Al via i prelievi del DNA sui detenuti antimafiaduemila.com, 2 luglio 2016 Il 10 giugno 2016 è entrato in vigore il regolamento attuativo (D.P.R. 7 aprile 2016, n. 87) della legge 30 giugno 2009, n. 85, che ha istituito la Banca Dati Nazionale del D.N.A presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza e il Laboratorio Centrale per la Banca Dati Nazionale del D.N.A presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In ottemperanza alla normativa citata, lo stesso giorno è stato effettuato, presso la casa circondariale di Roma Regina Coeli. il primo prelievo del campione biologico sui detenuti da parte del personale della Polizia penitenziaria: con la stessa decorrenza, tale attività interessa tutti gli istituti della Repubblica. L’acquisizione del campione biologico avviene mediante il prelievo della saliva effettuato con un tampone orale: l’operazione richiede in tutto pochi minuti. I campioni così acquisiti vengono successivamente inviati al Laboratorio Centrale del DNA per la tipizzazione e la conservazione, nel rispetto dei termini stabiliti dalla normativa. L’organizzazione e il funzionamento del Laboratorio, nonché le relazioni con l’autorità giudiziaria e i servizi di polizia giudiziaria, sono in capo alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento (Ufficio VI): l’intera materia sarà disciplinata nel dettaglio da una circolare di prossima emanazione che terrà conto delle eventuali esigenze operative che emergeranno nel prosieguo delle attività di prelievo. La legge 30 giugno 2009, n. 85, ha sancito l’adesione dell’ Italia al Trattato di Prum del 2005, stilato al fine di disciplinare la cooperazione tra diversi Paesi europei in materia di contrasto a terrorismo, criminalità transfrontaliera e migrazione illegale. Grazie a questo iter, anche l’Italia si è dotata di una Banca Dati Nazionale del D.N.A., finalizzata a facilitare l’identificazione degli autori dei delitti e delle persone scomparse. Secondo fonti ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nel giorno dell’entrata in vigore del regolamento attuativo sopra citato, sono stati effettuati in tutti gli istituti penitenziari italiani circa 140 prelievi di campione biologico su soggetti detenuti. Soddisfazione da parte dell’UGL Funzione Pubblica e dell’UGL Polizia Penitenziaria che puntano il dito sulla lentezza dei lavori parlamentari iniziati circa 7 anni fa, per l’istituzione di una banca dati che dovrebbe mettere un freno alla criminalità organizzata e alle associazioni terroristiche. Infatti, aggiungono i segretari dell’UGL Paola Saraceni della Funzione Pubblica e Alessandro De Pasquale della Polizia Penitenziaria, la banca dati del Dna era prevista da una legge del 2009, ma ci sono voluti circa 7 anni per arrivare ad un decreto attuativo per la sua entrata in vigore. Vogliamo ricordare, concludono i sindacalisti, che l’Italia solo oggi si mette al passo di altri Paesi europei come Francia, Germania e Spagna che su questo importante argomento sono partiti 10 anni fa. Il governo del carcere molle: "diamo Skype ai boss reclusi" di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2016 Il sottosegretario Gennaro Migliore in visita alla Casa circondariale de L’Aquila svela l’intenzione di depotenziare il 41-bis: "Irrinunciabile ma va rivisto". Maggiore flessibilità sul 41-bis, i principi costituzionali e i diritti umani non sono rinunciabili. Bisogna riconsiderare gli aspetti solo afflittivi. Pensiamo anche a innovazioni tecnologiche come Skype al posto delle schede telefoniche". Parole del sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore (Pd). Parole dedicate ai 732 super criminali, storici e più attuali, rinchiusi al 41-bis in dodici carceri: L’Aquila (136), Parma (62), Tolmezzo (19), Roma Rebibbia (44), Viterbo (57), Milano Opera (84), Ascoli Piceno (43), Cuneo (21), Novara (68), Sassari (88), Spoleto (83) e Terni (27). Dietro questi numeri, volti e nomi di sanguinari capimafia che hanno fatto la storia della malavita italiana: dal capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina, al suo successore Bernardo Provenzano, in condizioni di salute sempre più critiche; dal principe della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo, dietro le sbarre dal 1982, ai Casalesi come Michele Zagaria e Sandokan Schiavone. È detenuto al 41-bis Massimo Carminati, sotto processo e accusato dalla Procura di Roma di essere il capo di Mafia Capitale; e con tutta probabilità lo sarà fra qualche giorno anche Ernesto Fazzalari, re della ‘ndrangheta - secondo nella lista dei latitanti soltanto al reggente di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro - appena arrestato per cui la Procura di Reggio Calabria ha già richiesto la misura iper restrittiva. Nella calda estate delle carceri sovraffollate - 8.353 detenuti in più secondo i dati aggiornati al 31 maggio - rischia di scoppiare anche il bubbone dei boss ristretti al regime di carcere duro fortemente voluto da Giovanni Falcone e diventato legge dello Stato soltanto dopo la morte di Paolo Borsellino. A far discutere sono alcune dichiarazioni di Migliore, rilasciate due giorni fa dopo una visita al supercarcere de L’Aquila insieme all’altro sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli (Ncd), subito riprese da il Centro e da altre testate locali e ieri rilanciate con sdegno prima dal sindacato della Polizia penitenziaria Sappe e dall’Associazione dei famigliari delle vittime di via dei Georgofili e poi dal Movimento 5 Stelle. "Riteniamo - ha spiegato Migliore alla fine della visita al carcere abruzzese - che l’interruzione dei rapporti con l’organizzazione non debba essere anche un’interruzione dei diritti fondamentali della persona. Fermo restando che ci debba essere una piena applicazione del principio per cui il 41-bis è stato pensato, ossia l’interruzione dei rapporti e dei legami tra le organizzazioni criminali e i loro capi - approfondisce Migliore - bisogna fare una riflessione, così come è emerso anche dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, su come ci possa essere una maggiore flessibilità rispetto all’applicazione di determinati aspetti di questo regime detentivo. Ci deve essere una riconsiderazione di quelli che sono anche i regolamenti, che talvolta sono afflittivi e non volti ad applicare il dettato costituzionale. Si tratta di valutare quali possono essere gli interventi sulla vita quotidiana di queste persone, ad esempio la garanzia che possano affrontare anche patologie e disagi psicologici e non solo psichiatrici. Penso che ci sia bisogno - conclude inequivocabilmente il sottosegretario - di avere un’attenzione diversa nei confronti di questa condizione detentiva". Poi Migliore si spinge anche a una considerazione su innovazioni tecnologiche: "Stiamo pensando a introdurre Skype al posto delle schede telefoniche". Quello delle video-chiamate è l’unico passaggio che il sottosegretario, contattato ieri dal Fatto, prova a smentire: "Non mi riferivo al 41-bis, hanno capito male i cronisti sul posto". Dall’opposizione i Cinque Stelle colgono e attaccano: "Si inserisce nella Trattativa Stato-mafia mai interrotta. Ammorbidire il carcere duro, attraverso la scusante dei diritti fondamentali dell’uomo, è una manovra già vista in passato. La legge è già scritta e applicata tenendo conto e garantendo tutti i diritti del condannato. Al 41-bis ci sono capi clan di spicco delle mafie, soggetti pericolosi per la stessa tenuta democratica del Paese, ma Gennaro Migliore forse non lo sa, perché in questa Italia di Renzi le poltrone si danno per amicizia e non per competenza". Migliore va su tutte le furie: "Ribadisco la mia posizione, il 41-bis per me è irrinunciabile, ma bisogna applicarlo secondo le corrette procedure ed è imbecille dire che i principi costituzionali e i diritti umani siano un pretesto per la Trattativa Stato-mafia, è indecente. Ho passato la mia vita a occuparmi di mafia". "Così i mafiosi comunicheranno senza controlli" di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2016 Parla Vittorio Teresi, il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sulla "trattativa". Quando gli leggiamo le dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Pd) sul 41-bis, cioè sul carcere duro e isolato per i mafiosi, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi non crede alle sue orecchie. Da sempre pm a Palermo, ha lavorato accanto a Falcone e Borsellino, poi a Gian Carlo Caselli, a Piero Grasso e a Francesco Messineo. E, da quando Antonio Ingroia ha lasciato la magistratura, gli è subentrato come coordinatore del pool che indaga sulla trattativa Stato-mafia e sostiene l’accusa nel relativo processo tuttora in corso. Il 41-bis l’ha visto nascere, all’indomani della strage Borsellino, quando finalmente - nell’agosto del 1992 - il Parlamento convertì in legge il decreto Martelli, nato dalle intuizioni di Giovanni Falcone, ucciso due mesi e mezzo prima. Poi, con le indagini sulla trattativa, Teresi e i suoi colleghi Ingroia, Di Matteo, Del Bene, Sava e Tartaglia, hanno scoperto che proprio sul 41-bis si era giocato sporco fra Stato e mafia. Da quando, in quell’estate rovente e insanguinata, Riina fece pervenire il famigerato papello con le sue richieste ai referenti nelle istituzioni in cambio della fine delle stragi, i tentativi per ridimensionare fino a svuotarlo del tutto il principale strumento di neutralizzazione del potere mafioso si sono susseguiti per 24 anni. Cominciò l’allora ministro guardasigilli Giovanni Conso, subentrato a Claudio Martelli, a non rinnovare il carcere duro a 300 e passa mafiosi detenuti. Ma Cosa Nostra pretendeva di più e, anche dopo la sciagurata chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, più volte mandò messaggi sempre più minacciosi in tal senso (dal proclama di Bagarella durante un processo alle minacce agli avvocati siciliani eletti in Parlamento al famoso striscione "Berlusconi dimentica la Sicilia: uniti contro il 41-bis"apparso una domenica allo stadio di Palermo). Il tutto mentre il 41-bis veniva progressivamente depotenziato, anche in via amministrativa. Ora ci risiamo. La trattativa continua tutt’oggi? Anche gli incendi dolosi che due settimane fa, in piena stagione elettorale, hanno devastato in simultanea mezza Sicilia, erano un segnale al governo? A queste domande, Teresi preferisce non rispondere, vista anche l’incredibile circolare appena diffusa dal suo procuratore capo Franco Lo Voi per vietare ai magistrati qualunque contatto con la stampa sulle attività della Procura: "Sono un magistrato e le mie sensazioni le tengo per me: tengo gli occhi sempre aperti, ma preferisco basarmi su dati di fatto acquisiti". Però qualche riflessione da giurista esperto di lotta alla mafia sugli annunciati propositi governativi in materia di 41-bis accetta di farla. Secondo lei, il 41-bis viola i "diritti fondamentali" dei detenuti e consente "applicazioni afflittive che non corrispondono ai dettami costituzionali"? No, anzi: più volte il 41-bis è stato ritenuto dalla Corte costituzionale in linea con le garanzie e con i diritti fondamentali dei detenuti. Quindi non serve alcuna modifica dell’attuale regime carcerario, perché è già pienamente in linea con i principi costituzionali. Che ne pensa dell’idea di applicarlo con "maggiore flessibilità" e di introdurre "innovazioni tecnologiche, come l’uso di Skype al posto della scheda telefonica" da parte dei detenuti mafiosi? L’uso di mezzi tecnologici come Skype favorirebbe contatti fra i detenuti più pericolosi e soggetti esterni, al di fuori di ogni controllo delle autorità preposte. Non solo, ma in tal modo si vanificherebbero i fondamenti stessi della misura che fu introdotta nel 1992 da un’idea di Giovanni Falcone. E tradotta in legge solo dopo la sua morte. Già, occorse il sacrificio di Giovanni, di sua moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, perché i mafiosi detenuti fossero portati via dalle carceri dove spadroneggiavano e comunicavano all’esterno, e rinchiusi in strutture impermeabili. E non solo: c’è un altro particolare che troppo spesso si dimentica. Quale? Che il decreto Martelli, varato dopo Capaci e