Giudici che processano giudici, una voragine da 750 milioni di Andrea Rossi La Stampa, 4 luglio 2016 Lo Stato debitore non ha abbastanza soldi per le vittime delle cause lumaca, così 8 mila cittadini l’anno si rivolgono al Tar. Che dà loro sempre ragione. Processi infiniti Un terzo dei processi che si svolgono in Italia supera i limiti previsti dalla Legge Pinto. Se tutti dovessero fare causa, lo Stato dovrebbe sborsare qualcosa come 5 miliardi. Il professor Filippo Fanini, primario all’ospedale Regina Elena di Roma, nel 1992 puntava a dirigere la Chirurgia plastica ricostruttiva alle Figlie di San Camillo. Poiché fu scelto un suo collega presentò ricorso al Tar. L’ha perso, ma quando è arrivata la sentenza - nel 2012 - era già in pensione. Seccato per aver atteso vent’anni, ha fatto causa al ministero della Giustizia. Ha ottenuto il risarcimento il 5 gennaio 2016. Non lo vedrà mai: è morto nel 2015. La sua battaglia sarebbe stata ancora lunga: per essere pagato avrebbe dovuto attendere quattro, cinque, sei anni. Ogni giorno la Giustizia processa le sue estenuanti lungaggini. Nelle aule di tribunale ci sono giudici che lavorano per stabilire se dei cittadini abbiano diritto di essere risarciti per la lentezza di altri giudici. E in altre aule - stavolta nei tribunali amministrativi - altri giudici processano l’amministrazione dello Stato, colpevole di non aver pagato quei risarcimenti. Il cane si morde la coda - Il sistema giustizia accumula ritardi verso i suoi utenti e poi li indennizza sborsando centinaia di milioni attraverso le sentenze dei suoi stessi giudici, i quali - impegnati in questa abnorme fatica riparatoria - accumulano altri ritardi e futuri debiti. Lo Stato poi non stanzia abbastanza risorse per risarcire le vittime della giustizia lumaca e le costringe a fargli causa una seconda volta, imbarcandosi in un nuovo e defatigante contenzioso, che può arrivare fino al pignoramento nei confronti della pubblica amministrazione. Negli ultimi anni è diventata la regola e ha prodotto un ulteriore effetto: l’intasamento dei Tar, sommersi dai ricorsi dei cittadini in lotta con il ministero della Giustizia che non paga. Nel 2003 i provvedimenti emessi dai Tar erano 40; nel 2010, 189. Poi sono esplosi: 1021 nel 2012; 2178 nel 2013, 4102 nel 2014, 6522 nel 2015. A metà 2016 siamo già a 3792. Un fascicolo su otto trattato dalla magistratura amministrativa riguarda i contenziosi tra cittadini e ministero della Giustizia. In alcuni Tar - vedi il Lazio - siamo a uno su cinque. Per non parlare dei ricorsi: solo al Tar del Lazio quelli depositati nel 2015 sono stati 3701, il 53% in più rispetto ai 2418 dell’anno precedente. In tutta Italia si è passati dai 2700 del 2013 ai 5235 del 2014 per sfondare il muro degli 8 mila l’anno scorso. Inutile dire che - salvo i non molti casi in cui viene meno l’oggetto del contendere perché nel frattempo arriva il risarcimento - i Tar danno sempre ragione al cittadino. Un autogol tutto interno alla pubblica amministrazione, sottolineato dalla presidente del Tar Campania Marilisa D’Amico: "È sintomatico delle difficoltà della pubblica amministrazione nel fare fronte alle proprie obbligazioni, con progressivo aggravio di oneri per spese e interessi, ed è tanto più grave in quanto tali obbligazioni non derivano dall’ordinario svolgimento delle attività amministrative ma conseguono a inefficienze del servizio giustizia". La beffa della legge Pinto - Nel 2001, su sollecitazione dell’Europa, l’Italia ha varato una norma - chiamata legge Pinto, dal nome del suo estensore, il senatore Pinto dell’allora Ppi - il cui scopo era sgravare la Corte europea di Giustizia dall’enorme mole di cause intentate da cittadini che avevano affrontato processi troppo lunghi in Italia. Il bilancio, quindici anni dopo, è magro: le somme liquidate sono basse rispetto al resto d’Europa, ma soprattutto lo Stato si dimostra un pessimo debitore. Non paga. E quando paga arriva quasi sempre sull’onda di un tribunale che lo costringe. Un processo è "ragionevole" se si esaurisce in tre anni per il primo grado, due per il secondo e uno per la Cassazione. Lo Stato non ce la fa quasi mai e ogni anno viene inondato di cause: nel 2003, secondo anno di applicazione della legge Pinto, erano 3580, nel 2010 sono esplose a 49.730, 53.320 nel 2011, quindi sono leggermente scese a 45 mila nel 2013. Dopo non sono più stati forniti dati. Significa che la situazione sta migliorando? Non proprio: "È stato dato ordine di sveltire l’arretrato patologico, ma così si fanno slittare i procedimenti in corso per fare posto agli arretrati", spiega l’avvocato Deborah Cianfanelli. "I nuovi processi diventano vecchi e porteranno a nuove cause". Cianfanelli, membro del partito Radicale Trasnazionale, nei mesi scorsi ha lavorato a un dossier inviato al Presidente della Repubblica: "La situazione del sistema giustizia è a uno stadio di criticità tale da potersi definire una vera e propria emergenza sociale ed economica". I processi durano troppo e vedono il cittadino partire subito in svantaggio. L’Italia, a differenza della Corte europea, considera risarcibile solo la parte eccedente i sei anni (tre, più due, più uno) "tollerati" dalla legge Pinto. Anche il risarcimento è penalizzante: fino allo scorso anno il cittadino incassava 750 euro per i primi tre anni di durata eccessiva e mille per i successivi; il resto d’Europa ha fissato altri parametri, da mille a duemila euro, e non per il solo eccesso, bensì per ogni anno di durata del procedimento. Nonostante queste condizioni di favore l’elevato numero di condanne e il budget esiguo hanno provocato un’esplosione del debito Pinto, passato dai 5 milioni del 2003 ai 750 del 2015 di cui 450 ancora da pagare. La posizione debitoria dello Stato cresce in media di 8 milioni al mese, come ammette lo stesso ministero della Giustizia. Potrebbe andare molto peggio: in uno studio del 2007 il ministero dell’Economia indicava in 500 milioni all’anno il rischio economico per lo Stato se la prassi di chiedere l’indennizzo si diffondesse tra tutti gli utenti insoddisfatti della Giustizia. Già oggi il numero dei procedimenti che rischia di sforare i parametri della legge Pinto riguarda circa una causa su tre ed è pericolosamente oltre il milione: 1.048.619 (il 28% del totale) nel 2013, 1.117.769 (il 32%) nel 2014. Se ciascuno desse origine a un contenzioso si potrebbe generare una stangata superiore ai 5 miliardi. Che lo Stato, va da sé, non saprebbe fronteggiare. Nuovi ostacoli - Il moltiplicarsi dei contenziosi di fronte al Tar, poi, è l’effetto anche dell’aumento dei ritardi nei pagamenti e della progressiva eliminazione delle altre possibilità di far valere le proprie ragioni. Nel tentativo di difendersi dai cittadini, lo Stato ha via via eliminato gli strumenti a loro disposizione: ad esempio rendendo non pignorabili tutte le somme del ministero della Giustizia depositate presso le Poste o la Banca d’Italia o eliminando la possibilità di rivalersi sulle agenzie di riscossione come Equitalia. L’unica strada rimasta sono i Tar, ormai allo stremo delle forze. "Sarebbe arrivato il momento di pensare a qualche soluzione di tipo normativo, come prevedere un giudice unico, anziché il collegio, che decida su questi ricorsi, oppure stabilire che l’ottemperanza delle decisioni del giudice ordinario sia attribuita a quest’ultimo", è l’allarme lanciato dal presidente del Tar del Lazio, Carmine Volpe. Passare attraverso i tribunali amministrativi non è indolore per lo Stato. Ogni volta che viene condannato al risarcimento e non paga, si trova poi a sborsare più del doppio: oltre a soccombere nel giudizio si deve accollare interessi e spese legali. Il costo della legge Pinto è dunque ben superiore ai 750 milioni dichiarati dal ministero della Giustizia. Eppure, rispetto al comune cittadino, l’amministrazione si è garantita condizioni molto vantaggiose. "Quando è il cittadino a essere condannato, la sentenza è immediatamente esecutiva: la notifica può arrivare subito e il pagamento va effettuato entro dieci giorni, altrimenti può iniziare la procedura esecutiva", spiega l’avvocato Cianfanelli. "Quando invece è lo Stato a subire una condanna, ha centoventi giorni dalla notifica per saldare il suo debito". Eppure non paga comunque, costringendo chi ha già subito un processo più lungo del dovuto ad avviarne uno nuovo. "Lo Stato si comporta da delinquente abituale". Contro il cittadino - Governo e Parlamento hanno preso atto dei costi - diretti e indiretti, compreso l’effetto respingente sugli investitori stranieri - causati da un sistema così schizofrenico. Ma, anziché tentarle tutte per far funzionare meglio la Giustizia e ridurre il numero di cittadini che decide di farle causa, hanno scelto di rendere pressoché impossibile ottenere i risarcimenti. La legge di stabilità per il 2016 ha drasticamente ridotto le possibilità di accedere alla legge Pinto. Il diritto all’equa riparazione viene limitato a chi, nel corso del processo, abbia adottato "rimedi preventivi", cioè tutti quegli strumenti che ne accorciano la durata (riti sommari, istanze di accelerazione). Niente risarcimento, poi, per chi agisce o resiste in giudizio sapendo che la sua causa è infondata, per l’imputato graziato dalla prescrizione, o in caso di estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti. Molte di queste clausole sono lasciate alla discrezionalità del singolo giudice che le esamina, ma il disegno complessivo è chiaro: lo Stato non si fa carico della lunghezza delle cause, spetta a chi affronta un processo preoccuparsi di farlo durare il meno possibile. "È come se il legislatore ci stesse dicendo che la lecita normalità e la regola del processo è la sua lentezza a cui la parte deve opporsi esplicitamente". Maurizio De Stefano nel 1987 ha rappresentato l’ordine degli avvocati di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo nella prima causa sulla lentezza della giustizia civile italiana. La stretta sulla legge Pinto lo preoccupa - "certe norme, come quella che prevede di castrare l’istruttoria, riducono il diritto di difesa ed espongono gli avvocati ad azioni di responsabilità professionale" - ma solo fino a un certo punto: "Alcuni paletti sono di cartapesta: la Corte di Strasburgo, dove ci sono 8 mila ricorsi pendenti per la durata dei processi italiani, li ha già cassati". Il 25 febbraio infatti è stato accolto il ricorso di quattro ex dipendenti del Comune di Benevento coinvolti in processi durati oltre 18 anni. L’Italia aveva negato loro il risarcimento perché non avevano fatto nulla per accelerare i tempi. Strasburgo l’ha invece condannata a versare 22 mila euro a ciascuno, e fissando questa somma ha di fatto sconfessato un’altra novità introdotta dalla legge di stabilità 2016: abbattere i risarcimenti, portandoli da 750-1000 euro a 400-800 euro per ogni anno che eccede il termine di ragionevole durata. A quasi trent’anni dalla prima causa contro la giustizia lumaca l’avvocato De Stefano ha raggiunto un convincimento: "Siamo su treno con cento posti su cui si vorrebbero far viaggiare mille passeggeri". Una task force di ex giudici per abbattere l’arretrato di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 4 luglio 2016 Il presidente del Consiglio di Stato al governo: "In breve sarebbe azzerato". Alessandro Pajno è presidente del Consiglio di Stato da sei mesi, nel periodo in cui questa antica istituzione, nata per volere di Carlo Alberto nel Regno di Sardegna e posta al vertice della giustizia amministrativa, vive il suo cambiamento più vorticoso, che si concluderà con i rinnovo della metà dei cento giudici entro il 2017. Nel frattempo con un deficit di organico del 38% fornisce decine di pareri sulle principali riforme del governo, a cui chiede un decreto per azzerare i processi arretrati. Ma il cambiamento principale è culturale: "Dobbiamo aprirci ai cittadini e non alzare barriere". I giudici penali comunicano troppo, voi troppo poco? "Io non auspico un giudice silenzioso e solitario, che si condanna all’incomprensione. Ma temo un eccesso di comunicazione non istituzionale per ricerca di consenso". È opportuno che i magistrati si schierino su questioni politiche come il referendum? "No a divieti e regole assolute, sì al self restraint dei capi degli uffici. L’imparzialità e l’immagine di indipendenza vanno salvaguardate quanto la libertà di manifestazione del pensiero". Come mai siete percepiti come blocco del Paese? "È un luogo comune. Sugli appalti la sentenza definitiva arriva in un anno e mezzo. Nelle recenti elezioni abbiamo deciso su centinaia di ricorsi, con punte di 64 sentenze al giorno. Performance di livello europeo". Vi chiamano parrucconi. "Non lo siamo antropologicamente né anagraficamente. La composizione è eterogenea e siamo una delle Corti supreme europee con la più alta concentrazione di magistrati under 50. Non siamo come i cardinali del film "Roma" di Fellini. Ma se ci percepiscono così, dobbiamo chiederci perché". Lei che risposta dà? "Siamo stretti tra due emergenze. Da una parte le norme sono numerose, complicate e variabili; dall’altra la pubblica amministrazione reagisce con la fuga dalla responsabilità, con la paura di scegliere. Tutto viene scaricato sul giudice, che resta col cerino in mano. La conseguenza è la paralisi, vero gap del Paese". A cui voi contribuite? "Meno di quanto si dica. Le sospensive sono ormai limitatissime. La decisione della pubblica amministrazione viene confermata nel 70% dei casi. Solo due sentenze dei Tar su dieci cambiano in appello. Però la nostra attività è più difficile da spiegare, da "volgarizzare", rispetto al penale". Dunque il sistema funziona, va solo "volgarizzato"? "No, anche noi dobbiamo migliorare. Rapidamente". Come? "Capendo e spiegando che il diritto amministrativo è diventato il diritto della post modernità in uno scenario transnazionale. È la nostra grandezza e il nostro limite". Perché un limite? "Talvolta pensiamo che il mondo vada guardato dal buco della serratura della magistratura. Io penso il contrario: prima c’è il mondo, poi noi. Se non usciamo dall’autoreferenzialità, per i cittadini resteremo sempre dei parrucconi". Cos’è l’autoreferenzialità? "Qualcuno si ritiene assiso su un soglio importante. Io penso che svolgiamo un servizio pubblico, non esercitiamo un potere e dobbiamo renderne conto come tutti. La giustizia è una risorsa come l’acqua, non va sprecata". I servizi pubblici sono soggetti a valutazione esterna. E il vostro? "Anche il nostro. Veniamo da un’atmosfera culturale in cui ci preoccupavamo di garantire il giudice e la sua indipendenza, non la qualità del servizio. Ora bisogna contaminarsi e organizzarsi. Senza paura". E l’indipendenza dei giudici? "Non la vedo a rischio. C’è la Costituzione. E poi ormai è nel nostro Dna". Bastano organizzazione ed efficienza? "No, senza un cambio culturale. Faccio l’esempio delle motivazioni delle sentenze, a volte troppo lunghe. Essere sintetici è più difficile, lo so, ma non possiamo pensare di scrivere come un secolo fa. Più semplice e sburocratizzato è il linguaggio, più efficace è l’azione". Qual è il cambio culturale? "Il nostro compito è dare giustizia al cittadino nei confronti del potere pubblico. Le nostre decisioni incidono sull’economia del Paese e il rapporto tra tempo e processo è fondamentale". E gli altri processi? "C’è il rischio che restino indietro, creando una giustizia di serie B. Una buona organizzazione e una diversa cultura possono evitarlo. Ma prima bisogna liberarsi della zavorra dell’arretrato. Oggi fissiamo udienze di ricorsi sorti dieci anni fa. Questa massa va smaltita". Che cosa chiedete al governo? "Una piccola task force straordinaria di giudici in pensione, per un periodo limitato a smaltire l’arretrato. Non complicato né costoso e con evidente beneficio. Noi possiamo impedire che in futuro si riproducano sacche di arretrato e concentrarci anche sull’altra funzione, consultiva sull’attività normativa del governo". È la meno conosciuta. "Ma è la più antica. Il Consiglio di Stato nacque nel 1831 proprio per porre un freno di legalità al governo. Oggigiorno è una forma di legalità preventiva che ci rende attori delle riforme di sistema". Qual è la cifra dei vostri pareri sulle ultime riforme del governo, dal canone Rai alla pubblica amministrazione? "Abbiamo guardato non solo alla legalità formale, ma soprattutto alla