Le menzogne del "Fatto" contro il Sottosegretario Gennaro Migliore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 luglio 2016 Accusato di aver proposto Skype per il 41bis, ha invece parlato di diritti umani. Diamo Skype ai mafiosi. Questa è stata l'apertura in prima pagina del Fatto Quotidiano dell'edizione di sabato. Affermazione che l'articolo attribuisce a Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia. Secondo l'autore dell'articolo lo avrebbe detto durante la conferenza stampa all'indomani della sua visita - documentata da Il Dubbio - al carcere di L'Aquila dove c'è anche una sezione dedicata al carcere duro. Aveva sì parlato del 41 bis, Migliore, ma in altri termini: "Fermo restando che ci debba essere una piena applicazione del principio per cui il 41 bis è stato pensato - aveva affermato Migliore - ossia l'interruzione dei rapporti e dei legami tra le organizzazioni criminali e i loro capi, bisogna fare una riflessione, così come è emerso anche dagli Stati Generali dell'Esecuzione Penale, su come ci possa essere una maggiore flessibilità rispetto all'applicazione di determinati aspetti di questo regime detentivo". Gennaro Migliore, all'indomani dell'uscita dell'articolo del Fatto Quotidiano - e dell'editoriale di Travaglio che riportava la notizia non veritiera e tirava fuori dal cilindro la solita trattativa stato-mafia dichiarandola ancora in atto - è stato costretto a smentire nonostante l'evidente falsità della notizia: "Nella mia intervista a seguito della visita del carcere de L'Aquila ho parlato ovviamente del regime del 41bis, ribadendo il fatto che esso sia uno strumento indispensabile dell'esecuzione penale. Ho anche ribadito, e lo rivendico con convinzione, che l'applicazione rigorosa del 41bis deve avvenire in un contesto di rispetto dei diritti costituzionali e dei diritti umani. Ne sono convinto e questa è la posizione emersa anche dagli stati generali dell'esecuzione penale, dalle dichiarazioni delle massime autorità dello stato". Il sottosegretario chiosa: "Ma è forse proprio questo il delitto per Il Fatto e per il M5S, che considerano a quanto pare i diritti umani dei pretesti quando non addirittura dei favori ai mafiosi. Tuttavia, nell'articolo de il Centro (giornale abruzzese che riportava un resoconto della visita) era riportata una mia frase sull'uso di skype che, se ci fosse stata buona fede da parte del Fatto, sarebbe stata chiarita dalla mia precisazione, ovvero che quella parte del discorso era ovviamente riferita ai detenuti cosiddetti comuni (per altro presenti anche nel carcere dell'Aquila), al punto tale che ho fatto gli esempi di carceri dove questa opzione è attiva, come Bollate". E conclude: "Allora, in un mondo reale, dovrebbe essere il Fatto a provare la veridicità di una frase che non ho mai pronunciato (ci sono anche delle registrazioni audio e video che sono conservate dai colleghi giornalisti) e non io a smentire quello che non ho mai detto. Ma siamo nel mondo della calunnia a cuor leggero, della batteria degli insulti tirati a caso. Per altro il vero danno, per ottenere un po' di polemica estiva con l'esecutivo, è disinformare, coinvolgere le associazioni che fanno un lavoro eccellente su argomenti che non esistono". Ad esprimere solidarietà a Gennaro Migliore è stata l'esponente del partito radicale Rita Bernardini: "Crocefisso perché ha detto parole (peraltro, timide e insufficienti) sulla tortura del 41-bis (regime carcerario illegale, anti-costituzionale, violatore di diritti umani fondamentali). Tutta la mia solidarietà a Gennaro Migliore". E ha ricordato la relazione alla proposta di modifica del 41 bis che presentò con i suoi colleghi radicali della scorsa legislatura. Spieghiamo nel dettaglio in che cosa consiste l'utilizzo di skype. Si tratta di una legge che da più di un anno è stata poco applicata. È una realtà che esiste in poche carceri. Secondo l'ultimo rapporto di Antigone sulla situazione carceraria, solo in due carceri i detenuti possono telefonare via skype ai familiari: percentuale di attuazione della legge pari all'1,03 per cento. Il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria aveva emanato la circolare del 2 novembre 2015, a firma di Santi Consolo, indirizzata a tutti i direttori degli istituti penitenziari per dare il via libera all'utilizzo di Skype. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, verificato che sono sempre più numerose le iniziative di natura trattamentale che richiedono l'utilizzo delle moderne tecnologie informatiche nel campo del lavoro, dell'istruzione e formazione e nella gestione del servizio di biblioteca interno e considerato che l'esclusione dalla conoscenza dell'utilizzo della tecnologia potrebbe costituire un ulteriore elemento di marginalizzazione per i ristretti, aveva stabilito otto punti: i detenuti possono accedere ad internet solo nelle sale comuni dedicate alle attività trattamentali, con esclusione delle stanze di pernottamento; la navigazione è consentita verso siti selezionati in funzione delle esigenze legate ai percorsi trattamentali individuali; è consigliabile la presenza di un tutor di sostegno durante le attività, adeguatamente formato dagli operatori specializzati presenti in tutti i Provveditorati Regionali; i controlli sull'hardware, sul software e sulla navigazione devono essere garantiti periodicamente; l'accesso deve essere effettuato su rete separata rispetto a quella dell'istituto ed esclusivamente mediante collegamento via cavo: per cui non è permesso il Wi-Fi e i dispositivi Usb; l'accesso a internet è consentito nei circuiti a custodia attenuata e Media Sicurezza. Per i detenuti appartenenti al circuito Alta Sicurezza o sottoposti a regimi particolari, le Direzioni devono decidere caso per caso. Non è consentito, invece, l'accesso ai detenuti sottoposti al regime ex art. 41-bis; i soggetti pubblici e privati (istituzioni, professionisti, imprese e cooperative) che offrono ai detenuti opportunità trattamentali che prevedono l'utilizzo di Internet devono essere informati sulle modalità individuate; la direzione dell'Istituto deve eseguire tutte le verifiche sull'affidabilità dei soggetti esterni e dei detenuti ammessi al percorso: qualora i controlli dessero esito positivo, verrà trasmessa tempestivamente una segnalazione al Magistrato di Sorveglianza con la proposta di censura. Per finire, su richiesta del vice capo vicario di informazioni sulle eventuali criticità di Skype, il Dap ha chiarito dopo un controllo che non sono emersi particolari problemi, invitando le strutture a implementare l'utilizzo di quel servizio o in alternativa quello fornito da Microsft Lync. Modifica del 41 bis per renderlo più umano visto che è considerato una tortura da tutti gli organismi internazionali, l'utilizzo di Skype per i detenuti comuni. Sono questioni riguardanti il rispetto dei diritti umani, ma nel nostro Paese vengono sempre più spesso scambiati per un favore alle mafie. Lo spauracchio della presunta trattativa mafia-stato è diventato un insostenibile spada di Damocle per lo Stato di diritto. Legnini: pronte le linee guida per una stretta sulle intercettazioni di Ciro Cenatiempo Il Mattino, 5 luglio 2016 Ischia, il vice presidente Csm: equilibrio tra doveri d'indagine e il diritto alla riservatezza. Questione cruciale da tempo, ancora irrisolta, quella dell'uso delle intercettazioni si dibatte tra le prospettive contrastanti - e solo a tratti convergenti - del governo, degli organi di giustizia, dei giornalisti: sono fondamentali, un bubbone, un male necessario, uno mezzo di ricerca della prova del quale non si potrà mai fare a meno, tenendo ben distinti i potenti dai cittadini "normali" e i diversi ruoli dei protagonisti, soprattutto professionisti dell'informazione e giudici? Qualcosa si muove, al di là delle semplificazioni, in un ambito che è un cantiere aperto. L'esecutivo sta studiando una norma, partendo dal fatto che "crede nello strumento investigativo delle intercettazioni e quindi non intende modificarne i presupposti, ma semplificarne l'utilizzo anche per determinati reati come quello della corruzione". Lo ha preannunciato Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, intervenendo ieri al confronto su "diritto di cronaca, diritto alla riservatezza", condotto da Paola Saluzzi nell'ambito dei meeting a coté del premio Ischia di giornalismo, al quale hanno partecipato Giovarmi Legnini, vice presidente del Csm, Luigi Vicinanza, direttore "L'Espresso" e Alessandro Barbano, direttore de "Il Mattino". "Cercheremo di evitare il gossip, le notizie che riguardano fatti privati e non c' entrano nulla con le carte processuali, in un contesto di riferimento che prevede tre linee direttrici - come le ha definite Ferri - che riguardano gli indagati, per escludere i terzi; poi i contenuti e la fase processuale". Insomma bisogna comprendere bene chi è sotto accusa per andare avanti escludendo chi non lo è; puntando solo "sulla rilevanza delle conversazioni che riguardano le carte. Inoltre anche la fase processuale - sostiene Ferri - va valutata bene, per stabilire quando possono essere pubblicate le intercettazioni, mantenendo comunque la riservatezza delle indagini". Si, dunque, all'uso delle intercettazioni e contemporaneamente alla tutela della privacy per i terzi estranei alle indagini ma anche per l'indagato e ai suoi fatti personali estranei ai fatti. Sarà possibile? In ogni caso, i primi passi li hanno compiuti le procure. E ora il Csm sta facendo la propria parte. Infatti "a breve avremo i criteri di riferimento per la magistratura inquirente e la polizia giudiziaria, perché è possibile - ha sottolineato Legnini - conseguire un più avanzato equilibrio tra il diritto-dovere di utilizzare lo strumento delle intercettazioni ai fini di indagine e il rispetto del diritto alla riservatezza. In questo scenario si inseriscono le circolari già emanate delle procure di Roma, Napoli, Torino, Firenze e altre che hanno, in applicazione della disciplina processuale vigente, individuato una modalità interpretativa e applicativa più avanzata, in base alla quale il Csm sta elaborando linee guida conformi". In un contesto nel quale un problema serio è costituito dalla pubblicazione online delle sentenze e dal diritto all'oblio, "tutelare la privacy dei cittadini semplici è molto più importante, e il modello da seguire è quello anglosassone" auspica Luigi Vicinanza che ricorda come "autodisciplina e autoregolamentazione aiutano a eliminare le distorsioni, mentre non sono i giornalisti a fare gossip". "La vergogna per la democrazia ha detto Barbano - è che le intercettazioni impertinenti sono inserite negli atti processuali con la scusa che devono illuminare il contesto e non il fatto-reato. Questa è la porta per entrare in tutto; e certo non si può chiedere ai giornalisti di fare da filtro". Appalti truccati nei ministeri, 24 arresti per riciclaggio e corruzione di Giacomo Pellini Left, 5 luglio 2016 Cinque misure interdittive con obbligo di firma, 24 ordinanze di custodia cautelare - dodici in carcere e dodici ai domiciliari - e il sequestro di 1,2 milioni di euro tra immobili, quote societarie, e conti correnti, oltre a decine di perquisizioni sul territorio nazionale. Sono 50 in tutto gli indagati. Le Fiamme gialle hanno scoperchiato un’organizzazione criminale costituita da politici, imprenditori e funzionari pubblici che si spartivano tangenti per vedersi assegnati gli appalti dei ministeri. Tra i reati contestati nell’ambito dell’operazione "Labirinto" disposta dalla Procura di Roma, c’è l’associazione a delinquere finalizzata alla fronde fiscale, corruzione, riciclaggio, appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. L’associazione, spiegano gli inquirenti, ruotava intorno al faccendiere Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario all’Istruzione del governo Berlusconi Giuseppe Pizza, attualmente segretario della Nuova democrazia cristiana e anch’egli iscritto nel registro degli indagati. Tra le personalità coinvolte vi sono anche due alti funzionari dell’Agenzia delle entrate, finiti in manette, e Antonio Marotta, avvocato e parlamentare dell’Ncd, che commenta la sua iscrizione nel registro degli indagati per traffico di influenza illecita definendosi "oggetto di un equivoco". Marotta è un ex componente del Consiglio superiore della magistratura e siede a Montecitorio dal 2008, prima tra le fila dell’Udc, poi di Forza Italia e dal 2013 nel partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano. Il deputato - per il quale i pm hanno chiesto la custodia cautelare, richiesta respinta poi dal gip - sarebbe il braccio destro del faccendiere Pizza, e avrebbe "coadiuvato" quest’ultimo nello sviluppo di un sistema affaristico criminale portando avanti l’attività di illecita intermediazione. Giuseppe Pizza, secondo i finanzieri, usava uno studio legale vicino al Parlamento per ricevere denaro di illecita provenienza e smistarlo - anche con la collaborazione del parlamentare - attraverso alcune società di comodo a lui riconducibili, che movimentavano grandi somme di denaro tra conti personali e aziendali. Il faccendiere avrebbe adoperato i propri legami personali con personaggi ai vertici della politica e dell’imprenditoria "per aggiudicarsi gare pubbliche, soprattutto favorendo la nomina ai vertici di enti pubblici di persone a lui vicine per ricevere favori di ritorno e facilitazioni". A risalire al nome di Pizza è stato il Nucleo valutario della Guardia di Finanza, che, dopo aver indagato sull’emissione di un gran numero di fatture per operazioni poi risultate di fatto inesistenti, è riuscita a ricostruire la struttura dell’associazione criminale imperniata intorno al faccendiere. Le indagini sono partite nel 2013, dopo le segnalazioni nei confronti di un consulente tributario romano e alcune società a lui riconducibile. Il sistema ricostruito dalle Fiamme gialle ha portato alla luce l’evasione fiscale di grandi somme di denaro - oltre dieci milioni di euro - per costituire fondi neri che sarebbero stati riciclati attraverso la galassia di società che facevano capo attraverso prestanome, a Pizza. Fondamentale sarebbe stato il sostegno assicurato al faccendiere dai due funzionari dell’Agenzia delle Entrate finiti in manette per corruzione aggravata. Al centro dell’indagine anche l’appalto del call center unico Inps-Inail: nella distribuzione di lavori e subappalti il gruppo avrebbe organizzato false fatturazioni per generare fondi neri da riutilizzare in attività di riciclaggio e finanziamento illecito ai partiti. Mazzette e riciclaggio, il rumore dei soldi Il Mattino, 5 luglio 2016 I soldi delle mazzette fanno rumore. Forse è la prima volta, nella storia giudiziaria dell'infinita tangentopoli italiana, che tra le prove