contenente anche il 41-bis, fu convertito in legge dal Parlamento soltanto all’indomani della strage di via D’Amelio. Cioè fu necessario un altro sacrificio: quello di Paolo Borsellino e dei suoi uomini di scorta. Sarebbe bene che nessuno se lo dimenticasse. Il Sottosegretario Migliore: polemica pretestuosa sul regime detentivo del 41bis agenpress.it, 2 luglio 2016 Apprendo con stupore e fastidio la polemica pretestuosa che mi viene rivolta dai rappresentanti del M5S a proposito del regime detentivo del 41bis. In una mia recente visita al carcere dell’Aquila, insieme alla Sottosegretaria Chiavaroli, ho ribadito che il 41bis è un indispensabile strumento per impedire la comunicazione dei detenuti in questo regime con le rispettive organizzazioni. Ho anche ricordato l’impegno del governo nel rilanciare la lotta alle mafie sia con l’intensificazione degli arresti sia con l’introduzione di nuovi strumenti normativi, come il reato di scambio politico mafioso e l’introduzione di reati che possono contribuire a svelare trame criminali sempre più sofisticate. Inoltre, abbiamo intensificato i regimi di controllo relativi alla video sorveglianza anche a tutti coloro i quali sono imputati di reati di mafia e terrorismo. In quella occasione ho altresì ribadito che è intenzione del governo applicare con rigore tutte le misure necessarie a garantire la totale interruzione di ogni rapporto con le organizzazioni criminali nella piena applicazione del principio costituzionale della esecuzione delle pene, richiamando in merito le considerazioni svolte nel corso degli stati generali della esecuzione penale da tutti gli intervenuti, a partire dai contributi del Presidente della Repubblica e del Ministro della Giustizia. Da questa polemica traggo con amarezza il convincimento che l’oggetto della polemica non sia una mia presunta dichiarazione, per altro inventata di sana pianta, ma il sottoscritto e la mia appartenenza al Pd. Su temi del genere le forze sane del paese devono trovarsi dalla stessa parte, ma spiace constatare che il M5S preferisca agitare polemiche piuttosto che apprezzare il lavoro costante fatto sul terreno dell’esecuzione penale, avendo raggiunto risultati importanti sia sul versante della riduzione del numero dei detenuti (con una contestuale diminuzione dei reati) sia su quello della qualificazione del trattamento, consentendo al nostro paese di uscire dalla procedura di infrazione nella quale si trovava dopo la sentenza Torreggiani. Il 41bis è uno strumento essenziale dello Stato, non può e non deve diventare un argomento per insensate polemiche estive. Omicidio Yara, Bossetti condannato all’ergastolo di Paolo Berizzi La Repubblica, 2 luglio 2016 Imputato impassibile alla lettura della sentenza. Poi ai suoi avvocati: "Una mazzata, avevo fiducia nella giustizia". Tolta patria potestà sui figli. La madre della vittima: "Ora so chi è stato". Ergastolo per Massimo Bossetti. Dopo dieci ore di camera di consiglio, la Corte d’Assise torna in aula e rende noto il verdetto: l’uomo che è in carcere da due anni viene riconosciuto colpevole dell’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. Lui, in piedi, ascolta la decisione e rimane impassibile. Poi, invece, con i suoi legali si sfoga: "È una mazzata grossissima, è come se mi fosse piombato una carro armato sulla testa, avevo fiducia nella giustizia. È allucinante, non sono stato io". Impassibile la moglie, Marita Comi che però, appena fuori dall’aula, è scoppiata in lacrime abbracciando la sorella gemella del marito. "Fatti forza" le ha detto Laura Letizia Bossetti. In mattinata il muratore di Mapello aveva letto una lunga dichiarazione d’innocenza nella quale supplicava la Corte di ripetere il test del Dna. "Sarò uno stupido, sarò un ignorantone - aveva detto - ma non sono un assassino. Ripetete l’esame del Dna, se mi condannerete sarà il più grave errore del secolo". Sobrio il commento della madre di Yara: "Ora sappiamo chi è stato - ha detto al suo avvocato - non abbiamo mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza". La sentenza e i risarcimenti. Ergastolo dunque. I giudici, inoltre, hanno tolto a Bossetti la potestà sui tre figli, mentre non hanno accolto la richiesta del pubblico ministero, Letizia Ruggeri, che oltre all’ergastolo aveva chiesto anche l’isolamento. Il muratore è stato assolto, invece, dall’accusa di calunnia ai danni di un collega. I giudici non hanno applicato l’isolamento diurno per sei mesi, come chiesto dal pm. Per quanto riguarda i risarcimenti, l’imputato è stato condannato a un risarcimento danni in questa forma: 400 mila euro per ogni genitore di Yara, 150 mila euro per ogni fratello di Yara e 18 mila euro per gli avvocati. In tutto quasi 1 milione e 300mila euro. Dna, furgone bianco, fibre tessili e sfere metalliche: le prove dell’accusa. La Procura: "Siamo a metà strada". "Siamo arrivati a metà strada - ha detto il Procuratore di Bergamo, Massimo Meroni - nel senso che questa è una sentenza di primo grado, è stata un’inchiesta difficile e la collega Ruggeri è stata fantastica". E sulla prova del Dna - terreno di scontro tra accusa e difesa durante buona parte delle 45 udienze - è stata "decisiva". Amareggiato, invece, è Claudio Salvagni, legale dell’imputato: "Siamo veramente convinti della sua innocenza, 45 udienze non hanno restituito nessuna prova a suo carico". Poi ha annunciato uno scontato ricorso in Appello. La madre Ester Arzuffi e la gemella di Bossetti sperano che nei successivi gradi di giudizio "l’innocenza di Massimo venga acclarata". Il ritrovamento. Le indagini sull’omicidio della tredicenne sono cominciate per davvero il 26 febbraio del 2011. Erano le 15.15, nella frazione Chignolo d’Isola (distante pochi chilometri dal luogo della sparizione, Brembate Sopra), quando un aeromodellista che non trovava il suo aeroplanino, si imbatté nel cadavere in stato di avanzata decomposizione. Era in un campo vicino a una zona industriale. Una visione che - dirà poi - non lo fece dormire per giorni. Quel cadavere ha parlato e ha restituito del liquido organico, la traccia genetica del muratore, ha detto in seguito la Procura. Tanto che alcuni poi definirono quella traccia ‘la vendetta di Yarà. Il ritrovamento era avvenuto a 300 metri dal comando della polizia municipale dell’Isola Bergamasca, che era proprio il centro di coordinamento delle ricerche. Per giorni le persone assediarono la zona, chi portando fiori e biglietti con pensieri e preghiere, chi per scattare macabri selfie su un’area aperta al pubblico sin dal giorno dopo e poi riaperta e richiusa più volte. Il 26 maggio, tre mesi esatti dopo, Yara venne riconsegnata alla famiglia, per riposare finalmente in pace. Il dna. È stata la prova regina del processo, come ha riconosciuto anche il Procuratore di Bergamo. Il gip che decise più volte che Bossetti doveva rimanere in carcere, Ezia Maccora, l’aveva definita "ottima". Nel fascicolo processuale è la "31G20" e fu trovata sugli slip e sui leggings di Yara. È attraverso questa che si è risaliti prima a Ignoto 1, in seguito all’autista di autobus scomparso nel 1999, Giuseppe Guerinoni e, infine, alla madre di Bossetti, Ester Arzuffi (che ha sempre negato relazioni extraconiugali). La difesa ha sempre contestato la mancata corrispondenza tra il Dna nucleare, attribuito a Bossetti, e quello mitocondriale nella traccia la cui appartenenza non è stato possibile stabilire, il giudice Maccora era stato tranciante e così l’accusa e parti civili nel corso del processo: "Quel che conta è il Dna nucleare, che, stando agli esami scientifici, è di Bossetti". Sul Dna, comunque, è stata battaglia campale. Un destino segnato da tre donne. Gli investigatori non vanno a caccia di madri o mogli infedeli. Ma ha ruotato attorno a questi aspetti, così intimi e personali nella vita di un uomo, la vicenda processuale di Bossetti. Costretto a scoprire di essere nato da una relazione extraconiugale (mai ammessa dalla madre) e a vedersi sbattuti in faccia i tradimenti della moglie (negli anni successivi però al 2010). Un’altra donna ha avuto un ruolo fondamentale, la pm Letizia Ruggeri. Mentre sullo sfondo è rimasta la più silenziosa, distrutta dal suo dolore, Maura, la mamma di Yara. Garlasco, la difesa di Stasi verso il ricorso alla Corte Europea contro la condanna La Repubblica, 2 luglio 2016 Il pool di difensori dell’ex bocconiano sta esaminando le motivazioni in base alle quali la Cassazione ha reso definitiva la pena di 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi. La difesa di Alberto Stasi sta valutando di presentare un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro la sentenza con cui la Cassazione lo scorso dicembre ha confermato la condanna dell’ex studente bocconiano a 16 anni di carcere per l’omicidio dell’allora sua fidanzata Chiara Poggi, uccisa nella sua villetta di Garlasco (Pavia) il 13 agosto 2007. Lo ha annunciato il professor Angelo Giarda, che guida il pool difensivo di Stasi, ribadendo che dalle carte dell’indagine, lette e rilette, "non c’è una prova che porti a Stasi. Ora stiamo studiando le motivazioni", depositate dai giudici della Suprema Corte il 21 giugno. Da quella data i legali hanno 180 giorni di tempo per depositare l’eventuale ricorso a Strasburgo. Almeno sulla carta, sul tavolo ci sarebbe anche un’altra opzione: quella della revisione del processo. Una strada percorribile solo sulla base di "nuovi elementi o nuove prove" finora non emersi. Tutto sarà deciso dopo un’approfondita e minuziosa analisi delle motivazioni da parte della difesa. Secondo i giudici della Cassazione che hanno confermato la condanna già inflitta all’ex bocconiano nel processo d’appello bis, Stasi è colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio". I suoi difensori sono convinti dell’esatto contrario e si giocheranno tutte le carte rimaste a loro disposizione nel tentativo di dimostrarlo. "Ho la speranza - ha spiegato Giarda - che chi ha commesso quel delitto, chiunque esso sia, faccia un errore o un passo falso", cosa che "dovrà prima o poi accadere". I camper anti femminicidio in viaggio nelle province italiane di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 2 luglio 2016 Il drappo rosso sventola da una finestra di Montecitorio. È il simbolo della lotta contro la violenza sulle donne. "E lì resterà fino a quando tutto questo non sarà sconfitto", spiega con forza la presidente della Camera Laura Boldrini, testimonial ieri dell’iniziativa della polizia "Questo non è amore": 14 camper da oggi circoleranno il primo e il terzo lunedì del mese, fino a settembre, per altrettante province (Sondrio, Brescia, Bologna, Arezzo, Macerata, Roma, L’Aquila, Pescara, Matera, Campobasso, Cosenza, Palermo, Siracusa e Sassari) con lo scopo di "avvicinare in questa prima fase del progetto le potenziali vittime di abusi e maltrattamenti, mettendo loro a disposizione psicologi e investigatori delle Squadre mobili", sottolinea il capo della polizia Franco Gabrielli, mentre il responsabile del Viminale Angelino Alfano snocciola i dati: "Nel primo semestre 2016 calo del 22% degli omicidi di donne, del 23% delle violenze sessuali e del 23% dei maltrattamenti. Ma non ci basta". Fra le esponenti politiche che hanno visitato il camper destinato a Roma anche il ministro per le Pari opportunità Maria Elena Boschi e la sindaca Virginia Raggi: sorridenti, si sono strette la mano appena salite sul veicolo della polizia, fugando subito le polemiche seguite al loro primo, freddo incontro. Per venti minuti si sono trattenute sul camper dove la funzionaria della Mobile romana Alessandra Schillirò ha spiegato loro, e al prefetto Paola Basilone, come si svolgerà l’assistenza alle donne. L’investigatrice è la stessa che ha catturato il killer di Sara, uccisa dall’ex fidanzato alla Magliana. "In una società avanzata - aggiunge Boldrini - anche un solo femminicidio è troppo, non possiamo abituarci a un fenomeno tanto odioso. Chiedo a tutti di ribellarsi e dire no alla violenza". Per la Boschi "è importante cogliere i primi segnali", mentre per la Raggi "bisogna puntare sulla prevenzione nelle scuole". Mafia Capitale, le nuove complicità politiche