capacità di funzionare davvero. Un lavoro enorme che il Parlamento ha apprezzato e il governo accolto in gran parte". In gran parte. "Sugli appalti avremmo ulteriormente ridotto il massimo ribasso. Ma la materia è controversa e si sono fatte diverse e legittime valutazioni". Come sono i rapporti con il governo? "Direi buoni e ispirati a piena collaborazione. E comunque si deve distinguere la polemica politica dai comportamenti istituzionali, sui quali non vi è nulla da eccepire. Ciascuno fa quello che deve. Ma ho l’impressione che l’incomunicabilità sia superata, con il tempo si impara a conoscersi. Il momento storico chiede un supplemento di cultura istituzionale. A tutti". Il governo ha appena rinviato per la terza volta l’avvio del processo telematico. "Mi spiace, noi eravamo sostanzialmente pronti. Forse sarebbero state utili piccole modifiche. Un Paese che rinvia è un Paese che non vuole affrontare la realtà. Il rinvio non appartiene alle migliori abitudini nazionali. Spero almeno che sia l’ultimo. Abbiamo altri sei mesi, usiamoli al meglio". Per smantellare il 41-bis c’è già il "piano Manconi" di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2016 Le "raccomandazioni" della Commissione che farebbero felici i boss. La guida pratica per smantellare il carcere duro inflitto ai super capi delle mafie è un rapporto della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi. Il rapporto è stato presentato lo scorso aprile e torna d’attualità dopo le dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore relative all’esigenze di una "maggiore flessibilità per i diritti e la dignità dei detenuti al 41-bis". Le affermazioni di Migliore, numero 2 di via Arenula, sono proprio in linea con la parte finale del rapporto, ovvero le "raccomandazioni " della Commissione parlamentare. Elaborate dopo colloqui con gli stessi detenuti, queste "raccomandazioni", per alcuni aspetti ovvi richiami ai diritti umani, se venissero attutate cancellerebbero di fatto la concezione stessa del regime di carcere duro fortemente voluto nel 1992, in piena guerra contro Cosa Nostra, da Giovanni Falcone e diventato legge dello Stato solo dopo la strage di via d’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque uomini di scorta. La Commissione Manconi raccomanda: "Una revisione della legislazione consolidata" sul 41-bis; "la possibilità per i detenuti in regime di 41-bis di avere un canale di facile accesso alla comunicazione con il direttore" del carcere; "rivedere la previsione"(applicata attualmente solo nel carcere di Sassari Bancali) "secondo cui i detenuti sottoposti al regime speciale devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati"; "la predisposizione di chiusure interne azionabili dal detenuto o su sua richiesta"; "la videosorveglianza applicata solo in casi particolari"; "rivedere le limitazioni al possesso di oggetti nelle camere detentive"; "il ricorso motivato e non routinario alle perquisizioni delle camere detentive, nonché il massimo riguardo nei confronti dei detenuti"; "la rinuncia alle perquisizioni dei familiari in visita in tutti i casi in cui non sia previsto il colloquio senza vetro divisorio con alcuno di essi"; "facilitare lo svolgimento dei colloqui dei parenti dei detenuti e, in particolare, di consentire la possibilità di cumulare le ore di colloquio non usufruite"; "avere visite senza vetro divisorio"; "il superamento di ingiustificate limitazioni ai colloqui telefonici con i familiari"; "la possibilità per i detenuti al 41-bis di prendere parte alle udienze dei processi cui partecipano in veste di imputati", questo perché secondo la Commissione "il collegamento a distanza potrebbe far configurare una limitazione di tale diritto". Non servono commenti, rispetto all’ultimo punto basta immaginare cosa significherebbe il ritorno di Salvatore Riina o Leoluca Bagarella a Palermo o dell’appena arrestato Ernesto Fazzalari a Reggio Calabria per un’udienza processuale. Il carcere duro applicato in una struttura penitenziaria su 12 di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2016 Sassari-Bancali è l’unica Casa circondariale che rispetta le norme di legge. sul regime iper restrittivo per i super criminali. A Parma per Riina e gli altri 61 le maglie sono larghe. C’è soltanto una Casa circondariale in Italia che risponde alle caratteristiche prescritte dalla legge (per altro con un intervento del governo Berlusconi, pacchetto sicurezza 2009) in materia di 41-bis: il supercarcere di Sassari Bancali, in Sardegna. E un altro sarebbe già pronto sempre sull’isola, nel comune di Uta, vicino Cagliari. Ma paradossalmente, a oltre due anni dall’inaugurazione, la sezione speciale per i 41-bis è l’unica della struttura a non essere utilizzata per ritardi nei lavori dovuti anche al fallimento della ditta appaltante. A Uta i posti per i 41-bis sarebbero 92, quindi potrebbero essere completamente assorbiti i detenuti della struttura che presenta le peggiori condizioni possibili in materia di carcere duro: ovvero quella di Parma dove sono stati e sono detenuti, tra gli altri, il capo dei capi di Cosa Nostra Salvatore Riina; in precedenza, per anni, il suo successore alla guida delle cosche siciliane Bernardo Provenzano, adesso a Milano Opera in sempre più critiche condizioni di salute; il Sandokan dei Casalesi Francesco Schiavone; il padrino leggendario della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo; e, sotto processo, Massimo Carminati, accusato dalla Procura di Roma di essere il capo indiscusso di Mafia Capitale. Così il rapporto della Direzione nazionale antimafia presentato nel gennaio 2015: "Le strutture che ospitano i detenuti sottoposti al 41 bis (dodici per 732 super criminali, ndr) sono nate spesso come strutture carcerarie femminili. Nate dunque con lo scopo, ben diverso ed addirittura opposto a quello che deve realizzare il regime di cui all’articolo 41-bis di promuovere la socialità tra le detenute, e con le conseguenti difficoltà strutturali che tali istituti hanno nell’impedire le comunicazioni interne alle carceri, nel senso che le celle spesso si trovano sullo stesso corridoio e che tale situazione rende, appunto, molto difficile impedire comunicazioni tra i detenuti, che poi possono essere veicolate in via indiretta all’esterno (ad esempio attraverso familiari di altri detenuti)". È proprio il caso di Parma, dove Riina può conversare direttamente con altri tre detenuti, il dirimpettaio e i suoi due vicini potendo così raggiungere, attraverso il passaparola, tutto il corridoio. La legge del 2009 prevede per i 41-bis una possibilità di socializzazione tra quattro detenuti al massimo. La stessa legge indica per 41-bis la detenzione in istituti di pena insulari. Le strutture delle isole di Asinara e Pianosa era state chiuse nel 1998. Questa caratteristica è rispettata soltanto da Sassari Bancali, quindi, in attesa che sulla stessa isola, la Sardegna, apra anche la sezione 41-bis di Cagliari Uta. Un altro particolare inquietante - che dovrebbe scongiurare le raccomandazioni della Commissione Manconi o l’introduzione di tecnologiche come le video chiamate di Skype se non nel reparto stesso anche soltanto nelle carceri dove ci sono sezioni 41-bis - emerge dal rapporto successivo della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo di Franco Roberti, presentato nel gennaio 2016: "Per quanto concerne il territorio, il controllo della provincia di Caltanissetta, suddivisa storicamente nei quattro mandamenti di Vallelunga Pratameno, Mussomeli, Gela e Riesi, sembrerebbe essere ancora oggi nelle mani di Giuseppe Piddu Madonia il quale, nonostante i numerosi anni di detenzione carceraria" al 41-bis "continuerebbe a gestire i propri illeciti attraverso il suo circuito parentale e quello delle amicizie più fidate". Tutto questo in un momento storico in cui, oltre al pericolo sempre vivo delle mafie esiste anche una minaccia internazionale più forte che mai, come si legge nelle pagine della stessa relazione della Dna: "Prima di affrontare il tema relativo all’importanza ed insostituibilità, nel quadro complessivo del sistema legislativo di contrasto al crimine organizzato, costituito dal regime detentivo speciale" del 41-bis "appare necessario segnalare l’importanza di un adeguato monitoraggio della numerosa popolazione carceraria di fede islamica, al fine di individuare possibili forme di proselitismo volte a realizzare, tra tale popolazione carceraria forme di radicalizzazione estrema della fede religiosa che possa portare alla formazione di cellule terroriste, legate a Daesh". Gennaro Migliore: "mai pensato di dare Skype ai mafiosi" di Giulio Cavalli fanpage.it, 4 luglio 2016 Gennaro Migliore smentisce di voler alleggerire il regime 41 bis e tantomeno di voler dare Skype ai mafiosi. "Non ho mai pronunciato la frase attribuita dal Fatto Quotidiano - ci dice - e ho dovuto fare una conferenza stampa per smentire una cosa che non esiste". Il terremoto si scatena con la prima pagina de Il Fatto Quotidiano in cui con un articolo a nove colonne si annuncia la volontà di Gennaro Migliore di "dare Skype" ai mafiosi, il tutto corredato con le foto dei più temuti boss rinchiusi nelle patrie galere. Secondo il giornalista de Il Fatto infatti il sottosegretario alla Giustizia avrebbe espresso la volontà di alleggerire il carcere duro e implementare l’utilizzo delle nuove tecnologie per le comunicazioni con l’esterno, ipotesi nettamente in contraddizione con lo spirito del 41 bis pensato da Falcon e Borsellino. Insieme alle grida di indignazione dei partiti (M5S in testa) si sono levate anche le voci di noti esponenti della magistratura come il PM Teresi che, sempre intervistato da il Fatto, ha dichiarato che "il 41-bis è stato ritenuto dalla Corte costituzionale in linea con le garanzie e con i diritti fondamentali dei detenuti. Quindi non serve alcuna modifica dell’attuale regime carcerario, perché è già pienamente in linea con i principi costituzionali." aggiungendo che "l’uso di mezzi tecnologici come Skype favorirebbe contatti fra i detenuti più pericolosi e soggetti esterni, al di fuori di ogni controllo delle autorità preposte. Non solo, ma in tal modo si vanificherebbero i fondamenti stessi della misura che fu introdotta nel 1992 da un’idea di Giovanni Falcone". Gennaro Migliore però non ci sta. Stamattina sul suo profilo Facebook ha parlato di "falso sbattuto in prima pagina" e raggiunto al telefono ci tiene a puntualizzare. "Non ho mai pronunciato la frase attribuita dal Fatto Quotidiano - ci dice - e ho dovuto fare una conferenza stampa per smentire una cosa che non esiste". Ma come è possibile allora che si sia creato tutto questo fragore? "Io ho parlato di 41 bis e poi dei detenuti in generale. Riferendomi ad esempio alle buone pratiche del carcere di Bollate e facendo riferimento ai detenuti ordinari ho chiesto che oltre a una dignitosa assistenza medica, psichiatrica e psicologica si potesse anche valutare nuove forme di contatto con le proprie famiglie. Figurarsi se non so che proprio nell’isolamento sta l’idea nativa del 41 bis. Sto cercando di recuperare anche i video della conferenza stampa per sbugiardare chi oggi lucra su un pensiero che non mi appartiene." "Già ieri - continua Migliore - ho dovuto rispondere a un delirante comunicato del M5S che mi accusava di questo ma dopo aver parlato personalmente con il giornalista de Il Fatto Quotidiano non avrei mai pensato di ritrovarmi un articolo del genere". E quando gli si fa notare che anche elementi della magistratura sono intervenuti nel dibattito Migliore risponde: "Purtroppo il circuito mediatico funziona così. Male. Ma il magistrato avrebbe più interesse di altri a verificare la notizia. Tra l’altro la notizia è di ieri non di oggi. Una cosa del genere non la penso, non è possibile ed è fuorilegge". "Comunque - conclude il sottosegretario alla Giustizia - vanno garantite le assistenze psicologiche oltre che psichiatriche. Vanno garantite le cure mediche. Difenderò sempre i diritti dei detenuti senza temere le false manipolazioni". Bossetti non si arrende: "Vado avanti per i miei figli" di Fabio Poletti La Stampa, 4 luglio 2016 L’ergastolo forse lo aveva messo in conto. Che gli togliessero i tre figli di sicuro no. È un automatismo collegato alla massima pena. Sarà applicato dopo la sentenza definitiva della Cassazione. Ma per Massimo Bossetti, cella singola nel carcere di Bergamo, dopo la prima notte da ergastolano è un elemento di disperazione in più: "Avvocato davvero possono togliermi i miei figli? Non possono farmi anche questo...". La solita t-shirt azzurra profilata di bianco che aveva la sera della sentenza. Gli occhi gonfi per una notte insonne, guardato a vista 24 ore su 24 nel timore che possa fare quello che lui giura non farà mai. "Vado avanti. Vado avanti per i miei figli. Se io sono innocente, come possono condannarmi?", chiede come un mantra all’avvocato Claudio Salvagni, il suo difensore, il primo ad andare a trovarlo in carcere il giorno dopo che gli hanno messo il timbro "fine pena mai". La pelle abbronzata di sempre di chi si prende ogni goccia di sole durante l’ora d’aria. Ma è un Massimo Bossetti diverso quello di oggi. Il giorno della prima sentenza è passato. La condanna all’ergastolo è più di un timbro su un atto giudiziario. Il muratore di Mapello ha sogni di rivalsa. Ma prima deve risollevarsi: "Devo superare lo sconforto per questa ingiustizia. In vita mia non ho mai fatto male a nessuno. Ho sempre avuto una vita normale. Mi stanno uccidendo dentro. Tutto hanno sconvolto: la mia vita, i miei figli... È una tortura...". A venti chilometri da qui, a Brembate di Sopra, l’aria è diversa. Nel giardinetto davanti alla casa Mauro Gambirasio falcia l’erba prima che piova. Sua moglie Maura, la mamma di Yara, risponde gentile al citofono ma non dice niente come sempre: "Rispettate il nostro silenzio". Le ultime loro parole chissà fino a quando, sono quelle riferite dal loro legale poco dopo la condanna: "Non esultiamo perché niente ci potrà ridare nostra figlia. Ma almeno adesso sappiamo chi è stato". Ne sono convinti, forti di questa sentenza. Ci ha sempre creduto il magistrato di Bergamo Letizia Ruggeri che ha ribaltato mezza provincia per dare un nome al dna di Ignoto 1. Si sono adeguati anche i giudici della Corte d’Assise. Ma si capisce che nella storia del "Favola", come chiamavano il muratore di Mapello per le troppe bugie che raccontava, c’è più di un buco nero. Ad avvicinarsi alla casa della sorella di Massimo Bossetti a Mapello da una villetta si affaccia un vicino che insulta i giornalisti: "Corvi, corvacci, andate via di qui... Lasciatela stare". Laura Letizia Bossetti al citofono è invece assai gentile: "Questa condanna ce l’aspettavamo. Ma noi andiamo avanti. C’è ancora l’appello non è finita. Noi siamo ancora convinti che sia innocente. Dicono che il dna sia il suo? E vediamo...". Si capisce che sarà su questo che insisterà la difesa. Sul dna da ripetere che oggi inchioda il muratore di Mapello. Negli Stati Uniti il dibattito sulla sua validità è aperto da anni. Anche qui si affaccia qualche dubbio. Uno dei tanti di questa storia con troppe lacune. Molti si chiedono come abbia fatto lui a caricare a forza in auto una ragazzina allenata come solo le atlete e soprattutto le ginnaste possono essere. Se ne parla sui giornali e alla televisione e se ne parla pure in questi paesoni che dal 26 novembre di sei anni fa, quando Yara uscì dalla palestra di Brembate di Sopra per svanire nel buio, si chiede chi possa averle fatto tanto male. Il muratore di Mapello con tutte le sue contraddizioni, i computer dove cercava materiale pedopornografico, il suo furgone che girava in paese, è un colpevole più che perfetto. L’unico che abbia trovato la procura di Bergamo dopo aver inseguito un altro muratore, un marocchino vittima di una traduzione sbagliata. Anche nel negozio di alimentari a fianco della casa di Massimo Bossetti a Mapello non si parla d’altro. "Ma siamo sicuri che sia stato lui?", chiede una signora con la borsa della spesa. La domanda che si fanno tutti. E che potrebbe farsi da sempre pure Marita Comi la moglie del muratore. Ma lei dopo la sentenza in aula, trattenendo le lacrime dopo aver abbracciato il marito, aveva ripetuto di credere nella sua innocenza: "Adesso gli credo ancora di più. La mia fiducia in lui è ancora più forte". E alle 8 di mattina, come