a carico degli indagati c'è anche il fruscio delle banconote consegnate e spartite. Nell'inchiesta romana su corruzione e riciclaggio il consulente del pubblico ministero più volte si imbatte in intercettazioni ambientali in cui riesce a cogliere quel fruscio. Che, come si legge nell'ordinanza, "comparato con i rumori della banca dati dei rumori", "molto probabilmente si riferisce al conteggio di carta moneta". È il caso di una intercettazione del 3 marzo 2015. Quel fruscio il consulente lo avverte al termine di un colloquio tra il deputato di Ap Antonio Marotta e l'imprenditore Luigi Esposito, accusato di avergli versato 50 mila euro per essere favorito nell'assegnazione di un appalto. "Il frangente di tempo in cui si collocano i rumori inizia in coincidenza con lo scambio delle ultime battute tra Esposito e Marotta ("va bene dai, va bene rimango qua...") e cessa immediatamente prima che i due escano dalla stanza". Ma il rumore dei soldi il consulente lo avverte anche alcune ore dopo, nello stesso ufficio del parlamentare nel cuore di Roma. Secondo l'accusa, infatti, quel denaro sarebbe stato in parte trattenuto da Marotta e spartito con il faccendiere Raffaele Pizza (fratello dell'ex sottosegretario Giuseppe), e in parte consegnato a un "ignoto pubblico ufficiale" che avrebbe portato a termine l'affare. Il deputato e il faccendiere entrano nell'ufficio alle 19.29. Marotta dice a Pizza di aver ricevuto una persona che gli aveva telefonato all'ultimo minuto e Pizza capisce al volo: "dice che era cretino, cosa credi mica sono scemo". Quindi il deputato, scrivono gli inquirenti, consegna a Pizza ventimila euro. Marotta: "vedi questi qua? Questi sono venti". Pizza: "...questi sono venti". Marotta: "esatto". Il deputato ne prende cinquemila, il faccendiere quattromila. Pizza: "...cinque sono i tuoi e in più..." Marotta: "e questi che erano cinque quattro per te". Il consulente del pm a questo punto annota che, in sottofondo, "si sente sfogliare". È Pizza che conta i soldi consegnatigli da Marotta, il quale - scrivono gli inquirenti - "rimarcava l'inutilità di un nuovo conteggio" ("ma li stai contando di nuovo?"). Pizza gli spiega perché. Voleva evitare la "brutta figura" che aveva fatto in passato, quando in occasione di un altro passaggio di mazzette l'importo era risultato inferiore a quello concordato. "Ho fatto una figura di merda...", si lamenta. Insomma, meglio contare. E mentre in sottofondo il consulente continua a sentire "un rumore compatibile con il conteggio di banconote", Marotta pure si mette a contare: "qua sono cinquanta, quindi, dieci cento e questi so cinquanta euro". E Pizza: "Poi? Altri quattro". Corruzione, il ventre molle della Capitale di Francesco La Licata La Stampa, 5 luglio 2016 Lo aveva detto chiaramente, all’epoca degli arresti sul "Mondo di mezzo", che si trattava soltanto di un "primo step" e che altre indagini sarebbero sopraggiunte. Perché la corruzione, specialmente a Roma ma tutto il territorio nazionale è contagiato, ha fondamenta profonde e ramificate. Così la pensa il procuratore Giuseppe Pignatone, che non ha mai fatto mistero delle sue preoccupazioni per un fenomeno che indebolisce moralmente il Paese e gli sottrae risorse vitali che potrebbero, invece, alimentare la linfa di una ripresa economica che non decolla. Da quando sta sulla poltrona di piazzale Clodio, il procuratore non ha mai distolto lo sguardo "puntuto" sul ventre molle di Roma che, per certi versi, non ha nulla da invidiare alla "palude" siciliana. E non ha risparmiato richiami ed allarmi, rivolti soprattutto al potere politico e al mondo della burocrazia, fino a fargli pensare che il sistema mafioso (anche quello di Mafia Capitale) "non è l’unico problema e non è detto sia il principale". Per descrivere quel mondo, Pignatone spiega che "in qualche modo rispecchia la società romana e, quindi, in quanto tale non può non avere rapporti con la politica". La corruzione è l’arma della mafia, fuori dalla Sicilia dove, invece, usa il linguaggio della violenza più esasperata. Si tratta di un sistema "trasversale", come dimostra la facilità con cui il "Mondo di mezzo" si è rapportato con giunte di destra e di sinistra. Per non parlare delle strategie messe in atto per agganciare "non solo assessori e consiglieri, ma tutta la burocrazia comunale". E non ha risparmiato critiche a certe posizioni autoassolutorie della politica che spesso si è trincerata dietro l’alibi del "non c’è reato". A questi Pignatone ha risposto, anche pubblicamente, con l’ironia del siciliano sornione: "Non è detto che tutto ciò che non è reato sia buona amministrazione". E aggiunge che il sistema di corruzione che imprigiona Roma vive di un "patto che si fonda non sulla paura ma sulla reciproca convenienza". Ma non è solo la corruzione, il problema. Il procuratore ha puntato il dito anche contro una serie di reati che svuotano le casse pubbliche e vanno a riempire quelle di corruttori e corrotti: reati contro la pubblica amministrazione, frodi colossali in danno di enti pubblici e della Ue, grandissima evasione fiscale. Intervenendo in un convegno, Pignatone ha raccontato di essersi imbattuto in un carnet di assegni contrassegnato col marchio "tangenti". "Ormai - ha commentato - è caduto anche il velo del pudore". Fa rabbrividire la sintesi di Pignatone: "Non siamo più di fronte al do ut des fra pubblico ufficiale e corruttore. Oramai c’è un network della corruzione, un sistema estremamente complesso, perché la corruzione è programmaticamente utilizzata da gruppi affaristici come strumento di potere. Non c’è più la diretta corrispondenza tra corruttore e beneficiario dell’attività illecita: per la realizzazione dello scambio si ricorre alle nomine di consulenti, alla scelta degli appartenenti alle commissioni, agli incarichi professionali, ai finanziamenti esplicitamente dichiarati al partito o alle fondazioni". Altro che Cosa nostra. Processo Bossetti: se un indizio scientifico è elevato a "prova regina" di Natale Fusaro* Il Dubbio, 5 luglio 2016 È verosimile che a convincere i Giudici togati e popolari della colpevolezza di Massimo Bossetti sia stata la fascinazione della scienza, essendo la stessa diventata ormai un nuovo totem di facile efficientismo giudiziario. Nel caso di Bossetti, l'uso della scienza è stato dogmatico, consentendo lo sviluppo di quella che Guglielmo Gulotta ha individuato come "visione a tunnel", nella quale una volta entrati è difficile uscirne senza pervenire a una sentenza di condanna. Se viene dato un eccessivo valore alla prova scientifica (anzi, al discusso indizio scientifico elevato a prova), questa deve essere certa e indiscutibile, essendo in gioco la libertà e la vita sociale di una persona. Non ripetibile - Al cittadino Bossetti non è stata garantita la ripetibilità dell'esame che ha consentito di pervenire all'individuazione del codice genetico di Ignoto1 (rectius: all'amplificazione di una traccia mista composta da materiale genetico non meglio specificato commisto con il sangue della povera Yara) successivamente risultato corrispondente al Dna del medesimo. Ciò perché essendo infinitesima la traccia di natura biologica rilevata, non è stato possibile procedere a quanto normalmente avviene, ovvero all'identificazione della natura biologica della traccia medesima, al fine di stabilire se trattasi di sangue, oppure sudore, saliva, liquido seminale o tessuto epiteliale. Tale accertamento può rivelarsi dirimente nei casi in cui sia probabile, come è certamente in quello in disamina, stabilire necessariamente la genesi dell'effetto contaminativo. Nonostante tale contesto fattuale, esigenze investigative hanno consentito comunque di procedere all'estrazione del Dna nei laboratori del Ris di Parma, mediante il ricorso alla procedura di amplificazione di tale infinitesima traccia biologica, il cosiddetto Lcn (Low copy number), con la piena consapevolezza della non ripetibilità dell'accertamento stesso e con altrettanta piena consapevolezza, che tale accertamento avrebbe potuto comportare a futura memoria la possibilità di individuare il titolare di quel codice genetico che non necessariamente è l'assassino di Yara. È infatti ragionevole e scientificamente argomentabile la probabilità che la traccia stessa possa essersi originata semplicemente a seguito dell'utilizzo da parte di Ignoto1, e non necessariamente di Massimo Bossetti, di un qualunque mezzo tagliente utilizzato da quest'ultimo in precedenza e sul quale, a causa di un accidentale ferimento nel suo utilizzo e/o una colatura ematica dovuta ad epistassi, possa essersi determinato il deposito di sostanza genetica riconducibile al medesimo. Senza scomodare per il momento la scienza ma fermandoci ad una valutazione del solo dato fattuale c'è tra chi legge chi accetterebbe in silenzio, vestendo i panni di Massimo Bossetti, una condanna basata sul solo fatto che c'è una traccia riconducibile al suo Dna del quale si è chiamati a rendere spiegazione!? Credo che nessuno abbia risposto sì! Chi ha contaminato? - Credo invece che ognuno abbia pensato che Bossetti fa il muratore ed è ragionevole quindi poter immaginare che abbia potuto utilizzare un taglierino prendendolo tra i propri attrezzi o prendendolo tra gli attrezzi di un altro qualunque operario, o ancora, perché effettuando un lavoro a casa di una qualunque persona, abbia utilizzato uno strumento messo a disposizione da quest'ultima, sul quale si è andata a depositare una sua traccia genetica, essendo bastevole ai fini di tale determinismo anche una semplice superficiale abrasione. Elucubrazioni!? Ricorso estremo al principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio!? No! Solo riflessioni, basate su una lettura non assiomatica e dogmatica della scienza. Al riguardo, e solo per notizia, in uno studio condotto da Ricercatori della Sapienza, pubblicato su "Forensic Science International - Genetics", e non certo su settimanali di gossip-giudiziario, è spiegato come non sia per nulla remoto, anzi spesso ricorrente in natura, che la traccia rilevata sulla scena di un delitto non costituisce tassativamente la firma genetica dell'autore del reato, essendo dimostrato e dimostrabile che l'impronta biologica di un individuo può trovarsi su un oggetto o su una persona che addirittura non ha mai toccato quell'oggetto o quella persona, ma sui cui la traccia stessa è stata semplicemente "trasferita" da altri. Il metodo - Se si scomoda la scienza e, come in questo caso il dato tecnico scientifico costituisce l'architrave dell'accusa essendo il resto degli indizi rimasti privi di validità, è necessario che: il "dato" tecnico scientifico risulti immune da qualunque dubbio; lo stesso sia frutto di accertamenti ed esperimenti di laboratorio rispettosi degli standard e dei protocolli condivisi dalla comunità scientifica di riferimento. E che, soprattutto, sia tale da consentire a chiunque e a maggior ragione a chi è destinato a subirne le conseguenze, di poterne verificare la validità anche attraverso il ricorso alla cosiddetta prova di resistenza, come inutilmente e ripetutamente invocato dal cittadino Bossetti e dai suoi difensori. È noto, anche al più sconsiderato degli scienziati, che il laboratorio non offre certezze ma solo probabilità ed in questo caso, di fronte ad un unico indizio di tipo tecnico-scientifico, il peso della scienza avrebbe dovuto essere posto in comparazione con tutti gli altri dati e non invece avere il totale sopravvento su questi. Torniamo allora al laboratorio e diamo pure per scontato, come non si dovrebbe, che il risultato ottenuto, e cioè quello relativo all'individuazione del Dna di Ignoto1, sia un risultato certo e confortante e come tale in grado di lasciare poco spazio a questioni legate a presunte contaminazioni. Sappiamo però che così non è, essendo emerso in dibattimento: l'utilizzo di kit scaduti, la presenza di "alleli chimera", ed altre anomalie che avrebbero dovuto portare all'eliminazione del dato tecnico scientifico stesso, perché inutilizzabile a monte, essendo valido ed imperante al riguardo il principio che se non sono certe le basi, è del tutto inutile avventurarsi alla ricerca di improbabili ed ipotetiche altezze. Continuiamo però per mera ipotesi a voler salvare il salvabile e a voler a tutti i costi dare un senso all'impegno profuso dalla Procura della Repubblica, anche in termini economici, dando pure per scontato che quell'accertamento, ormai irripetibile, possa avere un senso e un significato, accettabile in termini processual penalistici. Studi genetici - Ciò che rimane dubbio dunque, e ciò su cui non sembra essere stato speso grande impegno, è l'aver indagato e/o provato a dare compiuta e certa spiegazione di come il pur incerto Dna di Ignoto1, sia potuto finire sugli indumenti di Yara. Andava pertanto indagato scientificamente e resa doverosa spiegazione, anche solo in termini negativi e di esclusione, e anche solo a titolo di mera ipotesi, che quel Dna ivi rinvenuto, potesse esserci finito per effetto di contaminazione. Al riguardo, va richiamata la notevole mole di pubblicazioni scientifiche sull'argomento. Noti a tutti gli addetti ai lavori sono infatti i contributi basilari del professor Peter Gill "Secondary Dna transfer of biological substances", oltre a quelli specifici sul trasferimento secondario e terziario di Dna pubblicati su "Forensic Science International - Genetics Supplement Series" (01/2013) da Lehmann, Mitchell, Ballantyne e van Oorschot, unitamente a quelli del professore J. M. Butler, nei quali viene spiegato dettagliatamente e scientificamente come possa realmente verificarsi la possibilità di contaminazioni in materia, e cioè come la traccia biologica dalla quale è stato estratto il Dna possa finire sugli indumenti della vittima. Nel caso di Bossetti non risulta che ci si sia premurati di farlo con la certezza che il nostro sistema processuale penale impone, non essendo inverosimile che il muratore di Mapello possa, in un momento antecedente all'omicidio della povera Yara, essersi ferito con un proprio o altrui arnese di lavoro, utilizzato poi da altra persona per commettere il delitto. È questo il vero nodo gordiano del processo appena celebrato, è questo il locus che è rimasto inesplorato, essendo stata liquidata come insostenibile la circostanza dell'epistassi di Bossetti e il fatto che possa esservi stata contaminazione su un attrezzo da lavoro in uso al medesimo o di altrui disponibilità, finito successivamente tra le mani dell'assassino. *Avvocato - Docente di Criminologia nell'Università di Roma "La Sapienza" - Coordinatore Scientifico del Master in Scienze Forensi Cura d’urto sul processo civile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2016 Cura d’urto per la Cassazione, soprattutto sul versante