Addio ad Alessandro Margara, il magistrato "che trattava i detenuti come uomini" di Franca Selvatici La Repubblica, 30 luglio 2016 Aveva 86 anni, fu l’ispiratore della riforma penitenziaria. È morto Alessandro Margara, l’ispiratore della riforma penitenziaria, il magistrato "che trattava i detenuti come uomini". Aveva da poco compiuto 86 anni. Il 24 maggio 2014 aveva perso la moglie, l’avvocatessa Nora Beretta. Lascia due figli, Niccolò e Francesco. Sandro Margara era nato a Massa il 23 giugno 1930 ed era entrato in magistratura nel 1958. È stato giudice istruttore a Ravenna dal 1961 al 1965, e poi a Firenze dal 1965 al 1976. Da quell’anno ha cominciato a dedicare il suo sapere e la sua umanità ai detenuti. Dal 1976 all’80 è stato magistrato di sorveglianza a Bologna, poi fino al 1997 a Firenze. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1986, più nota come legge Gozzini, è dovuta al suo impegno e alla sua profonda convinzione che una società civile debba "farsi carico del detenuto, interessarsi a lui, cambiare le oggettive condizioni del suo agire". Il senatore della Sinistra Indipendente Mario Gozzini, che ha dato il nome alla riforma, era un suo amico, legato a lui da una comune visione ideale. Nel 1997 il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick lo nominò direttore generale del Dipartimento della amministrazione penitenziaria. Il primo aprile 1999 il nuovo ministro, Oliviero Diliberto, non lo confermò. Margara volle rientrare al Tribunale di sorveglianza di Firenze, che aveva guidato per molti anni, con le funzioni di semplice magistrato. In pensione dal 24 giugno 2002, per quasi 10 anni ha presieduto la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole e dal 2011 al 2013 è stato il garante dei detenuti della Regione Toscana. Nel dicembre scorso è stato presentato il volume "La giustizia e il senso di umanità" curato da Franco Corleone, suo successore nell’incarico di garante dei detenuti della Regione Toscana, e pubblicato dalla Fondazione Michelucci. La salma sarà esposta da domani (sabato) alle 10,30 presso la Misericordia di Badia Ripoli e il funerale sarà celebrato lunedì alle 10 nella parrocchia di san Pietro in Palco in piazza Elia Dalla Costa. Il cavaliere dell’utopia concreta (fuoriluogo.it) Si è spento in queste ore Alessandro Margara. Un breve ricordo di Fuoriluogo e Forum Droghe. Si è spento in queste ore Alessandro Margara. Una vita da Magistrato, in particolare come Magistrato di Sorveglianza, poi a capo del Dipartimento della Amministrazione penitenziaria, quindi Garante dei detenuti della Regione Toscana, Margara ha dedicato la sua vita "proprio alla costruzione di un modello di pena costituzionale e quindi di una galera in cui si realizzi il principio del reinserimento sociale scritto e prescritto dall’art. 27 della Costituzione". Un "cavaliere dell’utopia concreta", come l’aveva appunto definito Franco Corleone nell’introduzione dell’antologia di scritti su carcere, opg, droghe e magistratura di sorveglianza intitolata "La Giustizia e il senso di umanità" pubblicata pochi mesi fa dalla Fondazione Michelucci. Denunciò i nefasti effetti prima della legge Jervolino Vassalli e poi della Fini Giovanardi. In particolare per quel che riguarda le sanzioni amministrative fu tra i primi a sottolinearne la gravità, sia per l’effetto desocializzante che per il fatto di essere applicate senza alcuna garanzia costituzionale. Sandro ci mancherà, ma mancherà soprattutto un punto di riferimento a tutti coloro che, con l’occhio rivolto alla speranza, vivono e osservano la vita nelle carceri italiane. Ciao Sandro, "il più grande difensore dei diritti dei detenuti italiani" di Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella (Associazione Antigone) Il Manifesto, 30 luglio 2016 In nome dei diritti. È morto a 86 anni Sandro Margara, magistrato di sorveglianza, ispiratore della legge Gozzini, è stato "il più grande difensore dei diritti dei detenuti italiani". Fu capo del Dap con l’allora ministro Flick, rimosso da Diliberto nel 1999. Lascia due figli, Niccolò e Francesco. Sandro Margara è stato il più grande difensore dei diritti che i detenuti italiani abbiano mai avuto, prima come magistrato e presidente dei tribunali di sorveglianza di Bologna e di Firenze, poi come Capo dell’amministrazione penitenziaria, infine come Garante dei detenuti per la Regione Toscana. Per decenni la migliore giurisprudenza sull’ordinamento penitenziario è venuta di là, dai suoi uffici e dalla sua penna. I detenuti facevano a gara per essere sottomessi al suo giudizio, certi che non sarebbero mai stati vittime di pre-giudizi. Quando fu maldestramente allontanato dal più "sinistro" ministro che abbia abitato le stanze di via Arenula (troppo attento ai diritti dei detenuti, il capo d’imputazione), su un giornale stampato a Rebibbia gli dedicarono una rubrica fissa, quella del Margara fans club. Margara non cambiava idea a seconda del luogo dove operava. Da giudice, Capo Dap e garante ha sempre contrastato le derive securitarie anche quando si trattava di mettere in discussione il "famigerato" articolo 41-bis. Fu lui da presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze a non voltare le spalle di fronte alle violenze e alle torture a Pianosa nei primi anni 90. Del resto, a Margara dobbiamo la benemerita legge Gozzini: non è un mistero per nessuno che il senatore fiorentino si fece guidare nel mondo penitenziario dal suo concittadino giudice di sorveglianza e dei diritti che nell’84 non ebbe timore di andare sul posto, a mediare faccia a faccia la soluzione dell’ultima rivolta nella casa di reclusione di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. E alla breve stagione in cui fu a capo dell’amministrazione penitenziaria dobbiamo l’implementazione della legge Simeone-Saraceni e le ultime assunzioni di assistenti sociali che il ministero della giustizia abbia conosciuto, oltre alla scelta di revisionare il regolamento penitenziario, arrivata a compimento nel 2000. Indimenticabile, nel 1996, a dieci anni dalla legge Gozzini, il pungente confronto con un altro grande maestro di recente scomparso, Massimo Pavarini: il disincanto dello scienziato, scettico degli effetti della premialità penitenziaria, contro la ferrea determinazione del suo miglior interprete. Polemizzarono aspramente, stando e restando - allora e per i decenni a venire - dalla stessa parte: dalla parte della riduzione della sofferenza penale e della marginalità sociale che ne è vittima privilegiata. Antigone gli deve quella prima, innovativa autorizzazione, che ci consentì, quasi vent’anni fa, di inaugurare l’"Osservatorio nazionale" sulle condizioni di detenzione che ancora oggi resta il principale strumento di informazione sul carcere in Italia, unico nel suo genere in Europa. E da Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e decano dei magistrati di sorveglianza, nel 1997 partecipò al convegno padovano in cui proponemmo, per la prima volta, l’istituzione di un difensore civico per le persone private della libertà, da cui derivarono le sperimentazioni locali, la rete dei garanti regionali e, infine, il Garante nazionale dei detenuti. Basta guardarsi indietro per ricordare quanto gli dobbiamo. Ci mancherà Sandro, la sua intelligenza, la sua bonomia e la sua arguzia. A chi resta, va la responsabilità di tenere vivo il suo insegnamento nell’impegno di ogni giorno. Lunedì 1 agosto i funerali. Il feretro di Margara sarà esposto sabato 30 luglio dalle 10.30 presso la Confraternita di Misericordia a Badia a Ripoli, via Chiantigiana 26. Lunedì 1 agosto alle 10 il rito funebre presso la Parrocchia di S. Piero in Palco, in Piazza Cardinale Elia dalla Costa. Un "giurista sociologo" di scuola fiorentina di Mauro Palma Il Manifesto, 30 luglio 2016 Alessandro Margara (1930-2016). Il ricordo del Garante nazionale delle persone private della libertà. Per Margara una detenzione senza un percorso di ritorno al contesto sociale rischia di produrre ulteriori vittime: coloro che la società esclude. Alessandro Margara era arrivato a guidare l’Amministrazione Penitenziaria dopo un percorso noto: era persona ben conosciuta a chi dedicava intelligenza e tempo a riflettere sul sistema delle pene e delle possibili modalità esecutive o a operare nelle istituzioni a ciò preposte. Un percorso di esemplare applicazione delle norme e dello spirito della legge penitenziaria approvata poco più di venti anni prima, di riconosciuta competenza e assoluto rigore e anche però di grande connessione delle norme con un sentire sociale che ha sempre caratterizzato il suo approccio al tema della pena e della sua esecuzione e che ne ha delineato il profilo di "giurista sociologo": di un operatore di giustizia guidato dal senso del recupero possibile e dalla non accettazione della negatività che la mera applicazione della norma penale può portare con sé qualora non orientata dal criterio del perseguimento di una qualche utilità sociale, anche nell’inflizione di una sanzione dura, e dalla ricerca del possibile recupero dell’autore del reato. Una cultura che veniva da lontano Una cultura che veniva da lontano. Aveva, infatti, radici in un cattolicesimo sociale ben vivo a Firenze negli anni che da un lato vedevano l’esperienza di comunità di base quale quella dell’Isolotto - tanto mal vista dall’allora Arcivescovo fiorentino reduce da recenti singolari tenzoni con il prete di Barbiana e non desideroso di aprire anche un "fronte" cittadino - e dall’altro la vivacità teorica di un nucleo di riflessione di democrazia laica portato avanti da un gruppo di credenti di fisionomie e ambiti d’indagine differenti che si riconoscevano attorno alla rivista Testimonianze e alle ampie e formative discussioni sviluppate da Ernesto Balducci. Racchiudere questo mondo di confronti e discussioni nella formula di "ex Lapiriani" è riduttivo: ne indica soltanto un filone genetico e soprattutto non dà conto degli sviluppi e delle ramificazioni in ambiti di riflessione diversi, conservati nel tempo e tuttora riconoscibili (…). Questa lettura del contesto ha fortemente influenzato l’opera del rigoroso giurista, anche nella previsione acuta degli esiti di ogni norma che il Legislatore andava discutendo negli anni e di cui Alessandro Margara ha via via intuito e prefigurato l’applicazione futura, in modo da enuclearne gli elementi critici o controversi affinché si intervenisse in fase di analisi e di approvazione per evitare tali esiti. La rimozione dall’Amministrazione - Molti dei suoi scritti testimoniano la costanza di questo lavoro di continua attenzione alla direzione che la "barca" dell’esecuzione penale andava prendendo a seconda degli spostamenti del "timone" politico, spesso determinati da emotività per alcuni eventi, ricerca di consenso, ricorso periodico all’uso simbolico delle norme penali. (…) Spesso, molto spesso, Margara non è stato ascoltato. Anche la sua esperienza al vertice dell’Amministrazione - che molti di noi avevano salutato come inizio di un cambiamento - si è conclusa precipitosamente, con poco più di una lettera di saluto da parte di un Ministro che pur apparteneva formalmente a uno schieramento progressista, ma che non voleva rinunciare al desiderio di accondiscendenza verso gli umori di una presunta opinione pubblica ciclicamente orientata a chiedere una improduttiva severità verso chi commette reati, anche di minore rilevanza, e una certa scioltezza nelle procedure, senza troppe regole e troppa attenzione ai diritti delle persone coinvolte. Margara, ritornando a fare il normale Magistrato di sorveglianza, volle scrivere una lettera in cui non affrontava il problema personale di come e perché fosse stato rimosso, ma il problema culturale di cosa tale rimozione rappresentasse nelle sue motivazioni e nella modalità secondo cui era avvenuta. Del resto in quegli anni l’ipotesi "trattamentale" del carcere - centrata sulla possibilità di costruire un percorso di positivo reinserimento del detenuto nel contesto sociale - andava in parte affievolendosi e in parte deformandosi verso una connotazione correzionalista