ogni sabato giorno di colloqui, si infila nel carcere di Bergamo per andare a trovare il marito. Vittime di mafia, più poteri sul fondo al giudice ordinario Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2016 La vittima di un reato di criminalità mafiosa ha un diritto soggettivo ad accedere al fondo di solidarietà e, se il ministero dell’Interno respinge l’istanza, può rivolgersi al giudice ordinario che può affermare l’esistenza di questo diritto anche disattendendo il provvedimento amministrativo e senza che sia necessario impugnarlo di fronte al giudice amministrativo. Lo afferma il Tribunale di Palermo (giudice Nozzetti) con la sentenza del 9 aprile scorso. Il principio, espresso dalla Cassazione con l’ordinanza 21306/2015, è stato applicato dal giudice di Palermo che ha così superato alcuni suoi precedenti di segno contrario (si veda Il Sole 24 ore del 5 gennaio 2015). I parenti di un uomo ucciso da un clan mafioso non avevano ottenuto l’accesso al fondo perché il comitato di solidarietà per le vittime di mafia, organo del ministero dell’Interno deputato a queste valutazioni, aveva ritenuto che sussistesse una delle situazioni ostative previste dall’articolo 2-ter della legge 186/2008. Questa norma esclude dal beneficio chi sia stato denunciato per reati di associazione mafiosa, di traffico di stupefacenti, di omicidio o di porto o detenzione di armi. Il comitato aveva in realtà dato un’interpretazione estensiva: l’uomo ucciso era stato segnalato per vari reati, ma i procedimenti a suo carico si erano conclusi già in fase istruttoria escludendo ogni sua responsabilità. Tuttavia, nel processo a carico dei suoi assassini, era emerso - grazie alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia - che i vertici di "cosa nostra" del quartiere dove abitava lo consideravano legato a un gruppo di "cani sciolti", dediti a traffici illeciti da loro non autorizzati. Per questo l’autorità amministrativa aveva negato l’accesso al fondo. Il Tribunale di Palermo ritiene che "l’istruttoria delle domande di accesso, pur implicando un’attività valutativa volta ad accertare (...) l’effettiva estraneità della vittima al sodalizio criminoso, non si sostanzi in attività amministrativa in senso proprio, non essendo essa espressione di un potere autoritativo né sottintendendo quella valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati coinvolti che costituisce il proprium dell’attività amministrativa". Il giudice palermitano afferma che il diritto al pagamento deriva dall’accertamento della matrice mafiosa dell’omicidio. La causa di esclusione deve derivare da un accertamento altrettanto sicuro di cause ostative; nel caso esaminato, invece, nella sentenza penale a carico dei killer si evidenziava che nessuno degli esecutori era a conoscenza delle ragioni per le quali era stato loro ordinato il delitto e che il movente delle attività illecite della vittima era un mero sospetto, non accertato nemmeno negli accertamenti svolti sulla vittima da parte degli investigatori. Anche se si ammette che altri dati, diversi dalle denunce a carico della vittima, possano valere a escludere il beneficio, occorre che siano ancorati a elementi precisi e concordanti. Mentre non sono sufficienti a sbarrare la strada del fondo i meri indizi non univoci. Sospensione pena dopo demolizione dell’abuso, sui tempi decide il giudice di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 27 maggio 2016 n. 22258. Quando la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena inflitta per il reato di esecuzione di lavori in assenza di concessione edilizia o in difformità sia subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato con demolizione dell’opera eseguita, compete al giudice fissare il termine per l’adempimento della condizione della demolizione del manufatto abusivo, giacché l’articolo 165 del Cp prevede una statuizione discrezionalmente adottabile dal giudice, che ben può essere motivatamente adeguata al caso concreto. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 22258 del 27 maggio 2016. Sulla sospensione condizionale della pena - Come è noto, il giudice, nel concedere la sospensione condizionale della pena inflitta per il reato di esecuzione di lavori in assenza di concessione edilizia o in difformità, legittimamente può subordinare detto beneficio all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione dell’opera eseguita, disposta in sede di condanna del responsabile (sezioni Unite, 20 novembre 1996, Luongo): ciò in quanto la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare. Il "termine" per l’adempimento della demolizione dell’abuso - Qui, la Corte affronta la questione del "termine" per l’adempimento della condizione della demolizione del manufatto abusivo, affermando che compete al giudice fissarlo, giacché l’articolo 165 del Cp prevede una statuizione discrezionalmente adottabile dal giudice, che ben può essere motivatamente adeguata al caso concreto. Nella specie, il giudice di merito aveva concesso "trenta giorni" dal passaggio in giudicato della sentenza quale termine per la demolizione delle opere e la Corte, conseguentemente, ha dichiarato inammissibile il ricorso basato sul rilievo che, invece, il termine dovesse essere fissato in novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, indicato nell’articolo 31 del Dpr 6 giugno 2001 n. 380, per garantire il coordinamento tra la procedura sanzionatoria penale e quella demandata all’autorità amministrativa. Secondo la corte di legittimità, infatti, è attribuito al giudice di merito, in ordine alla fissazione del termine, un potere discrezionale, da esercitare avendo riguardo alle specificità del caso concreto, mentre il termine di novanta giorni indicato nell’articolo 31 citato assume rilievo solo all’interno della disciplina sanzionatoria amministrativa, trattandosi del termine dal cui decorso infruttuoso consegue l’acquisizione gratuita del manufatto abusivo e dell’area di sedime al patrimonio del comune (articolo 31, comma 2, del Dpr n. 380 del 2001). Piuttosto, precisa la Corte, diversa situazione è quella in cui il giudice di merito abbia omesso di fissare il termine per la demolizione: in tale evenienza, secondo la più recente e accreditata giurisprudenza, il termine per adempiere è da ritenere quello di giorni novanta dal passaggio in giudicato della sentenza, desumibile dai parametri della disciplina urbanistica prevista dall’articolo 31 del Dpr n. 380 del 2001 (sezione III, 4 dicembre 2014, Baccari, nonché sezione III, 13 maggio 2009, PG in proc. Neri). E ciò secondo un orientamento che si contrappone e supera un più risalente indirizzo interpretativo con il quale si era sostenuto che, nel caso di omessa indicazione del termine da parte del giudice, questo dovesse essere determinato avendo riguardo a quello legale di cui all’articolo 163 del Cp,per il quale la pena resta sospesa e, cioè, di due anni per le contravvenzioni (sezione III, 11 gennaio 2007, Pm in proc. Faralla). Violenza contro le donne, quanto ha contato il silenzio della politica e della cultura maschile? di Lea Melandri Corriere della Sera, 4 luglio 2016 La recente sequenza di femminicidi deve aver fatto cadere, da parte maschile, alcune delle resistenze più forti a interrogarsi come "genere", a chiedersi se la "follia omicida" di pochi non sia imparentata, nel profondo di "antiche e oscure emozioni" - come le chiama Virginia Woolf, con l’idea di "virilità" di cui sono improntati sia la cultura alta che il senso comune. "Viviamo ancora, noi maschi in Italia - scriveva Nicola Lagioia sulla prima pagina di Repubblica (il 10 giugno scorso - in un contesto che ci mette in una posizione di predominanza. Quanto ne siamo consapevoli? Quanto, consapevolmente o meno, cediamo alla tentazione di contribuire a cementare un modello che ci vede in differenti blocchi di partenza rispetto alle donne? E quanto siamo tentati di trasferire questo modello nel privato delle nostre relazioni sentimentali?". Altalenando tra riflessioni più teoriche e testimonianze di vita personale, la parola degli uomini parla oggi con una coscienza di sé e della propria storia che il femminismo sollecitava da anni e che finora non era andata oltre la pratica politica di gruppi ristretti, come Maschile Plurale. Sul Sole 24ore, un "intellettuale trentenne", Raffaele Alberto Ventura, descrive la nascita della figlia come una "piccola apocalisse": la caduta di un intero edificio di valori e priorità, la scoperta che le "mutilazioni" che la paternità - e a maggiore ragione la maternità - avrebbe imposto a carriere, sogni di gloria, distrazioni, ecc., potevano non essere temute ma desiderate come tempo liberato dalle "promesse di un avvenire che non giungerà mai". Si tratta di "legittimi dubbi su se stessi", sulle proprie fragilità, su logiche di potere interiorizzate inconsapevolmente e diventate "normalità", privilegio "naturale" maschile, che andrebbero però trasferite - come sottolineava giustamente Nicola Lagioia nel suo articolo - in un dibattito pubblico. Sulla necessità del passaggio, dai cambiamenti che stanno avvenendo nelle esperienze singole e nella quotidianità a un impegno più esteso che investa la cultura e la politica, sono totalmente d’accordo, ma non posso non chiedermi perché non è ancora avvenuto, perché le riflessioni e le pratiche di mezzo secolo di femminismo siano tenute ancora nell’ombra, per non dire osteggiate, date per morte e richiamate in vita all’occorrenza. Come ho scritto più volte, se c’è stato un silenzio, non è "del" femminismo ma "sul" femminismo. Nelle pagine dei maggiori quotidiani nazionali, che oggi sembrano aprirsi a una parola maschile inusuale, si aspetta ancora, e non si sa per quanto, la voce di quella rivoluzione delle coscienze che ha portato allo scoperto e analizzato nella sua complessità, un dominio del tutto particolare, che ha visto confuse logiche d’amore e di guerra, tirannie del privato e del pubblico. Gli archivi, i centri di documentazione, le case delle donne conservano scrupolosamente memoria di un sapere a cui pochissimi uomini, compresi gli insospettabili, hanno portato il loro sguardo: libri, riviste, documenti che per entrare nel dibattito mediatico, televisivo, dovrebbero prima di tutto essere letti. È per questo che, a differenza degli altri, l’articolo di Michele Serra (apparso su Repubblica.it il 12 giugno) mi ha irritato e convinto che è stata prima di tutto le generazione maschile degli anni 70 a volersi liberare del peso inquietante di relazioni, intellettuali e sentimentali, che stavano cambiando rapidamente, sotto la spinta di presenze femminili "impreviste", nelle case come nelle piazze e nei luoghi tradizionali della politica. È vero che "per spiegare l’orrore delle tante donne assassinate" non bastano - come scrive Serra - le analisi della psicologia e della criminologia, che portano tra l’altro firme quasi esclusivamente maschili. La mancanza di una "parola politica" ha permesso che un fenomeno "strutturale", radicato nella storia di tutte le civiltà, restasse confinato nella patologia o in zone marginali di arretratezza, disagio sociale. Ma le nostre convinzioni e le nostre idee non sono mai state separate da "materiali psichici complessi", e se hanno potuto spesso diventare "ideologiche", cioè un volontaristico "dover essere", goffamente svincolato da pulsioni profonde, durature e difficilmente modificabili, è proprio perché questi "nessi" raramente vengono visti e indagati. L’intuizione più radicale del femminismo degli anni ‘70 è stata la messa in discussione di tutte le contrapposizioni astratte, a partire da quella che ha deciso del destino dell’uomo e della donna, a cui ha fatto seguito la ricerca di legami che ci sono sempre stati tra il corpo, la sessualità e la politica, tra la ragione e i sentimenti, la cultura e la vita. Lo slogan "il personale è politico" - che Serra traduce erroneamente con "il privato è politico" - intendeva portare allo scoperto la storia non scritta che è rimasta sedimentata nella memoria dei corpi, nelle configurazioni inconsce, restituire alla cultura, alla storia tutte quelle esperienze dell’umano - le più universali - che sono rimaste confinate nella natura. E perciò immodificabili. In altre parole, si andava verso una "sprivatizzazione" del rapporto tra i sessi, ma anche tra individuo e società, famiglia-Stato, e così via. Può darsi che il femminismo sia stato vissuto dai "ragazzi" di quella generazione come una "forzatura ideologica" e che la scomparsa di slogan così mirati a un cambiamento che partiva dalle loro vite, dalle loro relazioni familiari e amorose, sia apparsa liberatoria. Ma non si capisce allora perché Serra oggi li rimpianga, riconoscendo in quelle parole "brevi e di implacabile precisione" una idea rivoluzionaria capace di "modificare la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio". Se le idee che parvero allora "troppo determinanti" oggi valgono come detriti di un passato, o banalità scontate - come le definisce Serra -, se hanno perso appeal per quanto riguarda il discorso politico, non è certo perché le femministe abbiano smesso di pronunciarle e scriverne, farne oggetto delle loro pratiche. La sordità, l’indifferenza o la volontaria messa in ombra hanno contraddistinto innanzi tutto una politica e una cultura ancora saldamente in mano agli uomini, esitanti a volgere lo sguardo su di sé e a riportare al proprio interno le consapevolezze nuove che venivano dal movimento delle donne, che interrogavano allo stesso modo la sfera privata e quella pubblica, l’esperienza del singolo e la vita sociale, lo psichismo profondo e le storia che vi è cresciuta sopra. Abruzzo: intesa tra Inps e amministrazione penitenziaria notiziedabruzzo.it, 4 luglio 2016 È stato sottoscritto a Pescara, un protocollo d’intesa tra l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Direzione regionale Abruzzo) e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise. A firmarlo il direttore regionale dell’Inps, Roberto Bafundi, e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino, alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli. L’intesa prevede una collaborazione tra le due realtà. Il personale dell’amministrazione penitenziaria potrà effettuare accessi programmati nelle sedi dell’Inps Abruzzo per acquisire informazioni e ricevere consulenza sulle attività amministrative svolte a favore dei detenuti ristretti negli istituti penitenziari della regione con l’impegno, da parte dell’Inps, di fornire ogni forma utile di assistenza e supporto nonché a garantire percorsi concordati di formazione e affiancamento al personale delle case circondariali. Le domande di Naspi (Nuva assicurazione sociale per l’impiego) ed eventuali altre prestazioni a cui i detenuti potrebbero avere diritto saranno presentate tempestivamente, a seguito di apposita delega al personale dell’amministrazione penitenziaria, e l’Inps si impegna a liquidare e mettere in pagamento questi richieste entro il mese successivo alla presentazione. L’intenzione è di contribuire ad una concreta opera di modernizzazione ed innovazione dei servizi, per rendere la cultura della previdenza fattore attivo per il reinserimento dei detenuti nella società creando in questi ultimi consapevolezza e interesse verso le diverse forme di tutela che il sistema previdenziale prevede per i cittadini e le famiglie. Con questa intesa, ha commentato Calandrino, "si consacra il lavoro in rete delle pubbliche amministrazioni per facilitare il lavoro degli operatori penitenziari e si agevola l’attività dei nostri dipendenti a favore dei detenuti". In sostanza si compie un passo per "rendere sempre più il carcere come una parte fondamentale della società", mentre generalmente viene avvertito come distante. Questa intesa, ha detto dal canto suo Bafundi, "potrebbe apparire "ultronea" rispetto alle competenze dell’Inps e invece "puntiamo sulla "S" finale del nostro nome, cioè sulla funzione sociale dell’Istituto. Quando le amministrazioni fanno rete i servizi diventano risposte per nuove domande" e nel caos specifico "ci facciamo carico dei detenuti e delle loro famiglie. L’Istituto, ha proseguito, non può non tener conto di quest’altra faccia di marginalità sociale. Speriamo di dare un piccolo sollievo alle famiglie e di contribuire al reinserimento sociale dei detenuti" che, è stato ricordato, "ricevono