di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 luglio 2016 Una nuova lista di 28 indagati destinati a diventare presto imputati chiude il terzo filone d’indagine su "Mafia Capitale", nella quale spiccano un paio di esponenti politici del Partito democratico e un ex carabiniere già in servizio al Quirinale. Tutti accusati di essersi fatti corrompere da Salvatore Buzzi, chi per pilotare l’assegnazione delle appalti a vantaggio delle sue cooperative, chi per ottenere informazioni sulle inchieste in corso. E resta, per Buzzi e la sua ex segretaria Nadia Cerrito, "l’aggravante di aver agito al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso diretta da Massimo Carminati", a conferma che tutto rientra nel quadro generale della inedita e più grave contestazione che sta animando le udienze del maxiprocesso in corso nell’aulabunker di Rebibbia. Il nome più altisonante di questa nuova tornata è quello dell’ex capogruppo del Pd alla Regione Lazio, e fino a ieri presidente della Commissione bilancio dell’ente (s’è dimesso e sospeso dal partito dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione indagini), Marco Vincenzi. I pubblici ministeri lo accusano di aver "posto in essere specifici atti contrari ai doveri d’ufficio" con due emendamenti che avrebbero consentito alle cooperative di Buzzi "di superare le difficoltà per accaparrarsi le risolve economiche", grazie a un milione e 200 mila euro di finanziamenti regionali messi a disposizione dei Municipi e dei Comuni; in cambio di 10 mila euro di finanziamenti alla candidata sindaco nel Comune di Tivoli. Che, ribatte Vincenzi, giunsero attraverso un bonifico tracciabile, dunque niente di illecito; ma i pm la vedono diversamente. L’ex capogruppo del Pd al Consiglio comunale nell’era Marino, Vincenzo D’Ausilio, avrebbe ricevuto "almeno 50 mila euro (su una promessa di 130 mila) per ottenere il pagamento di debiti fuori bilancio e "facilitare sul piano politico-istituzionale" l’aggiudicazione di alcune "procedure negoziate" da parte del Comune. L’ex consigliere regionale democratico Eugenio Patanè, invece, avrebbe intascato 55 mila euro di finanziamento illecito da parte di cooperative riconducibili sempre a Salvatore Buzzi. L’elenco degli inquisiti per i quali è prossima la richiesta di rinvio a giudizio comprende altri nomi già inclusi nel filone principale, dallo stesso Buzzi a Luca Odevaine (ancora in attesa di definire il patteggiamento sul quale è stato chiuso l’accordo tra pm e avvocati). Infine c’è il carabiniere in congedo Giampaolo De Pascali, già in servizio alla Sovrintendenza servizi di sicurezza del Quirinale, pedinato e intercettato mentre s’incontrava con Carminati e Buzzi, dal quale "riceveva somme di denaro" in cambio di informazioni su una gara d’appalto e sui "procedimenti penali pendenti". Un altro tassello delle complicità in ambienti istituzionali di cui si sarebbe avvantaggiata la presunta associazione mafiosa. Foto segnaletiche con l’avvocato di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 2 luglio 2016 Esaminato il dlgs sulle garanzie nel procedimento penale, che Strasburgo ha già modificato. Garanzie di difesa piena (presenza obbligatoria del difensore) anche per l’individuazione di persone e diritto di nomina di un avvocato di altro stato europeo in caso di mandato d’arresto Ue. È quanto prevede lo schema di decreto legislativo che recepisce la direttiva 2013/48/UE sulle garanzie nel procedimento penale, esaminato in via preliminare dal consiglio dei ministri del 30 giugno 2016. L’incremento delle garanzie difensive comprende anche l’obbligo di dare specifici avvisi all’arrestato circa la prerogativa di nomina un difensore dello stato europeo di emissione del mandato di arresto. Individuazione con garanzie. Lo schema di decreto in commento estende all’individuazione di persona le garanzie già previste in caso di interrogatorio, ispezione o confronto. Questo significa che deve essere presente un difensore, che deve essere previamente avvisato. L’individuazione è un atto investigativo atipico, che può consistere, per esempio, nel sottoporre una serie di fotografie alla persona informata sui fatti. L’individuazione si differenzia dalla ricognizione di persone è atto tipico specificamente disciplinato dal codice di procedura penale (articoli 213 e 214) e vale come prova consistente nel riconoscere una persona o una cosa. Lo schema di decreto legislativo in commento non si propone di integrare le disposizioni sulla ricognizione, in quanto tale atto avviene davanti al giudice, con la presenza necessaria del difensore che deve essere previamente avvisato. Nomina difensore europeo. L’autorità giudiziaria dello stato europeo di emissione del mandato d’arresto europeo, senza indebito ritardo, dopo essere stata informata che una persona ricercata desidera nominare un difensore nello stato di emissione, deve fornire informazioni alla persona ricercata per agevolarla nella nomina di un difensore. Per esempio deve fornire l’elenco aggiornato dei difensori oppure il nome di un difensore di turno nello stato di emissione in grado di fornire informazioni e consulenza in casi connessi al mandato d’arresto europeo. Avvisi all’arrestato. Lo schema di decreto legislativo garantisce al soggetto colpito da mandato di arresto europeo il diritto di ricevere l’avviso della facoltà di nominare un difensore anche nello stato membro di emissione. Il difensore europeo avrà il compito di assistere il difensore nominato nello stato membro di esecuzione, fornendogli informazioni e consulenza ai fini dell’effettivo esercizio dei diritti della persona ricercata. L’autorità dello stato europeo di emissione, ricevuta notizia della volontà dell’arrestato di nominare un difensore anche nel procedimento nell’ambito del quale il mandato d’arresto europeo è stato emesso, dovrà adoperarsi a fornire ogni utile informazione al fine di rendere effettiva la facoltà esercitata. L’omissione della informazione sul diritto di nominare un difensore europeo comporta una violazione dei diritti della difesa, integrando una nullità di ordine generale, sotto il profilo della mancata assistenza e rappresentanza dell’imputato. Trojan horses a utilizzo ampio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2016 Nelle motivazioni l’autorizzazione al "captatore informatico" per svolgere le indagini Spazio a una nozione di crimine organizzato esteso alle attività più diverse. Meno vincoli alle intercettazioni sulla criminalità organizzata. Che possono avvenire anche attraverso "captatori informatici" (virus con i quali infettare tablet, smartphone, computer) e nelle dimore private. Senza che il decreto di autorizzazione riporti il dettaglio dei luoghi nei quali le operazioni di ascolto possono essere effettuate. E poi: via libera a una nozione di criminalità organizzata ampia, non circoscritta ai reati elencati nell’articolo 51 commi 3 bis e 3 quater del Codice di procedura penale. Sono questi i due fondamentali principi di diritto fissati dalle 34 pagine della sentenza delle Sezioni unite penali della Cassazione n. 26889 depositata ieri. La pronuncia sdogana a tutti gli effetti i cosiddetti trojan horses nelle indagini per reati di criminalità organizzata. A venire sottolineata dalle Sezioni unite è infatti la peculiarità di questo tipo di investigazioni per le quali già il legislatore, sia pure in un’epoca in cui la tecnologia non aveva ancora raggiunto il livello attuale di efficacia e di capacità intrusiva, ha escluso, per le intercettazioni tra presenti in luoghi di privata dimora, la necessità dell’autorizzazione "canonica", fondata sul requisito del "fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa". Sul punto, le Sezioni unite mettono in evidenza come in questo modo sia stato effettuato un bilanciamento di interessi che prevede una limitazione più profonda della segretezza delle comunicazioni e della tutela del domicilio, tenuto conto della pericolosità e gravità per la collettività di questa categoria di reati. E allora, venuta meno la limitazione per i luoghi di privata dimora prevista dal Codice di procedura, l’installazione del captatore informatico in un dispositivo itinerante, con un provvedimento di autorizzazione motivato e nel rispetto delle disposizioni generali in materia di intercettazioni, "costituisce una delle naturali modalità di attuazione delle intercettazioni al pari della collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora". Una conclusione che le Sezioni unite ritengono poi assolutamente in linea con la disciplina internazionale e, in particolare, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’interpretazione datale dalla Corte di Strasburgo: quest’ultima ha spiegato come non sia necessario che il provvedimento di autorizzazione alle intercettazioni indichi i luoghi di svolgimento degli ascolti. Se poi, come detto, la differenza quanto a requisiti e tipologia di intercettazioni, sta nella categoria dei reati per i quali si procede, allora il passo successivo delle Sezioni Unite punta a individuare con certezza i delitti di criminalità organizzata. La sentenza sposa un concetto assai esteso comprendendo nei reati di criminalità organizzata non solo quelli di criminalità mafiosa e quelli associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma qualsiasi tipo di associazione per delinquere, determinata sulla base dell’articolo 416 del Codice penale, collegata alle attività criminali più diverse. Con la sola esclusione del concorso di persone nel reato, nel quale a mancare è proprio il requisito dell’organizzazione. Anche in questo caso, la soluzione, avvertono le Sezioni unite, appare in linea con i riferimenti internazionali, tra i quali la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, recepita dall’Italia, che tra i casi di consegna obbligatoria ha privilegiato il generico riferimento alla condotta di "partecipare ad un’associazione di tre o più persone finalizzata alla commissione di più delitti". Uno scontro in procura fa notizia? Non in Italia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 2 luglio 2016 La notizia che il capo di una procura "striglia" i suoi vice e li accusa di "protagonismo" - dicono i vecchi e ormai ignorati manuali di giornalismo ? è un fior di notizia. Così come lo sarebbe la notizia che il premier ha strigliato i suoi ministri. Se si sapesse che Renzi ha mandato a quel paese la Boschi, o Padoan, o la Madia, i giornali riporterebbe la notizia nel titolo più grande della prima pagina. I manuali di giornalismo però in questi anni sono invecchiati parecchio. E così la notizia della sfuriata del dottor Lo Voi (procuratore di Palermo, cioè capo di una delle tre o quattro procure più importanti d’Italia) oggi la conoscono solo i lettori del "Dubbio", perché gli altri giornali l’hanno ignorata o trattata come irrilevante. Non l’hanno ignorata per distrazione o per mancanza di qualità professionali dei capiredattori, ma per una ragione più semplice: il dottor Lo Voi - con una direttiva scritta - invitava i suoi sostituti a smetterla di mettersi in mostra concedendo interviste o passando le veline e le carte riservate ai giornalisti. Ma siccome, ormai da tempo, il giornalismo italiano vive quasi esclusivamente di veline e di carte riservate ottenute da Pm "protagonisti", i giornali hanno pensato che fosse giusto mettere la sordina al caso, visto che se i Pm dessero retta davvero a Lo Voi, e se magari la direttiva di Palermo si estendesse al resto d’Italia, sarebbero guai per tutti. I giornali sarebbero costretti a tornare ai tempi bui di quando le notizie te la dovevi andare a cercare, dovevi diversificare le fonti, e magari era costretto persino a verificarle a cercare riscontri. E un’eventualità del genere è vista come un incubo dall’intero giornalismo italiano. E anche dagli editori. È molto difficile aprire una discussione seria sull’involuzione che il giornalismo italiano ha subito negli ultimi 25 anni, trasformandosi da strumento di informazione in "servizio di portavoce", e diventando probabilmente il meno attendibile e il più scadente giornalismo di tutto l’occidente. Vogliamo parlarne? Magari tutti sono disposti ad ammettere che