tributario, e per il processo civile. Ma anche misure organizzative con relativi impegni di spesa. Il decreto legge messo a punto dal ministero della Giustizia potrebbe sbarcare questa settimana in Consiglio dei ministri, ma intanto la direzione e le relative misure sono chiare. Il tentativo è quello di affrontare da subito le principali emergenze. A partire da quella della Cassazione segnalata più volte in questi primi mesi di presidenza della Corte da Giovanni Canzio. Così, se quasi la metà delle cause che approdano al giudizio di legittimità è di natura fiscale e va a gravare sulla medesima sezione, allora la soluzione messa in campo prevede l’ingaggio di 70 giudici ausiliari, da individuare tra i consiglieri in pensione che non hanno già compiuto 75 anni. L’incarico avrà durata di 5 anni non rinnovabili con il compito di definire i procedimenti tributari pendenti. E, sempre sul fronte delle risorse, il decreto mette nelle mani di Canzio la possibilità di applicare anche i giudici del massimario alla definizione dei processi in corso. A queste misure se ne aggiungono altre per assicurare la ragionevole durata del ricorso, con norme sulla decisione in camera di consiglio, sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza, sulla correzione e revocazione della sentenza o dell’ordinanza viziata da errore materiale o di calcolo. Quanto alla procedura civile, riprendendo quanto in larga parte già previsto nell’ultimo decreto legge e poi stralciato, si estende l'applicazione del rito sommario di cognizione, che lascia maggiori e più ampi margini di manovra all’autorità giudiziaria,a tutte le controversie, e sono la larghissima maggioranza, di competenza del giudice unico. A snellimento ulteriore delle procedure è poi ammessa la produzione di dichiarazioni scritte raccolte dal difensore che ne attesta l’autenticità (per incentivarne l’utilizzo, il ricorso a dichiarazioni scritte viene considerato alla stregua di rimedio preventivo per la legge Pinto), come pure, davanti al giudice unico, l’introduzione del procedimento attraverso ricorso. Con il taglio dei tempi, escludendo la previsione astratta di scadenza obbligatorie, si punta a una riduzione immediata dei processi civili. Un’utopia? Non tanto, se si tiene conto nel 2014 la durata media dei procedimenti civili introdotti con rito sommario è stata di 535 giorni a fronte dei 900 giorni dei procedimenti avviati con rito ordinario. Se poi si guarda alle classifiche internazionali sull’efficienza dei sistemi giudiziari, prima tra tutte quella messa a punto da Doing Business, l’impatto sarebbe assai significativo. Il taglio dei tempi di durata delle cause porterebbe un netto miglioramento della posizione dell’Italia, che passerebbe dal 111esimo posto al 42esimo. Con l’obiettivo di ridurre i tempi di copertura dei posti vuoti in organico negli uffici giudiziari si introduce una nuova regole nei concorsi per diventare magistrato, in base alla quale sarà reso disponibile il 10% in più dei posti messi a concorso per i candidati risultati comunque idonei alla selezione. A venire ridotto, a 12 mesi, sarà poi il periodo di tirocinio per chi ha superato in concorso negli anni 2015 e 2015. Il ministero della Giustizia viene poi autorizzato all’assunzione per il triennio 2016-2018 di 1.000 amministrativi. Omicidio stradale, per le Procure il sequestro del veicolo è sempre necessario di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2016 Le Procure si muovono per dettare istruzioni su omicidio e lesioni personali stradali. Una conseguenza della severità della legge che ha introdotto questi reati (la 41/2016), con pene pesanti per i casi più gravi (soprattutto se si pensa che si riferiscono a reati colposi, dunque non volontari) e un’estesa previsione dell’arresto in flagranza. In questo scenario - che responsabilizza particolarmente le forze dell’ordine, dato che gli accertamenti svolti nell’immediatezza di un incidente sono fondamentali per incidere sia sulla libertà personale dell’indagato sia sull’esito del processo - sempre più Procure stanno sentendo l’esigenza di produrre delle circolari interpretative, per avere uniformità di applicazione. Ad oggi le principali che sono note integralmente sono cinque, emanate dalle Procure di Trento, Udine, Sondrio, Bergamo e Firenze. Pur con qualche diversa veduta, emergono alcuni punti fermi. Uno di questi è l’importanza dei rilievi tecnici subito dopo l’incidente. In quest’ottica, l’immediato sequestro probatorio dei veicoli viene caldeggiato da tutte le circolari ("non solo opportuno, ma anche necessario", secondo il procuratore di Udine, Antonio De Nicolo), per poter effettuare, in tempi e brevi e con garanzia di attendibilità, gli accertamenti necessari: sia per scongiurare l’irrogazione di pene severe senza i dovuti supporti probatori, sia per determinare l’esistenza di concause che possono far scattare una significativa attenuante della pena (fino alla metà). Una concausa può essere il concorso di colpa della vittima, ma anche altre condotte colpose indipendenti, quali - esemplifica il procuratore di Sondrio, Claudio Gittardi - la responsabilità del personale sanitario nel caso di incidente stradale che abbia determinato inizialmente il ferimento della vittima successivamente deceduto. Tutti d’accordo nel ritenere che le nuove norme, nelle ipotesi aggravate, si applichino ai soli conducenti di veicoli a motore. Anche gli altri utenti della strada possono invece rispondere di omicidio e lesioni stradali "semplici" (commi 1 degli articoli 589-bis e 590-bis del Codice penale). Altro punto comune è l’invito alle forze dell’ordine a consultare il pm prima di procedere all’arresto in flagranza. Ciò in quanto - come spiega il procuratore aggiunto di Bergamo, Massimo Meroni - pur essendo l’arresto un atto proprio della polizia giudiziaria, è al pm che ne compete la convalida ed è dunque bene che da subito vengano condivise tutte le circostanze rilevanti. Accordo anche sulla prova dell’assunzione di droghe, che non si può dimostrare su base sintomatica - anche se l’interessato rifiuti di sottoporsi ad accertamenti medici - e sull’effettiva alterazione psicofisica al momento della guida, su cui unicamente può avere rilievo la prova testimoniale. Sostanziale identità di vedute sulla possibilità di contestare in concorso i reati aggravati dall’assunzione di alcol o droghe e quelli di guida dopo l’assunzione stessa (articoli 187 e 186, comma 2, lettere b e c del Codice della strada): unica eccezione la circolare di Bergamo, che li ritiene assorbiti ai sensi dell’articolo 84 del Codice penale. Concordemente si ricorda che, se la prognosi delle lesioni rimane sotto i 40 giorni, la competenza è del giudice di pace e la procedibilità a querela: di qui l’opportunità che le forze dell’ordine chiedano alla persona offesa un aggiornamento sui postumi, in assenza del quale si può ritenere che le lesioni siano rimaste semplici. Incidenti stradali, il reato si estingue solo risarcendo anche i parenti della vittima di Raffaella Caminiti e Paolo Mariotti Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2016 Corte di cassazione, sentenza 19 febbraio 2016, n. 20542. Nel procedimento penale davanti al giudice di pace è prevista dall’articolo 35 del Dlgs 274/2000, una speciale causa di estinzione del reato (o, secondo parte della dottrina, di non punibilità) quando l’imputato, prima dell’udienza di comparizione, abbia proceduto attraverso il risarcimento o le restituzioni, nonché l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato contestatogli, a riparare il danno cagionato alla vittima. Le attività risarcitorie e riparatorie devono tenere conto anche dei familiari conviventi del danneggiato. Lo ha stabilito la Quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 20542/2016. La norma prevede che ci debba essere una valutazione di tali attività da parte del giudice, che per riconoscerne l’effetto estintivo deve ritenerle idonee, in concreto, a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. Nel caso deciso dalla Cassazione, il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio ricorreva avverso la sentenza con cui il giudice di pace aveva dichiarato di non doversi procedere per essere il reato (lesioni colpose gravissime, cagionate per violazione delle norme sulla circolazione stradale) estinto per intervenuta condotta riparatoria. Nel ricorso il pm denunciava, tra l’altro, la violazione di legge e il vizio di motivazione, considerata la non integralità del risarcimento alla costituita parte civile. L’integralità è condizione prescritta dal Dlgs 274/2000 per pronunciare l’effetto estintivo. La Cassazione ha ritenuto che il giudice di merito si sia limitato a valutare congruo il risarcimento del gravissimo danno non patrimoniale procurato alla persona offesa, senza tenere in alcuna considerazione il danno riflesso subito dai familiari conviventi, patrimoniale e non. Si configura - secondo la Corte - la violazione di legge e la "irragionevolezza del ragionamento", non potendosi considerare eliminati il danno e le conseguenze dannose del reato, stante la pluralità degli interessi lesi non ristorati nella loro integralità. Precisa la sentenza che ciò non significa che la persona offesa debba prestare il proprio consenso, essendo legittima la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno quando, pur a fronte del dissenso manifestato dalla persona offesa per l’inadeguatezza della somma di denaro posta a sua disposizione dall’imputato quale risarcimento, il giudice ritenga la condotta riparatoria dell’imputato satisfattiva (Sezioni unite penali, sentenza 23 aprile 2015, n. 33864). Rilevato che il giudice di pace ha riconosciuto l’esistenza di danni ulteriori, rimasti insoddisfatti, e inoltre escluso che la limitazione risarcitoria sia giustificata da un concorso di colpa della vittima, la Cassazione annulla con rinvio la decisione impugnata, per nuovo giudizio, che tenga conto dei seguenti princìpi di diritto: "a) la formula estintiva di cui al citato art. 35, impone al giudice la previa ragionata verifica in ordine all’integralità del risarcimento del danno patrimoniale e non nei confronti di tutti i soggetti che ne abbiano diritto, così che restino eliminati il danno e le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato; b) l’eventuale concorso di colpa della vittima deve ricavarsi dalle emergenze probatorie legittimamente utilizzabili; c) un tale concorso, ove sussistente, motivatamente quantificato, deve incidere proporzionalmente su tutte le voci di danno e nei confronti di tutti i danneggiati". In definitiva, l’intervenuto risarcimento del danno non è di per sé sufficiente per poter ritenere eliminate le conseguenze dannose/pericolose del reato né soddisfatte le esigenze di riprovazione e di prevenzione connesse al fatto tipico, se il giudice di pace non accerta in concreto l’esaustività della condotta riparatoria posta in essere dall’imputato, mediante il ristoro di tutti gli interessi lesi, non solo quelli della vittima primaria, dandone specifico atto nella motivazione della sentenza. Alcol test non valido se l’etilometro segna volume insufficiente di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2016 Corte di cassazione, sentenza 7 giugno 2016, n. 23520. La prova dello stato di ebbrezza rischia di non essere raggiunta quando il conducente soffia un volume d’aria insufficiente. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 23520 dello scorso 7 giugno, che ha richiamato l’attenzione sull’importanza di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio il superamento delle soglie penalmente rilevanti. Per i giudici la dicitura "volume insufficiente" riportata sugli scontrini dell’alcoltest può non bastare ad affermare la responsabilità penale del conducente, anche in presenza di elementi sintomatici, quali l’alito vinoso, l’andatura a zig zag e gli occhi lucidi. La sentenza trae origine da un accertamento con etilometro in cui gli scontrini di entrambe le prove previste dalla legge recavano la dicitura "volume insufficiente", pur indicando la quantità di alcol presente nel sangue. Il caso è tutt’altro che improbabile e negli anni ha portato a interpretazioni giurisprudenziali difformi. Sempre la Suprema Corte, con la sentenza n. 19161 del 9 maggio scorso, aveva ritenuto valido l’accertamento pur con volume insufficiente, che non avrebbe di per sé escluso il corretto funzionamento dell’etilometro. Con la sentenza del 7 giugno, invece, la Corte ha rimarcato l’importanza di dimostrare in giudizio il corretto funzionamento dell’etilometro, ritenendo "tautologica" la motivazione per la quale la sola formulazione del dato numerico, accanto alla dicitura "volume insufficiente", possa di per sé sola dimostrare il corretto funzionamento dell’apparecchio. È una pronuncia importante, perché sposta anche l’onere della prova a favore del conducente: non sarà l’imputato a dover dimostrare il difetto di funzionamento dell’etilometro, ma l’accusa a provarne l’efficienza. Più rigorosa anche la valutazione degli indici sintomatici. Se è vero che la prova del reato può essere fornita senza uso di etilometro anche per le ipotesi più gravi -lettere b) e c) dell’articolo 186 del Codice della strada -, questa deve condurre oltre ogni ragionevole dubbio alla conclusione che il conducente abbia superato la soglia più grave. Non bastano alito vinoso e guida incerta a raggiungere la prova se il volume d’aria espirato è insufficiente a determinare la soglia più alta. L’interpretazione appare coerente con l’introduzione dei nuovi reati di omicidio stradale commessi in stato di ebbrezza, che impongono controlli sempre più accurati, visto che l’etilometro da solo non costituisce prova legale, ma impone al giudice di valutare ogni altra circostanza rilevante (Cassazione, sentenza 3 luglio 2012, n. 28388). Nel dubbio delle interpretazioni giurisprudenziali, in tutti i casi in cui anche uno soltanto dei due scontrini rechi la dicitura "volume insufficiente", gli agenti dovrebbero effettuare altri accertamenti, come accompagnare il conducente presso il più vicino comando per ripetere il test. Oppure, in presenza di elementi sintomatici, inquadrare la condotta nell’ipotesi meno grave. La pronuncia non apre tuttavia a condotte intenzionali volte a dribblare la norma penale. Il conducente che volontariamente soffi piano nell’etilometro potrebbe essere ugualmente sanzionato per violazione dell’articolo 186, comma 7, per rifiuto di sottoporsi all’accertamento. Solo l’asma può salvare da una condanna, se documentabile con certificato medico. Per i virus trojan doppio via libera della Cassazione di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI -sentenza 4 luglio 2016 n.27404. Nelle intercettazioni ambientali