dei compensi per le attività lavorative svolte in carcere". "Aprire il carcere e farlo conoscere è un investimento sulla sicurezza", ha osservato il sottosegretario facendo notare che "nel nostro sistema c’è una recidiva del 70 per cento, cioè nel 70 per cento dei casi chi esce dal carcere torna a delinquere. Quindi dobbiamo investire perché chi è detenuto possa avere una seconda opportunità e si riesca a perseguire il principio della rieducazione della pena". Dal sottosegretario è partito un invito a "esplorare nuove strade anche per arrivare a nuove forme di retribuzione dei detenuti". Di certo l’intesa di oggi serve a "rendere meno pesante la burocrazia di questo Paese, ha aggiunto, nell’interesse di una categoria debole" e ad "aprire il mondo del carcere all’esterno, vincendo quella ritrosia e quella paura nei confronti di chi ha sbagliato" Taranto: un giardino sinergico per i detenuti al lavoro di Marina Luzzi Avvenire, 4 luglio 2016 Si chiama "Giardino sinergico" ed è il primo progetto che la Azienda sanitaria locale di Taranto ha messo in piedi per i detenuti del capoluogo ionico. A rendere l’idea operativa ci ha pensato l’associazione "Masserie Didattiche Grande Salento" che sta trasformando uno spazio incolto ed inutilizzato, messo a disposizione dal direttore della casa circondariale, Stefania Baldassari, in un’area in cui si coltivano ortaggi e piante officinali, come origano, lavanda e maggiorana. Ad operare gomito a gomito ci sono carcerati e lavoratori agricoli, con l’apporto di enti pubblici e privati, operatori della Asl e agenti di polizia penitenziaria. La finalità è quella di fornire un percorso rieducativo diverso dai soliti, in cui l’agricoltura sociale diventi mezzo per esprimere la voglia di un riscatto sociale e per guardare al futuro, a una seconda opportunità occupazionale. Per la Asl il contatto con la natura inoltre serve ad evitare l’abuso farmacologico di antidepressivi ed ansiolitici che affligge la popolazione carceraria. Quella sinergica è una nuova scuola di pensiero in materia agricola. Viene utilizzata per rendere più vivo e produttivo il terreno in modo naturale, senza l’apporto di trattamenti chimici o particolari lavorazioni della terra. Le aiuole rialzate, come quella a due passi dal carcere, ritrovano vita e fertilità proprio grazie alla sinergia e alla consociazione di fiori ed ortaggi. Ed insieme a loro sorride anche chi per qualche ora torna a respirare la libertà. Caserta: il Dipartimento Dipendenze Asl in prima linea per il reinserimento dei detenuti campanianotizie.com, 4 luglio 2016 Nell’ambito del progetto "Esterna-mente" il Dipartimento Dipendenze, diretto dalla dott.ssa Lilia Nuzzolo, ha realizzato interventi mirati al recupero sia dei detenuti sia dei soggetti appartenenti all’area penale esterna quali, ad esempio, i tossicodipendenti che necessitano di specifici percorsi riabilitativi, rieducativi, di responsabilizzazione e di reinserimento sociale e lavorativo. "Esterna-mente" ha dato l’opportunità ad alcuni detenuti tossicodipendenti degli istituti carcerari della provincia di Caserta, individuati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di essere inseriti nei percorsi di recupero sociale e lavorativo. I risultati di tali interventi sono stati più che positivi, andando al di là di ogni più rosea aspettativa. La sintesi di quanto realizzato è stata presentata nel corso di un convegno tenutosi presso il Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere, davanti a una sala gremita in ogni ordine di posto dagli addetti ai lavori e dai rappresentanti delle istituzioni. Nel corso del Convegno sono stati illustrati e discussi i risultati raggiunti, in questo ultimo biennio, attraverso l’impegno del personale dei penitenziari della provincia di Caserta e dell’ASL CE, attraverso la sua UOSD Istituti Penitenziari, il cui responsabile è il dott. Pasquale Iannotta. Al convegno hanno partecipato il commissario dell’ASL CE dott. Giuseppe Matarazzo, il dott. Tommaso Contestabile, Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Fondamentale è stata la partecipazione del commissario straordinario dell’Asl Napoli 2 Nord, dottor Antonio D’Amore, che è stato oltre che direttore del Dipartimento Dipendenze dell’Asl Ce anche il promotore ed estensore del progetto "Esterna-mente". Dopo l’introduzione della dott.ssa Lilia Nuzzolo, Direttrice del Dipartimento, si sono susseguiti gli interventi della dott.ssa Oriana Iuliano, della dott.ssa Lucia Di Micco e del dott. Marco Puglia, tutti magistrati di sorveglianza del Tribunale di Santa Maria C.V. Molto applauditi gli interventi della dott.ssa Carlotta Giaquinto della Direzione Studi Penitenziari, del dott. Pasquale Iannotta, responsabile UOSD Istituti Penitenziari, della dott.ssa Laura Passaretti e della dott.ssa Maria Laura Forte, entrambe dell’UEPE di Caserta. Il convegno è stato concluso dagli interventi dei rappresentanti del privato sociale e delle cooperative che hanno visto coinvolti i detenuti. Milano: apre l’Osteria Antichi Maestri, detenuti al lavoro in sala e in cucina lorenteggio.com, 4 luglio 2016 Il primo ristorante che in città dà occupazione a detenuti della Seconda casa di reclusione di Bollate, ammessi ai benefici dell’articolo 21. S’inaugurerà il 6 luglio a Milano, in piazza Vesuvio angolo via Lipari, L’Osteria Antichi Maestri - Accademia della cultura gastronomica lombarda - il primo ristorante che in città dà occupazione a detenuti della Seconda casa di reclusione di Bollate, ammessi ai benefici dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che consente di lavorare fuori dal carcere. Il locale, gestito dalla cooperativa sociale Progetto Onesimo, fondata da Nicola Garofalo, si avvale della collaborazione di sei addetti, tra cucina, sala e dehors, coordinati da uno chef di grandissima esperienza. Delle quattro persone in art. 21, due sono assunte dalla cooperativa e altrettante usufruiscono di borse lavoro; al loro fianco, altre due non detenute. Appassionato conoscitore della gastronomia italiana, in particolare lombarda, lo chef ha ideato il progetto "Antichi Maestri": nella cucina dell’Osteria, una volta esaurito il servizio al pubblico, guiderà in un percorso formativo giovani allievi, detenuti e non, che intendano specializzarsi nella preparazione di pietanze d’alta qualità, attraverso lo studio, la ricerca e la riproposizione di antiche ricette, realizzate con materie prime certificate. La prospettiva, per chi seguirà i corsi, è quella di poter avviare in futuro un’attività in proprio. Una bella scommessa, per chi, alle spalle un’esperienza di detenzione, cerca di reintegrarsi nella società attraverso l’acquisizione di una professionalità spendibile in un mercato, oggi particolarmente avaro, per tutti, di occasioni d’impiego come lavoratori dipendenti. All’inizio l’Osteria sarà aperta dal lunedì al venerdì, dalle 7 alle 14,30. - Fino alle 10 si offriranno colazioni a base di brioches preparate dai cuochi con farciture originali. - Dalle 11, via libera al servizio di "Schiscetteria": panini farciti con prodotti di norcineria di produzione propria, gnocco fritto con salumi ispirati a ricette di conservazione delle carni di manzo, suine e oca, serviti in prevalenza nel dehors, oltre a piatti take away anche su prenotazione. - Sempre a partire dalle 11, si potrà pranzare all’interno dell’Osteria, sia con la formula della degustazione, sia alla carta. - Capitolo prezzi: i panini costeranno tra i 6 gli 8 euro. Le degustazioni tra i 15 e i 18 euro (due primi e due secondi a volontà). Le pietanze alla carta tra i 25 e i 35 euro. Modena: detenuto ingoia 11 pile, salvato dalla polizia penitenziaria Gazzetta di Modena, 4 luglio 2016 Carcere di S. Anna bollente non solo per le temperature delle celle ma anche per le proteste, che il sindacato Sappe elenca con minuzia per contestare la direttrice Rosa Alba Casella. Il 29 giugno un detenuto maghrebino si è ferito per autolesionismo e subito dopo dieci suoi connazionali, dopo essersi rifiutati di rientrare nelle celle, hanno rotto i vetri delle finestre e le plafoniere. "È stata necessaria tutta l’esperienza e la professionalità del personale di polizia penitenziaria per evitare il peggio" commentano Durante e Campobasso, al vertice del Sappe. Un altro detenuto nella Sezione Osservazione perché ritenuto incline al suicidio, ha tentato di impiccarsi: suicidio sventato anche stavolta dagli agenti. "La situazione nel carcere è ingestibile, a causa di una totale assenza di guide autorevoli - rincara la dose il Sappe - Il personale è lasciato solo, senza adeguati punti di riferimento". Di qui la scelta di una manifestazione unitaria davanti al carcere per mercoledì mattina. E non è tutto. Ieri un detenuto sottoposto al regime del 14 bis ha ingerito 11 pile ed stato necessario trasportarlo d’urgenza in ospedale" annota il Sappe. "Ricordiamo - aggiungono - che le disposizioni di cui all’articolo 14 bis dell’ordinamento si applicano ai detenuti pericolosi. Trattandosi quindi di un detenuto molto pericoloso per il trasposto in ospedale stato necessario impiegare cinque agenti, determinando gravi disagi nell’istituto di pena, dove il personale è ridotto al minimo per le carenze di risorse e, in questo particolare momento, per il piano ferie". Locri: il Vescovo per il Giubileo dei detenuti "vinca il perdono" lametino.it, 4 luglio 2016 Saper perdonare le offese ricevute e saper chiedere perdono per il male commesso è il messaggio che arriva dalla giornata dedicata ai detenuti presso la Casa Circondariale di Locri, in quest’Anno Santo Straordinario della Misericordia. "Visitare i carcerati" è una delle sette opere di misericordia corporali e i detenuti di Locri non potevano essere esclusi da questo anno di grazia. È stato il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, a volere che venisse celebrato questo Giubileo diocesano per i detenuti, al quale vi hanno partecipato praticamente tutti i reclusi e tutto il personale che opera all’interno della struttura guidata dalla Direttrice Patrizia Delfino e dal Commissario della Polizia Penitenziaria, Caterina Pacileo. Il vescovo è stato coadiuvato da numerosi sacerdoti e diaconi. I sacerdoti si sono resi disponibili per le confessioni, accogliendo così l’invito del Cappellano del carcere, don Crescenzo De Mizio. Monsignor Oliva ha richiamato più volte le parole che Papa Francesco ha scritto nella Bolla d’indizione del Giubileo, ricordando tra l’altro che "Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia". Gli occhi chiusi sulla guerra santa (ormai globale) di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 4 luglio 2016 Piangiamo i nostri morti di Dacca e siamo costretti a ricordare che la guerra dei fanatici jihadisti non finisce mai, non ci dà tregua, si dissemina per il mondo, colpisce con ossessiva caparbietà. Facciamo finta di non vedere. Facciamo finta di non capire. Minimizziamo. Parliamo d’altro. Ma speriamo sempre che la strage di Parigi sia stato solo un brutto incubo. Speriamo che a Bruxelles la colpa della carneficina in aeroporto sia delle goffaggini belghe. Che i morti ammazzati di Charlie Hebdo siano stati un brutto episodio ma isolato. Però proprio in questi giorni hanno appena rinnovato minacce apocalittiche contro ciò che resta della redazione di Charlie Hebdo, ma noi releghiamo la ferale notizia in un angolo della nostra percezione delle cose. Non può essere vero che questa guerra cruenta, bizzarra, incomprensibile abbia preso noi come bersagli. E Dacca, è stata forse un caso, un altro caso? Hanno appena massacrato un po’ di innocenti all’aeroporto di Istanbul. E noi non facciamo fatica a declassare questa tappa ennesima della guerra globale dell’islamismo fanatico e stragista a un episodio di rango per così dire locale. Non preghiamo per loro. C’è voluto Ferzan Ozpetek a richiamare noi europei che parliamo continuamente di Brexit a un minimo di solidarietà, di allarme, di reazione per l’attentato kamikaze che ha sfregiato la Turchia: e Istanbul è pure più vicina di Dacca, è alle porte dell’Europa. A Orlando un’ecatombe in un locale gay della Florida. Abbiamo fatto di tutto per non coglierne la portata mostruosa, come era già accaduto per l’esplosione durante la maratona di Boston. Abbiamo attribuito tutta la colpa a uno squilibrato. Ne abbiamo ridotto il significato a una questione, pur importantissima per carità, di facilità con cui negli Stati Uniti la follia degli assassini può munirsi di armi pericolosissime. Magari c’è anche questa componente, come escluderla? Ma siamo riluttanti a cogliere il cuore della questione: che nella guerra santa contro il nostro peccaminoso stile di vita, contro il modello culturale blasfemo e diabolico che viene così fanaticamente ripudiato, l’omofobia violenta e senza freni, l’odio per le donne libere (Colonia), il disgusto per gli stessi luoghi della vita quotidiana, del divertimento, dei comportamenti non conformi a un dogma religioso sono non un lato marginale del combattimento fondamentalista, ma una componente essenziale della guerra unilateralmente scatenata. Prima di Dacca hanno colpito discoteche, night-club, cinema, teatri, ristoranti, stadi, spiagge, mete di vacanza e di turismo, caffè, alberghi. Persino musei, come a Tunisi. Non c’è luogo della Terra e delle metropoli occidentali che non sia potenziale bersaglio di una guerra infinita. Ma noi non vogliamo capirlo. Pensiamo che capirlo ci faccia male, che ci possa costringere a scelte che non vorremmo mai compiere. Dedichiamo solo un fugace pensiero alla lontana Nigeria dove gli assassini di Boko Haram hanno manipolato povere bambine come martiri della fede da far saltare in aria negli attentati suicidi. Pensiamo di potercene disinteressare se nel cuore di Tel Aviv gli attentatori colpiscono bistrot e caffè frequentati dagli studenti. A Hebron hanno appena ammazzato a coltellate una ragazza di 13 anni ma nei media occidentali la notizia è stata in gran parte ignorata. Non vogliamo più sapere cosa ne è stato dell’aereo russo colpito nei cieli dell’Egitto. Dopo Parigi e Bruxelles la diffusione del terrorismo jihadista viene ridotta a faccenda di "lupi solitari". Le stesse notizie sul fronte bellico vero e proprio, in Siria, in Iraq, nella vicinissima Libia, vengono lette stancamente come un bollettino di una guerra lontana condotta contro l’Isis. Mentre in Pakistan gli attentati non si contano più. In Afghanistan lo stesso. Siamo come rassegnati. O speranzosi che la tempesta si plachi e non arrivi fin qui. Ma poi dobbiamo disperarci perché a Dacca nostri connazionali hanno perso la vita. Ascoltiamo le parole del papa Francesco sulla "Terza guerra mondiale" a bassa intensità, ma senza prenderle alla lettera. Aspettando il prossimo attentato. E di risvegliarci dal sonno degli indifferenti. Terrorismo, illudersi di salvarsi non serve di Franco Venturini Corriere della Sera, 4 luglio 2016 Questo è il momento del dolore e della rabbia, ma anche di una consapevolezza che deve guidarci nella lotta al terrorismo. Almeno nove italiani assassinati dall’Isis mentre cenavano, in una città che non molti in Italia saprebbero collocare sulla carta geografica. Alcuni, secondo le testimonianze, torturati prima dell’uccisione per non aver saputo recitare brani del Corano. E poi, c’è un elemento che non deve essere trascurato. I terroristi sapevano di colpire nel quartiere delle ambasciate, sapevano della particolare vicinanza dell’ambasciata italiana, ma l’alta probabilità di spargere sangue di nostri concittadini non ha in alcun modo frenato la loro volontà di uccidere stranieri, meglio se occidentali. Tutte conferme, queste, di quel terrorismo globale che il Califfato ha scelto per bilanciare le sue sconfitte militari in campo aperto. Non esistono più luoghi sicuri dove l’Isis non colpirà. E non ha fondamento l’illusione di salvarsi (come è forse accaduto anche in Italia) dosando con grande cura il proprio impegno nella lotta militare contro le bandiere nere della barbarie. La via da seguire è quella che Renzi ha indicato ieri: siamo più forti insieme agli altri, e tutti i Paesi devono difendere la loro idea di civiltà davanti alla sfida dei massacratori. Si può discutere su come l’Italia abbia sin qui applicato questo principio, schierando molti uomini e molti mezzi ma senza combattere direttamente l’Isis. E tuttavia non è questo il momento di dividersi, non