di revisione del proprio comportamento e di trasformazione soggettiva sulla base di buonsenso etico. (…) L’orizzonte rieducativo della pena - Per Margara fuori dall’orizzonte rieducativo la pena si riduceva al male inflitto per compensare il male prodotto, rischiando di precipitare al livello pre-moderno di vendetta, non compiuta dal singolo, bensì affidata alla funzione esterna e "astratta" dello Stato. Una detenzione senza un’ipotesi di costruzione di un percorso di ritorno al contesto sociale del resto rischia di produrre ulteriori vittime: sono coloro che la società non reintegra e di fatto esclude; oltretutto con alti costi per la collettività che invece può trarre un evidente vantaggio futuro dagli investimenti in termini di intelligenze, supporto e risorse fatti per un positivo reintegro nel contesto sociale. (….) Negli anni, da un lato la crisi economica ha portato progressivamente a ridurre le speranze delle strutture solide per il percorso rieducativo - proprio Margara ormai nella funzione di Garante delle persone private della libertà della Regione Toscana organizza nel 2013 un Convegno di studio dal titolo chiaro: Il carcere al tempo della crisi. Dall’altro, il peggioramento delle condizioni detentive, anche per il sovraffollamento, ha portato a spostare l’attenzione verso l’obbligo assoluto di rispettare in ogni caso la dignità della persona ristretta: dalla finalità rieducativa affermata in coda al terzo comma del sempre citato articolo 27 della Costituzione alla prima parte del suo enunciato che recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Due processi che saldano le due polarità dialettiche verso un unico obiettivo: ridare fisionomia e sensatezza al nostro sistema delle pene. (tratto dall’antologia "La giustizia e il senso di umanità", acd Franco Corleone, Fondazione Michelucci Press 2015). Intercettazioni, il Csm non frena: decide il pm di Gigi Di Fiore Il Mattino, 30 luglio 2016 Con un solo astenuto, il plenum del Csm ha approvato le linee guida sulle intercettazioni telefoniche, proposte dalla settima commissione. Relatori i magistrati napoletani Francesco Cananzi e Antonello Ardituro, con la consigliera laica Paola Balducci. Ribadita l’importanza delle intercettazioni come fonte di prova essenziale nelle indagini giudiziarie. Confermato anche il ruolo-guida del pm nella sua qualità di gestore principale delle inchieste. Proprio al pm viene assegnato il primo compito di selezionare il materiale registrato dalla polizia giudiziaria. Si legge infatti nel documento del Csm: "Appare centrale il ruolo del pm che, nel trattamento dei dati sensibili, potrà operare una prima selezione delle intercettazioni, dando direttive sul punto alla polizia giudiziaria, affinché proceda alla trascrizione in sunto o ne annoti solo la mera indicazione dei dati estrinseci". La delibera del Csm tiene conto delle circolari diffuse da almeno 19 Procure in tutt’Italia. E il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, precisa: "Non vogliamo né anticipare, né condizionare il legislatore. Ritengo però che il legislatore farebbe cosa saggia ad attingere ai principi delineati nel documento". Dalla selezione delle registrazioni, scaturiranno le indicazioni successive del pm che devono attenersi a "sobrietà contenutistica, eventualmente valutando se omissare, nelle conversazioni comunque rilevanti, i riferimenti a cose o persone, se non strettamente necessari, dandone conto con adeguata motivazione", si legge nel documento del Csm. Insomma, una grande responsabilità, che assegna al magistrato dell’accusa un carico maggiore di lavoro nelle singole indagini. Molta autonomia, ora delegata agli investigatori, troverà un freno nel preventivo ascolto dei sostituti procuratori. Nella delibera approvata dal plenum non si trascura l’ipotesi dell’udienza stralcio, per stabilire le conversazioni da distruggere e quelle irrilevanti, con la partecipazione dei difensori. Ma, per evitare ulteriori prolungamenti delle indagini e aggravi di lavoro ai giudici dei tribunali, il ricorso all’udienza dovrebbe esserci solo in casi da stabilire. Ma qualche suggerimento viene fornito dal Csm: nessuna trascrizione per le conversazioni "casuali" con interlocutori parlamentari, ma solo indicazioni nei brogliacci; divieto di diffusione di conversazioni di indagati con i loro avvocati, o con medici e sacerdoti sentiti nell’esercizio delle loro funzioni". Ma su un punto il pensiero del Csm è chiaro: le intercettazioni sono strumento investigativo molto importante. E si legge nel documento, senza equivoci: "Va ribadito con decisione che il rimedio alla divulgazione non può essere rappresentato dalla riduzione dell’area operativa del mezzo di ricerca della prova di esame, che è indispensabile per le investigazioni". Neanche ridurre le conversazioni registrate ad un semplice sunto nei provvedimenti giudiziari può essere strada praticabile, aggiunge il Csm. E ne spiega il motivo: "Il rischio è di ridurre la genuinità della prova scaturita dalla conversazione intercettata". Intercettazioni, l’ultima presa in giro di Alessandro Barbano Il Mattino, 30 luglio 2016 Facciamo pure la prova del budino, aspettiamo di vedere quale attuazione troveranno, ma diciamolo francamente: così come sono state approvate, le linee guida licenziate dal Consiglio superiore della Magistratura in materia di intercettazioni non servono praticamente a nulla, non costituiranno affatto un argine al loro utilizzo e alla loro diffusione, e insomma lasceranno tutto com’è adesso. Vediamo perché. Anzitutto, si tratta di un insieme di raccomandazioni, che il Csm ha deciso di adottare per evitare che il Parlamento provveda con una legge. Si interviene per evitare altri interventi, insomma. Non si vuole la legge, e si vuol far credere che la diffusione di intercettazioni per nulla rilevanti ai fini delle indagini e del processo possa essere scoraggiata dal blando invito alla "sobrietà contenutistica" formulato dall’organo di autogoverno. Ma siamo appunto all’invito, all’auspicio, all’esortazione. Può darsi che si immagini in futuro di adottare provvedimenti disciplinari, nei casi in cui siano violate le "regole di gestione" suggerite dal Csm, ma c’è una sproporzione evidente fra la dimensione macroscopica del problema, i diritti violati, le paginate di intercettazioni a strascico che finiscono sistematicamente in pasto alla pubblica opinione, da una parte, e il modesto argine che dovrebbe essere frapposto esclusivamente dall’ethos professionale del magistrato dall’altro. Da questo punto di vista, nulla è cambiato. Come non ci si è accorti nei mesi scorsi del lenitivo spalmato tramite circolare da alcuni capi delle procure, per limitare la diffusione di conversazioni private irrilevanti, così siamo sin troppo facili profeti se diciamo oggi che non serviranno nemmeno queste linee guida. Velleitarie nel migliore dei casi, ipocrite nel peggiore. In secondo luogo, il Csm non osa dire una sola parola sull’uso o sull’abuso dello strumento. Si fa bastare l’affermazione di principio, che si tratta cioè di uno strumento investigativo fondamentale, indispensabile, irrinunciabile. Ora, è chiaro che nessuno chiede alla magistratura di privarsi di un simile strumento, ma una riflessione sull’equivalenza, che si viene sempre più affermando, per cui indagare significa tout court intercettare, andrebbe pur fatta. Non accade ancora che la formazione della prova stia tutta nella captazione delle parole intercettate, ma quel che però già accade è che esse bastino non già ai fini del processo - dove anzi accuse così congegnate finiscono spesso per cadere - ma ai fini della inappellabile condanna mediatica che scatta dal giorno della loro pubblicazione. La giustizia alla fine non è detto affatto che trionfi, ma non importa: trionfa invece il pm, che vede accresciuto il proprio potere sociale dai riverberi mediatici di trascrizioni che tirano dentro di tutto e dipiù. In terzo luogo, il pm, appunto. Perché è a lui che si rivolge il Consiglio Superiore, è a lui che chiede sobrietà. Come se in un rito accusatorio, qual è quello previsto dal nostro codice, accusa e difesa non dovessero tenersi sullo stesso piano, e non dovesse dunque toccare magari a un giudice terzo di fare una valutazione sulla necessità di allegare o stralciare il contenuto delle intercettazioni. C’è un’imputazione provvisoria, ed è solo al pm che viene chiesto di valutare, avendo lui nelle sue mani lo svolgimento delle indagini, quale volume ed evidenza dare al materiale raccolto, e chi tirare in ballo e chi no. E questo sulla base del principio, che il Csm non discute minimamente, che la tale o talaltra intercettazione può sempre servire a lumeggiare il contesto, indipendentemente dalla rilevanza penale di tutto ciò che appartiene al contesto. Il piccolo particolare è che il contesto siamo noi, è la vita privata di tutti noi, che può dunque essere invasa dalle cimici di una Procura se è a qualunque titolo utile alla conoscenza di qualunque sorta di fatto o circostanza che il pm ritenga di dover far risaltare. Ora, si può anche ritenere chele raccomandazioni contenute nelle linee guida approvate dal Csm rispondano a ragionevolezza, e contemperino e bilancino interessi e diritti, ma per riflessioni così pacate vi sarebbe spazio se solo non provenissimo da decenni di abuso dello strumento, e di effetti deflagranti sull’intero sistema politico. Che poi non vuol dire: sulla casta o sui professionisti della politica, ma sui diritti costituzionali dei cittadini, sul fondamentale rispetto delle regole della rappresentanza democratica. Non bastasse solo questo, ma il Csm, campione nel lasciare le cose come stanno, dà il minor spazio possibile anche a quella riforma dell’autogoverno della magistratura che il guardasigilli Orlardo ha deciso di non fare senza prima attendere le proposte che vengono da Palazzo dei Marescialli. Ma in questo balletto fra il Csm, le Commissioni nominate dal Ministro e il Parlamento che attende sospiroso i testi, sono già passati più di due anni. Si propone, si discute, si studia, ma leggi e riforme non se ne fanno. E così le correnti mantengono tutto il loro peso, e né in materia di metodi elettorali, né in merito al conferimento degli incarichi direttivi, né in relazione agli spazi da aprire all’Avvocatura nei consigli giudiziari delle Corti d’Appello, si intravede un cambiamento reale. l Paese cambia, le toghe e gli ermellini no. Le guardie penitenziarie a rischio attentati Isis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2016 L’allarme del ministero della Giustizia con una circolare del 22 luglio scorso. Le guardie penitenziarie rischiano di subire attentati da parte dei militanti dello Stato Islamico. A lanciare l’allarme è stato lo stesso ministero della Giustizia. Con una circolare del 22 luglio scorso pone l’attenzione ad "azioni ostili nei confronti di rappresentanti delle Forze dell’ordine, quali obiettivi da parte dello stato islamico". Se finora le prigioni erano monitorate perché ritenute luoghi di radicalizzazione, ora finiscono sotto la lente d’ingrandimento per i pericoli che possono correre gli agenti di custodia. "In particolare - si legge sulla circolare del ministero della Giustizia - tale Abou Mohammed Al Adnani, portavoce dello Stato islamico, in un video di rivendicazione di un attentato, tra gli altri menziona la scelta delle guardie penitenziarie come obiettivo da colpire". Il sospetto nasce da informazioni "acquisite in ambito di collaborazione internazionale". Per questo, sempre da parte del ministero, nasce l’invito "a tutte le direzioni ed i servizi, anche se non dipendenti, ma dislocati nel proprio distretto a sensibilizzare tutto il personale di polizia penitenziaria, ma anche il restante personale a porre in essere ogni opportuna forma di attenzione e autotutela; senza trascurare tutti quei segnali che possano far presagire azioni delittuose". Gli istituti penitenziari, ricordiamo, possono essere considerati un ambiente idoneo per il reclutamento dei terroristi o di estremisti violenti per la loro struttura particolare