mediante i virus spia trojan horse, l’autorizzazione del Gip può riguardare la sola tecnica di captazione e non deve individuare necessariamente lo strumento a cui applicarla (tablet, pc, oppure cellulare). L’invadenza della tecnica di intercettazione comunque - considerata la possibilità di monitorare continuativamente l’indagato - è compatibile con il dettato costituzionale e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Sesta penale della Cassazione (sentenza 27404/16, depositata ieri), torna sul tema della nuova frontiera delle intercettazioni - i virus informatici autoinstallanti - inserendo qualche corollario alle Sezioni Unite del 28 aprile scorso, di cui si attendono le motivazioni dopo la contestuale informazione provvisoria (si veda Il Sole 24 Ore del 30 aprile). Nel solco del recente dispositivo, la Sesta conferma la piena liceità dell’"intrusore informatico" quando si indaga sulla criminalità organizzata (nel caso specifico è il clan mafioso di Porta Nuova a Palermo) con l’importante sottolineatura "a prescindere dalla specificazione del luogo in cui la captazione avviene". In sostanza le "ambientali" contro i clan - perché di intercettazioni ambientali tra presenti si tratta in questi casi, e non invece di "telefoniche" - beneficiano di una territorialità molto allargata e non richiedono il sospetto che nei luoghi ascoltati si stia commettendo un reato (limite invece di cui soffrono le normali "ambientali"). Sotto questo aspetto la decisione della Sesta va contro il precedente dello scorso anno della medesima corte (27100/15) e si allinea alle recenti Sezioni Unite, secondo cui il trojan è utilizzabile contro tutte le associazioni criminali, compreso quelle a finalità terroristiche, con il solo limite dei reati commessi in "semplice" concorso di persone - dove resta vietato. Ma nella sentenza della Sesta c’è anche un ulteriore, importante postulato. Una volta aperto il canale trojan su un dispositivo, scrive il relatore, questo continuerà a operare anche se il "portatore" del dispositivo stesso finisce nel frattempo in carcere. I difensori contestavano la circostanza che l’indagato, a cui era stato violato lo smartphone dalla Procura, era stato arrestato dopo pochi giorni, ma il virus aveva continuato a lavorare finendo per incastrare la moglie, considerata la reggente del clan mafioso e narcotrafficante. Per i giudici la ultrattività del telefono hackerato non rappresenta un’"autorizzazione in bianco" ma al contrario significa "che l’ambito di operatività dell’autorizzazione avrebbe dovuto essere commisurato alla pertinenza dello strumento in funzione della prova del reato associativo". Amministratore condominio: appropriazione indebita, prescrizione da cessazione carica di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 4 luglio 2016 n. 27363/2016. L'appropriazione indebita da parte dell'amministratore di condominio non si consuma al momento del singolo prelievo dal conto corrente condominiale bensì al termine del mandato, ed è dunque da questo momento che scatta il calcolo della prescrizione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 27363/2016, respingendo il ricorso del professionista e confermando la condanna a 4 mesi di reclusione, e 400 euro di multa, emessa dalla Corte di appello di Napoli. Nel proprio ricorso il professionista campano aveva sostenuto, tra l'altro, la manifesta illogicità della motivazione con riguardo al termine di prescrizione del reato, "ritenuto decorrere dal momento del passaggio del denaro al nuovo amministratore" e che invece, "in ragione delle particolari modalità esecutive del fatto, avvenuto mediante appropriazioni di somme contanti di importo non superiore ad € 1500,00 doveva ritenersi consumato in occasione dei singoli prelievi con la conseguenza di dovere dichiarare estinti i fatti commessi anteriormente il 6 aprile 2007". Di diverso avviso la Suprema corte che ha richiamato l'orientamento di legittimità secondo cui "il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa e, cioè nel momento in cui l'agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria". Seguendo questa linea la Cassazione (n. 29451/2013), in un caso, ha ritenuto perfezionato il delitto di appropriazione indebita della documentazione relativa al condominio da parte dell'amministratore, non nel momento della revoca e della nomina del successore, bensì in quello in cui "l'agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato "uti dominus" rispetto alla "res". Analogamente, prosegue la sentenza, deve pertanto ritenersi che l'utilizzo delle somme versate nel conto corrente da parte dell'amministratore durante il mandato "non profila l'interversione nel possesso che si manifesta e consuma soltanto quando terminato il mandato le giacenze di cassa non vengano trasferite al nuovo amministratore con le dovute conseguenze in tema di decorrenza dei termini di prescrizione". E difatti avendo l'amministratore la detenzione nomine alieno delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera attraverso operazioni in conto corrente, "solo al momento della cessazione della carica si può profilare il momento consumativo dell'appropriazione indebita poiché in questo momento rispetto alle somme distratte si profila l'interversione nel possesso". L'apparato giustizialista vuole fermare Orlando di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 5 luglio 2016 Dà fastidio chi vuole ristabilire lo Stato di diritto. Le polemiche di questi giorni, sulle dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, in merito al 41 bis dell'ordinamento penitenziario, ci fanno comprendere che l'apparato giustizialista è pronto a contrastare l'impegno del ministro Orlando ad attuare quella rivoluzione culturale necessaria per modificare l'esecuzione penale nel nostro Paese. All'indomani della visita del sottosegretario alla casa circondariale de L'Aquila, Il Fatto Quotidiano ed esponenti del Movimento 5 Stelle, hanno colto l'occasione per ribadire che il "carcere duro" non si tocca e si è tornati a parlare di trattative Stato-mafia, in quanto "ammorbidire il carcere duro, attraverso la scusante (!?) dei diritti fondamentali dell'uomo, è una manovra già vista in passato". L'onorevole Migliore ha immediatamente chiarito che le sue affermazioni sono state travisate, definendo l'articolo, pubblicato in prima pagina e con grande evidenza dal quotidiano, tendenzioso e inqualificabile e le affermazioni e gli attacchi politici, pretestuosi. Oggetto della disputa animosa, in realtà, non è l'abolizione o la riforma del 41 bis, ma le prospettive di un politico che vorrebbe il rispetto dei principi costituzionali e l'applicazione della norma così come è scritta. Non a caso, un quotidiano locale, nel riportare la notizia, raccoglieva le dichiarazioni dell'altro sottosegretario Federica Chiavaroli, che usciva dalla casa circondariale "molto provata" per quello che aveva visto. Il giornalista de Il Fatto Quotidiano non si è preoccupato d'indagare sulle ragioni di quelle dichiarazioni - tra l'altro in parte smentite dal sottosegretario Migliore - ma ha voluto attaccare il Governo definito "del carcere molle", contrapponendo detto termine a "carcere duro". Un umorismo fuori luogo, perché innescato dalle sofferenze altrui. I detenuti, infatti, per alcuni opinionisti, sono carne da macello e quelli che subiscono il regime previsto dall'art. 41 bis devono essere, ancor di più, abbandonati al loro inarrestabile declino fisico e psichico. Solo uomini liberi, che non sono alla ricerca del facile consenso elettorale o di una platea di lettori, possono criticare le modalità con cui viene espiata la condanna in regime di carcere duro. Tra questi certamente gli avvocati. Ma, per tutti, citiamo Papa Francesco, che toccando i temi fondamentali del sistema penale, in modo coraggioso e schietto, senza alcuna possibilità di fraintendimento, con un monito straordinario per le coscienze, la politica e gli operatori del diritto, ha affermato che le condizioni di detenzione carceraria devono rispettare la dignità umana del detenuto e, infine, che le carceri di massima sicurezza per "certe categorie di detenuti" rappresentano "a volte forme di tortura". E vera e propria tortura viene definita la detenzione al 41 bis, nel rapporto della commissione straordinaria per la "Tutela e la promozione dei diritti umani", presieduta dal senatore Luigi Manconi. Il sottosegretario Migliore ha fatto riferimento ai lavori degli Stati generali dell'esecuzione penale, voluti dal ministro Orlando per riformare l'ordinamento penitenziario. Un percorso di studio che ha coinvolto, in 18 Tavoli tematici, più di duecento esperti del settore, per circa un anno e che ha avuto ad oggetto anche il regime detentivo al 41 bis. Nell'atto finale, elaborato dal Comitato Scientifico, si afferma che laddove non sussista alcuna esigenza d'impedire la comunicazione tra il detenuto e la criminalità organizzata, la limitazione all'esercizio dei diritti acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare, rispetto alla privazione della libertà personale, come tale incompatibile con la funzione rieducativa della pena, per come delineata nell'art. 27, comma 3 della Costituzione. Bisognerebbe ammettere - e sarebbe ora che qualche fonte qualificata lo dica pubblicamente - che il carcere duro ha anche una finalità investigativa, quella di "costringere" a collaborare. Ma l'uomo, con la sua individualità e la sua dignità personale, va sempre rispettato anche se condannato per atroci crimini. È questo un valore fondante ed imprescindibile di ogni sistema sociale, che, a maggior ragione, deve essere ricordato ed attuato nel sistema penale, che può dirsi degno di questo nome solo se opera in ragione ed all'interno di un corpus di regole che rispettino una legalità sostanziale e non solo formale. Principi a volte scomodi e spesso non compresi e impopolari, ma il giustizialismo non porta ad alcuna sicurezza sociale e coltiva solo le paure dell'opinione pubblica.. La circostanza che il decreto di applicazione del 41 bis sia disposto dal ministro della Giustizia, anche a richiesta del Ministro dell'Interno, ne aumenta il suo presunto valore di difesa sociale agli occhi dell'opinione pubblica. Va affidato al solo Giudice il potere di applicazione del regime differenziato, su richiesta della Procura della Repubblica, nel contraddittorio delle parti. Si abbia, dunque, il coraggio di affermare che il 41 bis va riformato, perché oggi - non più regime provvisorio, dovuto all'emergenza - rappresenta la debolezza di uno Stato che, non riuscendo a garantire il divieto di comunicazioni tra l'interno di un carcere e l'esterno, ricorre a sopprimere la dignità dell'individuo, umiliandolo e auspicando la sua collaborazione. Strumenti questi indegni di un Paese civile. Le Camere Penali lo sostengono da sempre, come auspicano che finalmente venga abolito l'ergastolo ostativo. Gli Stati generali dell'esecuzione penale sono giunti a questa conclusione ed ai tavoli erano presenti tutti i rappresentanti del mondo giudiziario. Restano, su questi temi, purtroppo, l'assordante silenzio dell'Associazione nazionale magistrati e l'informazione scandalistica. Entrambe contribuiscono al disorientamento dell'opinione pubblica e minano la crescita culturale del nostro Paese che dovrebbe, invece, essere in linea con i principi costituzionali e le direttive europee. *Responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali italiane C'era una volta il giornalismo. Ora c'è il manganello di Piero Sansonetti Il Dubbio, 5 luglio 2016 Le bugie del "Fatto" contro Migliore. Ma questo è ancora giornalismo? Il "Fatto Quotidiano" ha accusato il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore di voler fornire skype (cioè una linea telefonica libera, che viaggia sul web) ai mafiosi, per permettere loro di comunicare con le cosche. E ha avanzato l'ipotesi che questa idea del sottosegretario faccia parte di una nuova trattativa Stato-mafia. Le accuse a Migliore sono state lanciate sabato con un titolo gigantesco in apertura del giornale ("Diamo skype ai mafiosi. Migliore annuncia lo svuotamento del 41 bis") e riprese il giorno stesso con una spericolata intervista al Procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e poi di nuovo il giorno dopo con uno spericolatissimo editoriale di Marco Travaglio. Anche l'intervista a Teresi è stata raccolta direttamente da Travaglio. Tutta questa montatura giornalistica è stata costruita su una clamorosa menzogna, o su un errore colossale e assai imbarazzante. Gennaro Migliore - come dimostrano numerose registrazioni, varie testimonianze e articoli di giornale - non si è neppure sognato di proporre skype per i detenuti al 41 bis. Migliore aveva parlato della necessità di correggere il 41 bis (che è il regime di carcere duro previsto per alcuni prigionieri accusati o condannati per mafia o terrorismo, e contro il quale si è pronunciato persino il Papa) per rispettare la Costituzione ed evitare misure "afflittive" non utili ai fini dell'isolamento dei boss mafiosi, e poi aveva parlato della possibilità di introdurre innovazioni tecnologiche per i carcerati a bassa pericolosità, che già oggi usano il normale telefono e che per legge, da tempo, soni autorizzati a usare skype. Di skype ai mafiosi non si è mai sognato di parlare. Probabilmente l'infortunio giornalistico - molto grave - è dovuto all'ingenuità di un cronista, che aveva ripreso delle notizie pubblicate nel giornale abruzzese "Il Centro" senza però, forse per inesperienza, capirle bene. Si potrebbe dire: succede. Il problema è che, prima della pubblicazione dell'articolo, Gennaro Migliore - ascoltato per telefono - aveva avvertito il "Fatto" dell'errore giornalistico e aveva spiegato di non aver mai detto quelle cose. E ciononostante il quotidiano aveva deciso di pubblicare l'articolo, di pubblicare in prima pagina il titolo che conteneva la menzogna (corredato con le foto di Riina, Provenzano, Bagarella e persino del vecchio Cutolo, che stavano lì a indicare a chi Migliore voleva dare skype...) e di trarre in inganno il Procuratore Teresi chiedendogli di commentare come se fosse vera una proposta falsa attribuita a Migliore. Il quale Teresi, peraltro, rilasciando l'intervista a Travaglio, e cadendo involontariamente nella trappola della falsa notizia, ha anche contravvenuto in modo abbastanza clamoroso alla richiesta di due giorni prima del Procuratore di Palermo, Lo Voi, il quale diffidava procuratori aggiunti e sostituti a non non parlare alla stampa senza autorizzazione. Tutta questa brutta vicenda ci pone due domande. La prima riguarda il perché, la seconda il come. E cioè: perché "Il Fatto Quotidiano" ha deciso di costruire una grossa campagna giornalistica su una