il nostro è il peggior giornalismo dell’occidente, purché si riconosca che la causa "unica" di questo decadimento è la concentrazione delle testate, e cioè lo strapotere di Berlusconi. E che i giornalisti sono innocenti. E invece no. Certamente la concentrazione delle testate è un problema (e non è causato però dal solo Berlusconi: si è parlato pochissimo, per esempio, della alleanza De Benedetti-Fiat, cioè Stampa-Repubblica, avvenuta recentemente) ma non è il problema principale. Il problema numero uno è la "concentrazione delle fonti". Perché la concentrazione delle fonti porta necessariamente al travisamento della realtà, e quindi uccide l’informazione e la libertà di informazione. Dentro il fenomeno della concentrazione delle fonti c’è lo strapotere della "fonte" magistratura (anzi: Procura). Beh, di questo nessuno vuole discutere. E la Procura viene presa come fonte sacra non solo per le notizie, ma anche per le teorizzazioni. Se i Pm (o magari la loro associazione di categoria, e cioè l’Anm) sostengono che bisogna abolire la prescrizione, allora i giornali dicono che va abolita la prescrizione. Se dicono che la prescrizione è colpa degli avvocati, allora è colpa degli avvocati. L’altra sera ho partecipato a un dibattito sulla giustizia a Viterbo (organizzato dagli ordini degli avvocati del Lazio, nell’ambito della manifestazione culturale "Caffeina", che da una decina d’anni si svolge tutti i mesi di giugno per un paio di settimane). Con me c’era un giornalista del "Fatto Quotidiano", bravo e prestigioso: Fabrizio D’Esposito. E poi c’era il presidente del Cnf (Consiglio nazionale forense) Andrea Mascherin. È stata una discussione seria, pacata, nella quale ciascuno i noi ha cercato di aprire un dialogo vero, seppure da posizioni distanti. D’Esposito è un intellettuale laico e senza pregiudizi. E infatti, per esempio, ha riconosciuto la saggezza delle nostre posizioni sull’eccesso di carcerazione preventiva, e persino sull’assurdità di tenere in cella per 1000 giorni, senza processo, l’ex deputato Nicola Cosentino. Però a un certo punto anche lui ha rimproverato gli avvocati per la loro abitudine di tirare per le lunghe i processi, con manovre dilatorie, allo scopo di ottenere non l’assoluzione ma la prescrizione. Mascherin gli ha lanciato una sfida: "Se tu mi citi una sola tecnica dilatoria in mano agli avvocati, utile per mandare per le lunghe i processi, io ti do ragione e me ne sto zitto per tutta la sera. Ma tu non puoi citarmela, perché non esiste. Eppure tu, in perfetta buonafede, hai usato una leggenda metropolitana per dimostrare una tesi. Chi ha diffuso questa leggenda metropolitana e chi ha permesso che diventasse senso comune e dunque verità acclarata, sebbene sia una falsità acclarata?". È inutile che vi dica che Mascherin, senza infrangere l’impegno, ha potuto continuare a parlare per tutta la serata... Ecco: questo è un esempio perfetto della subalternità dei giornali alle Procure e del danno che questa subalternità procura al giornalismo e a quello che Pannella chiamava il "diritto alla conoscenza". Chissà se un giorno si potrà parlare pubblicamente di questi problemi, magari non solo sulle pagine del "Dubbio". E magari coinvolgendo nella discussione anche i magistrati, e anche i giornalisti di tutti i giornali. Abruzzo: tour del sottosegretario Chiavaroli nelle carceri "non c’è sovraffollamento" abruzzolive.it, 2 luglio 2016 A conclusione del tour effettuato nelle case circondariali abruzzesi (manca solo il carcere di Avezzano), il sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli sostiene che "possiamo andare orgogliosi della situazione della regione perché nelle carceri non c’è sovraffollamento" mentre non si possono negare le "carenze di personale in tutti gli istituti". Chiavaroli, a margine del protocollo d’intesa firmato oggi a Pescara tra Inps e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise, ha sottolineato con forza "l’impegno del personale, grazie al quale abbiamo ovunque degli esempi di buone pratiche che potremmo raccontare". Esaminando le singole situazioni Chiavaroli ha parlato, ad esempio, del carcere di Lanciano dove "Valerio D’Orsogna ha aperto un laboratorio della sua impresa dolciaria. Lì dentro, ha spiegato, lavorano in quattro, che sono assunti e pagati e, una volta fuori dal carcere, lavoreranno nell’impresa. Io mi auguro, ha detto il sottosegretario, che ci saranno altri Valerio D’Orsogna che decideranno di spendere in questo modo una parte della propria responsabilità sociale d’impresa". A Pescara, ha continuato, c’è invece una "calzoleria, esempio unico in Italia, a Teramo sono stata colpita dalla sezione per le detenute, dove le donne possono stare con i figli mentre a Vasto sono state create delle celle che hanno una zona giorno e una zona notte. A L’Aquila, ha proseguito, c’è una delle strutture più impegnative con 147 persone sottoposte a 41bis: ci sono delle criticità diverse, in quel posto è più difficile lavorare per cui ringrazio due volte chi è occupato in quella struttura. Certo, ha aggiunto, tutto si può migliorare", ma per quanto riguarda il sovraffollamento "l’Abruzzo è un’isola felice", ha detto a questo proposito il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino. "In questa regione ci sono meno problemi anche se è vero che esistono delle carenze di personale in tutti gli istituti e le politiche di spending review non ci permettono di incrementare gli organici. Anzi il personale che va in pensione è sempre di più". Le carenze economiche non sono un problema da poco: "i fondi sono sempre meno ma dobbiamo cercare di andare avanti come farebbe una buona madre di famiglia", ha concluso Calandrino. Marche: progetto regionale "Il giornale in carcere", per reintegrare i detenuti marchenotizie.info, 2 luglio 2016 Sottoscritta una convenzione per favorire la nascita di testate che si occupino della vita nei penitenziari. Un’iniziativa che si rinnova, con l’obiettivo di consolidare e rafforzare le esperienze maturate. Il Garante dei diritti, Andrea Nobili, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per Emilia Romagna e Marche, Ilse Runsteni, ed il Presidente dell’Ordine regionale dei giornalisti, Dario Gattafoni, hanno sottoscritto la convenzione per il progetto "Il giornale in carcere", già sperimentato positivamente in alcuni penitenziari marchigiani. Secondo Nobili si tratta di "un’importante attività di reintegrazione per i detenuti, chiamati a raccontarsi ed a produrre informazioni sulle dinamiche della vita in carcere, agendo in modo collettivo, così come richiede la realizzazione di un giornale. Un ulteriore ponte verso l’esterno, che intende rafforzare il loro recupero e fornire nuove opportunità per il futuro". Il panorama attuale annovera le testate "Fuori Riga" (Montacuto), "Penna libera tutti" (Villa Fastiggi di Pesaro), "Mondo a Quadretti" (Fossombrone), "Io e Caino" (Marino del Tronto), "L’Altra Chiave News" (Fermo), contenitori in grado di raccogliere storie di vita, valutazioni e riflessioni sulle condizioni dei penitenziari, pubblicizzazione delle iniziative per favorire il recupero dei detenuti, poesie, lettere, interviste e disegni. Per tutte queste esperienze, portate avanti anche grazie al lavoro di volontariato di alcuni giornalisti, risposte positive sia all’interno che all’esterno del carcere. Con l’avvio del nuovo progetto viene contemplata la possibilità di estendere esperienze analoghe ad altri istituti di pena delle Marche, attraverso la creazione, come proposto dall’Ordine dei giornalisti, di un gruppo di specialisti, con adeguata formazione sulle problematiche delle marginalità sociali. "Questa Autorità di garanzia - conclude Nobili - intende promuovere tutte quelle iniziative dedicate al mondo carcerario che siano caratterizzate da una significativa valenza culturale, con interventi educativi e formativi di sensibilizzazione alla lettura, alla scrittura ed allo sviluppo delle potenzialità creative ed espressive dei detenuti". Emilia Romagna: Garante detenuti; aggiornamento della "guida informativa" sul carcere Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2016 La nuova edizione del prontuario sulla normativa di riferimento è ora tradotta in cinque lingue e viene distribuita dentro e fuori gli istituti penitenziari. L’Ufficio del Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna ha curato l’aggiornamento di una guida informativa, la cui prima edizione è stata elaborata nel 2013. Si tratta di un servizio disponibile per tutti i cittadini interessati alle questioni carcerarie, e in particolare per i detenuti, familiari, volontari, mediatori e operatori penitenziari. Nei propositi della Garante, Desi Bruno, questo strumento divulgativo potrà aiutare le persone ristrette, italiane e straniere, e le diverse figure professionali e volontarie, che a vario titolo se ne occupano, a far superare loro le difficoltà di comprensione della realtà in cui si trovano inserite e ad esercitare le possibilità di tutela loro riconosciute dall’ordinamento che va attuato. Si tratta di un servizio In questo modo, alla privazione della libertà personale potrà non accompagnarsi la perdita di altri diritti, tra cui quello di essere informati sulle opportunità di studio, di formazione e di occupazione. L’ultima versione di tale opuscolo è aggiornata a marzo 2015 ed è stata tradotta dall’italiano in altre cinque lingue: albanese, arabo, inglese, francese e spagnolo. Come già avvenuto per l’edizione italiana, il prontuario nelle altre lingue disponibili sarà distribuito presso tutti gli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna, grazie alla collaborazione del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e della Conferenza regionale volontariato giustizia. La versione in italiano e nelle cinque lingue tradotte sono disponibili on line al link: http://www.assemblea.emr.it/garanti/attivita-e-servizi/detenuti/attivita/promozione/progetti/carcere-e-dintorni/carcere-e-dintorni Tempio Pausania: Sdr; in arrivo la nuova direttrice del carcere di Nuchis Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2016 "È in programma lunedì 4 luglio nel carcere di Nuchis-Tempio Pausania l’insediamento del nuovo responsabile dell’Istituto. È una donna. Si tratta di Carla Mauro, già vice direttrice a Santa Maria Capua Vetere (Caserta), che ricoprirà l’incarico, con trattamento di missione, per almeno sei mesi. Una prima buona notizia, in attesa che per colmare il grave vuoto ai vertici di ben 5 dei 10 Istituti Penitenziari isolani prendano servizio, nelle prossime settimane, gli altri quattro Direttori individuati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo appreso che "sono stati assegnati, pur con qualche difficoltà, i posti vacanti". "Benché si tratti di un provvedimento soltanto temporaneo - sottolinea Caligaris - si tratta di un primo significativo passo che attesta la concreta volontà del Ministro della Giustizia Andrea Orlando di voler affrontare la questione Sardegna con determinazione. La presenza dei nuovi Direttori avviene peraltro in un momento particolarmente delicato. Attualmente infatti sono iniziate le ferie di tutto il personale e come sempre i Direttori di ruolo in servizio si devono far carico di due o tre Istituti potendo in tal modo garantire il diritto alle ferie dei colleghi. È però evidente che dentro le diverse strutture possono far fronte soltanto all’ordinario". "In Sardegna del resto solo il responsabile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, con attualmente oltre 600 detenuti ma con una capienza tollerabile di 950, ha - ricorda la presidente di SDR - un incarico in esclusiva. Mancano all’appello però due Vice Direttori, benché previsti nell’organico in considerazione del numero di ristretti. Gli altri quattro dirigenti invece devono barcamenarsi con almeno due Istituti. La situazione più difficile è quella di Sassari-Bancali la cui direzione è attualmente abbinata alla sede di Badu e Carros a Nuoro. Le strutture senza responsabile, oltre a quella nuorese, sono le colonie penali di Is Arenas e Mamone e il "San Daniele" di Lanusei". "Insomma sembra delinearsi una svolta importante per l’isola