e per le condizioni specifiche esistenti. I penitenziari esercitano chiaramente un doppio stato di coazione: i detenuti sono isolati dalla società, dalla loro famiglia e dagli amici e, inoltre devono rispettare un regime strettamente controllato. Il carcere concentra un certo numero di fattori che possono portare ad un aumento della radicalizzazione, come la durezza dell’ambiente conseguente alla privazione della libertà, l’emarginazione sociale, la violenza (psicologica o fisica) e la pressione del gruppo. Per molti detenuti, la detenzione è l’ultima manifestazione del loro profondo sentimento di isolamento e di emarginazione, poiché li colloca fisicamente, socialmente e psicologicamente fuori dalla società. La detenzione li taglia fuori dalla famiglia e dalla comunità, che costituiscono per molti di loro i pochi aspetti gratificanti che gli restano e che danno un significato alla loro vita. Il loro status e i collegamenti sociali vengono meno e l’identificazione del gruppo è rimessa in questione. Gli istituti costituiscono dunque ambenti di crisi che creano che generano un desiderio di appartenenza, di identità di gruppo, di tutela e - per alcuni detenuti - di guida religiosa. Manconi: "processo Uva, una decisione sconcertante" Il Dubbio, 30 luglio 2016 Il caso di Giuseppe Uva, l’operaio morto il 14 giugno 2008, continua a far discutere e, soprattutto la sentenza emessa dalla corte d’assise di Varese che ha assolto i due carabinieri e i sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale nel processo per la morte dell’operaio. Il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani a palazzo Madama, ha reso noto di aver presentato "una interrogazione parlamentare ai ministri della Giustizia, dell’Interno e della Difesa sulle motivazioni della sentenza di assoluzione dei carabinieri e dei poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva, il gruista di Varese deceduto il 14 giugno 2008 nell’ospedale cittadino, dopo essere stato trattenuto a lungo in una caserma dei carabinieri e avere subito un trattamento sanitario obbligatorio". Manconi aggiunge: "Le mie perplessità sono state confermate: da quanto si legge nelle motivazioni, i carabinieri hanno commesso un sequestro di persona (un fermo illegale) ai danni di Giuseppe Uva, ma il loro comportamento è "scusabile", perché sarebbero incappati in un errore di valutazione". "Inutile dire - prosegue il senatore - che questa sentenza, se confermata nei prossimi gradi di giudizio, creerebbe un pericoloso precedente, attraverso cui le forze di polizia sarebbero autorizzate a derogare dai dettati costituzionali, prima ancora che dalle leggi presenti nel nostro ordinamento, che tutelano la libertà personale come un bene prezioso, ovvero un diritto fondamentale e inviolabile di tutti i cittadini. Se un carabiniere o un poliziotto - conclude Manconi - non sa distinguere tra un trattenimento legittimo e uno illegale, sono davvero i cittadini a doverne fare le spese?". L’Unione delle Camere Penali rilancia la sfida sul regime detentivo ex art. 41 bis O.P. camerepenali.it, 30 luglio 2016 All’esito degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, a cui l’Unione delle Camere Penali Italiane ha fornito un determinante contributo, l’Osservatorio Carcere continua il proprio impegno affinché il lavoro dei singoli Tavoli, raccolto nel documento finale del Comitato di Esperti, non vada disperso. Rinnova, pertanto, anche la battaglia sul 41 bis, che ha sempre visto le Camere Penali in prima linea nel denunciare il fine nascosto di una detenzione inumana e degradante che nell’offendere la dignità del condannato, offende la stessa cultura di uno Stato di diritto. Dal prossimo settembre, l’Osservatorio Carcere - dopo aver avuto nei mesi scorsi uno scambio di mail con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - farà pervenire a ciascun detenuto ristretto ai sensi del 41 bis O.P., una richiesta d’informazioni relativa alla salute, alla descrizione della cella, alle attività svolte, al trattamento, alla socialità, ai colloqui con familiari e avvocati, alla corrispondenza, al vitto, al sopravvitto e a quanto altro si ritenesse di segnalare. Grazie alla collaborazione di Camere Penali Tv, sono stati realizzati, inoltre, due video, con un’intervista ad un ex detenuto, che ha scontato 4 anni di carcere, di cui 3 in alta sicurezza e l’ultimo al 41 bis. È il racconto di un oscuro e tragico percorso detentivo. Il primo filmato è disponibile sul sito della web tv dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Il secondo sarà pubblicato a settembre. Non si comprendono le ragioni di un aggravamento del regime per chi già è, da tempo, in Alta Sicurezza e certamente non è capo di un associazione criminale. È evidente che la finalità del provvedimento non può essere impedire i collegamenti con l’esterno, ma va ricercata altrove. Partendo, dunque, da casi concreti, l’Osservatorio Carcere vuole individuare prassi e regole che non sono in linea con lo spirito della norma, in quanto la limitazione dei diritti acquista unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, come tale incompatibile con la finalità rieducativa della pena per come delineata nell’art. 27, comma 3, della Costituzione. Vanno eliminate tutte quelle limitazioni che hanno esclusivamente carattere punitivo, come il tempo di uscita dalla stanza, talmente ridotto che penalizza la salute stessa della persona; come il numero e la durata dei colloqui, sia visivi che telefonici, che non consentono un effettivo rapporto con la famiglia e compromettono quegli affetti spesso necessari alla stessa sopravvivenza; come i divieti di lettura, inutilmente dannosi per l’effettivo recupero del soggetto. Inoltre va - come esplicitamente affermato anche nella relazione del Comitato di Esperti degli Stati Generali - istituito il controllo giurisdizionale (garantito dall’art. 13 della Costituzione, per tutte le limitazioni inerenti la libertà personale) sull’adeguatezza dell’intervento ablativo del Ministro della Giustizia. Controllo, riservato dalla legge penitenziaria al Tribunale di Sorveglianza, che deve esplicarsi a tutto campo non solo sull’an, ma anche sul quomodo e, quindi pure sulle singole prescrizioni presenti nel decreto ministeriale. Va rimossa l’anomalia processuale della competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma su tutti i reclami con cui si contesta l’instaurazione e la proroga del regime differenziato. Priva di valide ragioni, se non quella di uniformare la giurisprudenza in materia, impedendo il necessario e irrinunciabile contributo di più fonti, che è l’essenza stessa del Diritto. Vanno rimodulati i segmenti temporali, sia quello iniziale, sia quello di eventuali proroghe, da disporre solo dopo un effettivo contraddittorio tra le parti, dinanzi al Magistrato. L’ennesima impopolare battaglia che ci attende dovrà vedere impegnate tutte le Camere Penali territoriali, per ribadire e rafforzare i nostri principi di fronte ad una politica che non vuole la crescita culturale del Paese, ma solo immediato e facile consenso. La Giunta L’Osservatorio Carcere UCPI Sicilia: la Regione ripiomba nell’emergenza carceri di Antonio Leo Quotidiano di Sicilia, 30 luglio 2016 Bastava osservare il trend degli ultimi mesi per rendersi conto che la Sicilia sarebbe tornata a sforare, dopo circa un anno e mezzo, la capienza regolamentare delle carceri. Già sul QdS dell’8 giugno scorso, si evidenziava come tra gennaio e maggio 2016 il saldo dei detenuti (tra ingressi e uscite) era cresciuto di 207 unità, portando il sistema penitenziario dell’Isola - considerato nel suo complesso - a un passo dal sovraffollamento (un’emergenza mai rientrata per molti istituti di pena, come quelli di Agrigento e Caltanissetta). Gli ultimi dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 30 giugno scorso, segnano il giro di boa: in tutta la regione si trovano recluse 5.899 persone, 7 in più dell’attuale capienza regolamentare (5.892). Un numero esiguo, si capisce, ma che conferma l’andamento negativo degli ultimi mesi. La situazione peggiore si registra nella casa circondariale di Siracusa, dove si trovano 138 detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Ma resta critica la situazione anche nel già citato carcere di Agrigento e a Catania Bicocca, che si aggirano - chi più, chi meno - intorno ai 100 esuberi. Nonostante gli sforzi del ministro Orlando e il recente appello del capo dello Stato, Sergio Mattarella, affinché si applichi l’art. 27 della Costituzione, puntando dunque sulla rieducazione dei detenuti, la situazione è precipitata negli ultimi dodici mesi. In tutta Italia, al 30 giugno 2016, sono presenti 54.072 detenuti, oltre 4.000 in più rispetto alla capienza regolamentare (49.701), cresciuti di 1.318 unità nel confronto con la stessa data del 2015 (52.754). Perché questo balzo indietro così evidente? Cosa non ha funzionato? Ha fatto due conti l’associazione Antigone Onlus nel "pre-rapporto 2016 sulle condizioni di detenzione". L’indagine, prendendo in esame i dati del ministero, evidenzia una serie di concause. Anzitutto sono sempre più numerosi i presunti innocenti. I destinatari di custodia cautelare, infatti, sono 18.908, pari al 34,9% della popolazione carceraria. Erano oltre 1.000 in meno l’anno precedente: quasi quanto la crescita delle presenze registrata nell’ultimo anno. Poco importa che il tanto decantato art. 27 della Costituzione, al secondo comma, consideri l’imputato come non colpevole fino a condanna definitiva. Certo, ci sono casi in cui i rischi legati alla fuga, all’inquinamento delle prove o alla corruzione dei testimoni - giusto per citare alcune motivazioni - rendono necessaria la misura preventiva, ma resta qualche dubbio. Specie se si considerano i dati relativi all’ingiusta detenzione. Secondo un’inchiesta pubblicata su "La Stampa" il 24 aprile scorso, basata sui dati del ministero della Giustizia, dal 1992 a oggi il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione. Di questi ne ha versati 36 milioni nel 2015 e 11 milioni nei primi tre mesi del 2016. Intanto, mentre le cautele crescono, restano sostanzialmente stabili le misure alternative. Proprio quelle che mirano a riabilitare e accompagnare il reo verso il ritorno in società. Secondo Antigone, su circa 20.000 detenuti con una pena residua inferiore a tre anni, oltre la metà potrebbe scontarla al di fuori delle sbarre. Proprio per questo motivo, la Onlus ha avviato una campagna per spingere l’Amministrazione penitenziaria a destinare, entro il 2020, il 20% del proprio bilancio per le misure alternative. Attualmente nemmeno il 5% delle spese riguarda tale ambito. A pesare sull’affollamento degli istituti penitenziari è stata anche la crescita dei detenuti stranieri. Un anno fa erano poco più di 17 mila, mentre lo scorso mese hanno superato quota 18.000. Una crescita tripla rispetto a quella dei cittadini italiani, avanzati di circa 300 unità. Diminuiscono i rumeni, mentre aumentano i ristretti di origine nordafricana (su tutti marocchini e tunisini). In generale la stragrande maggioranza dei reclusi professa la religione cattolica, ma oltre 6 mila sono di fede islamica. Secondo il Dap gli estremisti sarebbero una quarantina. Da ultimo, va rilevato che sempre più persone sono finite in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti: negli ultimi dodici mesi se ne contano oltre 600 in più. Se fosse approvata la proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis, attualmente in discussione alla Camera - scrive Antigone - un buon numero di questi tornerebbe in libertà. Lombardia: approvata mozione per liberazione cittadino italiano detenuto in Mauritania mi-lorenteggio.com, 30 luglio 2016 "Cristian Provvisionato deve tornare a casa al più presto possibile, il Governo si dia una mossa". È il commento del Vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia Fabrizio Cecchetti (Lega Nord) in merito alla mozione urgente presentata ieri al Pirellone e approvata all’unanimità dall’Aula consiliare. La mozione da lui proposta e sottoscritta dal Gruppo