grossa menzogna? E poi: come si è ridotto il nostro giornalismo, se non risponde più a nessuna richiesta di informazione ma solo a esigenze politiche di parte, o di schieramento? Alla prima domanda la risposta più probabile è questa: i settori giustizialisti della politica italiana, e cioè quelli vicini al cosiddetto partito dei Pm dei quali "Il Fatto" è il più fedele portavoce, ritengono necessaria una offensiva contro il governo, contro il ministro Orlando e i suoi sottosegretari, perché temono una politica che "civilizzi" il regime carcerario, indebolendo uno degli strumenti più forti in mano alla pubblica accusa che è l'uso del carcere (e della minaccia) per costringere gli imputati a parlare e ad accusare se stessi ed altri. Perché questo stile di indagini possa funzionare bene sono necessari il 41 bis e l'uso intenso della carcerazione preventiva. Anche se il 41 bis è in gran parte in contrasto con la Costituzione e la carcerazione preventiva quasi sempre illegale. Questa strategia del partito giustizialista - di contrasto a ogni rischio di garantismo del governo - in gran parte si esprime attraverso l'uso dei mass media e dei giornali. E i giornali, per adattarsi a questa strategia, sospendono ogni criterio - diciamo così - di verità, o più semplicemente di informazione. La necessità di informare su cose e fatti realmente accaduti viene interamente soppiantata dalla necessità di fare polemica. E il giornalismo scompare, cioè si trasforma in una specie di attività di manganellatura che non ha niente a che fare con l'attività e i compiti dell'informazione. Chissà se l'ordine dei giornalisti, per esempio, ma le stesse organizzazioni sindacali di categoria, hanno qualcosa da dire a riguardo. Se cioè sono interessati a fare qualcosa per fermare una discesa vorticosa della nostra professione, che in questo modo si trasforma da nobile professione intellettuale in un rude mestiere manuale (dove la mano è quella usata per impugnare il manganello...) Lazio: Fns-Cisl; carceri sovraffollate, l'11 luglio manifestazione davanti al Dap lavocedelpopolo.net, 5 luglio 2016 "I dati forniti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) parlano di circa 626 detenuti in più, nelle carceri laziali, rispetto alla capienza effettiva: ossia su 5.267 posti previsti nei 14 istituti del Lazio ne risultano recluse 5.893 persone (di cui 5.496 uomini e 397 donne). Detenute che risultano, rispetto al dato del 30 Maggio scorso, sono un + 18 recluse". A lanciare l’allarme del sovraffollamento delle carceri nella regione è il Segretario Generale Aggiunto Cisl Fns Costantino Massimo che definisce la situazione grave e non più sostenibile. "Anche il dato nazionale - prosegue Costantino - conferma il sovraffollamento con un + 199 detenuti rispetto al mese scorso, infatti, risultano numero 54.072 detenuti rispetto ai 49.701 previsti con un surplus di 4.371 detenuti rispetto alla capienza prevista. Per quanto concerne, invece, la situazione di grave carenza del personale di Polizia Penitenziaria negli Istituti Penitenziari della Regione Lazio ed in particolare in quelli di Velletri e Frosinone, - aggiunge l’esponente della Cisl Fns - maggiormente aggravata dall’apertura di nuovi padiglioni detentivi che, di fatto, hanno elevato i carichi di lavoro; considerato che la presenza di detenuti con problematiche psichiatriche e/o trasferiti per ordine e sicurezza penitenziaria c/o la C.C. Velletri, dove non vi è copertura h. 24 del servizio medico psichiatrico; considerata che la presenza sul territorio della provincia di Frosinone di due R.E.M.S. (Ceccano e Pontecorvo) che di fatto aumentano il carico di lavoro del locale N.T.P., tutte sigle, Sappe - Osapp - Uilpa Pp- Sinappe - Uspp - Fns Cisl - Cnpp - Cgil Fp/Pp Segreterie Regionali, hanno chiesto urgenti interventi atti ad incrementare le piante organiche degli Istituti, considerato che risultano sottodimensionate rispetto alle esigenze reali, anche con riferimento al ruolo degli ispettori e dei Sovrintendenti; altresì il DAP ha chiesto la rivisitazione delle piante organica di tutti gli Istituti del Lazio unitamente a quello di competenza e rientranti sotto la diretta dipendenza del Prap Lazio Abruzzo e Molise che ha già convocato le OO.SS. per il 7 luglio c.a. Allo stato comunque resta confermata la manifestazione unitaria di tutte le sigle sindacali della polizia penitenziaria davanti al DAP il giorno 11 luglio. La Fns Cisl Lazio resta in attesa di sviluppi ma per quanto concerne le piante organiche la posizione è quella più volte ribadita cioè occorre effettuare lo scorporo delle unità extra -moenia e solo così potremmo ottenere piante organiche confacenti con le reali esigenze degli istituti penitenziari del Lazio ma al contempo - conclude - permettere al personale il trasferimento nelle sedi richieste". Palermo: un mestiere ai giovani detenuti, per ripartire facendo cose buone di alessandra turrisi Avvenire, 5 luglio 2016 Riparare il danno commesso, facendo cose "buone". E dentro quell'aggettivo ci sono tutto il profumo e il sapore della pastafrolla e del mandarino, ingredienti indispensabili per realizzare quel sogno dietro le sbarre. È nato dentro l'Istituto penale per i minorenni Malaspina di Palermo il laboratorio di pasticceria "Cotti in fragranza", promosso dallo stesso Ipm, dall'associazione Centro studi Don Calabria e dalla Fondazione San Zeno, con l'obiettivo di insegnare un mestiere ai giovani detenuti e rendere sostenibile il progetto attraverso la vendita dei prodotti da forno. Il laboratorio è attrezzato per produrre circa cento chilogrammi di biscotti alla settimana, per cominciare, e vi lavoreranno cinque giovani detenuti che hanno imparato da zero un mestiere che diventerà una scommessa per il proprio futuro. Il pasticcere Giovanni Catalano ha ideato la ricetta puntando su un biscotto fortemente legato alla tradizione siciliana, fatto con materie prime locali biologiche, e lo chef formatore Nicola Cinà ha seguito i giovani nell'attività di laboratorio. Per creare un prodotto unico nel suo genere si è deciso di realizzare un frollino secco al mandarino tardivo di Ciaculli, detto anche "Marzuddu" perché matura a marzo. In pochi giorni è partita la raccolta di 400 chilogrammi di mandarini in un frutteto messo a disposizione dall'associazione Jus Vitae, su un terreno confiscato alla mafia. Sbucciati, tritate le bucce, conservate per tutto l'anno, i ragazzi hanno deciso di portare i frutti agli ospiti di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, gestita dall'Istituto Don Calabria, e a uno dei centri Caritas cittadini, che gestisce una mensa per senza fissa dimora e migranti, azzerando lo spreco alimentare della catena produttiva. I primi biscotti sfornati e impacchettati sono stati presentati il giorno dell'inaugurazione, ma i responsabili del progetto sperano già a settembre di poterli commercializzare. "La partecipazione dei ragazzi è stata il presupposto fondamentale con cui abbiamo scelto di operare - spiegano Nadia Lodato e Lucia Lauro, parte dell'équipe che coordina il progetto -. I ragazzi hanno subito messo in chiaro di volere sfornare un prodotto gustoso, perché è importante che chi lo assaggia rimanga colpito". E sono stati coinvolti in tutte le fasi del progetto, dalla scelta del nome alla definizione del packaging, proponendo idee per la vendita e la comunicazione: "Se non li gusti, non li puoi giudicare". Il forno è stato donato dall'Anm. Quella del biscottificio è la naturale conseguenza di un percorso intrapreso già da tempo all'interno dell'Ipm. "Siamo certi - sostiene Michelangelo Capitano, direttore del Malaspina - che, se una persona prende coscienza delle responsabilità verso se stesso, gli altri e il mondo, acquisisce la consapevolezza di essere l'artefice della storia". Ancona: "Oltre le strutture e il pregiudizio", un progetto tra detenuti e alunni da Istituto Comprensivo San Francesco viverejesi.it, 5 luglio 2016 Un progetto tra gli alunni di Lorenzini, Cappannini, Collodi ed alcuni detenuti del carcere di Montacuto Uno scritto può permettere di uscire dalle proprie "quattro mura" per incontrarsi. Questo è il progetto realizzato da alcuni detenuti del carcere di Montacuto di Ancona con gli alunni delle classi prime della scuola secondaria di primo grado Lorenzini e le classi quinte delle primarie Cappannini e Collodi dell’Istituto Comprensivo San Francesco di Jesi. "Sono architetture - dichiarano le insegnanti - che abbattono virtualmente le loro barriere e diventano luoghi per scambiarsi idee, per conoscere l’altro, per arricchire e sviluppare nuovi modi di relazione, per accettare il diverso e crescere proiettandosi avanti liberi nelle idee e sgombri da pregiudizi". Un carcere e una scuola, "luoghi" che insegnano e segnano la vita. Uomini reclusi che scrivono un libro, "Fiabe in libertà" in cui raccontano la vita di un lupo bianco che liberano dalla sua vita accidentata. Bambini che, con l’aiuto delle loro insegnanti, leggono la fiaba, la modificano facendola propria, cambiando i sentieri che il lupo percorre, che cade e poi si rialza. Un viaggio quello del lupo, che rappresenta un’esperienza di vita reale, ma che si trasforma in un percorso di crescita. L’errore e la stessa pena possono e devono essere superati e non stigmatizzati, il tragitto non è sempre semplice, ma ci si rialza aiutandosi e aiutando. Le porte si sono aperte il 17 giugno quando, presso la sede del carcere, alcune insegnanti coinvolte nel progetto sono state ricevute dalla Direttrice del carcere la dott.ssa Santa Lebboroni e da alcuni suoi collaboratori presso la sede di Montacuto. L’occasione è stata il momento per un confronto, per presentare i lavori realizzati dai bambini e dai ragazzi all’interno dei Progetti di Lettura e Continuità, poi raccolti in un libro che è stato donato alla direttrice che ha espresso grande soddisfazione per l’attività svolta. La lezione di un ex ergastolano di Yvonne Luca Ambrogio L'Opinione, 5 luglio 2016 Il 25 maggio scorso, presso l’Università di Como, grazie allo spazio concesso dal professor Stefano Marcolini, l’ex ergastolano Pasquale Zagari ha partecipato all’incontro con gli studenti della Facoltà di Giurisprudenza del corso di Diritto penitenziario per parlare della sua lunga esperienza detentiva, iniziata in giovanissima età e trascorsa recluso nei più importanti istituti penitenziari italiani. Hanno arricchito e valorizzato l’evento con la loro partecipazione Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia (Cnvg) e gli avvocati Francesca Binaghi della Camera penale di Como, Antonino Napoli della Camera penale di Palmi ed Edoardo Lorenzo Rossi della Camera penale di Milano. Zagari ha subìto anche il "carcere duro" di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario italiano; successivamente l’alta sicurezza, in espiazione della condanna all’ergastolo, ostativa ai benefici, perché in esecuzione di pene per reati mafia. Una vita senza speranza riaccesa solo a seguito della sentenza Scoppola della Cedu, che ha riconosciuto che chi aveva fatto la scelta del rito abbreviato nel processo non poteva essere condannato oltre la pena massima di trent’anni e mai all’ergastolo. Zagari ha evidenziato che il cosiddetto trattamento penitenziario rimane molto spesso una prospettiva astratta, ove l’intervento del legislatore seguita a dimostrarsi incapace di ottenere la rieducazione del condannato e, tanto meno, sicurezza e protezione della società e ciò proprio per la mancanza di un’analisi del fenomeno che ponga al centro il detenuto come uomo. Ma che cos’è il carcere? In che cosa ci si trasforma quando il carcere diviene solo reclusione? A queste domande ha replicato Zagari parlando dei suoi trent’anni di carcerazione durante i quali ha potuto incontrare tanta umanità disperata e senza più vita e pochissima comprensione delle cause della sua devianza. Ha raccontato degli anni sottoposto al 41-bis, in totale privazione sensoriale ed affettiva, non compatibile con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Il relatore ha domandato alla platea che senso ha privare un individuo della cottura dei cibi, della possibilità di permanere all’esterno della cella; che vantaggi offre un’applicazione della pena ancora solo retributiva e non rieducativa finalizzata ad intimorire e reprimere il senso di umanità, più che alla prospettiva di riconquista dei valori fondamenti l’individuo. Non smetteremo mai di ringraziare il professor Marcolini e la direttrice di "Ristretti Orizzonti", Ornella Favero, che da anni sostiene la necessità di far conoscere agli studenti e di far entrare la società civile nelle carceri. "È solo dal confronto - ci ha spiegato Favero - che nasce il cambiamento, perché il carcere è una contraddizione nel momento in cui si sottopone a queste condizioni una persona che non sa stare in una società, mentre il carcere deve essere il più aperto possibile alla società esterna. Rompere le barriere - ha continuato - significa consentire alle persone un ripensamento della loro e Pasquale è un esempio, da anni lavora su questi temi e ha una consapevolezza che non tutti hanno, per questo credo sia importante la sua testimonianza". La fiducia si può riconquistare, mentre il riscatto dal proprio passato, per quanto efferato possa essere, si può ottenere. Ci sono degli uomini che sono rinchiusi in carcere ma che sono cambiati; uomini che ci vogliono mettere la faccia proprio come aveva chiesto Papa Francesco in un suo discorso, mettere la faccia e affermare pubblicamente il loro ravvedimento, ma nessuno dà loro questa possibilità nonostante abbiano inviato una lettera al Papa e cerchino da anni un sostegno da parte delle istituzioni per poter dare testimonianza che un cambiamento è possibile. Lo Stato e la sua giustizia che fanno? Ad esempio, negano puntualmente ad un detenuto come Zagari, attivo membro di "Nessuno tocchi Caino", di partecipare ai convegni ed alle varie iniziative, nonostante la pena sia stata espiata, perché sottoposto a sorveglianza speciale, ritenuto ancora socialmente pericoloso dopo trent’anni di carcere, di trattamento e rieducazione. Questo incontro in cui Pasquale Zagari ha dato voce a chi non ne ha potrebbe essere l’inizio di altre iniziative per riflettere su che cosa è oggi la giustizia e l’esecuzione delle pene e costituire un tassello di quella spes contra spem, l’ambizioso progetto nato con Nessuno tocchi Caino per un concreto superamento dell’ergastolo ostativo. Padova: il Vescovo; il lavoro da poliziotto penitenziario non è un lavoro per tutti Il Mattino di Padova, 5 luglio 2016 È gente esperta del sottosuolo. Non fosse per la divisa che portano cucita addosso, si direbbe che sono fratelli-gemelli dei minatori: come questi ultimi scavano nella terra alla dannata ricerca