degli effetti letali di decenni di politiche proibizioniste sulle vite dei consumatori, e persino dei pazienti. Come Radicali, infatti, abbiamo costantemente denunciato che in ambiti inerenti la libertà e il diritto di cura - come quello della cannabis terapeutica - il proibizionismo mostrasse il proprio cortocircuito. Ed è proprio tra i malati - e tra i loro amici e familiari - che il fronte per la legalizzazione ha trovato i più strenui attivisti negli ultimi tempi. Ovvero tra persone che hanno vissuto e vivono sulla propria pelle, e su quella dei propri cari, le contraddizioni di un sistema che risponde con la pena e la sanzione a quello dovrebbe essere un semplice diritto di scelta, o di cura. Questo groviglio di contraddizioni si incarna talvolta in maniera feroce, in storie come quella di Fabrizio Pellegrini. Pianista di 47 anni, dal fisico estremamente esile, malato di fibromialgia, che si trova recluso nel carcere di Chieti da circa un mese per aver coltivato 4 piante di cannabis nel suo appartamento. Non è la prima volta che Pellegrini vive l’esperienza del carcere: dal 2001 a oggi sono stati aperti ben 8 procedimenti a suo carico per lo stesso reato: coltivazione di cannabis, sempre (quattro-cinque piante). Procedimenti che si sono risolti a volte con gli arresti domiciliari altre con la reclusione: in un caso per oltre 10 mesi. La fibromialgia - di cui soffre dal 1999 - è infatti una malattia connotata da una sofferenza cronica del sistema immunitario, che negli stadi avanzati, come appunto quello di Pellegrini, causa l’erosione lenta e progressiva delle articolazioni, con un dolore incessante, soprattutto alla colonna vertebrale, e la conseguente impossibilità di riposare, di dormire. Quasi per caso Pellegrini scopre che l’assunzione di cannabis gli consente di recuperare una maggiore mobilità e un po’ di sonno. Ma rifornirsi al mercato nero costa, e oltretutto la qualità risulta scadente, così Pellegrini comincia a coltivare delle piante sul suo balcone. E così cominciano e si susseguono gli arresti, le perquisizioni, gli ingressi in carcere, i procedimenti. Ma nonostante le difficoltà, le umiliazioni, le complicazioni il dolore è troppo forte e non appena fuori Pellegrini ricomincia a coltivare. Nel 2007, poi, in Italia il thc, principio attivo della cannabis, viene ammesso in terapia e qualcuno gli consiglia di cercare un medico che gli prescriva il farmaco. Dopo vari tentativi ottiene una prescrizione. Peccato, però che per avere la prima fornitura, sufficiente per un solo mese di terapia, si trova costretto a sborsare circa 500 euro. La prima volta riesce a mettere insieme i soldi grazie a una colletta, ma la spesa per la terapia va ben oltre la portata delle sue finanze. Così decide di tornare a coltivare, sperando di potersi godere il raccolto prima del prossimo arresto, che puntuale arriva qualche mese dopo. Oggi si trova nuovamente in carcere, dove le sue condizioni di salute sarebbero incompatibili con la detenzione. Andrea Trisciuoglio, segretario dell’associazione Lapiantiamo e Rita Bernardini, che gli hanno fatto visita, lo hanno trovato in stato di grave sofferenza. Eppure una soluzione ci sarebbe, e sarebbe anche abbastanza semplice. Negli ultimi due anni in Abruzzo le cose sono cambiate ed è stata approvata una legge regionale tra le più avanzate del nostro paese. Una legge che prevede che il farmaco sia a carico del servizio sanitario regionale, quando il trattamento cominci in ospedale. A questo scopo, il consiglio regionale abruzzese ha addirittura predisposto un fondo annuo di 50mila euro. Ci vorrebbe un medico, uno specialista ospedaliero che avvii il trattamento in una struttura pubblica e prescriva la prosecuzione di trattamento a casa. Talmente banale, come soluzione, che è imbarazzante per il nostro Stato, ma che la dice lunga sul percorso di liberazione da pregiudizi e tabù su questa sostanza. Insomma: si faccia avanti un medico. Ma si facciano avanti anche le istituzioni, perché Fabrizio Pellegrini sia scarcerato al più presto, come chiedono anche i compagni dell’associazione radicale "Mariateresa Di Lascia", che hanno annunciato l’avvio di un satyagraha. Insieme rilanceremo la lotta nonviolenta e continueremo a raccogliere le firme sulla legge di iniziativa popolare della campagna Legalizziamo! (www. legalizziamo. it) che come Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni abbiamo promosso in collaborazione e con il sostegno delle più importanti realtà antiproibizioniste. Una proposta di regolamentazione tra le più avanzate del consumo, della produzione e del commercio di cannabis - per contrastare davvero le narcomafie - che prevede anche il più ampio accesso possibile alla cannabis terapeutica. Porteremo avanti la nostra lotta fino a che il parlamento non si assumerà le proprie responsabilità e condurrà il nostro paese fuori da questi anni bui. Per Fabrizio Pellegrini e per tutte le vittime del proibizionismo. *segretario di Radicali Italiani *membro della Direzione di Radicali Italiani Ungheria: nuovo referendum sui migranti (e contro Bruxelles) di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 6 luglio 2016 "Volete che l’Unione Europea sia autorizzata a decidere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento?". Il quesito referendario al quale gli ungheresi saranno chiamati a rispondere il prossimo 2 ottobre allude in maniera neanche troppo velata a un argomento caro al premier nazionalista Viktor Orbán: l’ingerenza di Bruxelles in materie di competenza degli Stati e la violazione della sovranità nazionale. Su un tema delicato come l’immigrazione, che nell’ultimo anno ha ridato slancio e ambizione ai demagoghi d’Europa, l’ennesimo ricorso al voto popolare è un colpo alla prospettiva di una maggiore integrazione e alle strutture decisionali comunitarie che ne escono delegittimate e indebolite. Il referendum interviene sullo schema di ripartizione dei richiedenti asilo proposto dalla Commissione e approvato dal Consiglio dei capi di Stato e di governo. È il noto piano per ricollocare in due anni 160 mila profughi da Italia e Grecia: 40 mila rientrano in un programma di accoglienza su base volontaria, 120 mila vanno trasferiti attraverso il sistema delle quote obbligatorie. Il sistema, che finora ha portato a poco più di duemila ricollocamenti, è stato subito contestato da Budapest e dall’intero blocco centro-orientale, dov’è montata la retorica dell’invasione islamica e del pericolo dell’assimilazione culturale che non esita a sovrapporre terrorismo e immigrazione. Ironie della Storia, il 2 ottobre si ripete anche il secondo turno delle presidenziali austriache, come disposto dalla Corte costituzionale dopo che l’ultradestra ha denunciato irregolarità nella conta delle schede. Lo scorso maggio, il candidato dell’Fpö Norbert Hofer aveva sfiorato la presidenza e ceduto il passo all’ambientalista Alexander Van der Bellen. Tutto da rifare. Nel frattempo è arrivato il ciclone Brexit. Altro referendum, con il 51,9% di voti a favore dell’uscita del Regno Unito dalla Ue. Da Vienna a Londra, il grande tema di questa campagna elettorale destinata a durare almeno fino alle presidenziali francesi e alle elezioni federali tedesche del 2017 in un clima politico sempre più polarizzato, è l’immigrazione. L’Ungheria, Paese di dieci milioni che nel 2015 ha visto 400 mila ingressi e dovrebbe accogliere 1.294 profughi, ha presentato ricorso contro il piano quote alla Corte di giustizia europea insieme alla Slovacchia, attuale presidente di turno Ue. Malgrado lo schieramento di esercito e polizia, le barriere di filo spinato al confine e le nuove regole sulle espulsioni dei clandestini, quest’anno sono entrate illegalmente oltre 17 mila persone. La marcia non si ferma. Siria: Amnesty "abusi agghiaccianti dei gruppi di opposizione sui civili" di Roberto Prinzi Il Manifesto, 6 luglio 2016 Siria. In un nuovo rapporto l’organizzazione raccoglie le testimonianze di residenti di Idlib e Aleppo: gruppi di opposizione sostenuti dall’Occidente torturano, rapiscono, uccidono. Alcuni gruppi di ribelli siriani sono responsabili di violenze e violazioni dei diritti umani simili a quelle compiute dal governo del presidente siriano Bashar al-Asad. La denuncia arriva da un nuovo rapporto di Amnesty International pubblicato ieri. Nel suo studio - che si basa su 70 interviste fatte ai civili che vivono e lavorano nella provincia settentrionale di Idlib e in alcune zone di Aleppo controllate dall’opposizione - Amnesty documenta un uso "agghiacciante" della tortura, dei rapimenti e delle uccisioni sommarie da parte dei ribelli. Le violenze e le violazioni dei diritti umani, scrive nel suo rapporto Amnesty, sono state compiute dal 2012 al 2016 da cinque gruppi armati (i salafiti degli