consiliare della Lega Nord impegna il Presidente Maroni e la sua Giunta ad adottare qualsiasi iniziativa utile presso il Governo italiano e il Ministero degli Affari esteri, e per quanto possibile anche nei confronti del Governo della Mauritania, dove è detenuto Cristian, per far sì che se ne ottenga la liberazione. Cristian Provvisionato, cittadino di Cornaredo in provincia di Milano, è in stato di detenzione dal 1 settembre 2015 in Mauritania in quanto considerato responsabile di una presunta truffa informatica ai danni del Paese africano. La vicenda inizia nell’agosto 2015 quando Provvisionato riceve dall’italiano Davide Castro e dalla sua agenzia di consulenza spagnola, la V-mind, l’incarico di recarsi in Mauritania per rappresentare i prodotti di cyber security di una compagnia straniera, l’indiana Wolf Intelligence, e presenziare a un meeting per sostituire un altro italiano che era dovuto rientrare in Italia urgentemente. Spiega Cecchetti: "Dall’inizio della sua detenzione Cristian è riuscito a vedere per la prima volta i familiari solo il 21 febbraio di quest’anno e la prima udienza in Tribunale è stata il 10 maggio, tuttavia ancora non è ben chiaro quale sia il suo capo di imputazione e soprattutto non sarebbero state ancora confermate nei suoi confronti le accuse di truffa informatica. Sappiamo che la Farnesina sta seguendo il caso, fra l’altro tramite l’Ambasciatore italiano a Rabat in Marocco perché in Mauritania non abbiamo che un Consolato onorario e basta, ma sviluppi concreti ancora non se ne vedono. Serve un intervento più incisivo da parte del Governo, anche perché Provvisionato soffre di diabete e in questi mesi di detenzione, per l’assenza di una precisa assistenza, ha subito un forte calo di peso e ciò desta particolari preoccupazioni per la sua salute. Per questi motivi - conclude Cecchetti - serve un forte pressing di Regione Lombardia sul Governo per riportare a casa Cristian il prima possibile". Foggia: i detenuti continueranno a riparare carrozzine. L’Asl "superate le criticità" immediato.net, 30 luglio 2016 "Tutte le criticità sono state superate. La Asl Foggia ha sottoscritto la convenzione che darà seguito al progetto Atelier dell’ausilio". L’annuncio è del direttore generale della Azienda Sanitaria Locale di Capitanata, Vito Piazzolla. Avviato in via sperimentale a maggio 2014 e appena concluso, l’Atelier dell’ausilio, grazie all’impegno della Regione Puglia e della direzione strategica aziendale, sarà rinnovato per i prossimi sei mesi (con possibilità di proroga di ulteriori sei). Nato dalla collaborazione tra Regione, Asl Foggia, Casa Circondariale di Lucera, Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Foggia ed altri soggetti pubblici e privati, il progetto si propone quale best practice di inclusione socio-lavorativa di persone detenute. Il servizio permette di riutilizzare gli ausili protesici destinati ad utenti non autosufficienti e colloca la Asl Foggia in una posizione di avanguardia. Anticipa, infatti, quanto sancito dai nuovi Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) proprio in tema di assistenza protesica. All’articolo 18 comma 3 del DPCM, infatti, è previsto che "le Regioni o le Asl possano fornire dispositivi alle persone con grave disabilità transitoria, per un periodo massimo di 60 giorni, eventualmente prorogabile, nei casi in cui abbiano attivato servizi di riutilizzo dei suddetti dispositivi". Nell’ambito del progetto Atelier dell’ausilio sono state realizzate due officine, la prima presso la Casa Circondariale di Lucera, la seconda nella Zona Industriale di Cerignola. Dopo una fase di formazione teorica e pratica, sono stati assunti come operai tre detenuti della Casa Circondariale di Lucera e quattro persone in esecuzione penale esterna. Il processo produttivo assicura alla Asl Foggia: il ritiro degli ausili dismessi sia presso le sedi dei Distretti Sociosanitari sia presso le abitazioni degli utenti; lo smaltimento dei materiali di scarto; la separazione degli ausili in base al percorso che seguiranno (sanificazione, ricondizionamento e rigenerazione, destrutturazione); l’insieme delle attività di manutenzione, ricondizionamento, rigenerazione e sanificazione degli ausili ritirati; il servizio di magazzino; la consegna agli utenti su indicazione della Asl Foggia. Un processo completo che va dalla proposta del medico prescrittore, all’ordine del referente Asl, fino alla consegna dell’ausilio a domicilio dell’utente che, prevede, inoltre, prestazioni personalizzate sull’utente. Il risparmio ottenuto consente di ottimizzare le risorse ma anche, in casi di particolare gravità, di riutilizzare le economie per offrire prodotti tecnologicamente più qualificati. Un modo per alleviare il disagio dei pazienti già fortemente provati dalle patologie da cui sono affetti e dei loro familiari. "Si tratta di una operazione di civiltà per tre ordini di motivi - conclude Piazzolla -. È una forma di rispetto delle risorse pubbliche. È uno strumento per dare nuova vita agli ausili protesici che, altrimenti, andrebbero dismessi. È una occasione, di lavoro e di inclusione sociale, per persone con problematiche giudiziarie". La convenzione, completa di capitolato tecnico e disposizioni in materia di antimafia, è stata firmata dal dg Piazzolla e dal presidente dell’Impresa sociale Innova, che coordina il progetto, Michele Bellosguardo. Trieste: si sta in cella anche in compagnia delle cimici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2016 La denuncia dell’avvocata Maria Pia Maier, che ha appreso la notizia da un suo cliente. Nel carcere di Trieste si vive una doppia pena. I tanti detenuti in attesa di giudizio, ristretti in una cella, nella solitudine in cui la clessidra è il punto di arrivo dello sguardo di una vita, sono costretti a patire gravissimi disagi che rendono la detenzione tutt’altro che dignitosa. In questo caso si tratta di cimici da letto. A segnalare la situazione è l’avvocata Maria Pia Maier. Racconta a Il Dubbio che si trovava in udienza preliminare per assistere un giovane indagato in stato di custodia cautelare nella casa circondariale di Trieste. Mentre era in corso la trattazione del procedimento, il suo cliente manifestava un fastidio al corpo. Con l’aiuto di un agente riusciva a rimuovere un insetto. Era una cimice. Il personale di polizia penitenziaria che scortava il ragazzo spiegava all’avvocata che nel carcere di Trieste è in atto un’infestazione di tutti i materassi e che necessiterebbe di un intervento sanitario per debellare le cimici dal letto. L’avvocata Maier ha potuto così apprendere che nel carcere molti detenuti sono costretti a dormire sul pavimento, proprio per sottrarsi al fastidio recato dalle cimici. La cimice dei letti (Cimex lectularius) è un insetto di colore rosso mattone scuro; è visibile a occhio nudo perché è lungo circa 5-8 mm; ha il corpo dalla forma ovale, la testa è piccola e con occhi sporgenti. Si nutre del sangue e la sua puntura provoca delle piccole macchie rosse e un fastidioso prurito. Il disagio è enorme perché provoca il disturbo del sonno: vivere in una cella già angusta di per se e non poter dormire, diventa una doppia pena al limite della tortura psicologica. L’ispettore della polizia ha spiegato sempre all’avvocata Maria Pia Maier che non riescono a trovare una ditta specializzata che riesca a fare la disinfestazione in tre ore, tempo necessario per non effettuare una evacuazione dal carcere. Immediatamente l’avvocata ha inviato la segnalazione a tutti gli addetti ai lavori, dalla Asl territoriale competente al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma, appena ricevuta la segnalazione dell’avvocata Maier ha scritto al provveditore del Triveneto, Enrico Sbriglia, alla direttrice della Casa circondariale di Trieste, Silvia Della Branca, al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) e al responsabile sanitario per il carcere, Elena Franceschi. Nella lettera Palma scrive: "Data la rilevanza della situazione sotto il profilo igienico e di tutela della salute, vi sarò grato per comunicarmi con la dovuta urgenza le iniziative intraprese per rimediare a quanto prospettatomi". Il problema di infestazioni ambientali nelle carceri non è nuovo. A distanza di pochi chilometri dalla casa circondariale di Trieste c’è il penitenziario di Gorizia. Qualche settimana fa il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha inviato un dossier sul penitenziario che restituisce una fotografia impietosa della situazione complessiva: "Se si esclude la parte ristrutturata, il resto della struttura appare in condizioni fatiscenti, con un senso complessivo di vetustà e sporcizia - scrive Palma. La struttura, nella sua algida compostezza esterna, cela un concreto squallore, fatto di mura scrostate, intonaci ammalorati, cancelli arrugginiti, camere sovraffollate, servizi igienici fatiscenti, in alcuni casi non serviti da acqua corrente, i cui fori di scarico vengono occlusi con utensili di fortuna, onde evitare la risalita dalla fogna di insetti e animali". Nella relazione Palma ha evidenziato limiti anche nella metrature delle celle, "con uno spazio individuale di 2,1 metri quadri, che rileva profili che rileva profili di possibile violazione automatica della Convenzione europea per i diritti umani". Penitenziari allo sbando con condizioni degradanti e che risultano ancora sovraffollati. E anche la casa circondariale di Trieste, infettata da cimici, secondo gli ultimi dati del Dap, risulta sovraffollata. Cuneo: i parlamentari Mino Taricco e Mariano Rabino in visita al carcere di Alba targatocn.it, 30 luglio 2016 Appuntamento questa mattina, sabato 30 luglio, con il Garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, e il Garante comunale di Alba, Alessandro Prandi. Sabato 30 luglio, alle ore 10.00, il Garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, visiterà la Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" di Alba (CN), insieme al Garante comunale di Alba, Alessandro Prandi e ai parlamentari piemontesi Mino Taricco (Gruppo PD) e Mariano Rabino (Gruppo Misto - Scelta Civica). I due parlamentari, entrambi ex consiglieri regionali e, per quanto riguarda Taricco, già Assessore all’Agricoltura della Regione Piemonte, si sono contraddistinti per aver presentato nella corrente legislatura parlamentare un’interrogazione (Taricco) ed un’interpellanza (Rabino) riguardanti l’istituto penitenziario albese che, com’è noto, è chiuso dall’inizio dell’anno per un’epidemia di legionellosi (un’infezione la cui trasmissione avviene inalando acqua contaminata sotto forma di "aerosol", generato da rubinetti, docce, ecc. ) che aveva colpito almeno quattro detenuti del carcere. In seguito all’epidemia, il "Montalto" era stato completamente evacuato con il trasferimento di tutti i 122 detenuti, distribuiti nelle case penitenziarie di Alessandria, Cuneo, Fossano, Saluzzo e Vercelli. Anche la maggior parte dei 112 agenti di polizia penitenziaria sono stati inviati in missione presso altre strutture carcerarie piemontesi. Successivamente, con un’ordinanza a firma del sindaco di Alba, Maurizio Marello, era stata disposta la bonifica dell’impianto idrico del carcere albese, che potrebbe essere all’origine del diffondersi del batterio. Nell’interrogazione al Ministro della Giustizia presentata come primo firmatario da Mino Taricco lo scorso 24 giugno (parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/244808) si puntualizzava tra l’altro come "grazie all’ausilio della rete dei garanti piemontesi, è inoltre emerso che ben poche delle persone detenute ad Alba sta proseguendo i percorsi formativi, scolastici e lavorativi di norma seguiti, benché, in una lettera del 7 gennaio 2016 sottoscritta dal Garante comunale dei diritti dei detenuti di Alba (Alessandro Prandi), insieme al Garante regionale, fosse stata espressamente richiesta una particolare tutela per quei percorsi, in quanto parte fondante del percorso di rieducazione volto al reinserimento sociale dei detenuti". Anche nell’interpellanza urgente presentata da Mariano Rabino al Ministro