delle pepite d’oro che poi affideranno alla maestria dell’artigianato orafo, così gli altri abitano negli scantinati della società - le patrie galere - per andare a recuperare quelle storie dis-graziate e poi affidarle al buon cuore della società cosiddetta civile. Gli agenti della Polizia Penitenziaria pochi li conoscono per davvero, forse per quell’arte anonima che chiede loro di vivere isolati dal mondo parimenti ai condannati dei quali hanno il compito di custodia. Il loro sottosuolo è il carcere, la terra-di-nessuno che loro abitano indossando fieri ed orgogliosi la loro divisa. Per chi l’indossa, la divisa è appartenenza e orgoglio, ali e radici, passione e patimento. È un prezzo densissimo da pagare: "Quando guardi un soldato o un poliziotto o un qualsiasi custode del potere - scriveva la giornalista Oriana Fallaci, non vedi che l’uniforme; da quella passi direttamente al berretto o all’elmetto, saltando il volto e la testa". La divisa è una protezione, certuni giorni è pure una condanna: sembra voler togliere a tutti i costi il volto e la testa di chi la indossa. Eppure, nascoste dietro, ci sono storie di uomini e di donne in tutto e per tutto simili a qualunque altra storia sulla faccia della terra. A Padova, il vescovo Claudio ha voluto - nella sera d'inizio estate che fa memoria della festa di san Basilide (30 giugno), loro patrono - ridare agli agenti della Polizia Penitenziaria quello sguardo che sovente la divisa preclude loro. Celebrare una messa giubilare in loro compagnia è stato un fare memoria della convinzione poetica cantata da Pontiggia: "Soldati: operatori di pace!". I detenuti sono l’informazione-prima del carcere: la materia senza la quale nessuna galera avrebbe senso, assumerebbe significato. Gli agenti sono l’informazione-seconda del mondo galeotto: sono loro a custodirne le chiavi, a decifrarne la sicurezza. Sul motto del loro corpo recano scritta un’identità che, da sola, farebbe tremare le gambe a un titano: "Despondere spem munus nostrum" ("Diffondere la speranza è la nostra missione"). La speranza nella disperazione, quella più cupa e lamentosa: pochi ossimori sanno tenere, legati in unità, due opposti senza necessariamente farli apparire insulsi. Saper incrociare uno sguardo dietro un uomo in divisa è riconoscere la fratellanza laddove vige la lontananza. Un vescovo ne incrocia gli sguardi, ne aggancia la miseria e la grandezza, spezza una parola in loro compagnia: la speranza accresce, la solitudine diminuisce, il carcere torna ad essere una bella occasione d’umanità. Il vescovo-dei-poveri, pregando con gli agenti, ancora una. volta s’è messo dalla parte dei poveri. Le divise in preghiera? I soldati sono coloro che pregano di più per la pace, perché sono loro che patiscono e provano le ferite più profonde di una guerra. Servire i detenuti è fare il bene, servirli attraverso la presenza discreta e delicata degli agenti di polizia è fare il bene fatto-bene: è sempre forte il rischio che un certo bene diventi, alla lunga, male. "Dacci luce e pace - recita la preghiera a san Basilide - perché riusciamo a svolgere bene il nostro difficile compito di tutelare la società nell'aiutare chi ha sbagliato per debolezza a ritrovare il senso morale della vita". Un’avventura: far diventare grande una società senza far sentire piccolo nessuno. Mica un affare per tutti. Radio Carcere-Radio Radicale: quei detenuti che sono stati suicidati dalle carceri Ristretti Orizzonti, 5 luglio 2016 A seguire le lettere scritte dalle persone detenute. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/480058/radio-carcere-quei-detenuti-che-sono-stati-suicidati-dalle-carceri-a-seguire-le La roulette russa nelle democrazie di Antonio Polito Corriere della Sera, 5 luglio 2016 Usare il popolo per sistemare una partita politica, per risolvere un conflitto interno al proprio partito oppure come surrogato di una legittimazione elettorale, è sbagliato. Purtroppo anche in Italia questo corto circuito è già avvenuto. A differenza di Jo Cox e dei suoi bambini, che sono stati davvero derubati della vita, le vittime politiche del referendum britannico hanno perso solo potere e gloria. Però è impressionante osservare come la falce del Leave abbia decapitato un’intera classe dirigente, in modo trasversale, senza fare distinzioni. È caduto chi ha perso, David Cameron; è caduto chi ha vinto, Boris Johnson; se ne è andato chi ha trionfato, Nigel Farage; sta per essere cacciato chi si è barcamenato, James Corbyn. I Conservatori si accoltellano alle spalle, i Laburisti si scazzottano in pubblico. Il caos politico è totale. Volevano ridare il potere al popolo, ma il potere di scegliere il primo ministro da domani è nelle mani di 330 deputati tories. Perfino quelli cui il popolo ha dato ragione non sanno ora indicargli la strada da seguire. Per quanto diretta possa diventare la democrazia, con i referendum o con i sondaggi o con la Rete, alla fine c’è sempre bisogno di qualcuno che la guidi. In inglese si dice "leader". Kenneth Rogoff ha segnalato sul Boston Globe che la maggior parte delle società "prevede per il divorzio di una coppia più passaggi, ostacoli e procedure di quante ne abbia previste il governo britannico per uscire dall’Unione europea". Gli si può rispondere: è la democrazia, bellezza. Ma che dire dei diritti delle minoranze, che sulla Brexit non erano né piccole né irrilevanti (ha votato Leave solo il 36% degli aventi diritto, hanno votato Remain i giovani, la città-stato di Londra, la Scozia, l’Irlanda del Nord)? Non sono le minoranze altrettanto care alla democrazia? O la democrazia è un gioco dei dadi, una roulette russa? Ha scritto Sabino Cassese sul Corriereche il referendum è un esempio di "single issue politics". Al popolo, con una domanda secca, puoi chiedere se vuole salvare Gesù o Barabba; e non è detto, tra l’altro, che avrai la risposta giusta. Ma non puoi chiedere di considerare le innumerevoli, complesse ed epocali conseguenze che può avere la scelta tra Gesù e Barabba, o tra Cameron e Johnson. E infatti nel caso inglese né l’uno né l’altro sono stati in grado di dire cosa fare, dopo aver chiesto al popolo di farlo. Il fatto è che in Gran Bretagna, dove non c’è una Costituzione scritta, non c’è nemmeno una legge che regolamenti i referendum. Li convoca il governo, quando gli pare e gli conviene (a quanto abbiamo visto, pure quando non gli conviene). E invece anche la democrazia diretta, di cui il referendum è la massima espressione, ha bisogno di regole per avere efficacia. E chi può scrivere le regole se non il Parlamento, massima espressione della democrazia delegata, cioè rappresentativa? Mettiamo che le prossime elezioni a Londra le vinca un leader pro Europa: chi avrebbe ragione? Il popolo sovrano che ha votato Leave o il popolo sovrano che ha eletto un governo per il Remain? Noi per fortuna abbiamo una Costituzione. La quale prescrive all’articolo 138 che se vuoi cambiare la Carta e non hai abbastanza voti in Parlamento devi chiedere il permesso al popolo con un referendum. È per questo, e non perché l’abbia indetto Renzi, che a ottobre o giù di lì voteremo sulla riforma costituzionale approvata a (scarsa) maggioranza nelle Camere. Ma anche da noi, come nel caso inglese, l’idea di spruzzare un po’ di democrazia diretta sulla democrazia parlamentare come se fosse un cocktail, soprattutto quando la seconda è un po’ giù e si pensa di alzarne la gradazione alcolica con l’appello al popolo sovrano, può essere molto azzardata. Usare il popolo per sistemare una partita politica, per risolvere un conflitto interno al proprio partito oppure come surrogato di una legittimazione elettorale, è sbagliato. Purtroppo anche in Italia questo corto circuito è già avvenuto. Già oggi la probabilità che al referendum si voti sul governo più che sulla Carta è elevatissima. Per giunta abbiamo da poco in vigore una legge elettorale che si è travestita anch’essa da referendum, e che nel ballottaggio ridurrà gli elettori a una scelta sì o no, pro o contro il governo. Il che raddoppia il rischio roulette russa appena visto all’opera in Gran Bretagna. Può darsi che i nostri pifferai magici, i nostri incantatori di consenso popolare, siano più acrobatici di quelli inglesi e riescano ad evitare la fine di chi andò per suonare e fu suonato. Certo che a scherzare col fuoco prima o poi ci si brucia. L’Economist di questa settimana ha in copertina "Anarchy in the Uk". Facciamo in modo da meritarcene una diversa in autunno. Migranti, "ucciso chi non può pagare i trafficanti" di Vito Lisola Il Manifesto, 5 luglio 2016 Grazie a un pentito sgominato network criminale che trasferiva migranti dal Nord Africa in Italia. Agli investigatori ha raccontato tutto: nomi, luoghi e cifre del business lucroso come il traffico di uomini dall’Africa verso l’Italia, senza omettere particolari raccapriccianti come l’uccisione di quei migranti che non potevano più pagare gli smugglers. Ore e ore di racconti che Nuredin Atta Wehabrebi, il primo pentito di questo genere di traffici illegali, ha fatto agli agenti delle squadre mobili di Palermo e Agrigento e agli uomini del Servizio centrale operativo, e che hanno portato al sequestro a Roma di una profumeria vicino alla stazione Termini gestita da un eritreo e usata dai trafficanti come punto di raccolta dei soldi estorti ai migranti. Quando sono entrati, gli agenti hanno trovato e sequestrato 526 mila euro e 25 mila dollari in contanti, insieme a un libro mastro con i nomi dei cittadini stranieri e le utenze di riferimento. "Con questa indagine abbiamo raggiunto il livello più alto nella lotta all’immigrazione clandestina e abbiano individuato il canale finanziario della rete criminale che gestisce il traffico di migranti dall’Africa alla Sicilia e che aveva a Roma e Palermo due centrali di snodo", ha spiegato il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi. 38 i componenti dell’organizzazione criminale fermati, tra i quali un italiano, 25 eritrei e 12 etiopi, accusati a vario titolo di associazione per delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell’attività di intermediazione finanziaria e traffico internazionale di stupefacenti e spaccio. Quello sgominato ieri è ritenuto dagli inquirenti uno dei network criminali internazionali più pericolosi tra quelli operanti in Nord Africa, un’organizzazione che non esitava a uccidere quanti non potevano più permettersi di pagare i costi del viaggio. Wehabrebi ha riferito anche di un presunto traffico di organi. "Mi è stato raccontato - ha detto il pentito agli investigatori della Dda di Palermo - che le persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani che le uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di 15 mila dollari. Gli egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche". Una pratica per la verità abbastanza improbabile, e della quale gli inquirenti non hanno trovato nessun riscontro, come ha sottolineato anche Lo Voi. "È una dichiarazione di un fatto appreso da altri - ha detto il procuratore di Palermo -. Sono indicazioni che il collaboratore dichiara di aver ricevuto ma che allo stato non possono esser confermate da nessun dato concreto". Più probabile, invece, la descrizione di come i migranti venivano fatti arrivare in Italia, Oltre che con le barche, l’organizzazione aveva messo a punto un sistema più sicuro e redditizio come i falsi ricongiungimenti familiari resi possibili dalla legislazione italiana in materia. Ogni finto matrimonio poteva costare tra i dieci e quindicimila dollari. "Era un sistema semplice e articolato allo stesso" ha proseguito Lo Voi, e certamente più sicuro e redditizio per i trafficanti rispetto alla traversate in mare fatte con le carrette del mare. Tra i 38 fermati c’è anche un italiano, Marco Pannelli di Macerata, di 46 anni, ma non sarebbe l’unico a far parte dell’organizzazione. "Ci sarebbero anche degli italiani coinvolti nell’organizzazione - ha raccontato infatti il pentito - uno si chiama Valentino ed è stato arrestato in Germania, l’altro si chiama Marco e si trova a Perugia. Sia Valentino che Marco lavorano con un furgone con il quale trasportano circa 14 persone a settimana per conto dell’organizzazione". Ma la banda avrebbe fatto i soldi. e tanti, anche con il traffico di droga: circa 300.000 euro a settimana che l’eritreo gestore della profumeria nei pressi della stazione Termini consegnava ogni sabato ad un altro emissario eritreo che a sua volta girava il denaro in Libia. L'intervista. O’Flaherty: "Violenze, abusi e malattie anche negli hotspot. Urgono azioni" di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 5 luglio 2016 "Malattie, violenze sessuali, sparizioni di migliaia di bambini. La crisi dei migranti è una grande emergenza, non solo per gli annegamenti in mare...". Da settembre 2015, l’irlandese Michael O’Flaherty è il direttore dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (Fra). Oggi è a Roma, dove presenterà il rapporto 2016 dell’Agenzia, del quale ha accettato di parlare con Avvenire. L’Europa riesce a tutelare i diritti fondamentali dei migranti? Quali criticità avete riscontrato nei Paesi di maggior arrivo, come Italia e Grecia? Ognuno cerca di fare del suo meglio, voglio premetterlo, ma le cose accadono. Da violenze e abusi sulle donne alle malattie cutanee o respiratorie contratte da rifugiati, dopo lo sbarco. Il problema si verifica pure negli hotspot e va affrontato seriamente. Lei ha visitato alcuni hotspot. Qual è la sua valutazione? Sono stato in Sicilia, a Trapani, e in Grecia. È una buona idea convogliare i servizi in un unico posto e c’è molta buona volontà. Ma è inaccettabile che un migrante sopravvissuto al mare contragga la polmonite in un centro. O che una donna vada a dormire indossando un pannolino, perché teme di essere violentata... Occorrono un’accurata assistenza medica, più esperti di protezione dei minori e più poliziotti esperti di violenze e stupri. La preoccupa l’arrivo di migliaia di minori non accompagnati... Certo. Del milione di migranti giunto nel 2015, il 30-40% era di minore età, compresi molti non accompagnati. Finora non c’è sufficiente protezione dei minori sia negli hotspot sia in altre strutture. Abbiamo visitato un luogo, in un Paese Ue, dove 8 bambini su 10 ospitati erano scomparsi. Per Europol, 10mila minori non accompagnati sono missing, spariti sul suolo europeo, potenziali prede dei trafficanti o vittime di sfruttamento. Servono più risorse, non solo in denaro, ma in esperti da mettere in prima linea. Da più parti s’invoca l’apertura di corridoi umanitari... Noi sollecitiamo percorsi legali per consentire l’arrivo in Europa senza finire in mano ai trafficanti. C’è già un ventaglio di strumenti: permessi umanitari, protezione temporanea, ricongiungimenti