è questo il momento di polemizzare in nome di basse convenienze elettorali. L’appello all’unità di Renzi, rivolto a tutte le forze politiche e sociali del Paese, va pienamente recepito e deve rappresentare da parte del governo l’annuncio di un impegno ancora più forte dell’Italia nella lotta all’Isis e al terrorismo, in ogni sede possibile: nell’Europa scossa dalla Brexit e ora dalle rischiose notizie giunte dall’Austria, ma che non deve dimenticare l’emergenza sicurezza e la necessità di avanzare verso una intelligence condivisa almeno in alcuni settori chiave; nel rapporto con gli alleati occidentali per coordinare sforzi che devono vederci tra i protagonisti; in quello con i Paesi arabi amici che devono contribuire alla scomunica e alla sconfitta dell’Isis. Il massacro di Dacca alza la posta politica e operativa di un simile impegno. Per il governo, certo, ma anche per il Parlamento e per le opposizioni. Il movimento Cinque Stelle progredisce nei risultati elettorali e nei sondaggi, diventa una forza politica di primaria importanza: gli italiani, e questo è soltanto un esempio, avrebbero il diritto di conoscere il loro pensiero e le loro proposte in tema di lotta al terrorismo e di lotta all’Isis. I resoconti militari relativamente incoraggianti che giungono dall’Iraq, dalla Siria e dalla Libia aprono purtroppo la strada a nuovi episodi di un terrorismo che vuole bilanciare le sconfitte sul campo, ma che esisteva anche prima. Occorre esserne consapevoli, mentre si agisce per prevenire altre stragi. E occorre capire che l’Isis ha radici profonde nelle frustrazioni dei sunniti, che la battaglia è anche culturale e storica. Ma se questo è un confronto di civiltà, e lo è senza alcun dubbio, chi si arrende e chi non si schiera è destinato a soccombere. Nove vittime italiane, tutti manager, un solo superstite nella pizzeria di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 4 luglio 2016 Non si sa ancora se anche Adele Puglisi - una delle nove vittime italiane della strage di Dhaka - è stata sottoposta all’esame di Corano dai suoi sequestratori prima di essere uccisa. E nel fanatico mondo dei suoi assassini jihadisti - l’agenzia ufficiale del Califfato Amaq ha rivendicato la carneficina - probabilmente non farà differenza: eppure la manager catanese che viveva in Asia da vent’anni aveva difeso i musulmani italiani sulla sua pagina Fb dagli attacchi indiscriminati del giornale di Feltri. Quando il quotidiano Libero, all’indomani degli attentati di Parigi, aveva titolato "Islamici bastardi", aveva commentato: "è una vergogna". Adele Puglisi sarebbe dovuta ripartire oggi alla volta dell’Italia. Lei, 54 anni di cui la maggior parte vissuta in Sri Lanka, non sposata e senza figli, il ritorno in Sicilia, era un viaggio "all’incontrario", verso le vacanze. Non è facile essere un manager donna e lei era arrivata sostanzialmente al top: dirigeva da circa cinque anni il controllo qualità della filiale di Dacca del gruppo Artsana di Grandate, un colosso dei prodotti parafarmaceutici e sanitari, da cui sono nati marchi leader come la Chicco, Control, Pic, Lycia. Quasi tutti gli italiani che erano a cena l’altra sera all’interno della Holey Artisan Bakery - locale rinomato per un piacevole giardino e per l’ ottima pizza dei cuochi Jacopo Bioni, italiano e Diego Rossi, italo-argentino, entrambi risparmiati dal massacro - erano imprenditori ed expat, cioè stranieri che lavoravano e risiedevano a Dhaka. Gian Galeazzo Boschetti, modenese di famiglia blasonata, l’unico che è riuscito a scampare alla mattanza dei terroristi e al blitz delle teste di cuoio locali, risiedeva a Dhaka da oltre vent’anni. E da quattordici dirigeva la Fedo Trading Ltd, di cui è il "manager director", in pratica l’amministratore delegato. L’attività di trading è quella essenziale funzione della manifattura tessile nell’era della delocalizzazzione industriale e della globalizzazione che mette in contatto le aziende dei marchi europei - nel suo caso non solo italiani ma anche tedeschi e austriaci - con i laboratori di produzione e i grossisti locali. Era quindi lui, probabilmente, l’ospite di riguardo delle due tavolate di italiani seduti ai tavoli della Bakery. A caldo ha raccontato infatti che lui era seduto ad un tavolo, insieme alla moglie piemontese Claudia D’Antona, volontaria dell’ong Green Cross oltre che imprenditrice - da lui ritrovata ore dopo la fuga alla morgue - "e un cliente". A fianco a loro c’era la tavolata più grande degli italiani, composta da "sette-otto connazionali". Secondo una prima ricostruzione Adele Puglisi si trovava invece al bancone del bar, staccata dagli altri, quando il commando terrorista ha fatto irruzione. Boschetti prima di diventare manager avendo studiato da paramedico, era stato volontario in Irpinia durante il terremoto del 1980 e insieme alla moglie ospitava e forniva supporto ai medici della sua ong in missione in Bangladesh. Gli altri morti nell’attacco sono: Nadia Benedetti, viterbese di 47 anni, manager della StudioTex Limited - azienda tessile con sede a Londra per cui lavorava fino a qualche anno fa anche Adele Puglisi -, Simona Monti di Magliano Sabina, provincia di Rieti, 33enne, dipendente del gruppo tessile piemontese Mauli, i friulani Cristian Rossi, amministratore delegato di Feletto Umberto, provincia di Pordenone e Marco Tondat, di Cordavedo, sempre Pordenone, Vincenzo D’Allestro di Acerra, Maria Riboli di Bergamo e Claudio Cappelli di Rieti, tutti imprenditori di ditte di abbigliamento o tessili. La vicenda di così tanti connazionali morti in un attentato in un paese tanto lontano, oltretutto in un ristorante a due passi dall’ambasciata italiana, ha stimolato una ridda di commenti di cordoglio istituzionali e politici, da papa Bergoglio ("barbarie contro Dio e l’umanità") al presidente Mattarella ("orrore senza confini") al premier Renzi ("follia terrorista"). Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che in serata ha smentito l’esistenza di un decimo italiano disperso (l’uomo ha contattato la famiglia e non si trovava nella pizzeria al momento dell’attacco), ha dichiarato: "Siamo consapevoli che si deve rispondere al terrore", senza specificare come. L’Alto Rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini ha messo a disposizione delle autorità italiane in loco la delegazione Ue in Bangladesh. Si devono segnalare poi le solite dichiarazioni di Matteo Salvini (da esperto di geopolitica qual è propone di "attaccare l’Isis ovunque e con ogni mezzo e bloccare gli sbarchi di chi parte dalla Libia") e mentre destra e Lega si attardano a chiedere "una presa di distanza dei musulmani italiani", tra le prime reazioni di cordoglio Foad Aodi, presidente delle Comunità del mondo arabo in Italia, fa notare che dopo gli attentati di Parigi sono cresciute del 37% le denunce di atti islamofobici nelle scuole. Terrorismo, non ci sono immunità di Paolo Valentino Corriere della Sera, 4 luglio 2016 C’è un drammatico paradosso, nell’attentato di Dacca e nel barbaro assassinio di 9 italiani da parte dell’ennesimo franchising dell’Isis. È quello che vede l’Italia trafitta dal terrorismo jihadista non in uno dei luoghi dove più è esposta dalla sua presenza militare (Afghanistan, Iraq, Libano, solo per citarne alcuni) o economica (Egitto, Libia) ma in un Paese ai margini dei nostri interessi geo-strategici. La circostanza è inquietante. Perché se da un lato suggerisce un elemento di casualità nel massacro, l’assenza cioè di una volontà mortifera mirata specificamente contro l’Italia, dall’altra squarcia davanti a noi un abisso dal quale a torto o a ragione ci siamo finora sentiti in qualche modo lontani. Non che alcuno si facesse troppe illusioni su questa lontananza. Ma è un fatto che fino all’altro ieri, a parte la fatale morte di Valeria Solesin al Bataclan e le vittime del museo di Tunisi, l’Italia non compariva fra le nazioni vittime del terrorismo a firma Isis. Bisognerebbe risalire fino a Nassiriya per ritrovare il nostro Paese esplicito oggetto del desiderio di morte dei criminali in nome dell’Islam. Allora però la scelta e le ambiguità di una missione, che si voleva di pace all’interno di una coalizione ancora in guerra, avrebbero potuto e dovuto metterci in guardia. Ora è diverso. Il messaggio triste, solitario y final, che viene dal Bangladesh è che nessun essere umano occidentale è immune dalla violenza jihadista. E non è immune, tanto più nel momento in cui le sconfitte o gli arretramenti di Daesh nelle sue zone di dominio favoriscono una strategia della disperazione, fatta di azioni sanguinarie, diffuse e imprevedibili. E più ancora delle parole, sono le espressioni e i toni del capo dello Stato, del ministro degli Esteri e soprattutto del presidente del Consiglio a segnalare che siamo già dentro una nuova fase, dove un nemico che non ha alcuna paura di morire si muove ovunque esista un varco debole, ristorante, aeroporto o centro commerciale, dove uccidere degli occidentali, senza riguardi per eventuali vittime islamiche. I morti di Dacca sono i primi che cadono under the watch, sotto il mandato di Matteo Renzi. Ed è giusto attendersi risposte adeguate, un salto di qualità. Fa bene il presidente del Consiglio a insistere sul concetto "un euro per la cultura per ogni euro speso per la sicurezza". "Chi chiude le scuole di musica mette a rischio la sicurezza nazionale", diceva un bravo ministro dell’Interno tedesco, Otto Schily. Il punto è che negli ultimi anni in Italia l’euro per la sicurezza è stata moneta rara. Come ricordava ieri sul nostro giornale il generale Marco Bertolini, si sono drasticamente ridotte le risorse della Difesa, della Sicurezza e, cosa che pochi ricordano, degli Esteri, proprio nel momento in cui rivendichiamo al nostro Paese ruoli di primo piano sulla scena internazionale. Ma, ammoniva l’ufficiale, "non è più il tempo di love and peace". La nostra intelligencefa miracoli ed è anche grazie all’efficacia dei servizi se l’Italia fino a sabato scorso non aveva guardato in faccia la Gorgone jihadista. Ora si tratta di cambiare approccio culturale, politico e strategico. Tagliare dove serve, eliminare strutture inutili, ma investire in tecnologia, mezzi e personale qualificato, semplificare i troppi enti che si occupano, spesso in conflitto fra di loro, di difesa. Portare dentro un unico ufficio tutte le attività della cyber security, la nuova frontiera della prevenzione. È necessario ridare fiducia e risorse alla nostra formidabile diplomazia. Non ultimo, evitare calcoli politici e ambiguità, quando si decide di stare nelle missioni internazionali (tipo voliamo, ma non spariamo) anche per poi far valere veramente il peso di quei contributi nelle sedi opportune, dall’Onu al G7. L’idea della cabina di regia unica a Palazzo Chigi sulla sicurezza, circolata nelle scorse ore, è una già buona indicazione. Ma da sola non è sufficiente. Occorre cambiare grammatica, ma anche paradigma di riferimento. Non potrà bastare proclamare il lutto nazionale per onorare i morti di Dacca. Questa volta, ne va della vita dei nostri connazionali in Italia e all’estero e del nostro stesso modo di essere nazione, si deve dare di più. Strage di Dacca: quel blitz approssimativo e le risposte inadeguate contro il terrorismo di Gianluca Di Feo La Repubblica, 4 luglio 2016 Le forze speciali bengalesi non erano addestrate né equipaggiate per provare a salvare la vita degli ostaggi nel ristorante. Ma le soluzioni ci sarebbero. Si, il blitz di Dacca - in cui sono morti 20 ostaggi, tra cui nove italiani - sembra condotto in modo approssimativo. Ma quando è scattato l’assalto, quasi tutti gli ostaggi occidentali erano già morti: le foto dei corpi martoriati venivano rilanciate da ore dalla propaganda web dello Stato islamico. Di fronte al video dell’irruzione, qualunque esperto occidentale è pronto a distribuire critiche. Anzitutto l’orario: oggi le teste di cuoio colpiscono sempre di notte. Perché sono abituate a combattere nell’oscurità, usando visori speciali, cosa che i terroristi in genere non sanno fare. Prima dell’innovazione tecnologica il raid partiva all’alba: si riteneva che in quel momento ci fosse luce sufficiente per distinguere tra "buoni e cattivi", tra aggressori e ostaggi, ma allo stesso tempo la penombra facilitasse l’avvicinamento all’obiettivo. Invece le truppe di Dakka si sono mosse alle 7.40, con il giorno ormai pieno e i kamikaze in grado di reagire. Il Bangladesh però non ha "forze speciali": non dispone di reparti addestrati per intervenire in situazioni simili. Si tratta di un paese povero, con un esercito male equipaggiato che spesso mette a disposizione dell’Onu per racimolare paghe migliori. Ma persino una potenza come l’India di fronte all’assalto di Mumbai si rese conto di non avere neppure una squadra preparata per la liberazione d’ostaggi. L’operazione Thunderbolt, ossia fulmine, il nome enfatico scelto dalle autorità di Dacca, è stato un attacco di fanteria, non un’azione di polizia: hanno agito come se dovessero conquistare una postazione, non per garantire la vita dei prigionieri. I veicoli blindati grandi e rumorosi hanno sfondato la recinzione, probabilmente per creare un diversivo, mentre sul fronte opposto un team di commandos è balzato fuori dal lago. Ma i terroristi erano pronti, vestiti con abiti occidentali e confusi tra gli ostaggi - si ritiene che quelli ancora vivi fossero soprattutto locali e pochissimi stranieri - in un padiglione vetrato che permetteva di controllare la situazione quasi su 360 gradi. Il gruppo jihadista era armato di granate, pistole e piccoli kalashnikov modello Ak22: sono la versione preferita dai guerriglieri di India e Bangladesh, perché molto corta e ancora più semplice da usare rispetto all’onnipresente Ak47. In più avevano piazzato bombole di gas davanti alle porte, anche se non pare fossero dotate di inneschi per farle esplodere. Il raid si è trasformato in una lunga sparatoria, con i terroristi che hanno continuato a rispondere al fuoco per oltre dieci minuti. Gli incursori gettano bombe stordenti a casaccio, muovendosi in una maldestra imitazione dei commandos occidentali. Era inevitabile che finisse in un massacro. L’operazione non è stata concordata con il nostro governo. Ma non è una novità. Persino gli alleati britannici non ci avvisarono prima di scatenare il blitz del 2012 in Nigeria in cui morirono un ostaggio italiano e uno inglese. E anche se le autorità di Dacca ci avessero consultati, cosa sarebbe cambiato? Ammesso che qualcuno dei nostri connazionali fosse ancora vivo, non ci sarebbe mai stato il tempo per mandare in zona una squadra di incursori italiani, considerati tra i migliori al mondo. Forse però il massacro in Bangladesh potrebbe servire da riflessione all’Occidente per evitare nuovi episodi del genere. Sarebbe importante che venisse creata una rete internazionale di nuclei di intervento disposti in maniera da poter agire in zone diverse del pianeta. Il rischio che ci siano nuovi attacchi contro imprenditori, turisti, operatori di Ong è concreto. E ormai nei ranghi dei paesi della Nato ci sono migliaia di soldati e agenti con la qualifica di special force, addestrati ed equipaggiati per affrontare minacce simili. Basterebbe allestire dei presidi, con un jet bimotore tipo Falcon, affidati a rotazione a squadre di ogni nazione: il modello adottato in Afghanistan per gestire i reparti di commandos, a cui gli italiani hanno contribuito con la Task Force 45. Tecnicamente non è difficile: le basi - americane, francesi, inglesi o di altri alleati - ci sono un pò ovunque. Da Gibuti a Kabul, dal Mali al Baherein, da Singapore a Diego Garcia nell’Oceano Indiano: una rete che permette di arrivare ovunque con 4-6 ore di volo. Bisognerebbe però definire le regole di ingaggio e gli accordi internazionali per permettere gli interventi in caso di necessità. Ma si tratta di uno scenario utopico, perché nessun paese è disposto a rinunciare alla sovranità nella gestione di queste crisi. È il solito problema: mentre il terrorismo ormai è globalizzato, la risposta continua troppo spesso a chiudersi nei confini dell’interesse nazionale. Una globalizzazione dal volto umano, la sfida per battere le disuguaglianze di Anais Ginori La Repubblica, 4 luglio 2016 "Dobbiamo uscire dalla Brexit a testa alta". Con un gioco di parole, Christine Lagarde vede nell’esito del referendum britannico