della Giustizia il 5 luglio (parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/249752) si osservava come "nulla di certo si sa sull’entità degli stanziamenti dei lavori e, soprattutto, circa le modalità ed i tempi di intervento ai fini dell’efficiente e rapido ripristino del sito in oggetto; la struttura, infatti, ancora chiusa e disabitata, è destinata ad un inarrestabile deterioramento a causa del degrado e dell’abbandono che sta subendo: tutto ciò non favorisce certo la prospettiva di una imminente riapertura; quel che preoccupa maggiormente è che nel corso dei mesi, dopo la sospensione delle attività a favore dei detenuti per conto dei volontari, è venuta meno anche la disponibilità di terzi e privati di investire nei percorsi formativi e professionali utili ai detenuti stessi". All’interpellanza "Rabino - Monchiero" (già autori di un identico question-time nel febbraio scorso sullo stesso argomento) il 15 luglio scorso ha risposto la Sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli, spiegando che, secondo quanto prescritto dall’ASL competente, i lavori necessari sono stati individuati in opere di sanificazione consistenti in interventi strutturali sull’impianto idrico e nell’adeguamento dei servizi igienici alla normativa vigente e aveva altresì assicurato che erano già state avviate dal Ministero le azioni per l’assegnazione dell’appalto, l’esecuzione dei lavori e il relativo collaudo. In particolare il 1° luglio si era concluso lo studio di fattibilità per un intervento radicale sugli impianti idrotermosanitari. La cifra stanziata dal Ministero ammonta a due milioni di euro mentre, da una prima previsione del Dap, l’intero lotto dei lavori potrebbe concludersi entro la fine del 2017, anche se si auspica la possibilità di una consegna anticipata di singoli corpi di fabbrica, con ripresa graduale dell’attività. Infine la Sottosegretaria ha ribadito la massima cura da parte del Ministero per garantire la continuità dei percorsi scolastici e professionali intrapresi dai detenuti. Modena: la Garante regionale Desi Bruno "cresciuto il livello di tensione nel carcere" Comunicato stampa, 30 luglio 2016 Protesta dei Sindacati di Polizia penitenziaria. L’auspicio di Desi Bruno è che "la situazione possa presto ricomporsi, tutelando a pieno i diritti e le professionalità degli attori coinvolti". Non adeguate condizioni di lavoro, carenza di organico, nelle ultime settimane episodi violenti e aggressioni da parte di detenuti in danno del personale: sono questi i motivi per cui si è radicalizzata la protesta delle organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria del carcere di Modena, che da oltre venti giorni non consumano i pasti della mensa. A riportarlo è Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che nei giorni scorsi si è recato presso la casa circondariale modenese per effettuare alcuni colloqui con i detenuti e incontrare la direttrice, Rosa Alba Casella, e il comandate di reparto della Polizia penitenziaria, Mauro Pellegrino. Come rileva Bruno "a partire da maggio, a seguito della riapertura della settima e ottava sezione, c’è stata l’assegnazione nella struttura modenese di detenuti che sono stati allontanati da altre carceri per ragioni di sicurezza, nonché di detenuti portatori di disagio psichico. Così, in un contesto detentivo reso più difficile anche dal tendenziale incremento dei numeri nel recente periodo, nonché da singoli ed episodici profili di conflittualità, è cresciuto il livello della tensione nel carcere modenese, anche se-puntualizza la Garante- secondo quanto riferito dalla direzione, i dati relativi al numero di eventi critici e alla carenza di organico sono in linea con il trend regionale". In particolare alla figura di garanzia dell’Assemblea "spiace constatare l’attuale durezza dello scontro, risultando evidenti difficoltà di comunicazione fra gli attori coinvolti, in un carcere ben inserito nel contesto cittadino e che era stato all’avanguardia a livello nazionale per la celere e puntuale applicazione delle disposizioni dipartimentali volte all’umanizzazione della pena e all’attuazione del nuovo modello detentivo a custodia aperta, grazie alle sinergia, pur nelle difficoltà, di tutti gli operatori penitenziari locali". Ecco perché, conclude, "l’auspicio è che la situazione possa presto ricomporsi, tutelando a pieno i diritti e le professionalità degli attori coinvolti". Nel carcere di Modena erano presenti 437 detenuti di cui 274 stranieri. 258 i condannati in via definitiva, 92 autori di reati sessuali, 30 le donne. In totale sono 30 le persone ammesse a lavorare all’esterno. Volterra (Pi): Shakespeare tra le mura del carcere di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 30 luglio 2016 "Dopo La tempesta, l’opera segreta di Shakespeare" alla trentesima edizione per il Festival di Volterra che si chiude domani. Il festival di Volterra arriva alla sua trentesima edizione. Una storia lunga, iniziata con Gassman, proseguita da Renato Nicolini e poi con Roberto Bacci, finché l’esperienza della Fortezza elaborata da Armando Punzo acquistò con gli spettacoli dei detenuti la sua assoluta centralità. Un carattere che continua a segnare la rassegna, non solo perché ne è l’evento maggiore e di maggior richiamo, ma perché ne informa anche il senso e il processo sempre di più ad ogni edizione, dove i singoli spettacoli presentati sono influenzati (e talvolta perfino messi in ombra) dalle sedute di approfondimento e riflessione sui temi più svariati, dalla poesia all’estetica, dalla performance all’editoria. Evidentemente una formula che funziona e che soddisfa la committenza cittadina. Non a caso il tema generale del festival di quest’anno era "La città ideale"", che non è solo un tributo alla storia e all’urbanistica volterrana, quasi una perfezione isolata dal mondo sul suo sperone di roccia, ma anche il sogno di una comunità cittadina, che nelle sue più disparate e necessarie articolazioni è il mondo al cui centro dovrebbe collocarsi il teatro, senza aggettivi. La tecnica del progressivo approfondimento per altro, in stretta connessione con quanto avviene "di fuori", è anche quella usata per il suo lavoro sul palcoscenico del carcere da Armando Punzo, una esplorazione certosina della scrittura anche più visionaria, che ogni anno viene restituita più netta e definita nei corpi dei detenuti attori che la incarnano, negli oggetti di scena, nei suoni, nei movimenti e nei gesti che si rarefanno come in un rito orientale, ma proprio per questo finiscono per stagliarsi nell’occhio e nella memoria, contro il sole accecante che impietoso arroventa il cortile del carcere, salvo aggrumarsi in nuvole nere che tempestano il pubblico a tradimento, come è successo il giorno del debutto. Lo spettacolo di quest’anno in realtà era già nato nel 2015, ma Punzo, come è spesso accaduto in questi anni, ha continuato a lavorarci assieme alla sua compagnia, anche perché il tema era titanico, o pure infinito: Dopo la Tempesta, l’opera segreta di Shakespeare. Oltre ad essere uno dei testi terminali del poeta inglese, La tempesta è anche un inno, e insieme un testamento, del teatro e della sua ricchezza. Il mago Prospero, il suo protagonista, è un vero e grande facitore di teatro, che è appunto la sua magia. In questa chiave, Punzo stando sempre al centro della scena evoca per noi spettatori tutti gli altri giganteschi personaggi shakespeariani. Ognuno dei molti attori (con poche attrici, evidentemente esterne al carcere ma ben integrate al resto della compagnia) svela a tratti l’identità del personaggio, da un particolare del costume o elevando le proprie parole sopra il brusio degli altri. Ma il fascino di quel labirinto è quella sorta di moto perpetuo, dai costumi lussureggianti e antinaturalistici: le gorgiere costituite da libroni, i gonnelloni candidi strascicanti, la gobba e il piede battente di Riccardo III, il fazzoletto di Desdemona issato come stendardo sul suo braccio levato. Il tutto dentro un paesaggio di grandi croci e scale di legno, che solo alla fine vanno a comporsi in maniera unitaria. Per il resto le citazioni da tutti i testi del Bardo volano libere, libere dai personaggi e dai ruoli, in un unico magma che supera l’intreccio delle singole opere per comporre un frastagliato mosaico shakespeariano. Fino all’appassionante intervento finale dell’attore ucraino, "Come se il mondo dovesse cominciare solo ora". Ovvero quando tutta quella conoscenza avrà sedimentato negli artisti e negli spettatori. Europa e religione, tre idee per battere il terrorismo di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 30 luglio 2016 Non ci sono dubbi sul fatto che gli attacchi islamisti rappresentano uno scontro senza quartiere. Bisogna togliere l’acqua nella quale chi ci aggredisce si muove. Per esempio, con una taglia. Alla fine non sarà un editoriale di un giornale, non sarà l’opinione di qualche illustre studioso e neppure, temo, le parole del Papa a decidere se quella che stiamo vivendo è una guerra "di religione", ovvero una guerra in cui "c’entra la religione", ovvero ancora una guerra in cui una parte "si serve della religione". Lo deciderà (o non lo sta già decidendo?) quella cosa piuttosto indefinibile che è l’opinione pubblica: con il suo rozzo buon senso, i suoi pregiudizi, ma anche la sua capacità di guardare all’essenziale, di andare al sodo. E mi sento di aggiungere: guai quel giorno a chi, su una questione così importante, apparirà non aver capito a tempo; guai a quella guida politica, intellettuale, religiosa, che si farà cogliere spiazzata dal giudizio popolare. Difficile pensare che nei suoi confronti possa esserci quel giorno qualche indulgenza. Sul fatto che comunque quello con il terrorismo islamista sia uno scontro senza quartiere nessuno ha dubbi. Uno scontro con il terrorismo come ce ne sono stati molti altri, da cui tuttavia non sembra che i Paesi e gli apparati di sicurezza sotto attacco stiano prendendo esempio per rendere più efficiente la loro azione. Specie per un aspetto decisivo: la necessità di togliere l’acqua nella quale i terroristi nuotano. Necessità che mi sembra particolarmente significativa nel caso del terrorismo islamista che, come mostra l’esperienza, non poche volte si annida in una dimensione comunitaria che funge oggettivamente da protezione ambientale. Mi limito a due soli esempi. Almeno a quanto risulta non si è pensato finora a mettere sui terroristi alcuna taglia: cioè a premiare la delazione. Non so se la promessa di una cospicua somma di denaro, accompagnata dalla promessa dell’impunità e da altri premi (per esempio quello di visti immediati per l’Italia a tutto il nucleo familiare del delatore, dovunque residente), potrebbe davvero produrre la effettiva denuncia di qualche terrorista. Ciò che appare più che ragionevole immaginare, invece, è il clima di forte insicurezza, di sospetto diffuso, di disagio psicologico, che subito si creerebbe nel milieu terroristico, dove fidarsi di qualcuno diverrebbe assai più difficile. Si tratterebbe, mi pare, di un ostacolo significativo posto sulla sua strada. In secondo luogo, nel caso del terrorismo mi sembrerebbe del tutto lecito trasformare i comportamenti che normalmente darebbero luogo al reato di favoreggiamento, anche per effetto di un semplice silenzio o mancata denuncia all’autorità (quante volte stiamo venendo a conoscere di persone che avevano saputo qualcosa, avevano raccolto delle confidenze, erano stati testimoni, circa la possibile progettazione di imprese sanguinarie), nel reato ben più grave di partecipazione a banda armata. Si tratta insomma di cercare di fare il vuoto intorno ai terroristi, di rendere estremamente pericolosa la minima complicità con essi, di rendere insicuro ogni loro passo, ogni loro azione per la paura di essere traditi. Mi pare che in questo senso ci sia ancora non poco da fare. Ma c’è da fare anche su un altro piano, tutto diverso. È essenziale, per esempio, che i Paesi europei sotto attacco trasmettano all’esterno il messaggio che contrariamente a quanto sembra (specie all’opinione pubblica