familiari e altro ancora. L’accordo con la Turchia è stato utile? Quando fu firmato, l’Ue assicurò che avrebbe posto più attenzione nell’aprire 'percorsi legali': abbiamo bisogno di vedere più azioni in quella direzione. Il nostro compito è verificare il rispetto dei diritti umani, controllare i criteri per rispedire le persone in Turchia. Al momento, pochi vengono rimandati indietro: le autorità greche stanno lavorando con cura, identificando un alto numero di migranti qualificati per chiedere asilo. C’è un aumento della xenofobia nell’Ue? Su migranti e rifugiati circolano troppi falsi miti: ogni musulmano è ritenuto un estremista, ogni straniero un violentatore. Non è così e bisogna perseguire crimini e discorsi nati dall’odio e favorire l’integrazione di chi arriva. Il Parlamento europeo ha condannato più volte gli atti di violenza commessi in diverse nazioni contro i cristiani. Qual è il suo pensiero? Gli attacchi a comunità religiose di qualsiasi fede, dovunque avvengano, sono inaccettabili. Dobbiamo lavorare seriamente per proteggere il diritto di ognuno a professare la propria fede, garantito in tutte le convenzioni internazionali. Un’ultima questione. Secondo la Convenzione di Oviedo e la Carta europea dei diritti fondamentali, il corpo umano non dev’essere fonte di profitto. A suo parere, la maternità surrogata è un contratto lesivo della dignità della donna e del nascituro? Non è una materia su cui stiamo lavorando. Ma la mia opinione personale è che ogni vita umana debba essere fondata sul principio di dignità umana. Non dovremmo mai compiere atti che sminuiscano la dignità umana o che oggettifichino l’uomo. L’essere umano non deve mai essere una merce, un prodotto da vendere o comprare... Cannabis legale, è il momento più delicato di Riccardo Magi (Segretario di Radicali Italiani) Il Manifesto, 5 luglio 2016 Il prossimo 25 luglio approda in aula alla camera la legge sulla legalizzazione, occorre rilanciare la battaglia, in onore di Marco Pannella. E spingere l’acceleratore sulla raccolta firme per la legge popolare. Il prossimo 25 luglio il testo di legge che prevede la legalizzazione della produzione, vendita e consumo di cannabis approderà in Aula alla Camera. Si tratta della proposta sottoscritta dai circa 300 parlamentari dell’intergruppo per la legalizzazione coordinato da Benedetto della Vedova. Quanto in decenni di battaglie antiproibizioniste abbiamo auspicato come Radicali - ovvero che il parlamento si assumesse le proprie responsabilità su questo tema - sembra adesso quasi a portata di mano. La tentazione sarebbe quella di rasserenarsi e attendere un esito che pare inevitabile. Eppure sappiamo che proprio nel momento in cui le cose sembrano prendere forma, i conflitti e le resistenze si fanno più duri e feroci. I colpi di coda di una politica proibizionista, che molti danni ha fatto ma che non è disposta a cedere il passo, non si faranno attendere. Basta ricordare quanto accaduto su quello straccio di legge sul fine vita - il cosiddetto "decreto salva Eluana Englaro" poi diventato ddl Calabrò - e ricordare uno dei dibattiti parlamentari più bassi della storia repubblicana e il suo epilogo in un nulla di fatto (la calendarizzazione a ridosso della pausa estiva costituisce in questo un’insidia). Le prime avvisaglie della controffensiva proibizionista emergono già nelle affermazioni dei parlamentari che denunciano in questa calendarizzazione una "deriva etica e antropologica" sulla spinta delle "lobby radicali" a discapito dei veri bisogni dei cittadini e soprattutto dei giovani. A questi occorrerebbe ricordare innanzitutto che quello della legalizzazione della cannabis - e, aggiungiamo noi, della decriminalizzazione dell’uso di tutte le droghe - è un tema sociale, il più acuto nel nostro Paese. Sono infatti quasi 17mila i detenuti reclusi a causa dell’art.73 del Testo unico sulle droghe, che punisce la produzione il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti, come documentato dal Settimo Libro bianco presentato alcuni giorni fa alla Camera. Si tratta del 32% della popolazione penitenziaria: uno su tre. La stessa cifra di detenuti con problemi di dipendenza anche dietro le sbarre. Di questi la maggior parte sono giovani, giovanissimi. Ma oltre i numeri, così imponenti, ci sono le storie e i corpi di queste persone. Le notti in carcere, i processi interminabili, la vita che, anche una volta fuori, non riparte. Spesso si citano i costi economici del proibizionismo - che pure sono massicci: un mercato stimato tra i 5,5 e gli 8,5 miliardi all’anno - la nostra battaglia invece si concentra sui costi sociali sanitari e su quelli che riguardano il piano della giustizia. Anche qui ci sono costi economici: si pensi solo ai 2 miliardi annui per le spese di tribunali e operazioni di polizia. Tanto che perfino la Direzione nazionale antimafia ha evidenziato i benefici della legalizzazione in termini di "liberazione di risorse" in diversi comparti della Pa e della giustizia. Ma ci sono altri costi che riguardano la salute dei cittadini e la loro libertà di scegliere senza finire negli ingranaggi della macchina della punizione. Per sostenere e rafforzare la proposta di legge all’attenzione del parlamento, ad aprile scorso come Radicali Italiani e associazione Luca Coscioni - e in collaborazione con tutte le più grandi associazioni antiproibizioniste italiane - abbiamo lanciato la campagna "Legalizziamo!" per una nostra proposta di legge di iniziativa popolare sul tema. Si tratta di un testo che segue lo schema di quello presentato dall’intergruppo per la legalizzazione, ma che fa dei passi in avanti: per esempio sulla decriminalizzazione dell’uso di tutte le droghe. Provvedimento, quest’ultimo, che in altri Paesi, come ad esempio il Portogallo, ha dato risultati formidabili in termini di riduzione dell’incidenza di Hiv e diminuzione dei consumatori, soprattutto tra i giovani. Dunque, in questa fase delicatissima, è necessario non abbassare l’attenzione e rilanciare la battaglia, spingendo l’acceleratore sulla raccolta firme per la legge popolare (.legalizziamo.it). Saremo fuori dal Parlamento con le firme di migliaia di cittadini per dire al legislatore che è ora di archiviare il proibizionismo e promuovere "politiche pubbliche orientate al criterio dell’efficacia piuttosto che della demagogia", come auspicato dal ministro della Giustizia Orlando nel suo intervento alla sessione speciale delle Nazioni Unite. E non potrebbe esserci efficacia nel contrasto di un comportamento - quello del consumo di cannabis, appunto - che interessa 4 milioni di italiani, 20 milioni di europei e 184 milioni di persone nel mondo. "Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana che per qualsiasi motivo è praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il "colpevole" e lo colpisce a morte", diceva infatti Marco Pannella, a cui l’approvazione di questa legge dovrebbe essere dedicata. Bangladesh: attentato Dacca; i saluti, la fuga sul tetto, la strage in 20 minuti di Paolo G. Brera La Repubblica, 5 luglio 2016 La ricostruzione della notte dell'orrore all'Holey Artisan Bakery. Ci sediamo qui, all'aperto". Ore 20.10 di venerdì: mancano 35 minuti all'assalto di Dacca quando Claudia D'Antona, il marito Gianni Boschetti e il loro cliente ed amico Claudio Cappelli scelgono il tavolo all'Holey Artisan Bakery: "Se ci fossimo seduti dentro, sarei morto", dice Boschetti. Sono lì per salutarsi prima delle ferie di fine Ramadan: il Bangladesh si ferma per una decina di giorni, per Claudio è vigilia di rientro in Italia; per Gianni e Claudia - che a Dacca ci vivono - è l'inizio di una vacanza antistress. 20.30: L'ultimo saluto - All'interno del locale, il tavolo per sette persone prenotato dagli altri italiani è già pieno per metà. Arrivano alla spicciolata, alle 20.30 sono tutti lì quando Jacopo Bioni, il gelataio e casaro italiano che sostituisce uno dei due chef argentini, si avvicina al tavolo per salutarli. Ci sono Adele Puglisi, Nadia Benedetti, Simona Monti e Maria Riboli insieme a Vincenzo D'Allestro, Cristian Rossi e Marco Tondat. Anche loro sono riuniti per i saluti, stanno tutti per tornare in Italia. Il ristorante fa cucina spagnola, ma chiedono a Jacopo un fuori menù, una pastasciutta all'italiana. Anche il titolare dell'Holey, Ali Arsalan, li conosce bene: sono buoni clienti. Ma lui è già uscito. 20.40: Tutti a tavola - Alle 20.40 Jacopo saluta gli italiani e si dà ai fornelli, accanto all'altro chef italoargentino Diego Rossini. In sala, una trentina di clienti in tutto. Hasnat Karim, professore alla North South University di Dacca, è con la moglie Sharmin e le figlie Safa e Rayan, di 13 e 8 anni, per festeggiare il compleanno di Safa. Faraaz Hossein, bengalese con passaporto americano, cena con le amiche Abinta Kabir e Tarishi Jain, con cui ha studiato all'American School a Dacca. Poi c'è il tavolo di Makoto Okamura e dei sei commensali giapponesi. Ali, il titolare, si è preso una pizza e un dessert e se n'è andato a casa. Voleva andare a prendere due paia di pantaloni per donne incinte e sarebbe tornato più tardi per darli a Jacopo per sua moglie, che lavorava all'Holey come maître ma è in Italia in maternità. Ali Arsalan però non torna: ha cambiato idea, dirà. 20.45: Inizia l'inferno - Alle 20.45 inizia l'inferno. Sette terroristi entrano nel giardino dell'Holey urlando "Allah è grande". Sparano, urlano, atterriscono. Radunano chi si trova all'esterno costringendolo a entrare. L'unico che sfugge al rastrellamento è Boschetti: si è alzato per telefonare, si butta tra le frasche e ci resterà ore. Il personale di cucina fugge sul tetto chiudendo a chiave l'accesso. Sono al secondo piano, troppo alto per saltare. Per un po' restano lì acquattati, sperando di essere al sicuro. Poi, almeno in tre cambiano idea: meglio rischiare qualche osso rotto, Jacopo Bioni si salva così. Il personale di sala si rifugia invece in un gabinetto al secondo piano, usato come deposito per lievitare la farina: nello stanzino si stringono in otto. Un terrorista si avvicina e urla: "Se siete bengalesi uscite, non vi faremo niente". Nessuno fiata. Non ricevendo risposta, chiude a chiave e se ne va. Farina e lievito scaldano e tolgono ossigeno. Con il cuore in gola, chiedono aiuto via sms: "Buttate giù il muro da fuori, salvateci". Rischiano di morire asfissiati, ma riescono a creare piccole brecce scalfendo la porta di legno. 20.50-21.10: Strage di ostaggi - Dentro, intanto, i terroristi dividono le vittime in base alla religione e torturano e uccidono chi non conosce il Corano. Ma uccidono anche Faraaz, lo studente americano che il Corano lo conosce eccome: muore da eroe, rifiutandosi di abbandonare Abinta e Tarishi vestite troppo all'occidentale per un perdono jihadista. Secondo il professor Hasnat, alle 23 tutti gli stranieri erano morti. L'assedio però durerà tutta notte. Secondo la Cnn, usano un prigioniero bengalese come scudo, il panettiere Miraj. "I tuoi colleghi sono fuggiti, se non ci sei riuscito Dio vuole che tu muoia", gli dicono, legandolo a una sedia imbottito di esplosivo. 22.00: Gli agenti uccisi - Intorno alle 22, finalmente arriva la polizia: "Alcuni terroristi erano appostati nel parcheggio", dice Boschetti. È lì che tendono l'agguato: una pioggia di proiettili ed esplosioni costa la vita a due poliziotti, Rabiul Karim e Salauddin Khan, e un'altra ventina di agenti finisce in ospedale. 1.00-5.00: Dal dialogo al blitz - La polizia ora tenta la carta del dialogo: intorno all'una entra in contatto coi terroristi, ma è inutile. Alle 3, il primo ministro Sheikh Hasina convoca un vertice e decide di agire. Ci vorranno due ore per schierare le forze speciali. L'operazione Tuono, il blitz che salverà il personale di sala e gli ostaggi bengalesi e ucciderà 6 terroristi catturandone uno, scatta alle 5. Pochi minuti prima, un filmato riprende il professor Hasnat Karim fumare tranquillamente parlando con un terrorista. In quei minuti si salva il panettiere Miraj: è arrivata la fine, i jihadisti lo lasciano andare. Bangladesh: l’omaggio in chiesa agli italiani "ma il clima verso di noi è cambiato" di Niccolò Zancan La Stampa, 5 luglio 2016 I cattolici sono solo lo 0,03%. Poco lontano il rito islamico per Faraaz: morto da eroe. C’è una voce familiare in mezzo al frastuono di clacson, urla e pianti, alle sei di sera nel quartiere Banani di Dacca. Padre Riccardo Tabanelli sta entrando in chiesa per l’omaggio alle vittime italiane dell’attentato. Partito da Vicenza 43 anni fa, non è più tornato indietro. Fa il prete in Bangladesh, dove i cattolici sono lo 0,03 per cento di tutta la popolazione. "Sapevamo che il clima nei nostri confronti era cambiato. C’erano diversi segnali. Ma non potevamo aspettarci qualcosa di tanto schifoso. Purtroppo il governo bengalese continua a negare che si tratti di terrorismo. La verità è che non ha i mezzi per affrontare questo problema enorme. Non c’entrano più le moschee e forse non conta più nemmeno l’indottrinamento. Basta un lavaggio del cervello via Internet. Quei ragazzi della strage all’Holey Artisan Bakery erano dei frustrati che credevano di essere senza futuro. Siamo qui per pregare anche per loro". La chiesa dello Spirito Santo è presidiata da sei militari. Ma nulla riesce a trasmettere un effettivo senso di sicurezza. L’umanità ti salta addosso ad ogni passo. Una moneta. Un sorriso. Un bambino nudo in mezzo alla strada. Dacca è la città con la più alta densità di popolazione del mondo. E questo è un giorno di lutto. Vanno in scena due funerali solenni, uno di rito cattolico e l’altro musulmano. Si celebrano quasi in contemporanea ad un chilometro in linea d’aria. Ma l’arcivescovo Patrick Rosario pronuncia parole che vogliono abbattere questa distanza: "La nostra è una comunità di fede, di amore e di speranza. Preghiamo per tutti i caduti dell’attentato. Da sempre, molti missionari e lavoratori, uomini e donne italiane, sono venuti in Bangladesh per aiutare lo sviluppo di questo Paese. Ieri mi ha chiamato la Cei. Mi ha detto di avere coraggio. Noi siamo sicuri che questa tragedia avvicinerà ancora di più l’Italia al Bangladesh". Per tre volte i nomi delle vittime italiane vengono letti al microfono in un silenzio carico di emozione. Le diocesi del Bangladesh sono in tutto sette. La chiesa dello Spirito Santo è una delle più importanti. Ci sono più di duecento persone all’interno, molti hanno lasciato le scarpe davanti all’ingresso. A sinistra, le suore missionarie. A destra, famiglie bengalesi. In seconda fila, siede l’unico scampato al massacro: Giovanni Boschetti è livido. Ogni tanto riceve abbracci in italiano, più spesso in altre lingue. Due signore di Dacca si inginocchiano avanti a lui, per chiedere perdono di quanto successo. Sono in lacrime. Anche