un’opportunità, il momento per ripensare non solo la governance dell’Ue, ma anche quello della globalizzazione. La direttrice del Fmi ha partecipato alle Rencontres di Aix-en-Provence, conferenza che riunisce ogni anno il gotha economico francese e internazionale. Nel ricordare i tanti vantaggi dello sviluppo degli scambi e dell’abolizione delle frontiere negli ultimi decenni, dalla diminuzione della povertà all’aumento dell’educazione, Lagarde ha però ammesso che si è scavato il divario tra "vincitori" e "perdenti". "Le soluzioni ai problemi oggi sono globali, lo sappiamo" ha osservato Lagarde, facendo l’esempio dell’epidemia di Ebola o dell’inquinamento che per definizione non si fermano ai confini. "Come nell’economia, molte delle dinamiche non possono essere risolte dai singoli paesi". Nonostante quest’evidenza, la direttrice del Fmi ha fatto un discorso critico sull’attuale situazione. "Si è verificato un aumento delle disuguaglianze su cui è importante intervenire" ha continuato, battezzando l’idea di una "globalizzazione benevola", dal volto più umano, che sappia redistribuire la ricchezza, imporre limiti ai privilegi e tutelare i più deboli. Il Fmi, ha aggiunto, ha avviato anche diverse riflessioni, tra cui una sulla creazione di nuove regole nella libera circolazione dei capitali. Sull’Europa, Lagarde ha fatto una battuta: "Ora che i britannici sono usciti, alcuni commissari non potranno più dare la colpa a Londra per la lentezza di alcune riforme". Nel merito, la direttrice del Fmi pensa che bisogna "lavorare sulla realtà economica, ma anche sulla comunicazione di questa realtà". "C’è un evidente sfasamento tra quello che vedono i popoli e la situazione effettiva" ha commentato. "È drammatico vedere che la Banca europea per gli investimenti fa dei piani importanti per rilanciare alcune regioni senza quasi annunciarlo, lasciando che nessuno se ne accorga. E così tutti possono continuare a vedere Bruxelles solo come un groviglio di burocrazia". L’altro esempio che dimostra lo "sfasamento" tra popoli ed élite è la campagna elettorale per la Brexit. "Sono stati vani tutti i nostri sforzi per spiegare in modo onesto, razionale, con dati e cifre oggettive, cosa bisognava temere in caso di uscita dall’Ue". Lagarde ha ricordato la battuta con la quale il conservatore Michael Gove ha liquidato in modo sprezzante gli argomenti del remain "We have too many experts", abbiamo troppi esperti. "I mercati hanno sbagliato pensando che sarebbe tornato tutto apposto dopo il voto, ma purtroppo si vede che gli esperti avevano ragione. Perché allora non sono stati ascoltati?". L’esito del referendum va al di là della Gran Bretagna e pone quello che la direttrice del Fmi definisce un "problema di percezione". "Dobbiamo domandarci: perché i nostri commenti, basati su fatti e comprovati dall’esperienza, non sono serviti a convincere?" ha continuato Lagarde. "Forse perché non ci esprimiamo in 140 caratteri? O perché troppo spesso continuiamo a usare un linguaggio tecnico? È importante interrogarci su questo deficit di comunicazione e risolverlo rapidamente". La sedicesima edizione delle Rencontres économiques di Aix-en-Provence aveva come titolo: "In un mondo di turbolenze, cosa aspettarsi da un Paese?". L’organizzatore Cercle des Economistes, presieduto da Jean-Hervé Lorenzi, ha pubblicato alla fine della tre giorni di incontri una dichiarazione con 12 proposte, tra cui un miglior coordinamento tra Stati e attori della società civile, l’avvio di un’Europa a due velocità con un nocciolo di paesi più integrati, la creazione di uno spazio culturale europeo comune, dando la priorità all’educazione e alla formazione. "Lo status quo non può essere la risposta alla Brexit" ha sottolineato anche Pierre Moscovici, presente a Aix. Moscovici ha anche ribadito la necessità di accelerare l’integrazione dell’eurozona, con la creazione di un ministro unico delle Finanze. Punto sul quale si è mostrato d’accordo il ministro francese dell’Economia, Emmanuel Macron. "Abbiamo tentennato per mesi a non concentrarsi sull’eurozona per non urtare britannici e polacchi" ha osservato Macron, anche lui invitato dal Cercle des Economistes. "Ora si vede come ci stanno ringraziando" ha aggiunto con ironia. Migranti: le rivelazioni choc del pentito "organi espiantati e venduti" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 luglio 2016 Le rivelazioni del trafficante di esseri umani pentito che da un anno collabora con la giustizia italiana: "I migranti che non possono pagarsi il viaggio consegnati agli egiziani e uccisi per prelevarne gli organi da rivendere a 15 mila dollari l’uno". "Talvolta i migranti non hanno i soldi per pagare il viaggio che hanno effettuato via terra, né a chi rivolgersi per pagare il viaggio in mare, e allora mi è stato raccontato che queste persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani, che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15.000 dollari. In particolare questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche". È l’aspetto più atroce che emerge dalle confessioni di Nuredin Atta Wehabrebi, il primo trafficante di esseri umani "pentito" che da un anno collabora con la giustizia italiana. Sulla base delle sue dichiarazioni, la Procura di Palermo ha ordinato il fermo di 38 persone accusate, a vario titolo, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e altri reati. Il fatturato da milioni di euro - A parte l’accenno agli organi espiantati e venduti - di cui dice di aver saputo dai capi con cui ha lavorato in Libia, Ermias Ghermay e Fitiwi Abdrurazak, oltre che da alcuni migranti sopravvissuti - Atta Wehabrebi si è dilungato nelle sue dichiarazioni sull’organizzazione di cui ha fatto parte, che stando alle cifre ricostruite ha "fatturato" milioni di euro. Nella sola estate del 2015 il gruppo criminale avrebbe gestito almeno sei sbarchi con i quali sono giunti a Palermo oltre 4.000 migranti, che dopo la traversata in mare vengono aiutati a fuggire dai centri di accoglienza per poi essere portati - dopo ulteriori pagamenti - a Roma o Milano, da dove proseguono il loro viaggio verso le destinazioni desiderate; principalmente la Germania, l’Olanda e la Scandinavia. "L’organizzazione - affermano nel loro atto d’accusa il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, l’aggiunto Maurizio Scalia e i sostituti Calogero Ferrara e Claudio Camilleri - opera come un vero e proprio network criminale, con diverse cellule operanti nei territori di riferimento, cui vengono attribuiti compiti specifici e determinati al fine di organizzare i viaggi e favorire così l’ingresso e la permanenza clandestina in Italia dei migranti; in un secondo momento viene organizzata la logistica per il loro allontanamento dal territorio italiano e raggiungere così la meta finale di tali viaggi, in genere un paese del Nord Europa, in cui il migrante raggiunge il suo gruppo familiare o amicale". I falsi ricongiungimenti familiari - Un altro modus operandi, con viaggi molto meno rischiosi, è quello dei falsi ricongiungimenti familiari, ottenuti facendo figurare matrimoni inesistenti tra stranieri già legittimamente in Italia e persone con cui non hanno alcun legame. Si tratta di un sistema molto più sicuro e quindi molto più dispendioso, riservato alle categorie più abbienti. Il costo di ogni falso matrimonio con ricongiungimento familiare varia dai 10.000 ai 15.000 euro a persona, mostrando, spiegano gli inquirenti, "una vera e propria distinzione socio-economico anche all’interno del mondo genericamente indicato come quello dei migranti". I pagamenti avvengono tappa dopo tappa da parte dei parenti residenti all’estero, con il classico sistema money transfer, oppure attraverso il metodo cosiddetto hawala, cioè corresponsioni di denaro a distanza dietro garanzie, con l’appoggio di vari intermediari. I soldi vengono raccolti presso negozi o altri esercizi commerciali inseriti del sistema. Dove passavano i soldi: il bar di Palermo e la profumeria di Roma - Il pentito ha fornito due indirizzi, dove gli investigatori della Squadra mobile palermitana e del servizio centrale operativo della polizia hanno riscontrato la veridicità dei suoi racconti: un bar a Palermo, in vicolo Santa Rosalia, gestito dall’etiope Sebsidie Tadele, e una profumeria a Roma, in via Volturno, a pochi passi dalla stazione Termini, gestito dall’eritreo Solomon Araya Gebremichael. Presso il bar palermitano, il giorno stesso e in quelli seguenti ad alcuni sbarchi fra maggio e luglio 2015, sono arrivati decine di migranti che, tramite il gestore del Bar, venivano contattati telefonicamente dall’estero da persone che li istruivano sull’arrivo dei soldi per pagare la tratta successiva del viaggio: prima verso Roma o Milano, a 50 o 100 euro per ciascuno e poi per l’estero. Nella profumeria di via Volturno sono state intercettate telefonate in cui si parlava di trasferimenti di denaro portato materialmente nel negozio, da trasferire in Sudan, a Dubai o altrove: per gli inquirenti sono i pagamenti dei viaggi ai trafficanti, nei quali i titolari dei negozi coinvolti svolgono il ruolo di intermediari trattenendo, ogni volta, il 10 per cento delle cifre, ha raccontato il pentito Atta Wehabrebi: "Solomon consegna ogni sabato 280.000-300.000 euro a Mikiele Gebremeskel (altri complice per cui è stato ordinato il fermo, ndr) dopo averli ricevuti presso la profumeria di via Volturno a Roma". Quando sono entrati nell’esercizio commerciale di Roma per installare micropsie e telecamere, i poliziotti hanno visto e fotografato mazzette di banconote e elenchi di nomi che - secondo l’accusa - rappresentano la contabilità occulta dell’immigrazione clandestina. Ad alcuni dei fermati è contestato anche il traffico internazionale di droga perché, assieme ai migranti, l’organizzazione faceva arrivare in Italia anche tipo di sostanza stupefacente chiamata chata o qat, proveniente dall’Etiopia. Migranti: morte e disperazione nell’hangar di Alfredo Marsala Il Manifesto, 4 luglio 2016 Scheletri ammassati uno sull’altro nella stiva. Avviato il recupero dei cadaveri del naufragio del 2015. È un hangar degli orrori quello di Augusta dove l’unico sentimento non può che essere un misto di pietà e rabbia. I pompieri che sono entrati nella stiva del peschereccio, attorno a cui è stata creata una mega cella frigorifera, si sono trovati di fronte immagini strazianti. Disumane. In superficie ci sono ossa, scheletri e teschi ammassati in un groviglio terribile. Sotto si intravedono corpi rimasti quasi intatti, tra cui anche quelli di bambini abbracciati alle madri. Sembra uno spazio senza tempo la tensostruttura refrigerata messa in piedi per la conta dei cadaveri: dentro si respira dolore e compassione. Difficile per chi sta lavorando in questo involucro di morte trattenere le lacrime. Nel molo l’atmosfera è tetra. Le operazioni per il recupero delle salme di quello che è stato definito il più grande e spaventoso naufragio di tutti i tempi nel Mediterraneo sono cominciate. Prima la messa in sicurezza dell’hangar, poi gli esperti hanno ‘stabilizzatò il ponte del relitto e recuperato i primi corpi nella parte ‘altà del peschereccio: una trentina. Per motivi di sicurezza si alternano al lavoro, 24 ore su 24, squadre di pompieri ogni trenta minuti. Con delle telecamere telescopiche è stata fatta una ricognizione della stiva. Il prossimo intervento sarà la realizzazione di ‘tagliò in una parete laterale del peschereccio per permettere ai vigili del fuoco di entrare all’interno e estrarre le salme. Nella ‘cittadellà realizzata nel porto del siracusano operano ogni giorno circa 150 persone. Si lavora in un contesto complicato. A testa bassa e con lo strazio nel cuore i pompieri stanno tirando fuori dal relitto scheletri e cadaveri. Un via vai mesto, drammatico, lugubre. Per più di un anno questi corpi sono rimasti chiusi nella maledetta stiva del peschereccio, affondato il 18 aprile del 2015, a 40 miglia dalla Libia e a 100 miglia dalle coste della Sicilia. Il barcone è stato recuperato a 370 metri di profondità dalla Marina militare in una maxi-operazione disposta dalla presidenza del consiglio dei ministri, e coordinata dal ministero della Difesa, per tentare di dare un nome alle vittime e permettere alle famiglie di poter seppellire i propri morti. È impossibile in questa fase stabilire con esattezza quanti siano i cadaveri, la marina militare stima tra i 250 e i 300 morti. I 28 superstiti nel naufragio parlarono di 700 persone ammassate nel peschereccio, gran parte delle quali rinchiuse nella stiva dai trafficanti che chiusero il portellone per impedirne l’uscita. L’equipaggio della portacontainer portoghese King Jacob, che fu chiamata a intervenire nello specchio di mare, oltre ai sopravvissuti, recuperò decine di cadaveri, in totale alla fine si contarono 169 vittime identificate. Se la stima delle persone intrappolate nella pancia del barcone è giusta, è probabile allora che il resto dei cadaveri non avrà mai un volto, perché finito in fondo al mare. Gli esami autoptici sui cadavere e sugli scheletri saranno effettuati da una decina di medici legali di varie università italiane, coordinati dalla professoressa Cristina Cattaneo, responsabile dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Milano. "Identificare qualsiasi vittima è un dovere non solo per la dignità dei morti ma soprattutto per i vivi", dice Cattaneo. "Senza un certificato d’identità - aggiunge il medico - orfani e vedovi non hanno la possibilità di portare avanti atti amministrativi e giuridici". La professoressa spiega che il lavoro che stanno compiendo gli operatori nell’hangar degli orrori "è impegnativo e non solo per il numero delle vittime", perché "dobbiamo dare delle risposte a quelle famiglie che cercano i propri congiunti". Secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati sono 64mila le persone che hanno raggiunto le coste italiane dal Nord Africa nel 2016, 69mila per il Viminale: un numero comunque inferiore a quello del 2015. Superiore all’anno scorso, invece il numero delle vittime: 2.477 riferisce l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, a fronte delle 1.785 dello stesso periodo dell’anno scorso. Almeno 45mila le persone sbarcate nei porti della Sicilia. Per stamani è previsto l’arrivo nel porto di Cagliari di circa 300 migranti, soccorsi nei giorni scorsi nel corso di un’operazione coordinata dalla Guardia Costiera al largo delle coste della Libia. Si tratta del terzo sbarco nel giro di una settimana: tra domenica e martedì scorsi, infatti, sono giunti nel capoluogo sardo circa 1.400 migranti. Legalizzatela, parola di antimafia di Andrea Oleandri Il Manifesto, 4 luglio 2016 Il "parere positivo" della Dna sulla cannabis legale inviato al governo a pochi giorni dall’approdo alla Camera del ddl promosso dai Radicali, dalle associazioni e dall’intergruppo parlamentare. La Direzione Nazionale Antimafia e Terrorismo "esprime parere positivo per tutte le proposte che mirano a legalizzare la coltivazione, la lavorazione e la vendita della cannabis e dei suoi derivati". È il passaggio saliente di un parere ufficiale che la Dna ha indirizzato al governo a pochi giorni dalla discussione del disegno di legge dell’intergruppo parlamentare "Cannabis legale" che arriverà alla Camera dei Deputati, forte di oltre 220 sottoscrizioni, il prossimo 25 luglio. Un provvedimento questo che se approvato avrebbe grandi vantaggi secondo l’antimafia, liberando risorse umane e finanziarie in diversi comparti della pubblica amministrazione (forze dell’ordine, Polizia penitenziaria, funzionari di prefettura, ecc.); decongestionando i tribunali dove sono decine di migliaia i procedimenti penali che richiedono l’impegno di magistrati, cancellieri ed ufficiali giudiziari; ad una perdita secca di risorse finanziarie per le mafie e per i gruppi terroristici integralisti e ad una contestuale acquisizione di risorse finanziarie per lo Stato. "In conclusione - si legge nel parere - ad un vero rilancio dell’azione strategica di contrasto, che deve mirare ad incidere sugli aspetti (davvero intollerabili) di aggressione e minaccia che il narcotraffico porta sia alla salute pubblica (attraverso la diffusione di droghe pesanti e sintetiche) che all’economia e alla libera concorrenza (attraverso il riciclaggio)". Un parere, quello dell’Antimafia, forte dei numeri e dei dati che, tanto le