di altre culture, a cominciare da quella islamica), essi non sono suscettibili di intimidazione né sono ricattabili con ragioni economiche. È decisivo da questo punto di vista l’atteggiamento da tenere verso l’Arabia Saudita. È ammissibile, mi chiedo, che si continui ad avere normali rapporti diplomatici con un Paese il quale da tempo notoriamente finanzia alcune tra le principali formazioni del terrorismo islamista? Che si faccia finta di nulla? Va bene che essa possa apparire un utile contrappeso all’Iran nell’area del Golfo e non solo, che sia un’importante esportatrice di petrolio, che sia storicamente amica degli Stati Uniti, ma non dovrebbe tutto ciò trovare un limite ovvio nel rispetto della nostra sovranità e della vita dei nostri cittadini? In generale i Paesi europei dovrebbero imparare a dare un’immagine più decisa del proprio attaccamento a certi principi che poi sono per tanta parte contenuto e ragione della loro storia. Anche così si combatte il terrorismo, anche così ci si difende in uno scontro in cui gli aspetti culturali e ideali sono comunque essenziali. Si tratta di compiere anche gesti all’apparenza di poco conto ma in realtà dal forte significato simbolico. Trovo ad esempio sacrosanta la campagna lanciata dal senatore Manconi insieme ad altri per indurre il Comune di Roma ad elevare a parecchie migliaia di euro l’affitto mensile - oggi invece di pochi spiccioli - che l’Ambasciata dell’Egitto in Italia paga per la sua grande e lussuosissima sede che occupa metà di Villa Ada. Non servirà certo a riportare in vita Giulio Regeni, ma almeno servirà a ricordare ogni mese alle autorità egiziane che dopo quello che è successo il loro Paese non gode più della nostra simpatia. Le radici comuni del dramma dell’Olocausto di Alessandro Santagata Il Manifesto, 30 luglio 2016 Sono ormai celebri le parole con le quali Adorno affermava che anche "scrivere una poesia è un atto di barbarie dopo Auschwitz". Lo stesso filosofo avrebbe successivamente rivisto questa posizione, destinata comunque a rimanere nel tempio delle reazioni suscitate dallo spartiacque storico e teologico della Shoah; un evento, secondo Hans Jonas, da ascrivere alla storia sacra, al piano più profondo della comprensione di Dio. La scelta di papa Francesco di visitare in silenzio il campo di concentramento polacco sembra iscriversi in questo campo di riflessione sull’"Evento" che chiama in causa Dio, la sua esistenza e comunicabilità. Già nel maggio 2014 al Memoriale di Yad Vashem, in continuità simbolica con il gesto dei suoi predecessori, Bergoglio aveva utilizzato uno dei passi più dibattuti del libro della Genesi (3,9), quello in cui Dio cerca Adamo, lo interroga per provocarlo e chiamarlo a rendere conto delle sue responsabilità: "Quel grido: "Dove sei?", qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo…". Un registro diverso era stato adottato nel 1979 da Giovanni Paolo II, il primo papa a visitare il campo. Allora, avevano prevalso gli accenti di una speranza cristiana (1Gv 5,4) simboleggiata dal "martirio" del padre francescano Massimiliano Kolbe. Nel 2006 Benedetto XVI sceglieva di tornare a Auschwitz e Birkenau, lui papa tedesco che di fronte a quell’"accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo senza confronti nella storia" sentiva il peso delle responsabilità del suo popolo. Nel suo lungo discorso, colto e sottile come nello stile del papa-teologo, Ratzinger poneva l’accento sul disegno nazista volto a "strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo". Alle spalle di tale riflessione c’era la lezione del Concilio Vaticano II, che nella dichiarazione Nostra Aetate aveva messo da parte i motivi tradizionali di un antigiudaismo cristiano che, nella sua versione novecentesca, si era spesso confuso con l’antisemitismo politico. Negli ultimi anni gli storici hanno messo in luce le difficoltà che la Chiesa cattolica incontra ancora oggi nel fare i conti con le sue responsabilità storiche nello sterminio degli ebrei. Da questo punto di vista è particolarmente interessante il documento Noi ricordiamo stilato nel 1998 dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo, in cui non si faceva cenno al problema dei silenzi di Pio XII e, soprattutto, veniva riproposta la tesi storica della totale estraneità del cristianesimo all’antisemitismo secolarizzato. Negli anni 2000 il percorso iniziato con il Concilio è proseguito in maniera fruttuosa sul piano del confronto teologico, ma senza discontinuità nella narrazione storica (si veda, per esempio, il cappello introduttivo al documento stilato dalla medesima commissione nel dicembre 2015). Centrale è diventata invece la categorie dalle radici comuni (religiose e civili) unite dal dramma indicibile dell’Olocausto. Nel colloquio con i giornalisti durante il viaggio d’andata a Cracovia Bergoglio ha condannato la nuova guerra mondiale e ha esortato le religioni a stigmatizzare un utilizzo del sacro per scopi politico-economici. Parlando con le autorità polacche ha menzionato il sogno di Wojtyla di "un nuovo umanesimo europeo che trova nel cristianesimo le sue radici più solide" e ha sollevato il tema della storia comune come richiamo (spinoso per il governo di Varsavia) "affinché i processi decisionali e operativi siano sempre rispettosi della dignità della persona. Ogni attività ne è coinvolta: anche il complesso fenomeno migratorio". Nel complesso del viaggio apostolico di Francesco in Polonia il silenzio ad Auschwitz sembra inserirsi in un quadro coerente che, come scrive il sociologo Jeffrey Alexander, trova nella memoria della Shoah il fondamento morale dell’Occidente, il punto di riferimento per la difesa dei diritti umani e contro le nuove guerre. Dal punto di vista della Chiesa cattolica, Auschwitz può essere letto oggi come un paradigma, in parte funzionalmente destoricizzato e ormai teologicamente solido, esemplificativo del contributo che le religioni intendono dare alla civiltà europea. Tratta: Save the Children "una vittima su cinque è minorenne" La Stampa, 30 luglio 2016 Migranti, nigeriane e romene sono i più sfruttati. Il dossier di Save the Children: "Terza fonte di reddito per la criminalità organizzata". Il fenomeno della tratta di persone è drammatico e fortemente sommerso. Stime indicano in un milione e 200 mila le vittime nel mondo, e in un caso su 5 si tratta di bambini o adolescenti, ma i numeri reali sono molto più elevati. Gli ultimi dati ufficiali disponibili parlano di 15.846 vittime di tratta accertate o presunte in Europa, di cui il 15% è un minore. In Italia, sono 1.125 le persone inserite in programmi di protezione e il 7% di loro ha meno di 18 anni. Sono i principali numeri che emergono dal Dossier "Piccoli schiavi invisibili-I minori vittime di tratta e sfruttamento: chi sono, da dove vengono e chi lucra su di loro" di Save the Children, diffuso oggi alla vigilia della Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani che si celebra il 30 luglio. I minori non accompagnati - Quello della tratta è un fenomeno complesso, che spesso coinvolge minori stranieri non accompagnati. In Italia, molti di questi minori soli si spostano da una città all’altra, non consentendone l’emersione e il tracciamento reale. Nel nostro Paese, tra gennaio e giugno 2016, sono arrivate 70.222 persone in fuga da guerre, fame e violenze e di queste 11.608 sono minori, il 90% dei quali (10.524) non accompagnati, un numero più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (4.410). Chi sono e da dove vengono - Il profilo dei minori vittima di tratta e sfruttamento in Italia vede una presenza significativa di ragazze nigeriane, rumene e di altri Paesi dell’Est Europa, sempre più giovani, costrette alla prostituzione su strada o in luoghi chiusi. Attraverso le sue unità mobili Save the Children ha inoltre intercettato gruppi di minori egiziani, bengalesi e albanesi inseriti nei circuiti dello sfruttamento lavorativo e nei mercati del lavoro in nero, costretti a fornire prestazioni sessuali, spacciare droga o commettere altre attività illegali. A destare particolare preoccupazione sono i minori "in transito", tra i quali spiccano eritrei e somali che, una volta sbarcati sulle nostre coste, si allontanano dai centri di accoglienza e si rendono invisibili alle istituzioni nella speranza di raggiungere il Nord Europa. Terza fonte di reddito per la criminalità - In Italia la tratta di persone costituisce la terza fonte di reddito per le organizzazioni criminali, dopo il traffico di armi e di droga. Il numero dei procedimenti a carico degli sfruttatori, e soprattutto quello delle condanne, rimane però piuttosto limitato, per la capacità delle organizzazioni criminali di agire adeguando le proprie strategie per aggirare gli interventi legislativi. In Italia, dal 2013 al 2015, sono stati denunciati per reati inerenti la tratta e lo sfruttamento un totale di 464 individui, alla maggior parte dei quali viene contestato il reato di riduzione in schiavitù. Per il reato di tratta sono stati arrestati più di 190 soggetti di nazionalità prevalentemente rumena, albanese e nigeriana. Ma il 12% degli autori di reati connessi alla tratta e allo sfruttamento (dati Ministero della Giustizia) sono di nazionalità italiana. Chi sono gli sfruttatori - Per la prima volta, il dossier approfondisce il profilo degli sfruttatori. Nel caso degli sfruttatori individuali, frequente per le ragazze rumene e dell’Europa orientale, spesso la condizione di assoggettamento viene messa in atto da una persona con cui la vittima ha una relazione di parentela o un vincolo sentimentale. Poi ci sono le "reti informali", che vengono attivate solitamente dalla stessa famiglia o da un conoscente del ragazzo e lavorano sostanzialmente come una sorta di `agenzia di viaggio´: è il caso emblematico dei minori egiziani, le cui famiglie contraggono un debito nei confronti dei trafficanti che deve essere ripagato una volta giunti in Italia. Infine, le organizzazioni criminali, che perseguono lo scopo specifico dello sfruttamento al fine di trarne dei benefici economici o altri vantaggi. Questi modelli organizzativi sono ben inseriti nel territorio: è il caso dei boss nigeriani che, in accordo con le mafie locali, gestiscono oggi importanti segmenti del traffico e dello spaccio di droga tramite una elevata capacità di controllo sul territorio e sulle persone. Il rancore organizzato e i signori dei social di Daniele Vicari Il Manifesto, 30 luglio 2016 Censura. Una polemica interessante e civile giudicata "indesiderata" dall’utente anonimo e cancellata. Ma accanto alle singole persone c’è l’enorme responsabilità dei gestori e dei proprietari dei social media. Entità pericolose che operano un super-controllo. Anche questa m’è toccata nella vita, la censura di Facebook. Devo dire che fa piuttosto ridere, viene da sentenziare alla romana "ma che me frega!"