Ahrar ash-Sham, Nureddin Zinki, il Fronte del Levante, la Divisione 16 e i qàedisti di an-Nusra). Alcuni di questi, sottolinea l’organizzazione, sono formazioni sostenute dagli Stati Uniti, dalle potenze europee e dai Paesi del Golfo che operano nel nord della Siria. Secondo il lessico utilizzato a Bruxelles e a Washington, sono in pratica alcune di quelle forze "moderate" su cui bisogna investire per un futuro migliore per la Siria. Il rapporto documenta il rapimento di almeno 24 persone: attivisti, membri di minoranze etniche e religiose, così come di tre bambini, due dei quali risultano ancora dispersi. Nel suo studio, inoltre, Amnesty denuncia le uccisioni sommarie (a volte anche in pubblico) di combattenti pro-Asad ("un crimine di guerra", sottolinea l’ong inglese) e le minacce e violenze subite da alcuni attivisti per aver osato criticare il potere delle formazioni ribelli. Alcuni di loro hanno raccontato alla ong di essere stati sospesi per ore per i polsi o di essere stati messi all’interno di un pneumatico con le mani legate dietro la schiena e poi di essere stati ripetutamente colpiti. Metodi di tortura che, sottolinea Amnesty, non sono diversi da quelli usati dal governo di Damasco. Queste formazioni armate avrebbero arrestato e detenuto anche avvocati, giornalisti e minori perché accusati di aver commesso atti giudicati "immorali". Duro è nel suo giudizio Philip Luther, direttore del programma del Medio Oriente per l’organizzazione: "Alcuni civili nelle aree controllate dai gruppi armati di opposizione avevano visto all’inizio con favore la presenza [dei ribelli] rispetto alla gestione brutale del governo siriano. Tuttavia, le loro speranze sono svanite a poco a poco che queste formazioni hanno preso la legge nelle loro mani e hanno commesso gravi violenze". "Molti civili - aggiunge Luther - vivono costantemente nella paura di essere rapiti se criticano la condotta dei gruppi al potere o non riescono a rispettare le dure leggi che hanno imposto (nelle aree da loro controllate)". "Ad Aleppo e Idlib - conclude - i gruppi armati hanno mano libera per commettere impunemente crimini di guerra e altre violazioni del diritto umanitario". Amnesty invita la comunità internazionale a "fare pressioni sui gruppi armati per porre fine a tali abusi e a rispettare le leggi di guerra". Le potenze regionali - conclude lo studio di Amnesty - devono fermare i rifornimenti di armi o altre forme di sostegno a qualunque fazione che compie questi atti che sono contrari al diritto internazionale. Sudafrica: Pistorius condannato a 6 anni di carcere per l’omicidio doloso della fidanzata di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 6 luglio 2016 Oscar Pistorius è stato condannato a 6 anni di carcere per l’omicidio doloso della fidanzata Reeva Steenkamp, uccisa con quattro colpi di pistola la notte di San Valentino del 2013. Il giudice Thokozile Masipa ha riconosciuto le attenuanti richieste dal legale del campione paralimpico evitandogli così una pena più severa, dato che, codice penale alla mano, il 29enne sudafricano avrebbe dovuto scontare 15 anni di reclusione. "Credo che una lunga condanna non sia giusta, ha già trascorso del tempo in carcere e ai domiciliari ed è un ideale candidato per un programma di riabilitazione" - ha giustificato la sentenza la togata sudafricana. Una sentenza lieve per Oscar Pistorius che sperava addirittura di farla franca, non andando in carcere ma in un ospedale psichiatrico, ma la togata sudafricana non ha ceduto alle richiesta della difesa. In ogni modo il campione paralimpico, in caso di buona condotta potrebbe essere già fuori tra 2 anni dopo aver scontato un terzo della pena. Questo significherebbe che a 32 anni l’ex corridore avrebbe ancora tutta una vita davanti. Diversi fattori hanno giocato a favore di una sentenza mite: "Pensava che un ladro fosse entrato in casa ed essendo senza protesi si è sentito vulnerabile, ha sparato non 1 ma 4 colpi di pistola sapendo che c’era qualcuno in bagno. Subito dopo aver scoperto che si trattava di Reeva ha fatto di tutto per salvarla, anche se invano. Non concordo con il pm che Pistorius dal giorno dell’omicidio ad oggi non ha provato rimorso. Ha cercato in varie occasioni di comunicare con i genitori della vittima e ha chiesto pubblicamente scusa in questa aula di tribunale. Non ha sparato volendo uccidere intenzionalmente Reeva".