l’ambasciatore italiano Mario Palma è sull’orlo del pianto, quando va al microfono: "Il lato oscuro dell’umanità sembra prevalere. Pensavamo non sarebbe mai successo in un Paese che ha sempre cercato di rispettare ed unire la diversità fra le varie culture. Tutti noi italiani abbiamo vissuto qui grazie alla gioia e il sostegno degli altri. Così ci sentivamo a Dacca fino al giorno del massacro". Sta diluviando. La pioggia calda risale anche dai tombini. La grande moschea di Gulshan strabocca di gente. È il quartiere dell’attentato, il centro della città. Va al microfono il fratello di Faraaz Hossain, lo studente ucciso per aver rifiutato la grazia dei terroristi. Sapeva recitare a memoria il Corano, dunque poteva andarsene dal ristorante. Ma non voleva lasciare le sue compagne di studio, musulmane vestite all’occidentale. "Chutto", lo chiama il fratello Zaraif al microfono. Significa piccolo e adorabile. "Chutto, sei stato ucciso in un brutale attacco terroristico. Sono pieno d’orgoglio per come ti sei comportato". Quando più tardi esce in mezzo a quel mare di gente, aggiunge: "Mio fratello aveva ferite sul corpo e tagli sulle mani. Significa che ha cercato di difendere le sue amiche". Dentro alla moschea ci sono i più importanti imprenditori del Bangladesh. La famiglia Hossein è molto conosciuta. È proprietaria del marchio Transcom, un colosso con ramificazione nell’elettronica e nel settore alimentare. Il signor Karim Enayetul è general manager di una compagnia di telecomunicazioni, e adesso viene circondato dai microfoni dei giornalisti locali: "Quello che è successo non è accettabile. Non dovrà ripetersi mai più. Vogliamo vivere in pace, in un posto sicuro". Pregano per Faraaz Hossein, per le sue amiche Tarishi Jain e Abinta Kabir. La madre di quest’ultima accompagna la salma sorretta dai parenti. Non vuole staccarsi dall’autoambulanza bianca che la porta via nel traffico. "Amore", continua a ripetere. "È una cosa brutale" dicono tutti. Ed è un sollievo ritrovare qui nella calca Hassan Furuque, vicepresidente di Bgmea, una delle più importanti impresa di esportazione di abbigliamento del Bangladesh. Perché in mattina era andato a rendere omaggio alle vittime italiane, ed è come se fosse lui ad unire i due funerali. "È stato un atto barbarico. Purtroppo sta succedendo in ogni parte del mondo. Dobbiamo stare tutti uniti e reagire insieme". Iraq: la rabbia di Baghdad di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 luglio 2016 L’Isis cancella un centro commerciale: 213 morti. Si scava ancora tra macerie e corpi irriconoscibili. La gente si scaglia sul premier: al-Abadi preso a sassate. Il governo impone la sostituzione di metal detector che sapeva non funzionare già dal 2011. Il "Califfo" è più vivo che mai: si rigenera ampliando i settarismi interni. Erano seduti nei cafè a guardare in tv i quarti degli Europei, sullo schermo c’era Italia-Germania. Erano con le figlie a fare shopping nel centro commerciale per prepararsi all’Eid, la festa islamica di fine Ramadan. Compravano cibo per celebrarlo al meglio, vestiti nuovi per festeggiarlo. Erano usciti dopo un lungo giorno di digiuno. Fumavano un narghilè, bevevano un caffè. Questo facevano le 213 persone che sabato notte sono morte bruciate e soffocate in uno degli edifici più noti del centro di Baghdad, il centro commerciale del quartiere di Karrada. Forse immaginarli prima che un kamikaze dell’Isis facesse saltare in aria un’autobomba li libererà dalla schiavitù dei bilanci asettici. Come conoscerne le storie. Zainab Mustafa ieri girava tra le macerie con le foto del marito e dei due figli: erano a Karrada per comprare vestiti. Fadhle Salem cerca due fratelli, quella sera nel negozio di famiglia. Sami Kahdim scava tra le rovine per trovare l’amico Mustafa: poco prima dell’attacco gli aveva portato del succo di arancia e poi era andato a dormire. Una mattanza: intere famiglie cancellate, 213 morti accertati, ma altri potrebbero riemergere dalle macerie dei palazzi. Oltre 200 feriti, molti gravi. E vanno aggiunte le 5 vittime del secondo attacco che ha colpito poco dopo il quartiere di Shaab a nord della capitale. I paramedici dicono che ci vorranno giorni prima di recuperare tutti i corpi, provare a rimetterli insieme e dargli sepoltura. "Non è possibile sapere a chi appartengano certe parti del corpo", dice uno dei soccorritori. Intorno, oltre gli scheletri delle auto, i vetri a terra, il sangue rappreso sul cemento, la gente di Baghdad lascia una candela. Cartelloni appesi su quel che resta dei negozi sventrati riportano i nomi delle vittime, quelle identificate. Ma il tempo della sofferenza, immane e continua, come un sudario appiccicata alla città, ha presto lasciato lo spazio alla rabbia. Una rabbia sorda figlia di frustrazione e senso di ingiustizia. Il primo a vedersela piovere addosso è stato il primo ministro al-Abadi. Lui ci è cresciuto in questo quartiere misto, a maggioranza sciita, con una piccola presenza cristiana e qualche moschea sunnita, alle porte della Zona Verde. Domenica la rabbia gli è piovuta addosso sotto forma di pietre. La gente ha preso a sassate il suo convoglio e in tanti hanno marciato verso la sua abitazione. Baghdad non ce la fa più: "Tutti i politici iracheni sono responsabili - gridava una donna - Se non è l’Isis, è al-Qaeda; se non solo loro è la corruzione dei politici. Noi moriamo mentre loro siedono al sicuro nei loro palazzi. Sono loro che permettono all’Isis di arrivare qui e ammazzarci". Il premier ha annunciato tre giorni di lutto nazionale, ordinato l’incremento della sorveglianza aerea e vietato l’uso di telefoni cellulari ai posti di blocco militari. Ma soprattutto ha imposto la sostituzione dei metal detector per individuare bombe ai checkpoint agli ingressi delle città irachene e non funzionanti. Che non funzionano si sa dal 2011 quando scoppiò il caso dei 6mila pezzi da 27mila dollari l’uno, noti come Ade651, venduti dall’uomo d’affari inglese James McCormick (li aveva rifilati anche alle forze Onu) che prima gli fecero incassare 40 milioni di dollari e poi lo hanno spedito in prigione in Gran Bretagna. Nonostante ciò sono ancora presenti in mano ai soldati iracheni. Una follia a cui un funzionario anonimo ha dato ieri una spiegazione altrettanto aberrante: "I nostri soldati devono pur fare qualcosa ai checkpoint". Così, con una carneficina, l’Isis risponde a tono a chi lo dava per moribondo. Lo Stato Islamico è più presente che mai in Iraq dove prima non aveva quasi bisogno di compiere attentati nelle zone non occupate, forte delle sue roccaforti in cui detta legge e opprime la popolazione civile. In due anni gli attacchi erano stati pochi, ma dalla caduta di Sinjar, a novembre, si sono moltiplicati e con loro hanno moltiplicato le vittime. Anche stavolta nel mirino c’è un quartiere sciita. E la scelta, ovviamente, non è casuale e non per mere ragioni confessionali (il "califfato" giudica lo sciismo una forma di eresia) ma per ragioni strategiche: lo Stato Islamico vive ampliando i settarismi interni e in questi ultimi mesi lo fa colpendo al cuore la comunità sciita. Fa passare un messaggio: il vostro nemico sono i sunniti, gli attacchi arrivano dai quartieri vicini ai vostri. Così non è: i kamikaze giungono da fuori, si infiltrano con una facilità disarmante tra le pieghe dell’incompetenza governativa. E ne fa così passare un altro: il vostro governo ha fallito. A poco dunque servono le celebrazioni per la liberazione di Fallujah. Non bastano a salvare un governo impantanato nella corruzione, costretto venerdì a blindare piazza Tahrir e la Zona Verde per impedire l’ennesima manifestazione sciita contro la corruzione. Libia: nella roccaforte di Sirte, così muoiono i combattenti dell'Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 5 luglio 2016 Si procede strada per strada, casa per casa. I jihadisti sono duri da battere. Ogni metro di terreno costa vittime. La notte c’è il rischio di perdere il terreno conquistato. Il buio si fa infido, ogni rumore, il minimo fruscio nascondo il pericolo. È lenta, ma continua l’avanzata delle milizie libiche che dai primi di maggio circondano Isis nella sua roccaforte di Sirte. "Avremo vinto prima di Ramadan", promettevano ancora qualche giorno fa. In realtà non sembra possano rispettare i tempi. Id el Fitr, la festa che tradizionalmente pone termine al mese santo musulmano, è prevista entro la fine di questa settimana. "Ci vorrà ancora qualche giorno, ma non molti di più", ammettevano ieri i comandanti di Misurata. In ogni caso la conquista della città è vicina, forse ancora un paio di settimane. Lo annuncia l’intensificarsi dei combattimenti. Settimana scorsa Isis ha dovuto abbandonare il cosiddetto "Quartiere 700". Ormai l’accerchiamento è completato anche dalla parte della spiaggia, dove i jihadisti non possono più fuggire o ricevere rifornimenti. Le milizie stanno attaccando il centro congressi di Ougoudugu, fatto di palazzoni in cemento armato sovrastanti grandi bunker. La lotta è per la vita e la morte. Nessuno fa prigionieri. I cecchini di Isis sono infidi, attenti, bene armati. Quando si sentono perduti corrono contro i nemici con le loro cinture bomba pronte ad esplodere. Sirte è una città relativamente piccola. Le periferie sono ricche di spazi aperti. Quelle zone sono state conquistate più facilmente. Isis può molto poco contro i droni inglesi e americani che colpiscono dall’alto. Anche l’aviazione libica gioca la sua parte. L’abbiamo notata più volte con i suoi raid sporadici, poco precisi, però di forte effetto psicologico contro Isis che dispone di poche o nessuna arma anti-aerea. I pick up corrono nella pianura desertica dribblando tra le zone minate e le aree battute dai cecchini. Nel furore dello scontro morire invocando Allah diventa una prova di coraggio, un punto d’onore. Spesso del tutto sconsiderato. Due settimane fa abbiamo assistito in diretta ad una battaglia sanguinosa dove quasi 50 miliziani hanno perso la vita e 150 sono rimasti feriti in otto ore di scontri e avanzando solo di due chilometri. Da allora i loro comandanti si sono fatti più cauti. Circa 1.000 giubbotti anti-proiettile e altrettanti elmetti sono stati ordinati dall’estero. E tuttavia più ci si addentra tra le vie del centro più la battaglia si farà cruenta. La logica sarà quella di esporsi il tempo necessario per individuare i nidi di resistenza nemici, per poi cercare di debellarli a colpi di Rpg e mitragliatori pesanti. Isis ad un certo punto comincerà a scarseggiare di munizioni. Già adesso i suoi uomini sparano colpi individuali, evitano le raffiche per non sprecare le riserve sempre più povere. Poi sarà il gatto col topo. Ma le sofferenze restano alte. Sono necessarie oltre due ore di folle corsa alle ambulanze e gipponi per portare i feriti delle milizie agli ospedali di Misurata. Quelli gravi muoiono dissanguati nel viaggio. Isis invece non ha neppure questa alternativa. Da due settimane ha perso il controllo dell’unico ospedale cittadino. Le sue infermerie sono luoghi privi quasi di tutto. Morire diventerà l’unica possibilità di porre fine alle sofferenze per i fanatici del Califfato. Gran Bretagna: ex militari in mimetica nelle scuole per "forgiare" il carattere dei ragazzi di Caterina Belloni Corriere della Sera, 5 luglio 2016 Il programma da 2 milioni di sterline si chiama "Commando Joe" e funziona: rende i bimbi più disciplinati, anche a tavola, riduce i ritardi a scuola e gli atti di bullismo. Ma c’è chi obietta: non c’è un altro modo per ottenere gli stessi risultati? Resistenza alla fatica, capacità di reagire alle difficoltà, gestione dello stress. Tre requisiti fondamentali per ogni soldato che voglia sopravvivere, ma forse anche tre elementi essenziali per ogni bambino destinato ad affrontare le sfide della crescita e dell’età adulta. Tanto che in Gran Bretagna il governo ha deciso di assegnare a programmi di stile militare un terzo dei fondi stanziati all’interno del piano nazionale promosso a favore del rafforzamento del carattere degli studenti. Per il nuovo anno saranno due milioni di sterline su sei, destinati a rendere realtà progetti che dovrebbero sviluppare nei giovani resilienza, ordine, disciplina e capacità di lavorare in gruppo negli alunni tra i 6 e i 18 anni. Le richieste di finanziamento arriveranno nelle prossime settimane ed entro settembre verranno selezionati i progetti migliori, che possono richiedere da 50mila fino a 750mila sterline. Commando Joe in azione - Tra le iniziative destinate a rafforzare il carattere rientrano attività artistiche e teatrali, programmi sportivi approfonditi e appunto, come novità, gli interventi di formazione che abbiamo uno stile militare. Come quello chiamato Commando Joe, promosso da ex militari, che vanno nelle scuole determinati ad "inquadrare" i bambini e i ragazzi, in modo da prepararli ad un futuro di efficienza. Durante le lezioni i docenti, che arrivano in classe in tuta mimetica, invitano i ragazzi a condividere scelte strategiche, li sottopongono ad allenamenti fisici tra corsa e flessioni, li invitano a smussare le tensioni in modo da ritrovare uno spirito di gruppo. Nelle scuole che hanno abbracciato questa filosofia militaresca sono stati raggiunti risultati interessanti, tanto che appunto il ministero per i bambini e le famiglie, guidato da Edward Timpson, ha deciso di assegnare un terzo dei fondi a sua disposizioni alle proposte che ricordano l’approccio della Raf e dei soldati al fronte. Anche se qualche voce si oppone a questa tendenza. Più attenti e puntuali - Kevin Courtney, segretario generale dell’Unione nazionale degli insegnanti, ha dichiarato pubblicamente che questo approccio militare, tanto amato dal governo, non è l’unico in grado di ottenere dei risultati in termini di rafforzamento del carattere e della confidenza. Il dubbio sotteso alle critiche è quello che certi progetti vengano appoggiati per instillare, soprattutto negli studenti più giovani, un interesse nella carriera militare. Un effetto possibile, che però segue quelli più concreti, dal miglioramento del comportamento a tavola allo sviluppo di uno spirito di obbedienza e collaborazione. I dati diffusi dai responsabili di Commando Joe, programma inventato quasi per scherzo da Mike Hamilton, che prima di cominciare con le lezioni ha lavorato come esperto nel neutralizzare bombe in Iraq e Afghanistan, parlano di 256 istituti coinvolti, investimenti da un milione di sterline all’anno e risultati entusiasmanti sotto diversi punti di vista. Dal numero dei ragazzini in ritardo, che è sceso del 53%, all’attenzione in aula che è praticamente raddoppiata, fino a bullismo e ai problemi di comportamento, ridotti del 68%. Segno che il pugno di ferro funziona. Ma siamo sicuri che sia il solo metodo possibile?