… però c’è un però. Dopo una serie di episodi curiosi, che hanno riguardato anche il manifesto, nella figura del grande Mauro Biani, e Zerocalcare, reo di aver ricordato Carlo Giuliani, e sempre su questioni sensibili riguardanti Genova2001. Ovviamente tutta quella questione è ancora tabù per gran parte della "opinione pubblica", perché in quei giorni si è messo in discussione lo Stato di Diritto, la praticabilità democratica della piazza, le idee di un movimento contraddittorio ma con qualche elemento di innovazione nella pratica politica e nella costruzione del futuro. Oggi cosa ne resta, oltre a pochi reduci impegnati a smentirsi a vicenda? Nessuno si illude che Facebook sia il regno della comunicazione orizzontale, solo i teorici della postmodernità si riempiono la bocca da alcuni decenni di questioni astratte, mentre la pratica è altra cosa. E come Facebook anche gli altri social. Perché è chiaro che le proprietà di questi mezzi, ormai imprese globali che possono spedire nello spazio missioni miliardarie, come fossero la Russia gli Usa o la Cina, possono agire in maniera autonoma dalle leggi degli stati, figuriamoci se si fermano dinanzi alle rimostranze di qualche decina di utenti su miliardi e miliardi che li utilizzano ogni giorno per scambiarsi ricette, saggi filosofici, video artistici e porno, indicazioni utili per fare bombe e organizzare attentati. Tutto ciò nietepopodimenoché in nome della "libertà di espressione" degli individui! Insomma siamo su Facebook, nell’era della follia telematica, è in corso una civile polemica tra me e un giovane regista in merito alle nostre rispettive idee sul cinema, il gentilissimo e determinatissimo Michele Diomà che tira secondo me "incautamente" in ballo Francesco Rosi. E così la polemica, sempre credo nei limiti della civiltà, è andata avanti per un paio di giorni, ed è stato uno scambio interessante. L’oggetto del contendere è la vulgata secondo la quale nei film che raccontano fatti realmente accaduti bisogna fare "i nomi", e la questione mi perseguita da quando ho realizzato Diaz, vengo accusato di non aver fatto come Rosi e persino come Petri. Siccome né l’uno né l’altro hanno mai fatto una cosa simile se non in casi specifici e irripetibili, sono anni che rispondo con ironia a queste osservazioni. Rosi per esempio ha "fatto i nomi" solo nel Caso Mattei, un biopic d’inchiesta dove era praticamente impossibile evitarlo. Ma curiosamente, e non solo da Michele Diomà, viene spesso tirato in ballo Le mani sulla città, purtroppo per i miei detrattori Rosi, con una didascalia che precede di poco i titoli di coda avverte: "I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari". Forse è bene rivederseli (o vederseli) questi film prima di citarli a sproposito. Su questo punto specifico è intervenuta Carolina Rosi, e mi piace riportare una sua frase: "Mio padre mi diceva sempre che lui nei suoi film non ha mai sposato una tesi, si è limitato a raccontare i fatti, a fare ipotesi a cercare di unire i pezzi perché ognuno poi con la propria coscienza potesse trarne le dovute conclusioni. Le indagini le lasciava alla magistratura… solo una volta di fronte alla reale scomparsa di De Mauro ha deciso di intervenire di persona e si è messo nel film, perché era dovuto". Insomma si parlava solo di cinema, tra persone appassionate. Ecco che improvvisamente il mio post scompare con tutta la lunga discussione. Un messaggio di Facebook mi avverte della rimozione e mi intima di non ripetere l’errore. Ovviamente ri-pubblico di nuovo il mio primo post, con annessa protesta, e di nuovo Facebook lo cancella e sospende il mio accesso per 24 ore, avvertendomi che ad una nuova infrazione il mio Profilo verrà sospeso definitivamente. Vedo avvicinarsi la fine della mia permanenza su questa piattaforma, e se non ci sarà un chiarimento pubblico da parte dell’Ufficio stampa di Facebook, la cancellazione del profilo la farò io stesso. Però prima di salutare senza grandi pentimenti il favoloso mondo di Facebook, con l’unico rammarico per i miei "amici", non posso non sottolineare due componenti di questa vicenda. La prima, assai miserevole, è che qualche utente, infastidito dalle mie considerazioni, ha segnalato come "indesiderato" il post. È difficile entrare nel coacervo di frustrazioni e mancanza di senso del ridicolo che può aver spinto questo qualcuno a denunciarmi all’"Entità" censoria. Certo è una persona (o forse più d’una) che non sopporta un punto di vista diverso dal suo, che non ha la forza di intervenire nel merito della discussione sostenendo fino in fondo le proprie idee. Quindi è una persona pericolosa per sé e per gli altri, rancorosa, frustrata e probabilmente priva del minimo talento che ci vuole per esistere pubblicamente, infatti si nasconde dietro un clic. Succede ormai regolarmente che questo comportamento vigliacco, magari organizzato, sappia farsi anche "politica", andando oltre il piccolo cabotaggio di una dialettica interpersonale. Questo rancore organizzato può influenzare il dibattito pubblico, gettare sulla gogna qualche volta magari i "colpevoli" ma sempre più spesso e sempre più ferocemente gli "innocenti", e sempre più spesso i "diritti", perché non fa una lotta sacrosanta per migliorare il mondo, ma per il potere, dimostrando una avidità che nemmeno i più accaniti conservatori hanno mai mostrato di avere. Nonostante pensi il peggio possibile di questa persona virtuale (magari più d’una), la sua inanità non può far passare in secondo piano la enorme responsabilità che i gestori e proprietari dei social media hanno. Sono "Entità" imprendibili, sfuggenti, magari fittizie. Se queste "Entità" non capiscono che si sono assunte una responsabilità enorme, mettendo in comunicazione miliardi di esseri umani, allora sono esse stesse "Entità" ad essere sommamente pericolose, più del peggiore regime occhiuto che esista sulla faccia della terra, perché nessun regime può controllare così tante persone contemporaneamente, nessuno. I vari episodi di censura, accaduti in particolare in questi ultimi anni, finiscono per compromettere la "libertà d’espressione" sulla quale prosperano i miliardari che hanno creato e continuano a creare i social. E ci fa presagire anche il pericolo di un supercontrollo standardizzante dinanzi al quale il "grande fratello" di Orwell è un principiante. Un supercontrollo che censura le tette delle madri che allattano ma permette il commercio di corpi umani, magari a pezzi, e carri armati. Per fortuna il Cern, che detiene il brevetto del WWW, lo ha messo gratuitamente a disposizione del mondo. È forse arrivato il momento di avere anche social condivisi, pubblici, partecipati come è pubblico e gratuito il web? Propaganda in Europa e campi militari. La doppia strategia del Califfato di giordano stabile La Stampa, 30 luglio 2016 Social network, combattenti addestrati da infiltrare e struttura decentrata. Così da Raqqa l’Isis si organizza per infliggere all’Occidente le "mille ferite". Un doppio binario che gestisce di pari passo la formazione di combattenti da infiltrare in Occidente e la propaganda per innescare i musulmani radicalizzati in Europa. Una struttura di informazione decentralizzata, che ha reclutato centinaia di giovani europei "nativi digitali" in grado di muoversi sui social media. La campagna d’estate dell’Isis contro l’Europa è gestita dal Califfato, ma da un’organizzazione sparsa sul territorio e difficile da eliminare in un solo colpo. La struttura - La leadership dello Stato islamico è passata attraverso Al Qaeda e ha imparato dagli errori della casa madre. La Base di Osama Bin Laden era centralizzata, quella di Abu Bakr Al-Baghdadi è segmentata. Ad assistere il Califfo c’è una Shura di anziani, religiosi e comandanti militari, e un Consiglio che supervisiona i wilayat, le province e i dawanin, i ministeri. Il Califfato è composto da 35 wilayat, 19 in Siria-Iraq e 16 "remoti" dalla Nigeria all’Afghanistan, e 14 dawanin. Il Diwan al-Ly’alam gestisce l’informazione e la propaganda. Ha due principali centri di produzione, Al-Hayat e Al-Furqan. Al-Hayat ha uffici in tutte le principali province in Siria e Iraq. Spesso agiscono all’unisono e rilasciano video o altro materiale su uno stesso tema da dozzine di posti diversi. Erano supervisionate da Abu Atheer al-Absi, capo del Consiglio dei Media, un gradino sopra il Diwan, responsabile fra l’altro del rapimento del reporter britannico Jonh Cantlie. Al-Absi è stato ucciso il 3 marzo scorso e sostituito il portavoce dell’Isis Mohammad al-Adnani. Anche lui, come del resto Al-Baghdadi, si sposta di continuo in incognito fra Siria e Iraq per "ispezionare le province". I metodi di criptazione - Al Adnani è a capo anche del Amn al-Kharji, i Servizi esterni. Che hanno la medesima struttura sparsa. L’Amn al-Kharij gestisce sia campi di addestramento per foreign fighter che i canali di scambi di informazioni con cellule e simpatizzanti all’estero. Anche loro ricevono una formazione, a volte solo online. Nel manuale "La regole di sicurezza del musulmano", diffuso da vari media digitali dell’Isis, viene per esempio spiegato come comunicare in sicurezza, dotare il proprio computer o smartphone di sistemi con Vpn, Tor o Truecript, tutti orientati a evitare le intercettazioni. Anche l’uso di WhatsApp e Telegram sono considerati sicuri. Il lupo "fatto in casa" - L’agilità dell’Isis nello spazio digitale è dovuta all’innesto di centinaia di giovani europei "emigrati" nel Califfato. L’Isis cerca di attirare non solo combattenti ma anche tecnici informatici e ingegneri e lancia spesso appelli in questo senso. La sinergia fra propaganda e formazione di jihadisti permette il doppio sfruttamento di ogni attacco. Se ci sono contatti fra le strutture nel Califfato e le cellule o i lupi che hanno colpito, i centri di propaganda e l’agenzia Aamaq usano il materiale ricevuto, come nel caso di Dacca o di Rouen. Altrimenti riciclano materiale dai media occidentali e mettono il timbro "soldato del Califfato". I tempi di reazione sono rapidi. Due giorni dopo l’attacco di Ansbach, il settimanale in arabo al-Naba ha pubblicato una biografia del terrorista e rifugiato siriano Mohammad Daleel, nome di battaglia Abu Yussuf al-Karrar. Racconta come si sia unito prima ad Al-Nusra, poi abbia giurato fedeltà ad Al-Baghdadi, la sua specializzazione in ordigni incendiari, il suo ferimento e il ritorno in Europa come profugo. Gli inquirenti tedeschi stanno verificando se le informazioni sono veritiere. Ma quello che conta è il parallelismo fra propaganda e azione. Da settimane i sostenitori dell’Isis, sui social e Telegram, martellavano i rifugiati siriani, li accusavano di "tradimento" e li incitavano a uccidere infedeli per riscattarsi. Ed ecco l’attentato condotto da un rifugiato siriano, subito amplificato sui media. Proprio per l’accoglienza dei siriani la Germania è entrata nella "prima fascia" dei Paesi da colpire. "Mille ferite" - In una cosa però l’Isis ha copiato Al Qaeda. Ed è la teoria delle "mille ferite". Già negli Anni Novanta Al-Suri teorizzava "azioni decentralizzate", individuali o in piccole cellule, per infliggere all’Occidente "mille piccole ferite" che avrebbero piegato la sua volontà di combattere. Al-Suri sottolineava anche l’importanza del "marketing" per amplificarne l’effetto. La scommessa del Califfo è che mille piccole ferite convincano Usa e Ue a far cessare i raid. Francia: prove di fratellanza dopo gli attentati di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 30 luglio 2016 Credenti (e non) cercano di ritessere i legami sociali. Ma i politici continuano a lacerarsi. Fermato un rifugiato siriano nell’ambito dell’inchiesta sull’assassinio di padre Hamel. Prove di fraternità tra cittadini (credenti, ma non solo). Mentre il mondo politico si lacera sulla questione del rispetto dello stato di diritto e l’opposizione si scaglia contro il governo, in tutta la Francia, qui e là, ieri hanno avuto luogo delle "marce bianche" di cittadini e ci sono stati vari tentativi di dialogo nei luoghi di culto. Il parroco della chiesa Saint-Thérèse di Saint-Etienne-du-Rouvray - la parrocchia che sorge a fianco della moschea della cittadina - ha partecipato alla cerimonia del venerdì alla moschea. "Costruiamo ponti non muri tra di noi", ha detto padre Auguste. "Non posso tacere, il mio silenzio potrebbe venire considerato una connivenza" ha affermato l’imam, "non passerete attraverso noi", ha aggiunto puntando il dito contro "la mano lontana uscita dalle tenebre che ha teleguidato gli assassini" di padre Hamel. Domenica, i musulmani sono invitati a partecipare alle messe cattoliche. Ingenuità diffusa? Va segnalato che qualcosa si muove, forse l’assassinio di padre Hamel è stato un passo nell’orrore che sta scuotendo la società. Ieri, il rettore della moschea di Parigi, Dalil Boubakeur, ha detto chiaramente che l’islam di Francia "non può più tollerare il fondamentalismo". Per Boubakeur, l’islam di Francia è di fronte a "tre sfide: comprendere la laicità, sotterrare gli arcaismi - e questo passa per lo statuto della donna - sradicare il fondamentalismo". Boubakeur avverte: "se non riusciremo si arriverà alla sconfitta dell’islam di Francia". Altre voci del mondo musulmano si fanno sentire in questi giorni, per chiedere una svolta generale. Il sindaco Pcf di