che soprattutto negli ultimi tempi appariva abbandonata a se stessa. Ora l’auspicio è che l’incarico - conclude Caligaris - possa essere confermato superando la "precarietà" della missione. Non sarà facile all’inizio per i nuovi direttori trasferirsi in un’isola dove i disagi non mancano. Siamo però convinti che la proverbiale ospitalità dei sardi possa diventare un forte incentivo per restare". Modena: "personale lasciato solo", il 6 luglio protesta sindacati di Polizia penitenziaria Ansa, 2 luglio 2016 Tutte le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria protesteranno davanti al carcere di Modena mercoledì 6 luglio per denunciare "una situazione ormai ingestibile, a causa di una totale assenza di guide autorevoli; il personale è lasciato solo, senza adeguati punti di riferimento". Lo comunicano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale, spiegando che "lo scorso 29 giugno, verso le ore diciotto, presso la casa circondariale di Modena si sono verificati gravi disordini, al punto da mettere in crisi la sicurezza dell’intera struttura". Un detenuto di origine magrebina - dice il sindacato - si è auto-lesionato in maniera piuttosto grave e dieci suoi connazionali, dopo essersi rifiutati di rientrare nelle camere detentive, hanno danneggiato i beni dell’amministrazione, avendo rotto i vetri delle finestre e le plafoniere. "Nello stesso momento un altro detenuto, ristretto nella sezione osservazione, perché ritenuto soggetto a rischio suicidario, metteva in atto un tentativo di impiccagione e veniva salvato dal pronto intervento della polizia penitenziaria. Tutto questo è avvenuto in un momento in cui l’organico è ulteriormente ridotto, a causa del piano ferie in atto", aggiunge il Sappe. Frosinone: pronti i primi diplomi per i detenuti della Casa circondariale Il Messaggero, 2 luglio 2016 Il carcere deve e può riabilitare. Con questa finalità, sottesa alla istituzione del primo corso professionale per Manutentori tenuto dalla sezione carceraria dell’Ipsia di Frosinone, si stanno per diplomare i primi quattro detenuti della sezione massima sicurezza della Casa Circondariale di Frosinone, che giovedì scorso hanno sostenuto la prova orale, quella conclusiva degli esami di stato, per il conseguimento del Diploma. L’importanza dell’evento è stata sottolineata dalla presenza del Vicario dell’Ufficio Scolastico Provinciale, Dott. Pierino Malandrucco che, unitamente al Dirigente Scolastico dell’IIS Bragaglia, Prof. Fabio Giona, ha voluto far sentire agli esaminandi la presenza della Istituzione scolastica in questo particolare momento della loro, comunque non facile, esistenza. Ad accogliere i rappresentanti delle istituzioni scolastiche, la direttrice della casa Circondariale di Frosinone, Dott. Luisa Pesante e la Dott.ssa Filomena Moscato, coordinatrice dell’Area Educativa dell’Istituto di via Cerreto. I quattro studenti hanno compiuto l’ultimo atto del percorso scolastico durato cinque anni, si sono presentati sensibilmente emozionati davanti alla Commissione d’Esame e, se tutto andrà bene, come ci si auspica, potranno fregiarsi del titolo di studio, primi in assoluto nella Casa Circondariale di Frosinone. Presente alla loro prova il Dott. Malandrucco il quale si è congratulato con gli esaminandi "per aver raggiunto questo primo importante traguardo nell’auspicio che ne presupponga ancora altri, anche nel campo degli studi". "È stato un momento importante per la nostra Istituzione e per l’intera provincia - ha spiegato la dottoressa Pesante, direttrice della Casa Circondariale di Frosinone -, con i nostri studenti che hanno concluso un percorso di studi e di crescita umana, che li porterà a conseguire un diploma molto importante, che può rappresentare anche solo una tappa per la prosecuzione degli studi, finalizzando anche quello che è uno dei compiti più importanti della nostra istituzione". "L’Istruzione ha un valore fondamentale per il reinserimento dei detenuti nella società - ha sottolineato la dottoressa Filomena Moscato, responsabile dell’Area Educativa della Casa Circondariale -, quindi bisogna insistere con l’istruzione perché lancia un messaggio educativo importate: il carcere non reprime, ma opera per la riabilitazione". Sulla stessa lunghezza d’onda il messaggio lanciato dal Dirigente Scolastico dell’I.I.S. Bragaglia, Prof. Fabio Giona, il quale ha ribadito come: "Il completamento di questo percorso di studi è un motivo di orgoglio, nel quale voglio sottolineare i grandi meriti dei nostri docenti della "sezione carceraria" che da anni spendono la loro professionalità per far si che questi particolari studenti possano avere, con questo percorso di studi, ancora un progetto di vita basato in concreto sul conseguimento di un titolo di studio, quello di Manutentore appunto, che permette grande spendibilità nel mondo del lavoro, finalizzando il compito di reinserimento che l’Istituzione carceraria deve avere". Un momento storico, che rappresenta anche un traguardo per la scuola e per l’istituzione carceraria, sognato quasi dieci anni or sono, quando fortemente voluto dall’allora dirigente scolastico dell’Ipsia, Prof. Giovanni Carlini, partì il progetto della sezione carceraria, e che si sta realizzando tagliando questo primo importante traguardo. Trento: il saluto del vescovo Tisi a un carcere "ex modello" di Matteo Ciangherotti Il Trentino, 2 luglio 2016 Ieri nella Casa circondariale di Spini di Gardolo si è svolta la cerimonia della polizia penitenziaria. Troppi detenuti a fronte di pochi agenti. "Passerò la notte di Natale in carcere. Il mio desiderio è di entrare e incontrare questa umanità. Scegliete voi i tempi e i modi, ma la vigilia del Natale e il pomeriggio di Pasqua vorrei celebrare la messa qui con voi". Parola del vescovo di Trento, Lauro Tisi, che ieri mattina nella Casa circondariale di Spini di Gardolo ha celebrato la messa in onore di San Basilide, il patrono della polizia penitenziaria. Ad ascoltare monsignor Tisi, in prima fila, tra le autorità, c’erano anche il direttore del carcere Valerio Pappalardo e il sindaco di Trento Alessandro Andreatta. Subito dietro, il neo comandante, già vice, della polizia penitenziaria Daniele Cutugno. "Sorreggici nel nostro difficile compito di aiutare chi ha sbagliato. Benedici i nostri cari, le famiglie e coloro che ci sono stati affidati". Così recitava la preghiera della polizia penitenziaria. Una "festa" che, però, è servita a ricordare anche la difficile situazione in cui si trova il carcere di Trento. Da tanti, definito troppo frettolosamente, "carcere modello", ci sono in realtà i numeri a raccontare tutta un’altra storia. "Le condizioni in cui operiamo sono difficili e le attuali disposizioni carcerarie non ci forniscono certezze di carattere organizzativo - ha detto il direttore Pappalardo; molte delle problematiche che dobbiamo affrontare quotidianamente non trovano risposte nei regolamenti". A spiegare nel dettaglio le condizioni difficili in cui è costretta ad operare la polizia penitenziaria è stato il neo comandante Daniele Cutugno. "Attualmente in servizio ci sono 130 agenti quando secondo la pianta organica dovremmo essere 214. Su 240 detenuti, numero concordato secondo l’intesa Governo-Provincia, ne abbiamo, invece, in custodia 320. Chiaramente, con questi numeri si fa sempre più fatica. I riposi saltano, non si riescono a coprire tutti i turni e in questa situazione si mette a repentaglio la sicurezza". Parole amare, ma realistiche. E quando a Cutugno si fa notare come Trento fosse considerato un carcere modello, il commissario scuote il capo: "A Verona su 350 detenuti ci sono circa 300 colleghi, faccia lei le dovute proporzioni. Il prossimo anno almeno una decina di agenti andrà in pensione, secondo lei verranno sostituiti? Neanche per sogno. Ogni giorno su 56 unità che dovrebbero prendere servizio, ne abbiamo 52 operative. Lavoriamo di più per sopperire. Facciamo 8 ore su 6 giorni, invece che le 6 ore previste". Circa il 75% dei detenuti sono extracomunitari e sussiste, perciò, in partenza, un forte problema di comunicazione dovuto alla lingua. "Molti di essi - spiega Cutugno - soffrono di malattie psichiatriche e la gestione, in questi casi, è estremamente difficile e delicata. Purtroppo, tanti trattamenti sanitari obbligatori partono da qui. Alcuni protestano tramite lo sciopero della fame, su cui noi non possiamo in alcun modo intervenire essendo l’esercizio di un diritto, almeno fino a quando non si perde la volontà e la capacità di decidere. Sono aspetti dove una gestione ottimale non può spettare solamente agli agenti di polizia penitenziaria, ma è necessario un approccio globale, sociosanitario. Per esempio, in questo senso però, il sostegno psicologico non è previsto". "Quando è stato aperto l’istituto - conclude Cutugno -, eravamo 80 unità in più e 80 detenuti in meno". Storie di provenienza di un ex "carcere modello". Prato: spedizioni punitive di cinesi contro nordafricani accusati di furti La Repubblica, 2 luglio 2016 L’inchiesta della procura di Prato. Nove perquisizioni nei capannoni: trovate mazze da baseball e bastoni di ferro. Nel mirino l’associazione "La Città del Cervo Bianco". Mazze da baseball e bastoni di ferro realizzati con scarti edilizi e rivestiti di nastro isolante che dovevano servire da armi per organizzare spedizioni punitive. È quanto sequestrato in alcuni capannoni cinesi dagli uomini della polizia di Prato. Le perquisizioni, due delle quali nelle sedi dell’associazione culturale "La Città del Cervo Bianco", sono scattate questa mattina. Sette cittadini cinesi sono indagati per i reati di associazione per delinquere e atti violenti per motivi razziali. Secondo quanto si apprende, avrebbero organizzato veri e propri raid contro cittadini magrebini e rom ritenuti responsabili di rapine nei confronti della comunità. Il procuratore capo di Prato, Giuseppe Nicolosi, ha parlato di cinque o sei episodi di pestaggi avvenuti nel centro di Prato dall’inizio dell’anno. Tra le persone indagate c’è anche Ye Jiandong, detto Jack o Adong, che secondo gli inquirenti sarebbe il "vero" referente dell’associazione "La Città del Cervo Bianco", presieduta da una sua connazionale risultata estranea all’inchiesta. Secondo Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli, i due pm titolari dell’inchiesta, sarebbe stato proprio Jack ad autorizzare le ronde contro i cittadini nordafricani e i rom accusati dalla comunità cinese di furti. Ye Jiandong è attualmente in regime di semilibertà in quanto sta scontando una condanna a 18 anni per omicidio. L’uomo, tra l’altro, insieme ad alcuni degli altri indagati, era presente anche alla rivolta dei cinesi di due giorni fa all’Osmannoro, nel Comune di Sesto Fiorentino, e ieri davanti al tribunale del capoluogo toscano e poi al consolato cinese. L’associazione "La Città del Cervo Bianco", pochi mesi fa, aveva organizzato la pulizia dei muri di Chinatown. Erano gli angeli del bello della comunità cinese. Tra le persone indagate ci sono anche tre donne: una di loro è Ying Chung Hsiang, 52 anni, detta Susanna, che fa parte del direttivo dell’associazione culturale "La Città del Cervo Bianco" e che sarebbe la zia di Jacopo Hsiang, il 28enne in carcere dal 1 giugno con l’accusa di sfruttamento di prostituzione e spaccio di droga. Indagata anche la compagna di Jacopo, Saimin Zheng, detta Amin, e Mary Li Xiuliao. A compiere materialmente i raid, secondo quanto ricostruito dagli uomini della squadra mobile di Prato, sarebbero stati Jacopo, Yu Yang, detto Matteo e Marco Huang, 27 anni. Per tranquillizzare la comunità cinese e per organizzare i raid venivano utilizzati i social network, in particolare "Weixin", una sorta di Whatsapp. Sulla chat venivano postati anche i video che dimostrerebbero l’attività delle ronde nelle strade della città. E sempre la chat era il mezzo di comunicazione per fissare gli appuntamenti. Gli uomini dell’organizzazione evitavano infatti di parlare per telefono. Ricordando che nell’area pratese i cittadini di origine cinese presenti sono circa 40 mila, il procuratore capo di Prato, Giuseppe Nicolosi, ha ribadito che l’inchiesta non è direttamente collegabile ai fatti