organizzazioni non governative, quanto lo stesso Dipartimento per le politiche antidroga, hanno dato nel recente passato. I costi economici diretti della guerra alla droga si possono stimare, annualmente, in circa un miliardo di euro per ciò che riguarda il solo sistema carcerario, in 180 milioni per le forze di polizia impegnate nel far rispettare l’attuale normativa, e in 9 milioni per i processi nei tribunali. A questi soldi spesi si accompagnano quelli che deriverebbero dalla tassazione e a cui lo stato rinuncia, quantificabili tra i 7 e i 13 miliardi di euro ogni biennio e che potrebbero essere reinvestiti in progetti educativi, informativi e di riduzione del danno, così come distribuiti sull’intero sistema di welfare. Soldi che invece vanno alle mafie e ai cartelli della droga il cui guadagno in Europa è stimato - secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze - tra i 21 e i 31 miliardi di euro annui. Un dato al ribasso, che sconta tutta la difficoltà di quantificare un mercato illegale, ma che basta a dare l’idea del fiume di denaro che fluisce nelle casse di questi gruppi criminali. Meno quantificato, ma comunque presente e allarmante, è il guadagno dei gruppi terroristici. In particolare l’Isis, come denunciato da Antonio Maria Costa (già direttore dell’ufficio Onu contro il narcotraffico dal 2002 al 2010) fa di questo traffico una delle più importanti fonti di finanziamento, vendendo droga in contanti (poi riciclati da banche conniventi), oppure direttamente barattandola (per armi e mezzi). Affari in cui i gruppi criminali italiani sono direttamente coinvolti stando ad un leak pubblicato da wikileaks nel quale l’Fbi riconosceva "l’interazione opportunistica" tra questi stessi gruppi e gli estremisti islamici. Questa breve rassegna di dati fa capire quanto legalizzare la cannabis significhi togliere risorse alle mafie e al terrorismo. Non sorprende dunque che, chi si occupa del loro contrasto, oggi come fatto già altre volte in passato, assuma una posizione di così grande buon senso. Quando si parla di droghe bisognerebbe saper uscire dall’approccio ideologico e affrontare il dibattito partendo dalle evidenze economiche, sociali e scientifiche sui danni che 45 anni di guerra alla droga hanno prodotto. I Paesi che sono stati in grado di farlo hanno cambiato strada (dal Portogallo, al Colorado, all’Uruguay). A novembre anche la California voterà un referendum popolare per decidere la legalizzazione completa della cannabis (a scopo terapeutico è già legale da diversi anni). L’Italia ha oggi la grande possibilità del disegno di legge in discussione da fine luglio per cambiare strada. Un disegno di legge che la società civile sostiene, proponendo anche alcuni miglioramenti, tramite la proposta di legge di iniziativa popolare "legalizziamo!" promossa dall’Associazione Coscioni e dai Radicali, cui diverse organizzazioni hanno aderito, tra queste Antigone e Forum Droghe. Disegno di legge che, dopo la presa di posizione della Direzione nazionale antimafia e terrorismo, ci auguriamo proceda più spedito. Arriva negli ospedali il primo raccolto della marijuana di Stato di Michele Bocci la Repubblica, 4 luglio 2016 I fiori li hanno raccolti il 30 maggio e tutto giugno è stato necessario per l’essiccazione e la preparazione delle dosi. Tra agosto e l’inizio di settembre i primi dieci chili di marijuana di Stato arriveranno finalmente negli ospedali italiani. Lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze lavora da quasi due anni al progetto e ha dovuto superare una lunga fase sperimentale, con decine di piante coltivate, studiate, esaminate e poi distrutte. Ora ci siamo. Non lo diresti mai quando entri nell’enorme caserma dell’unica struttura pubblica italiana dove vengono preparati farmaci che qui si coltiva la cannabis. I militari fanno strada, poi indossano guanti, mascherine, camici e sovra-scarpe, cioè l’abbigliamento necessario quando si preparano dei medicinali. Poi entrano nelle serre. L’odore è inconfondibile, acre e dolciastro, e rimanda a contesti assai meno ordinati di questo. Ma qui si lavora per persone che hanno problemi di salute e tutto deve essere sterile, pulito, preciso. Il risultato è un pò straniante. Da una parte ci sono le piante rigogliose e verdissime oppure tagliate e girate a testa in giù per far scendere il principio attivo verso i fiori, dall’altra macchinari luccicanti per la produzione di medicine. Bilance, contenitori, apparecchi per le analisi chimiche sono quelli di un laboratorio. C’è silenzio, gli addetti con le stellette compiono gesti precisi, di chi conosce il proprio lavoro. Ripetitività e metodo: ancora una volta, regole comuni a quelle alla base della produzione farmaceutica. Il primo raccolto è quasi pronto per essere spedito, si aspetta il via libera del ministero alla Sanità, arriverà quando saranno concluse le ultime analisi. Se alla Camera ci si appresta a discutere, il 25 luglio, la legge per la legalizzazione, per molti medici la cannabis è già uno strumento terapeutico di uso quotidiano. Più della metà delle Regioni italiane hanno introdotto la cannabis terapeutica, e per adesso devono comprarla in Olanda, con una spesa di circa 15 euro al grammo. Quando il lavoro dello stabilimento fiorentino sarà a regime, i costi saranno dimezzati e in più si supereranno i frequenti problemi di consegna. Il Farmaceutico militare dovrà inizialmente produrre 100 chili all’anno. Per questo si lavora a ciclo continuo, già adesso ci sono piante nelle varie fasi di crescita e si prevedono due raccolti prima della fine del 2016, a settembre e a novembre. Poi, nel 2017, si punta ad arrivare all’autosufficienza. È stato il ministero, nel novembre del 2015, a dire quando può essere usata la cannabis terapeutica, in una sorta di "bugiardino" pubblicato nel decreto che autorizza il Farmaceutico militare alla coltivazione. Riguardo alle indicazioni, la premessa è che, in base agli studi scientifici, la cannabis è un medicinale di seconda scelta, da usare quando gli altri non funzionano o danno problemi al paziente. Intanto tra le indicazioni c’è il dolore. La cannabis può funzionare come analgesico per patologie che implicano spasticità come sclerosi multipla o lesioni del midollo. Ma ha le stesse capacità anche nel dolore cronico in generale e in particolare a quello di natura neurologica; può aiutare contro la nausea causata da chemioterapia, radioterapia, o terapie per Hiv; stimola l’appetito in chi ha anoressia nervosa o comunque non mangia a causa di gravi patologie. Infine c’è l’effetto ipotensivo nel glaucoma che resiste alle terapie convenzionali. La posologia cita due sistemi di assunzione, orale o per inalazione. Si parte con un decotto fatto con le inflorescenze della cannabis e si può anche decidere di usare un vaporizzatore. Per mandare in fumo la marijuana dei militari. Bangladesh, il paese dell’ingiustizia di Emanuele Giordana Il Manifesto, 4 luglio 2016 Strage di Dhaka. Salari minimi, scarsa capacità sindacale, pugno duro contro i diritti. Scrivi Bangladesh e dici povertà, ingiustizia, sovrappopolazione (150 milioni su un territorio grande la metà dell’Italia), alluvioni e inondazioni marine devastanti. Dici Bangladesh e racconti una storia di risentimento sedimentato che diventa spesso violenza politica. Dici Bangladesh e pensi che la politica di quel paese è iperpolarizzata da quasi trent’anni e modellata su due partiti e, soprattutto, da due leader ormai ottuagenarie ma saldamente al potere. A turno: Sheikh Hasina dell’Awami League, un partito laico e nazionalista, e Khaleda Zia del Bangladesh Nationalist Party, organizzazione nazionalista e conservatrice. Dici Bangladesh e vedi nella forza delle organizzazioni islamiste, a cominciare dalla Jamaat-e-Islami - formazione con status parlamentare - la capacità di raccogliere un consenso che nasce dalla frustrazione legata a un cambiamento che non si avvera e dove l’islam rappresenta una promessa di purezza e riscatto in una nazione che ha a lungo detenuto la palma del Paese più corrotto al mondo. C’è tutto quel che ci vuole per preparare il terreno e il brodo di coltura dove far crescere la trasformazione del risentimento in odio e violenza. Dove è facile insomma reclutare e, per un pugno di rupie, armare mani assassine. La strage del bar è un salto di qualità ma purtroppo non stupisce. La violenza politica è stata una costante in questo paese e negli ultimi anni, benché il governo di Hasina si ostini a negarlo, il brand di Daesh ha fatto parlare di sé molte volte con assassini mirati individuali e addirittura una lista di proscrizione di blogger, attivisti, intellettuali e insegnanti laici da far fuori. Raccontata così però sarebbe una storia a metà, di quelle che si liquidano in fretta perché il paese è povero, sovrappopolato e per di più ingiusto e musulmano: abbastanza per derubricare il caso a vicenda di ordinaria povertà. Ma il Bangladesh è anche il luogo delle responsabilità nascoste che ancora una volta rimandano le radici dell’ingiustizia sociale a scelte prima coloniali e poi industriali. Quel paese inizia la sua Storia "indipendente" nel 1947 quando la follia britannica, sostenuta da quella della Muslim League del subcontinente indiano, divide il nascente Pakistan in due Stati che distano tra loro… 10 ore di volo. Il Pakistan orientale, abitato da bengalesi musulmani, con l’aiuto dell’India, si stacca dal Pakistan nel 1971 con una guerra sanguinosa le cui ferite non si sono ancora cicatrizzate (sono stati giustiziati di recente molti capi della resistenza pro pachistana accusati di crimini contro l’umanità). Il paese ha una solo vera ricchezza, la iuta, il cotone e una rinomata tradizione manufatturiera, che fanno di questo paese un enorme cantiere tessile. Ed è in Bangladesh che in tempi recenti sbarcano le multinazionali del tessile che hanno scelto la delocalizzazione in paesi che lavorano in conto terzi: salari minimi, materia prima di buona qualità a prezzi bassi, scarsa capacità sindacale, governi col pugno duro quando si rivendica un diritto. Ci sono un nome, un luogo e una data che raccontano bene questa storia: Rana Plaza a Dacca, il 24 aprile del 2013. Un edificio commerciale di otto piani, figlio di abusi speculativi locali, crolla a Savar, un sub-distretto della capitale. Il bilancio è gravissimo e le operazioni di soccorso richiedono quasi un mese e si concludono il 13 maggio con un bilancio di oltre mille vittime e oltre duemila feriti, molti dei quali ormai menomati e inabili al lavoro. Quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile e anche il più letale cedimento strutturale accidentale della Storia contemporanea, scoperchia anche le responsabilità di marchi europei, americani, italiani. Scoperchia il tema della sicurezza, dei diritti, dei risarcimenti che non arrivano. Farà aumentare il salario base ma lascerà anche intere famiglie sul lastrico. Eccolo un altro humus pieno di risentimento. Nel Rana Plaza avevano i loro laboratori fabbrichette locali che lavoravano per grandi marchi internazionali. Loro a fare il lavoro sporco, gli altri a esibire t-shirt a basso prezzo con la griffe. Se non ci fossero state campagne internazionali di attenzione (in Italia la Ong "Abiti puliti"), se non si fosse mosso l’Ufficio internazionale del lavoro dell’Onu, la storia si sarebbe dimenticata in fretta. E, in queste ore, pochi la mettono in relazione alla strage di due giorni fa nella capitale. Eppure. Eppure il Bangladesh è anche questo: la tragedia del Rana Plaza fa firmare a circa 160 compagnie il Fire and Building Safety, un primo passo per mettere in sicurezza strutture e forza lavoro che, nel tessile, conta circa 4 milioni di operai e operaie. Ma, dalle colonne del britannico Guardian, Tansy Hoskins, autrice del saggio Stitched Up: The Anti-Capitalist Book of Fashion, avverte che nonostante vi sia un elevato numero di sindacati del settore, sono pochi i lavoratori che vi aderiscono, il che li lascia vulnerabili agli abusi in fabbriche poco sicure. Anche un sindacato importante come la National Garment Workers’ Federation deve affrontare grandi ostacoli perché per registrare un’organizzazione al Dipartimento del lavoro si deve nel contempo avere come soci un terzo della forza lavoro: insomma se vuoi registrati come attivo in una fabbrica con 10mila lavoratori ne devi avere come soci almeno 3mila… ma in Bangladesh se ti iscrivi rischi - dopo le minacce - il licenziamento. E una volta per strada, da vittima del mercato, è facile diventare il soldatino di qualche Califfo in cerca di nuovi sodali. Giordania: 70mila profughi siriani senza cibo né acqua di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 luglio 2016 Nell’inferno del campo di Ruqban, in pieno deserto, a 130 km dal primo villaggio, Amman blocca gli aiuti dopo l’attacco dell’Isis contro una base militare. L’allarme delle organizzazioni internazionali: 30mila bambini rischiano di morire. Mezzo chilometro di terra di nessuno, deserto, sabbia, pietre e 70mila persone ammassate ad un confine chiuso: Ruqban è un buco nero, un’oasi-inferno a 130 chilometri dal primo villaggio, dal primo pozzo d’acqua. Negli ultimi anni Ruqban si è fatto campo profughi, alla frontiera tra Siria e Giordania, controllato giorno e notte dai militari di re Abdallah. Indietro non si torna, ma non si va neppure avanti. È la politica che molti paesi arabi hanno adottato dopo aver accolto milioni di rifugiati siriani: la Turchia da un anno e mezzo ha sigillato le frontiere e spara su chi tenta di passare, il Libano ha cancellato permessi di residenza e sospeso gli ingressi. Amman taglia gli aiuti. Almeno a Ruqban: in questo pezzo di deserto arido e rovente, dove le tende sono teli di plastica, vivono 70mila siriani. A fornire il minimo indispensabile alla sopravvivenza sono le organizzazioni internazionali. Ma oggi sono bloccate: a Ruqban non si entra. L’ordine arriva dal governo giordano che ha dichiarato l’area "zona militare chiusa" dopo l’attentato rivendicato dall’Isis il 21 giugno: un miliziano si è fatto esplodere nella base militare ad un km da Ruqban. Sette soldati giordani sono morti, 13 feriti. E, come accade in Europa, in Turchia, in Libano, si punta il dito sui flussi di disperati: tra i rifugiati - dice Amman, che dal 2011 ha accolto ufficialmente 642mila siriani, ufficiosamente 1,2 milioni - si potrebbero infiltrare terroristi dell’Isis. Con questa giustificazione, la monarchia hashemita nel 2013 ha chiuso tutti i valichi, lasciando aperti solo quelli di Ruqban e Hadalat, entrambi così lontani da zone abitate da rendere impossibile per i rifugiati spostarsi. Solo pagando trafficanti di uomini delle tribù locali (le stesse che nel campo vendono a prezzi esorbitanti beni di prima necessità e medicinali), qualche famiglia è riuscita ad andarsene. Da lunedì la zona è blindata: le autorità governative hanno promesso tolleranza zero verso qualsiasi movimento nell’area. Blindata per chi? Se gli uomini dell’Esercito Libero Siriano, armi in pugno, continuano a usare Ruqban per entrare in Siria dopo l’addestramento con la Cia, a non passare sono i camion di cibo e le cisterne d’acqua che giungono dalla città più vicina, Ruwaished. "L’accesso continua ad essere negato - diceva venerdì il portavoce della Croce Rossa, Hala Shamlawi - Siamo preoccupati per le persone intrappolate lì". Una preoccupazione che è già emergenza: da una settimana i 70mila di Ruqban non ricevono più nulla, l’acqua sta finendo (era molto poca già prima, 1,5 litri a testa al giorno in un angolo di mondo in cui in estate si superano i 40 gradi) e 30mila bambini rischiano di morire di fame. Le scorte di cibo sono agli sgoccioli: "Le razioni finiranno in pochi giorni", aggiunge Dina el Kassaby del World Food Programme. Prima che la Giordania abbandonasse del tutto Ruqban la situazione era già al limite: Medici Senza Frontiere calcolava 1.300 bambini malnutriti in un sito senza cliniche né scuole. Tra le tende improvvisate girano scorpioni e ratti che si cibano della spazzatura. L’ultima volta gli aiuti sono arrivati un mese fa, sufficienti per andare avanti due settimane. Poi l’attacco ha interrotto ogni tipo di flusso. Le agenzie internazionali stanno negoziando da giorni con Amman, che per ora ha concesso solo l’invio di qualche cisterna d’acqua. La situazione è così drammatica che c’è chi prende la decisione più estrema: tornare