Saint-Etienne-du-Rouvray, Hubert Wulfranc, ha lanciato un appello generale "alla fraternità", in difesa dello "stato di diritto" che è anche "uno stato di doveri che tutti devono rispettare". Il mondo politico non è pronto ad ascoltare le voci di fraternità, a nove mesi dalle scadenze elettorali. Il primo ministro, Manuel Valls, ha risposto a Nicolas Sarkozy, che ha accusato il governo di opporre "arguzie giuridiche" per evitare una riforma costituzionale di segno repressivo. "Sarkozy ha perso la calma", afferma Valls, "essere lucidi di fronte alla minaccia non significa scivolare nel populismo". Jean-Christophe Cambadélis, segretario Ps, accusa Sarkozy di "non essere lontano dalle idee del Fronte nazionale". Marine Le Pen, dal canto suo, accusa tutti: "viviamo le conseguenze di trent’anni di gravi errori, sotto Sarkozy e Hollande c’è stata una deriva islamista". Christian Estrosi, presidente della regione Paca ed ex sindaco di Nizza, deplora che "solo un mese fa il governo abbia autorizzato l’apertura della moschea En-Nour, finanziata dall’Arabia saudita" contro il parere del comune. Valls propone di sospendere temporaneamente i finanziamenti stranieri per le moschee francesi, nell’attesa di "inventare una nuova relazione con l’islam di Francia". Eric Ciotti, deputato di Nizza, gli risponde: "ipocrita". Valls ieri, in un’intervista a Le Monde, ha ammesso che c’è stato "fallimento della giustizia" nel caso di Adel K., il terrorista di Saint-Etienne-du-Rouvray che portava un braccialetto elettronico dopo essere stato liberato dal carcere. Valls chiede ai magistrati, nel rispetto della divisione dei poteri, di analizzare "caso per caso" con molta attenzione. L’inchiesta prosegue, ma restano ancora molte zone d’ombra. In un video diffuso dall’agenzia di Daech, Amaq, compare il secondo terrorista, Abdel-Malik P., mentre minaccia la Francia. Due persone fermate nei giorni scorsi, la sorella di Abdel-Malik P. e il suo amico, sono state liberate, mentre restano tre fermi: il minorenne fratello del "guru" di Adel K. e un cugino di 30 anni di Adel K. Una terza persona è stata fermata, si tratta di un richiedente asilo siriano, la fotocopia del suo passaporto è stata trovata nel domicilio dei genitori di Adel K., dove risiedeva il terrorista. L’Austria ha estradato ieri verso la Francia due persone, che potrebbero avere dei legami con gli attentati del 13 novembre. Risulta che i terroristi hanno comunicato utilizzando l’applicazione Telegram, nata in Russia nel 2013, che funziona con messaggi criptati di tipo militare, difficili da intercettare. Malgrado le accuse di Sarkozy, che pretende di mettere sotto stretto controllo la "zona grigia" dei fiancheggiatori, in Francia, con il nuovo prolungamento dello stato d’emergenza, è ormai legale mettere sotto sorveglianza non solo i sospetti, ma anche i famigliari e gli amici. Più di 10mila persone sospette di radicalizzazione nel paese, moltiplicate per un numero enorme dei loro contatti: un Big Brother praticamente impossibile da mettere in atto. Turchia: la marcia dei giornalisti in manette ultima indecenza del regime di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 luglio 2016 Venti dei 42 giornalisti contro cui è stato spiccato un mandato d’arresto ieri portati in tribunale a Istanbul. Decapitato l’esercito: il 44% dei generali turchi sono in custodia, 178 su 35. Impossibile scorrere le foto pubblicate ieri su Twitter dal giornalista Mahir Zeynalov (@MahirZeynalov), poi riprese dai media, e non provare un brivido. Giornalisti, reporter, colleghi, scendono una scalinata circondati da poliziotti che li tengono per le braccia. Alcuni sfidano con lo sguardo, altri hanno la testa bassa. Gli arresti che il regime di Erdogan ha ordinato negli ultimi giorni, sulla base di supposti legami con i golpisti del 15 luglio e il movimento dell’imam Gülen, non hanno giustificazione. Dei 42 giornalisti contro i quali è stato spiccato un mandato d’arresto, 11 sono andati all’estero e 9 sono ricercati. Gli altri sono in manette: 20 di loro ieri scendevano la scalinata della corte di Istanbul che ne ha confermato la detenzione. Tra loro la famosa commentatrice tv Nazli Ilicak, il reporter di Hurriyet Arda Akin, Bulent Mumay (che pochi giorni fa ricordava come negli anni è stato tacciato dal governo di ogni possibile simpatia, dai kurdi del Pkk ai marxisti del Dhkp-C fino al presidente siriano Assad), il giornalista investigativo Bunyamin Koseli, l’esperta di cronaca giudiziaria Busra Erdal (con reportage che non sono piaciuti al governo dell’Akp, l’editorialista di al Monitor Ufuk Sanli. E via a scorrere, lungo la linea tracciata dalla paranoia autoritaria. La campagna di punizione collettiva prosegue inesorabile, come nulla fosse. Dopotutto l’alleato europeo che versa miliardi di euro nelle casse di Ankara non fiata. Mentre i giornalisti venivano portati in tribunale, venivano pubblicati i numeri sugli arrestati nell’esercito. Alle forze armate turche è saltata la testa: di 358 generali, 178 sono agli arresti. Il 44% dei vertici dell’esercito è evaporato: 87 generali delle forze di terra, 30 dell’aviazione, 32 della marina, 7 della gendarmeria e uno della guardia costiera. Un numero che non combacia con quello dei soldati considerati coinvolti nel tentato golpe: secondo l’esercito vi hanno preso parte 8.651 militari, l’1,5% del totale. Delle due, l’una: o i vertici golpisti contavano solo sulle proprie forze o la loro espulsione era in programma da tempo. È ormai chiaro che Erdogan non ha dovuto aspettare il 30 agosto (data classica di pensionamento nelle forze armate) per la pulizia che aveva già in mente. Ora il passo successivo è scontato: assumere il controllo definitivo dell’esercito con figure a lui vicine, stessa procedura adottata nell’università. E mentre ieri il terzo ufficiale si toglieva la vita in custodia, il premier Yildirim annunciava la chiusura delle basi militari ad Ankara e Istanbul utilizzate dai golpisti. Andranno sostituite e la soluzione c’è già: aprirne di nuove lontano dalle grandi città. E a chi muove critiche, Erdogan risponde con rabbia: il generale Votel, capo del Comando Centrale dell’esercito Usa, è stato accusato dal presidente di essere a fianco dei golpisti per aver detto che simili epurazioni di massa danneggiano la guerra all’Isis. Gran Bretagna: nelle carceri inglesi nuova impennata di suicidi west-info.eu, 30 luglio 2016 Il numero di suicidi nelle carceri di Inghilterra e Galles ha toccato un nuovo record storico. Tra giugno 2015 e giugno 2016, infatti, 105 detenuti si sono tolti la vita. 23 in più rispetto ai 12 mesi precedenti, il che equivale ad un incremento del 28%. I dati appena pubblicati dal ministero della Giustizia inglese mostrano che, confrontando i due periodi di tempo presi in considerazione, è cresciuto in modo particolare il numero delle donne che si sono uccise in carcere: da 1 a 11. Carenza di personale e sovraffollamento tra le ragioni principali per spiegare l’inquietante fenomeno. Marocco: 37 feriti nel tentativo di evasione da Ouakacha Reuters, 30 luglio 2016 Si conclude con un bilancio di 37 feriti il tentativo di evasione dalla prigione di Ouakacha, uno degli istituti penitenziari più discussi del Marocco, alla periferia di Casablanca. Il centro che ha una capienza di 5.800 posti ospita 8.000 detenuti. Lo scontro a fuoco si è reso necessario ma ad avere la peggio sono stati 28 poliziotti ora ricoverati all’ospedale Mohammed V. Sono invece nove i detenuti ricoverati per asfissia. Quasi da manuale la dinamica della tentata evasione di massa: mentre un gruppo di detenuti ha dato fuoco alle coperte per sviare l’attenzione, un altro gruppo ha divelto le porte e ha tentato di impadronirsi delle armi e dato l’assalto ai cancelli con un blindato di quelli che servono per il trasporto dei detenuti. La prigione ha subito gravi danni, perché il tentativo di ammutinamento iniziato verso le 19.30 è stato sventato solo dopo la mezzanotte. Sono state completamente distrutte dal fuoco almeno 5 celle secondo il bollettino della polizia, divelti i telefoni delle parti comuni dell’istituto, distrutte le telecamere di sorveglianza e lanciati nei corridoi i televisori che si trovavano in alcuni reparti. A fuoco tutti gli uffici del piano terra, con i fascicoli dei detenuti e anche i documenti per il reinserimento reclusi, la biblioteca e le sale dove si svolgono i corsi di studio. Il panico creato per l’incendio in una delle prigioni più sovraffollate del Marocco ha rallentato i soccorsi: c’è un’inchiesta in corso per capire cosa sia accaduto. Non si sa che fine abbia fatto il gruppo di detenuti che ha organizzato il commando. Una gran parte dei reclusi è stata trasferita in altri istituti del Marocco. Per il codice penale marocchino, chi tenta di evadere rischia fino a cinque anni. Iran: una prigioniera politica rivela le restrizioni e le pressioni nelle carceri ncr-iran.org, 30 luglio 2016 Una prigioniera politica iraniana, che recentemente ha praticato lo sciopero della fame nel famigerato carcere di Evin a Teheran, ha rilasciato una dichiarazione nella quale descrive dettagliatamente la natura repressiva delle carceri iraniane. Narges Mohammadi, 44 anni, ha ribadito che i tribunali-farsa del regime stanno imponendo punizioni severe ai prigionieri politici, separandoli dalle famiglie, costringendoli all’isolamento e fornendo loro condizioni di vita inadeguate. Il suo messaggio, pubblicato il 23 Luglio dice: "Io protesto contro l’oppressione e le limitazioni imposte ai prigionieri. Queste restrizioni e queste incessanti pressioni vengono applicate appena la persona accusata viene posta in isolamento. Questo è un tipico esempio di tortura psicologica". La Mohammadi ha rivelato che alle prigioniere politiche non è permesso usare il telefono nella loro sezione, nonostante i due terzi delle 27 detenute abbiano dei figli, e spiega come lei stessa si strugga per i suoi figli, ora fuggiti dall’Iran e di come spera di poter parlare di nuovo con loro. La lettera dice: "I miei cari figli, Kiana e Ali, hanno lasciato l’Iran il 16 Luglio 2015". E aggiunge di aver iniziato uno sciopero della fame il 27 Giugno 2016 perché le viene impedito di parlare al telefono con i suoi figli. Con il suo sciopero della fame vuole anche protestare contro le violazioni dei diritti umani subite dai prigionieri politici e per la doppia oppressione di donne e madri. La Mohammadi ha spiegato che all’interno del famigerato carcere di Evin, nella sezione dei prigionieri politici, ci sono genitori che stanno scontando entrambi la loro pena, il che li costringe a lasciare incustoditi i loro figli. Ed ha aggiunto: "Nel frattempo, la totale repressione esercitata sui prigionieri politici e ideologici, si può palesemente riscontrare in tutto il paese". Narges Mohammadi ha interrotto lo sciopero della fame dopo che finalmente gli è stato permesso di telefonare ai suoi figli, ma ha detto che non smetterà mai di protestare per i diritti umani in Iran. E ha detto: "Le autorità iraniane sono ben consapevoli che il riconoscimento dei diritti umani in Iran è una richiesta seria... i diritti umani non sono concetti astratti. Al contrario essi sono interconnessi agli ideali della nazione iraniana e in caso di violazione o negligenza, il popolo esprime il suo malcontento". A Settembre 2011, Narges Mohammadi, di professione avvocato, era stata inizialmente condannata a 11 anni di carcere per "atti contro la sicurezza nazionale" e "propaganda contro lo stato", tra le altre cose. A Marzo 2012, la sua pena era stata ridotta a sei anni ed era stata rilasciata su cauzione tre mesi dopo. A Maggio 2015, è stata nuovamente arrestata, nonostante i timori per le sue gravi condizioni di salute, per scontare il resto della sua pena. A Maggio 2016, mentre era in carcere, il cosiddetto "tribunale rivoluzionario" del regime a Teheran, ha condannato la Mohammadi ad altri 16 anni di carcere. Il tribunale-farsa dei mullah ha ritenuto Narges Mohammadi, colpevole della creazione e della conduzione di un movimento per i diritti umani che chiede l’abolizione della pena di morte.