di due giorni fa all’Osmannoro. "La giustizia privata, e quindi le ‘rondè, non è e non sarà tollerata" - ha aggiunto, sottolineando come l’operazione che oggi ha portato a nove indagati di origine cinese non è "e non sarà una criminalizzazione della comunità" anche se i fatti avvenuti a Sesto sono "la spia di un’insofferenza contro quei controlli che da anni stiamo facendo per far emergere il lavoro nero, e che stanno dando risultati importanti". Intervista a Edoardo Albinati "quante cose in comune tra me e il mostro del Circeo" di Gaja Cenciarelli Il Dubbio, 2 luglio 2016 Edoardo Albinati è uno scrittore ed è un candidato al Premio Strega con il suo libro "La scuola cattolica" (edizioni Rizzoli). Questo libro è un romanzo? È un saggio? In questa intervista Albinati ci spiega che il suo libro è una "Confessione". E parla di moltissime cose: di scuola cattolica, di borghesia, di delitti, del massacro del Circeo. Edoardo Albinati è scrittore e insegna nel penitenziario di Rebibbia. Il suo libro, La scuola cattolica (Rizzoli), è finalista al Premio Strega. Nel 2002 ha lavorato presso l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati in Afghanistan e nel 2004 è stato in missione in Ciad. Recentemente, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, durante gli incontri con Paolo Mieli (a cura di Paolo Giaccio, Maddalena Maggi e Maria Carolina Terzi), ha dichiarato che a 12 anni tentava di venire a capo dell’insonnia leggendo Edgar Allan Poe. A noi ha confessato che ora il suo problema non è addormentarsi, bensì svegliarsi nel cuore della notte: ma una fortunata combinazione di libri molto lunghi e benzodiazepine ha tamponato questo problema. Partiamo dal titolo: c’è, secondo lei, una relazione tra la scuola cattolica e una certa recrudescenza di razzismi, discriminazioni, violenze? Credo ci siano due ordini di discorso diversi. Uno è quello del mio libro, che tratta personaggi e dinamiche peculiari di certi anni, valido solo letterariamente, almeno spero, e che non equivale ad alcun pronunciamento di tipo sociologico. Il secondo è quello degli istituti privati di ieri e di oggi frequentati di fatto da chi se lo può permettere, cioè da una élite. Questa discriminante sociale ha poco a che fare con l’aspetto religioso in quanto tale. Ed è altrettanto fuori di dubbio che, nella storia, e fino a pochi decenni fa, la Chiesa si sia schierata a parole con i deboli ma con i forti nei fatti, alleandosi naturalmente alle forze conservatrici. D’altro lato, la scuola cattolica è il luogo in cui per eccellenza si dovrebbe insegnare e si insegna esattamente l’opposto del razzismo e della discriminazione. Sicché alla fine, nella realtà, sono quasi solo i preti che aiutano i deboli. Se c’è qualcuno che si dà da fare, oggi, e che si mescola ai poveri, sono proprio loro. Il protagonista del suo libro è Edoardo Albinati, scrive in prima persona e annulla le distanze tra scrittore e lettore, spesso rivolgendosi direttamente al lettore stesso. Il motivo di questa scelta? Oltre che protagonista del libro, ne sono soprattutto il narratore. I personaggi del libro includono chi lo sta raccontando. A volte ho parlato con un io, a volte con un noi. L’appello diretto al lettore mi ha dato l’opportunità di rivivere insieme a lui le sensazioni di fatica e smarrimento e sorpresa: scrittura e lettura del libro procedono in parallelo. È un romanzo? È un saggio? mi si chiede. A tre mesi dall’uscita de La scuola cattolica Mi sembra di aver trovato la definizione più appropriata: questo libro è una confessione. E della confessione ha il carattere diretto, orale ? i lettori insomma sono i confessori, chiamati a condannare o ad assolvere. Non solo me, ma anche loro stessi. Il mio è il racconto dei nostri peccati. Ha un carattere personale, e insieme collettivo. A costo di parere megalomane, i libri più somiglianti come genere sono Le Confessioni di Rousseau e di Sant’Agostino. Ho sempre pensato che la confessione sia il precursore del romanzo, il suo esordio. Sant’Agostino per la prima volta, dopo tanti meravigliosi racconti di eroi e battaglie, ha il coraggio di raccontare la propria anima, i propri sogni, i propri pensieri e desideri e dà inizio al grande romanzo moderno. Ha scritto il libro che voleva o, come accade spesso, la storia e la scrittura l’hanno portata altrove? Io non sapevo affatto che libro volevo. Il libro l’ho raccolto per la strada. Il libro che ho scritto è la ricerca del libro stesso. Avevo la vaga idea di iniziare con l’amicizia tra me e Arbus, poi man mano ho scovato tutti gli altri personaggi. Il massacro del Circeo è stata lo spunto iniziale, quindi si è ridotto a un nucleo radioattivo sepolto nel libro: poche pagine ad alta contaminazione. Rispetto al fatidico 1975, sono tornato indietro di qualche anno e mi sono chiesto quanto fossimo vicini noi e gli assassini. Volevo individuare un minimo comun denominatore, gli indicatori della somiglianza. Angelo Izzo e io abbiamo il novantanove per cento di cose in comune: abitavamo a due passi l’uno dall’altro, vivevamo nello stesso tipo di famiglia, frequentavamo la stessa scuola. Quindi sono andato oltre, rischiando, e ho provato a scrivere della prossimità di qualsiasi maschio, in quanto tale, alla violenza sulle donne. Ho scoperto il fondamento oscuro, rimosso, represso che fa sì che vi sia, nel rapporto tra uomo e donna, un’inclinazione alla violenza, fortunatamente quasi mai portata a segno, ma sempre implicita, sospesa, incombente. Non mi sono inventato niente: le teorie femministe degli anni 70 e poi le riflessioni sull’identità maschile che ne sono seguite dicono proprio questo, io le ho solo utilizzate in un romanzo, e forse in questo sono stato il primo. E ho capito anche come fosse contaminante questo delitto, per tutti quanti, i maschi, le femmine - voglio usare esplicitamente questa connotazione sessuale per definirci - e soprattutto per la gente "perbene", impreparata e convinta che i mostri fossero sempre altrove. Mostri: la parola che assolve da qualsiasi responsabilità... Certo. La società se la cavò con la soluzione più semplice: definirli mostri. Fino ad allora non era mai stato preso in considerazione quanto la natura maschile fosse strutturalmente fragile, impotente, risentita, e proprio per questo tentata di surrogare le proprie manchevolezze con l’uso della violenza. Inadatti a soddisfare i modelli virili proposti, irraggiungibili, alcuni li replicavano in modo feroce e parossistico. Nel mio romanzo rovescio completamente le teorie psicanalitiche che vedono la donna come un essere mutilato, una specie di maschio incompleto, e provo invece a ripercorrere, a partire dall’esperienza diretta dei miei personaggi, la sofferenza tipicamente maschile della mancanza di integrità e la vergogna della debolezza vissuta come una colpa, uno strappo ancestrale. Due donne oltraggiate, stuprate e torturate: c’è un legame, secondo lei, tra il massacro del Circeo e la grande quantità di donne uccise dai propri uomini negli ultimi anni, oppure la matrice è diversa? La matrice è sempre la smania di possesso. Il corpo femminile è solo il teatro anatomico del crimine, l’aspetto sessuale è solo una tappa intermedia che può essere saltato del tutto, come nel duplice delitto commesso da Angelo Izzo nel 2005. L’omicidio diventa un atto estremo e paradossale di possesso. È provato da un ragguardevole numero di indagini scientifiche il fatto che quando si ha un altro essere umano in totale balia, si può sviluppare una pulsione a distruggerlo, ad annientarlo, molto forte. Philip Zimbardo ha fatto un esperimento significativo all’università di Stanford: assegnò il ruolo di guardia o prigioniero ad alcuni volontari, in un carcere simulato. Nel giro di due giorni, chi impersonava le guardie ? tutti uomini scelti in base a uno spiccato equilibrio psicofisico, alla maturità e alla scarsa inclinazione nei confronti di comportamenti devianti, cominciò ad abusare del proprio potere, torturando i detenuti. La violenza è un sostrato implicito sempre attuabile. Basta una scintilla a scatenarla. Di fronte a delitti di questo tipo è giustizialista o garantista? Io sono garantista, sia di pancia, per così dire, sia col cervello. Ma non posso non accorgermi dei paraocchi indossati da un certo atteggiamento eccessivamente soccorrevole e quasi festoso nei confronti dei colpevoli. Nessuno tocchi Caino lo può dire solo Dio: gli uomini devono prendere il colpevole e punirlo, altrimenti si va verso il dissolvimento del vincolo sociale, si favorisce l’assoluta prepotenza del forte sul debole, e lo dico appunto da garantista, perché tutto ciò deve accadere secondo regole inaggirabili. Il problema è che in Italia il potere sembra agire in modo arbitrario: o ti massacra o chiude un occhio, anzi due. Agisce in modo al tempo stesso capriccioso e lassista. Proprio come nella favola più eloquente sulla società italiana, e cioè, "Pinocchio". Nel suo libro, lei scrive della "straordinaria insolenza che hanno i fascisti nel proclamare che essi agiscono nel nome dell’ingiustizia". Qual è l’ingiustizia che più la colpisce, ora? Una forma peculiare del nostro tempo è l’aggressività verbale, la virulenza che si scatena sul web. Con punte di fascismo puro, più puro anche perché astratto, e molto spesso anonimo, secondo cui l’avversario è da annientare, da spazzare via, un avversario che, a sua volta, viene scelto nel mucchio. Mai lette tante carognate in poche righe, magari sotto la forma di battutacce di spirito, altra specialità fascista. Ecco, non sono affatto convinto che il web alberghi spirito di giustizia ed equità. Del resto, la giustizia non è attraente quasi per nessuno, a tutti piacerebbe poterci distinguere, andare controcorrente, scatenare il nostro risentimento. Peter Sloterdijk definì i partiti politici "banche dell’ira", dove la gente andava a depositare il proprio piccolo patrimonio di odio. La grande scoperta delle scienze sociali è che il novantanove per cento delle nostre scelte è guidato dall’emotività: quindi dall’odio, dal rancore, dalla speranza, e dal desiderio. Ed è sempre un’onda emotiva a innescare i cambiamenti, positivi o negativi che siano: se non ci fosse quest’onda, saremmo ancora sotto gli Austriaci e i Borboni. In un passo ha scritto che - cito a memoria - questo libro le ha dato la possibilità di "staccare delle figurine da un fondo bianco", di dare quindi tridimensionalità alle persone. È stato doloroso? Ritagliare quelle figure è stato più una fatica che un dolore. Fatica fisica e spirituale. C’è ovviamente una certa quota di piacere dovuto alla specificità del lavoro di scrittura, ed è un risarcimento forte. L’ultimo anno, il 2015, quando finalmente ho chiuso il libro, ho provato una profondissima angoscia dovuta alla consunzione delle forze. Mi sono ritrovato di colpo più vecchio di dieci anni: ed erano in effetti passati dieci anni da quando avevo iniziato! Le energie sono venute meno di colpo. Ma la fatica dello scrittore, nel caso del mio libro, va di pari passo con la fatica del lettore: 1300 pagine non sono poche a scriverle, ma nemmeno a leggerle! Il libro che avrebbe voluto scrivere? L’ultimo letto, di cui sono assolutamente entusiasta ? invidio il libro, ma non l’autore che deve averne passate fin troppe per scriverle? è "Vita e Destino", di Vasilij Grossman. Rispetto a questo capolavoro, il mio è una bolla di sapone. Cosa ha cambiato - ammesso che qualcosa abbia cambiato - la candidatura al Premio Strega nell’opinione che aveva del suo libro? L’unico effetto vero e potente è stato quello di confermarmi quanto già sapevo: il grandissimo entusiasmo, affetto e sostegno del mio editore. Si è messa in moto una macchina che è al tempo lavorativa e sentimentale, in un modo che mi commuove profondamente. Sul mio libro in verità non avevo alcuna opinione: me l’hanno data lettori e votanti. Escluso il suo, quale dei quattro libri rimasti vorrebbe vedere vincitore dello Strega? Forse quello di Eraldo Affinati, così continuerebbero a confondermi con lui. Quell’eterna trattativa fra clan e apparati che si dipana nelle ombre delle carceri di Enrico Bellavia La Repubblica, 2 luglio 2016 Le prigioni sono