in Siria. "Stiamo ricevendo storie di persone che hanno deciso di rientrare in Siria a causa delle tremende condizioni in questo deserto desolato e remoto", dice ad al-Jazeera il ricercatore di Human Rights Watch, Gerry Simpson. Morire di guerra o morire di fame: una scelta che concretizza le parole usate da Medici Senza Frontiere per raccontare Ruqban, "l’enorme fallimento della comunità internazionale". Ma, come riferito mercoledì dal ministro degli Esteri giordano Joudeh ai rappresentanti dei paesi occidentali, la sicurezza della Giordania ha la precedenza sulle emergenze umanitarie. Un linguaggio che l’Europa comprende bene viste le sue tenaci politiche di non-accoglienza. L’ipocrisia europea la svela il portavoce del governo giordano Momani: "Abbiamo accolto 200 rifugiati al giorno in passato. Non dobbiamo mostrare le nostre credenziali a nessuno quando si parla di ospitalità. Siamo pronti a trasferirli in qualsiasi paese li voglia accogliere. Anche usando i nostri stessi aerei". Bangladesh: islamisti arrestati e impiccati, linea dura del governo Hasina Il Messaggero, 4 luglio 2016 Da tempo il Bangladesh vive una stagione, una lunghissima stagione, di violenza. Il terrorismo islamico, che dieci anni fa aveva capillarmente penetrato diversi settori della società civile e delle istituzioni, era stato quasi sconfitto dietro pressione dell’India e dell’Occidente. E il governo negli ultimi anni aveva finalmente portato in tribunale i criminali di guerra che nel 1971, durante la guerra di Indipendenza dal Pakistan, si erano resi colpevoli di stupro, genocidio e torture. I signori in questione, ormai in età avanzata, appartenevano tutti alla Jamaat Islami, il principale partito islamico locale che, durante la guerra, aveva sostenuto il Pakistan. Quasi tutti i colpevoli sono stati condannati a morte e dal 2013 a oggi sono state eseguite cinque condanne per impiccagione: l’ultima lo scorso maggio. Il condannato si chiamava Motihur Rahman Nizami e aveva ammazzato 480 persone. Processi e condanne hanno però creato negli ultimi anni un clima di estrema tensione: la Jamaat Islami ha orchestrato scioperi che hanno quasi messo in ginocchio il paese, dimostrazioni e scontri di piazza che in alcuni casi si sono trasformati in veri e propri episodi di guerriglia urbana. Intanto la tradizione secolare dei bengali, la tradizione di tolleranza e apertura per cui l’East Pakistan era fieramente tornato alle origini di I"Bangla- Desh", patria dei Bengali, cominciava rapidamente a deteriorarsi. Negli ultimi tre anni sono state uccise più di quaranta persone, una dozzina soltanto da aprile fino a oggi. Si trattava di intellettuali, di professori, di attivisti per i diritti umani e per i diritti dei gay colpevoli soltanto di essere se stessi, di essere atei o di avere una visione troppo secolare della società tutta. In altri casi, si trattava di persone di religione induista, buddista o cristiana accusate di blasfemia. Oppure di stranieri, colpevoli di essere occidentali e di appartenere quindi alla esecrata categoria dei "crociati". La premier Hasina e il suo governo però hanno sempre negato che esistesse un problema di estremismo o di terrorismo islamico risorgente, accusando invece dei crimini in questioni gli oppositori politici colpevoli di voler gettare discredito sul governo. La strage di Dacca l’ha finalmente costretta ad ammettere l’esistenza del problema, o almeno del problema del terrorismo islamico di matrice locale. Perché continua invece a negare che l’Is, Daesh o l’Isis, comunque si voglia chiamare il Califfato islamico, esistano nel paese. D’altra parte, si trova in buona compagnia: anche i governi del Pakistan e dell’Afghanistan si ostinano a negare l’evidenza e a sostenere che all’interno dei loro confini il Califfato non esiste o quasi. E nemmeno gli arresti effettuati nel corso dell’ultimo anno dalla polizia e dall’intelligente indiana riescono a far cambiare idea alla Hasina: le decine di uomini arrestati al confine pronti a passare in Bangladesh per presentarsi, come da loro stessi dichiarato, ai locali affiliati all’Isis, non contano nulla. D’altra parte, almeno in Bangladesh, è soltanto questione di nomi: etichetta nera su una bottiglia vecchia almeno di vent’anni, i terroristi locali, che aspettavano da tempo l’occasione favorevole per comparire, finalmente anche loro, sulla scena mondiale. Stati Uniti: Hillary Clinton e il partito democratico si dividono sulla pena di morte di Paolo Mastrolilli La Stampa, 4 luglio 2016 La candidata alla presidenza: "Non sono favorevole ad abolirla". Il Partito democratico americano vuole abolire la pena di morte, ma il suo candidato presidenziale no. È una delle molte contraddizioni nella singolare campagna elettorale del 2016, e nella sfida fra Hillary Clinton e Bernie Sanders. I due partiti stanno scrivendo le piattaforme programmatiche, che verranno approvate alle convention di Cleveland e Philadelphia. Nel testo di quella democratica c’è un paragrafo che recita: "Aboliremo la pena di morte, che ha dimostrato di essere una forma di punizione crudele e inusuale. Essa non ha posto negli Stati Uniti". Un riferimento diretto alla Costituzione, che vieta le punizioni crudeli e inusuali. È la prima volta che accade, nel 2012 la piattaforma democratica si limitava a dire che "la pena di morte non dovrebbe essere arbitraria". Cosa è successo negli ultimi quattro anni, per spingere il partito di Obama a cambiare posizione? Fra le altre cose, uno spostamento generale dei democratici a sinistra, evidenziato dal successo nelle primarie di Bernie Sanders, che è contro le esecuzioni. La piattaforma è stata scritta da 15 delegati, 6 scelti da Hillary, 5 da Bernie, e 4 dalla presidentessa del partito Debbie Wasserman. Solo uno di loro si è astenuto sul tema della pena capitale: significa che i democratici a Philadelphia si impegneranno per la prima volta nella loro storia ad abolirla. Il problema è che l’abolizione non avverrà, perché Clinton è contraria: "Abbiamo molte prove che la pena di morte è stata applicata con troppa frequenza, e troppo spesso in maniera discriminatoria. Quindi penso che dobbiamo analizzarla a fondo. Tuttavia non sono favorevole ad abolirla. Credo che ci siano alcuni casi clamorosi che ancora meritano la considerazione di questa punizione. Ma vorrei che fossero limitati, al contrario di quanto avviene in molti stati". Se verrà eletta, quindi, Hillary si opporrà alla volontà espressa dal suo stesso partito nella piattaforma. Il motivo sta nell’articolata posizione della Clinton, tipica del suo modo di fare politica. Da una parte strizza l’occhio agli elettori più progressisti contrari alle esecuzioni, dicendo che andrebbero limitate; dall’altra, lo strizza ai più conservatori, sostenendo che restano casi in cui applicarla, come quelli di terrorismo. Per farlo, sfrutta la dicotomia fra il governo federale e i 50 stati. Il governo federale, infatti, applica la pena di morte in casi gravi e chiari, come l’attentato di Oklahoma City. Invece i singoli stati, spesso quelli più conservatori e repubblicani del sud, ne abusano in maniera indiscriminata. Lei poi ha detto di favorire l’esecuzione di Dylann Roof, perché la strage che fece in una chiesa di Charleston era a sfondo razziale, e quindi questa scelta l’aiuta con l’elettorato nero. Sono posizioni politiche calibrate per ottenere il maggior consenso possibile a novembre, ma la società e il suo partito stanno cambiando. No alle esecuzioni Il 27 maggio dello scorso anno il Nebraska ha abolito la pena di morte (via libera del parlamento dopo il veto del governatore repubblicano Pete Ricketts). Il Nebraska è il 19° stato americano su 50 ad avere abolito la pena di morte (più il District of Columbia, il distretto federale di Washington). Il Nebraska convertirà la condanna a morte di undici persone. Salvati e rinviati - Quest’anno sei detenuti sono stati riconosciuti estranei ai crimini per i quali erano stati condannati a morte: con questi ultimi casi sale così a 156 il numero delle persone che - dal 1973 - sono riuscite a evitare l’iniziale sentenza di condanna a morte. L’Ohio ha riprogrammato nel 2017-2018 e 2019 11 esecuzioni previste per il 2019. Lo Stato sta cercando di ottenere "legalmente" i farmaci per le iniezioni letali. L’attesa - Possono trascorrere anche decenni prima dell’esecuzione. Mentre il detenuto attende nel "braccio della morte", il processo può essere riaperto, con una nuova sentenza che in alcuni casi ha scagionato il condannato. Dal 1973 negli Usa sono state emesse 7.254 sentenze di morte: 962 quelle eseguite, 119 detenuti sono stati liberati perché innocenti. Circa 3000 carcerati attendono l’esecuzione. I metodi - Il metodo più usato per uccidere un condannato a morte è l’iniezione letale. 38. Il secondo è la sedia elettrica. Alcuni Stati prevedono l’impiccagione, la fucilazione e l’uccisione in una camera a gas, ma dal 1976 a oggi l’iniezione è stata usata nell’ 80 per cento dei casi e la sedia elettrica nel 18 per cento. Gli ultimi detenuti giustiziati tramite impiccagione e fucilazione risalgono al gennaio 1996. Egitto: allarme diritti umani "casi di tortura e violazioni da parte della polizia" La Repubblica, 4 luglio 2016 In Egitto è allarme diritti umani per i "casi di tortura e violazioni da polizia". Lo ha riferito il presidente del Consiglio Nazionale per i diritti umani del Paese, Mohamed Fayek, durante la presentazione dell’undicesimo rapporto dell’organo da lui guidato. Fayek ha annunciato di avere ricevuto resoconti su episodi di tortura e violazioni della polizia, aggiungendo che le forze dell’ordine hanno negato tutte le accuse. "La tortura nelle stazioni di polizia egiziane è un problema diffuso - ha accusato - abbiamo registrato tre nuovi casi di persone morte sotto tortura e altre 20 persone sono morte dietro le sbarre per un peggioramento della loro salute". E ha chiesto "che il governo intervenga". La situazione in Egitto, dal caso Regeni in poi, è complessa e, negli ultimi mesi, alcuni ufficiali sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di aver commesso torture contro i cittadini e alcuni sono stati condannati. Fayek ha poi chiesto regolamenti chiari sugli arresti per scoraggiare quelle che sono oramai definite come sparizioni forzate. Il rapporto ha infine sottolineato che le prigioni sono sovraffollate fino al 150% della loro capacità, con servizi medici inefficaci. Stati Uniti: il Nutraloaf, quando il cibo è usato come punizione per i detenuti violenti eastonline.eu, 4 luglio 2016 I piatti che vengono serviti nelle carceri sparse intorno al mondo, hanno da sempre avuto la reputazione di non essere proprio piatti "gourmand". In realtà, il cibo che si serve in molte prigioni al giorno d’oggi, non è proprio terribile come si può immaginare. Nel 1940, nella famosissima prigione di Alcatraz, venivano addirittura serviti dei piatti davvero gustosi, che pochi detenuti, considerate anche l’epoca, in altri Paesi, avrebbero potuto permettersi di assaggiare. Molte delle ricette dei piatti di questa prigione resa famosa da tantissimi film, sono anche state raccolte in un piccolo libro, tuttora venduto nel negozio di souvenir dell’isola stessa. Il compito di rifocillare i detenuti spesso viene affidato a società di catering esterne, come succede con le mense delle scuole. Il cibo viene precotto e poi trasportato per essere servito in loco. Al giorno d’oggi si fa anche molta più attenzione alle allergie, intolleranze o credenze religiose dei detenuti, servendo pasti ad hoc per chi ne faccia richiesta. Questo vale anche per vegetariani e vegani. Sebbene i menu delle prigioni soddisfino gli standard minimi di "appetibilità" richiesta per il cibo servito, molti detenuti usano acquistare alcuni dei propri alimenti scegliendolo da una lista o da un servizio interno al carcere dove possono comprare selezionati prodotti pagandoli di tasca propria. Il Nutraloaf, chiamato anche "pane da prigione", è una specie di polpettone che viene servito in alcune carceri americane, preparato con pane bianco a pezzi, formaggio senza derivati del latte, carote, spinaci, uvetta, fagioli, olio vegetale, concentrato di pomodoro, latte scremato e fiocchi di patate, il tutto mischiato insieme e poi cotto al forno. La consistenza è compatta, come una pagnotta molto asciutta, cosa che rende davvero difficile deglutirlo. É visto come una delle più brutte punizioni che possano essere inflitte, una tortura sotto tutti i punti di vista, talmente odiata dai detenuti, che in molte prigioni si è addirittura registrato un calo dei comportamenti violenti da parte di questi ultimi, proprio per la paura di finire in isolamento, dove il Nutraloaf viene servito, per non essere obbligati a mangiarlo. Per capire cosa provano i carcerati quando sono obbligati a mangiare questo "polpettone" orribile, sono state selezionate alcune persone alle quali è stato fatto provare in prima persona. Islanda sorprendente Patrizio Gonnella Il Manifesto, 4 luglio 2016 L’Islanda calcistica sorprende quasi quanto quella carceraria. Il numero complessivo di detenuti in Islanda è pari a poco più di sei volte rispetto alla rosa dei convocati agli europei. I dati più recenti indicano in meno di 150 il totale dei reclusi nelle prigioni islandesi (di questo solo due sono minorenni). Effettivamente sono molto pochi, non solo perché pochi sono gli abitanti dell’isola ma sono pochi anche se considerati comparativamente rispetto agli abitanti degli altri Stati. Il tasso di detenzione in Islanda è pari a 45 detenuti ogni 100 mila abitanti. In Italia è pari a 100 detenuti per 100 mila abitanti. Negli Usa addirittura è di 700 detenuti ogni 100 mila americani liberi. Dunque i detenuti sono pochi perché pochi sono gli islandesi ma anche perché poco si usa la prigione. Quindici anni fa nelle carceri islandesi si stava ancora più larghi di oggi. Si pensi che nel 2000 i detenuti erano solo 78 e il tasso di detenzione era di 28 detenuti ogni 100 mila islandesi. Un aumento della popolazione reclusa determinato anche dalla condanna tra il 2013 e il 2015 di ben 26 banchieri per crimini come insider trading, truffa, riciclaggio, turbamento del mercato. Si tratta di crimini per i quali poco si incarcera nell’Europa continentale. L’Islanda fu affamata nel 2008 da un sistema bancario truffaldino. Le banche furono però lasciate fallire e il Paese si riprese. I responsabili finanziari del fallimento furono messi sotto inchiesta. L’esito è sorprendente: il numero dei colletti bianchi incarcerati in Islanda è pari un sesto dell’intera popolazione detenuta. Una percentuale che non ha pari nel resto d’Europa. Nella prigione di Kviabryggja, a circa un’ora di auto da Reykjiavik, non lontana da Selfoss e in una delle aree paesaggistiche più emozionanti dell’isola, tra lava e ghiaccio, lungo la A1, la strada che circumnaviga tutto il Paese, c’è l’unico capo di una banca al mondo incarcerato per il disastro finanziario del 2008. Sigurdor Einarsson, a capo della banca Kaupþing, fallita miseramente dopo lo scandalo Lehman Brothers, è stato condannato a quattro anni di carcere. Oggi Einarsson passa il suo tempo tra la palestra, la lavanderia e la navigazione in internet. Qualche anno fa Mauro Palma, oggi garante nazionale delle persone private della libertà e allora presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura definì il sistema penitenziario islandese forse il migliore d’Europa. Queste le sue parole: "Il sistema penitenziario in Islanda responsabilizza i detenuti attraverso diverse misure e concede loro spazi per condurre una vita normale. In questi penitenziari i detenuti possono vedere il mondo esterno. Accortezze come quelle di permettere ai detenuti di tenere i loro effetti e personalizzare la propria cella sono misure a costo zero e soprattutto non vanno a scapito della sicurezza, come dimostra il caso islandese". Si può obiettare che con una popolazione con numeri così bassi tutto è possibile, tutto è facile. In realtà non è così. Ci sono paesi piccoli ma molto crudeli. Pare che il 99% degli islandesi seguirà in tv il quarto di finale contro la Francia. È legittimo ritenere che fra loro vi saranno anche i 150 prigionieri a tifare per Hannes Þór Halldorsson, allo stesso tempo regista cinematografico e portiere della nazionale. Se una nazione ha una densità abitativa bassa ognuno deve fare almeno due cose nella vita.