luoghi ideali per intese su merci ignominiose. In carcere le odiate guardie custodiscono e vigilano, talvolta chiudono un occhio, o tutti e due. Ma c’è tra le divise chi ha il compito di carpire informazioni o di farsele semplicemente spifferare. C’era, e in qualche modo c’è ancora, una struttura di intelligence tra le celle in grado di anticipare le mosse, sventare piani di morte e talvolta subirli. E certo anche di ottenere confessioni decisive. Questa è la norma. Ci sono le spie come ci sono le talpe, ma qui è la stortura che interessa. La deviazione sistematica, le organizzazioni parallele che interferiscono con il corso delle cose, lo piegano ai loro fini. Oggi alle 18, a Palermo, libreria Feltrinelli (via Cavour 133), Enrico Bellavia presenta il suo nuovo libro "Sbirri e padreterni. Storie di morti e fantasmi, di patti e ricatti, di trame e misteri (Laterza). Intervengono Riccardo Arena e Domenico Gozzo. Una storia sottotraccia, con nomi e cognomi, della recente lotta alla mafia, che riporta la testimonianza inedita dell’ex boss dei Corleonesi Franco Di Carlo, con cui Bellavia ha pubblicato nel 2010 il volume "Un uomo d’onore" (Rizzoli). Salvatore Enea, punta di diamante di Cosa Nostra a Milano, ignaro di essere intercettato, spiegava in due parole il potere di Riina: "Lui aveva il Sisde, che gli portava tutte le informazioni, gli diceva: quelli si stanno riunendo e lui, woorm! Capito? Come lui capiva che c’era qualcuno, un malcontento, lui lo guardava negli occhi e capiva! Perché era furbo, troppo furbo! Non intelligente, furbo! Tutta la Questura era alle sue dipendenze. Come fai, vai alla Questura te a denunciarlo? La Questura stessa ti ammazza! E se qui c’è qualche microspia queste cose sono registrate e poi, te la prendi nel culo anche tu". Le informazioni sono il vero capitale. E Riina le aveva di prima mano. Quando, nel 1987, da uomo libero, ebbe pienamente il controllo di Cosa Nostra mentre tre quarti della commissione mafiosa era in galera, consolidò la rete di relazioni che possono fare di un uomo di potere un dittatore assoluto. E in mezzo a omicidi, lupare bianche e progetti di stragi si curò di formalizzare quei rapporti. Di avere un ufficiale di collegamento tra il vertice dei Corleonesi e i servizi segreti, conosciuto alla schiera dei suoi uomini più stretti. Sì, proprio lui, l’irriducibile, pronto a invocare la presunta ortodossia dell’integrità mafiosa, trescava alla maniera dei vecchi padrini con chi ufficialmente doveva dargli la caccia. E non ne faceva mistero. Accentratore com’era, scelse tra gli uomini del mandamento mafioso che più gli stava nel cuore, la Noce. E tra i figli di Raffaele Ganci, il boss della zona di Palermo che va dal Tribunale alla circonvallazione, volle Domenico, uno dei rampolli del padrino suo fedelissimo. Lo elevò perfino al rango di rappresentante del padre detenuto alle riunioni più delicate della commissione. "Nel 1987 Domenico Ganci era stato incaricato da Salvatore Riina di intrattenere i rapporti con il mondo esterno a "Cosa Nostra", con l’autorizzazione ad avvicinare, nell’interesse di questa, persone appartenenti alla massoneria e ai servizi segreti; in tale incombenza Domenico Ganci sostituì Antonino Madonia, che la aveva svolto in precedenza e che però era stato appena arrestato". È questo il racconto che fa l’ex bancario, poi mafioso, quindi pentito, Antonio Galliano, già uomo di fiducia di Domenico Ganci. Ed è forse a questo che allude un altro pentito della Noce, Salvatore Cancemi, quando dice che al momento della strage di Capaci del 1992 Riina "fu preso per la manina". Fino a "prendere due piccioni con una fava": ovvero eliminare un magistrato, ormai trasferitosi a Roma, che però, come diceva Paolo Borsellino al fido tenente Carmelo Canale: "Se a Palermo fa le indagini, a Roma ne fa il doppio". E contribuire a fare "scopa nuova", per dirla con il pentito Angelo Siino: agevolare, cioè, un nuovo corso politico per il Paese. Con l’obiettivo di ricavarne vantaggi per sé e per l’organizzazione. Per chi, come lui, godeva di ampi margini di manovra e per i dannati al 41 bis, i boss decimati dalla prima vera repressione antimafia coincisa con il primo maxiprocesso di Palermo. Accordi, trame, patti che al carcere riconducono sempre. Perché le prigioni sono luoghi ideali per intese su merci ignominiose. In carcere le odiate guardie custodiscono e vigilano, talvolta chiudono un occhio, o tutti e due. Ma c’è tra le divise chi ha il compito di carpire informazioni o di farsele semplicemente spifferare. C’era, e in qualche modo c’è ancora, una struttura di intelligence tra le celle in grado di anticipare le mosse, sventare piani di morte e talvolta subirli. E certo anche di individuare i responsabili, snidare i latitanti, ottenere confessioni decisive. Questa è la norma ed è perfino legittimo. Ci sono le spie come ci sono le talpe, ma qui è la stortura che interessa. La deviazione sistematica, le organizzazioni parallele che interferiscono pesantemente con il corso delle cose, lo etero-dirigono, lo piegano ai loro fini. In questo modo un pezzo di quella struttura ha colto i segnali di cedimento o li ha incentivati. Con le buone o con le cattive. Ha utilizzato infiltrati, agenti provocatori, detenuti delatori per avere dritte, e talvolta ha anche messo in campo squadrette di picchiatori che hanno trasformato il 41 bis, il carcere duro che doveva impedire ogni contatto tra i detenuti di mafia e l’esterno, in un inferno alla Guantánamo. Con il provvedimento che inaspriva la detenzione si intendeva blindare Cosa Nostra, rendere impossibile il flusso di informazioni da e per il carcere. Precludere la possibilità che i capi restassero tali anche dietro le sbarre, che i loro ordini arrivassero dritti alle orecchie di chi doveva eseguirli. A questo dovevano servire la modifica all’ordinamento penitenziario e i bracci speciali del circuito dell’alta sicurezza. E non a trasformare Pianosa e l’Asinara in una sorta di incubatore di nuovi collaboratori di giustizia, spinti dall’afflizione ad assecondare le richieste di investigatori e pubblici ministeri. Costringendoli, quando ne hanno le capacità, a distillare il vero dal verosimile, il conosciuto dal saputo, il fatto dalle opinioni, la menzogna dalla prova. Non è solo questione di giusto o di sbagliato, di garanzie e diritti umani, trascurati e offesi, se non accantonati quando non sospesi del tutto, in nome di un’emergenza che è il risvolto della perenne inadeguatezza repressiva e preventiva fatta di metodo e continuità. Ma è questione di portata degli effetti. Un falso pentito, una confessione estorta, una verità spiattellata, e magari concordata, per ingraziarsi chi si ha di fronte è una bomba a orologeria innescata nel processo, pronta a esplodere a distanza di anni, quando la giustizia finirà con l’avere solo una vaga parentela col diritto, lasciando l’acre sapore della sconfitta, la fumosa consapevolezza di essersi avvicinati al vero, sfiorandolo appena. Anche questo è il contrappasso delle trattative. I fossati culturali in Europa stanno diventando pericolosi di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 2 luglio 2016 L’euroscetticismo è un nemico agguerrito e insidioso, la battaglia sarà lunga. Il primo fronte su cui i leader filoeuropei devono combattere è quello del discorso pubblico. Impegnandosi all’interno di ciascun Paese, ma con l’obiettivo di salvaguardare l’Ue. La prima settimana post-Brexit si conclude con segnali non certo rassicuranti. Sui tempi e le modalità di uscita del Regno Unito dalla UE regna una grande incertezza. In Spagna per la seconda volta le elezioni non sono riuscite a produrre un governo. In Austria si tornerà presto a votare per il Presidente della Repubblica. Nel loro incontro di Berlino, Merkel, Hollande e Renzi (il "nuovo direttorio") si sono sforzati di rassicurare opinioni pubbliche e mercati, ma hanno anche mostrato di non avere una strategia condivisa su come tenere insieme la UE e rispondere all’ondata euroscettica. La Cancelliera ha riproposto l’immagine di un’ "Europa dei risultati", capace di portare benefici tangibili ai cittadini (soprattutto ai giovani). Ha però ribadito che bisogna rispettare i patti e le regole vigenti. Ancora "compiti a casa", dunque: niente concessioni. Hollande e Renzi hanno rilanciato l’immagine di un’Europa "sociale". Il Presidente francese ha chiesto un bilancio comune dell’Euro-zona, sostegni agli investimenti pubblici e privati, armonizzazione fiscale e sociale. Renzi ha difeso la UE come "casa comune", ma dicendo che occorre renderla più "umana" e più equilibrata nei rapporti fra paesi creditori e debitori. Persistono dunque forti divergenze fra la visione germanica della UE e quella latina. La prudenza tedesca è comprensibile. Merkel è sotto attacco da parte degli euroscettici di casa propria, strenui oppositori di ogni forma di redistribuzione fra paesi. La Cancelliera è anche mossa da una preoccupazione autenticamente paneuropea. Se salta la "cultura della stabilità", i mercati internazionali si spaventano e l’euro rischia di crollare. Altrettanto comprensibili sono gli appelli di Hollande e Renzi. Nei Paesi latini l’euroscetticismo è alimentato non solo dall’immigrazione (come nel Regno Unito, in Olanda o in Austria), ma anche dall’austerità. Molti elettori sono ormai convinti - a torto o a ragione - che a Bruxelles interessino solo il mercato e il pareggio di bilancio, senza riguardo per il welfare, la povertà, le diseguaglianze. Se l’Europa tradisce la "cultura della solidarietà", sono i cittadini a spaventarsi. Anche in questo caso l’euro rischia di crollare, aprendo la porta ad una spirale di possibili exit. Da questa infernale tenaglia si può uscire solo in un modo: riconciliando stabilità e solidarietà entro un quadro simbolico (e poi istituzionale) che le contenga entrambe e sappia così parlare sia ai mercati sia agli elettori. Stabilità significa capacità di durare nel tempo. Oggi le norme Ue si concentrano troppo sugli equilibri finanziari di corto periodo e poco sulle risorse necessarie per prosperare nel lungo periodo. Prendiamo il caso della Grecia: persino il Fondo monetario internazionale riconosce che questo Paese non ha nessuna possibilità di tornare a crescere "stabilmente" (appunto) alle condizioni imposte dalla Troika, prevalentemente incentrate sui saldi di bilancio. Solidarietà significa condivisione dei rischi comuni e aiuto reciproco in caso di avversità "immeritate". Non è un principio alieno al processo di integrazione. È stato uno dei criteri guida dei Padri fondatori e ha ispirato nel tempo le politiche di coesione. Alcuni Paesi ne hanno approfittato e oggi l’Europa germanica teme che la solidarietà incoraggi l’opportunismo, premiando le cicale a scapito delle formiche. Senza responsabilità da parte di chi riceve aiuto, la condivisione genera risentimento. È soprattutto ai leader dei tre Paesi più grandi che tocca oggi il compito di ricomporre la cornice europea di valori e obiettivi. In essa devono trovare spazio anche i problemi dell’immigrazione e della sicurezza. Ma i temi cruciali sono quelli economico-sociali, attraversati dal fossato culturale fra Nord germanico e Sud latino. Dopo lo choc della Brexit, chi resta "dentro" deve riflettere bene sulla casa comune, sulla sua missione, sugli strumenti più adatti a proteggerla, a mantenerla prospera e coesa. L’euroscetticismo è un nemico agguerrito e insidioso, la battaglia sarà lunga. Il primo fronte su cui i leader filoeuropei devono combattere è quello del discorso pubblico. Impegnandosi all’interno di ciascun Paese, ma con l’obiettivo di salvaguardare l’intera Unione. Brexit, il tempo degli sciacalli di Marco Bascetta Il Manifesto, 2 luglio 2016 Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Londra non si è fatta in un giorno e in un giorno non si smonterà. Neanche in qualche decennio. E, tuttavia, il tempo degli sciacalli ha già visto sorgere la sua alba. Prima ancora di sapere il corso, tutt’altro che lineare, che prenderà l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e la natura dei futuri rapporti tra Londra e il vecchio continente, gli ex partner già si contendono le presunte spoglie della City. Con l’eleganza di un branco di lupi e con la serietà di un avanspettacolo. Renzi e Sala non perdono tempo. Già favoleggiano di ravvivare il transatlantico spiaggiato di expo e la spiaggia sepolta di Bagnoli con le schegge prodotte dall’esplosione immaginaria della più grande piazza d’affari d’Europa. Ma, se sono tra i più ridicoli, non sono certo i soli. Numerosi candidati si fanno avanti con ambizioni ancora più spudorate di soppiantare la City londinese. Gli imbonitori imperversano sulla rete, sulla stampa, nei circoli padronali e perfino nelle cancellerie, promettendo il paese della Cuccagna finanziaria. Dublino offre la lingua, la vicinanza e una solida atmosfera liberista, ma le sue infrastrutture lasciano a desiderare. Francoforte (che ha peraltro il difetto di appartenere alla già troppo potente Germania) consente di prendere il caffè con Mario Draghi e di mettere direttamente il naso negli umori della Bce, ma non basteranno certo le ragazze in vetrina della Kaiserstrasse, in una città che nelle ore notturne tende al deserto, ad allietare la vita dei manager della finanza. Più mortalmente noioso c’è solo il Lussemburgo che vanta, tuttavia, una sperimentata spregiudicatezza nel render la vita facile a capitali e fondi d’investimento, nonché una discreta tradizione gastronomica. Resta l’indubbio fascino della Ville lumière, ma sempre troppo turbolenta e dove il computer continua tenacemente a chiamarsi ordinateur. Tuttavia, sebbene il glamour abbia il suo peso, è sul terreno fiscale che la competizione si fa più aspra e concreta. Gli sciacalli fanno a gara nell’offrire a banche, imprese, multinazionali e società finanziarie gli sconti fiscali più mirabolanti. A pagare le infrastrutture e le "grandi opere" di cui abbisognano provvederanno comunque i contribuenti. Si rivela in questa frenetica e indecente competizione per la "pelle dell’orso" la vocazione di tutti i paesi dell’Unione a trasformarsi, selettivamente e ufficiosamente, nei tanto deprecati "paradisi fiscali". In questa materia non ci sono regole comuni o principi condivisi se non quello della competizione senza esclusione di colpi, né preoccupazioni di equità nel blandire poteri fuoriusciti da qualsiasi patto sociale. Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Il settimanale tedesco der Spiegel elencava l’altro ieri una succulenta serie di possibili migrazioni finanziarie e imprenditoriali post Brexit. Vodafone ci starebbe seriamente pensando; Goldman Sachs prevede lo spostamento di 6500 posti di lavoro; Lloyds Bank si accingerebbe a chiudere 23 filiali in Gran Bretagna; Morgan Stanley intende dislocare 2000 posti tra Dublino e Francoforte, Visa 1000 posti e il suo centro dati in altro paese europeo; JP Morgan si propone di ricollocare altrove dai 1000 ai 4000 dipendenti; Siemens, Ford e Airbus intendono riesaminare i propri piani di investimento nel Regno unito. Insomma non sarebbe solo il proverbiale "idraulico polacco" a fare le valigie. Quanto di vero o di strumentale ci sia in queste dichiarazioni di intenti non influisce affatto sull’appetito manifesto dei governi europei che stringono ancora in mano i capelli strappati per il dramma della Brexit. Tutti questi spostamenti, qualora dovessero effettivamente accadere, non inciderebbero granché sui livelli occupazionali dei diversi paesi in lizza per spartirsi il bottino britannico. Qualche migliaio di operatori finanziari non modificano di certo l’economia di un paese e l’atteso "indotto" si rivela in genere poco più di un miraggio. In un banale sistema di vasi comunicanti i posti di lavoro sottratti a un paese si ripresentano, sovente ridotti e meno tutelati, in un altro, dove le condizioni dell’accumulazione appaiono più favorevoli. Che si tratti di colletti bianchi o di colletti blu nulla cambia nella sostanza. E,in linea di principio, non è cosa di cui gioire. Stato-nazione, il falso mito che si aggira per l’Europa di Vittorio Da Rold Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2016 Un falso mito si aggira per l’Europa: quello del ritorno, tramite secessione referendaria, allo Stato-nazione rispetto alla costruzione di un’Unione sovranazionale europea, magari più trasparente e democratica. Londra è in piena convulsione politica dei due maggiori partiti in seguito al voto su Brexit. Nei Tory il responsabile della Giustizia Gove, candidato euroscettico a capo del partito e del governo britannico, così come la rivale May, non prevede di attivare nei prossimi mesi l’articolo 50. Se ne riparlerà nel 2017. Dopo Londra però è Vienna a prendere il testimone di chi tenta di destabilizzare il già precario equilibrio politico del Vecchio Continente. La decisione della Corte costituzionale austriaca di tenere nuove elezioni presidenziali il 18 settembre, come un fulmine a ciel sereno, rimette in discussione un voto che aveva fatto tirare un sospiro di sollievo a più di una Cancelleria in Europa che non vedevano certo di buon occhio l’elezione del primo presidente di estrema destra in Europa dal dopoguerra in piena crisi migratoria. Il clima sociale a Vienna (che ha ricordato con una nostalgica mostra al palazzo dell’Hofburg il centenario della morte dell’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe) è quello del ritorno del fascino discreto, ma pervasivo, dello stato-nazione rispetto all’organismo sovranazionale dell’Ue, una federazione o confederazione o, se preferite, un "soft impero" ancora in costruzione che non pare in grado, senza un cambio di marcia radicale, di saper difendere adeguatamente i propri cittadini dalle crisi economiche, migratorie e secessioniste che si profilano al proprio interno e ai suoi confini. Non a caso, all’avvio della presidenza di turno Ue della Slovacchia, il premier Fico ha messo l’accento sulla necessità di ridare ai Paesi membri il controllo della politica Ue, a partire dall’immigrazione, nervo sensibile dei Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia). Il governo slovacco ha chiesto un nuovo equilibrio tra le istituzioni Ue e i Paesi membri, convinto che solo riprendendo saldamente le redini della politica europea gli esecutivi nazionali potranno battere la marea montante delle forze degli euroscettici. Un riequilibrio che però rischia di ridurre gli spazi di manovra alla Commissione. Una presa di posizione così severa che il presidente dell’esecutivo europeo Jean Claude Juncker ha sentito l’esigenza di precisare, a scanso di equivoci, di non vederla come un tentativo di aprire un nuovo fronte caldo in Europa. Parole che la dicono lunga del clima teso del dopo Brexit che si respira nell’Unione divisa al suo interno anche tra chi per trovare le soluzioni alle troppe crisi in agenda privilegia il metodo comunitario e chi, invece, preferisce l’intergovernativo. Senza dimenticare che il leader dei liberal-nazionali austriaci, Heinz-Christian Strache, ha parlato di un possibile referendum austriaco entro un anno per la permanenza nella Ue di Vienna se Bruxelles non cambia registro su migranti e adesione della Turchia. Il think tank bruxellese European Council of Foreign Relations ha calcolato che potrebbero esserci 32 richieste potenziali di referendum nella Ue. Un dato che dà il senso dell’inquietudine che serpeggia in Europa. Augusta, riemerge l’orrore: i cadaveri nel barcone sono centinaia, tanti quelli dei bambini di Francesco Viviano La Repubblica, 2 luglio 2016 È un orrore. I cadaveri sono accatastati, ammucchiati, intrecciati tra di loro. In superficie ci sono decine e decine di scheletri, anche piccoli, dunque di bambini. E sotto quelle ossa altre centinaia di corpi che, non si sa come, non sono ancora diventati scheletri. È questa la drammatica e orribile situazione che hanno trovato i primi vigili del fuoco che tra stanotte e stamattina hanno già estratto i primi corpi dal barcone-sacrario recuperato nei giorni scorsi a 370 metri di profondità, dove si trovava dal 18 aprile del 2015, quando è affondato con il suo carico di migranti (tra 500 e 700), poco prima di essere soccorso dal mercantile portoghese King Jacob. Il barcone della morte è da ieri pomeriggio all’interno di un hangar costruito appositamente nella base della Marina militare di Augusta, dove saranno effettuati gli esami autoptici da una decina di medici legali di varie università italiane coordinati da Cristina Cattaneo, responsabile dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Milano. Nessuno vuole noleggiare ai migranti i pullman per la manifestazione anti caporalato di Silvia Dipinto La Repubblica, 2 luglio 2016 La denuncia di un centinaio di lavoratori nei campi del Foggiano diretti a Bari: "Abbiamo anche dato un anticipo di mille euro, poi restituito". Le società di trasporti: "Solo problemi logistici e organizzativi". Alla fine a Bari ci sono arrivati in treno. Un centinaio di migranti, lavoratori delle campagne foggiane, diretti nel capoluogo per una marcia di protesta contro lo sfruttamento e per chiedere migliori condizioni di vita. "Nessuna compagnia ha voluto noleggiarci un pullman, nonostante avessimo anticipato mille euro", hanno urlato col megafono gli attivisti della rete "Campagne in lotta", che sostengono i migranti anche sulle questioni giuridico burocratiche. Risultato: corteo in ritardo e tanti lavoratori rimasti nei campi. Le aziende però si difendono. "Nessun atto di razzismo", assicurano. Solo problemi logistici e organizzativi. E qualche timore a trasportare persone dirette a una manifestazione. Il corteo di migranti è partito all’alba dai ghetti foggiani di Borgo Mezzanone e Tre Titoli. Un centinaio di africani ha raggiunto la presidenza della Regione per chiedere di essere ricevuti (senza successo). "Vogliamo documenti, contratti, case e trasporto gratuito per lavorare", lo slogan contro i caporali. Un lungo percorso da fare con due bus, nelle intenzioni degli organizzatori. "Impossibile trovarne uno disponibile - raccontano gli attivisti - ci siamo sentiti dire che non trasportavano migranti, o che era troppo pericoloso arrivare coi pullman vicino ai ghetti". L’ultimo tentativo con un’agenzia di intermediazione, la Travel service di Bergamo. Che "prima ha accettato i mille euro, salvo poi dirci all’ultimo che i contatti su Foggia non erano andati a buon fine perché non avremmo specificato che si trattava di una manifestazione". Soldi restituiti e accuse respinte al mittente dalle aziende locali, che ribadiscono l’assenza di mezzi liberi per la giornata del corteo. Un solo titolare ammette: "Io davvero non avevo bus, ma altri colleghi in passato hanno avuto problemi con manifestazioni simili e magari preferiscono evitare". L’Italia non può più permettersi il proibizionismo sulla canapa di Dimitri Buffa L’Opinione, 2 luglio 2016 Indica o sativa, per uso ricreativo o terapeutico, da tessuto o per le corde. Da qualunque lato la si voglia vedere, l’Italia non può più permettersi questo assurdo proibizionismo sulla pianta di canapa. Che estende i propri effetti collaterali anche alle piantagioni che una volta servivano a chi voleva semplicemente usarla per farne abiti o funi e che adesso, da anni, deve ripiegare su altri tessuti. Ma la cosa ormai, in un Paese che si muore di fame, che vede centinaia di migliaia di giovani ingrossare ogni giorno le fila dei disoccupati cronici, mentre potrebbero essere utilizzati in questo tipo di agricoltura o nel commercio legalizzato della cannabis, sta diventando paradossale: possiamo regalare alla mafia un mercato che è pari solo in Italia al 10 per cento della popolazione attiva rinunciando a quasi 8 miliardi annui di tasse (nello stato del Colorado il governatore, dopo la legalizzazione iniziata nel 2013, ha deciso di ricominciare a distribuire il surplus di imposte ai cittadini) e contemporaneamente tenere occupati costosissimi apparati repressivi e giudiziari tutti incentrati proprio sulla marijuana e sull’hashish molto più che su tutte le altre classiche droghe pesanti come eroina, cocaina o ecstasy? I tribunali italiani, se fossero deflazionati dai processi penali che riguardano la cannabis, avrebbero la metà del carico di lavoro svanito come per incanto. La follia ormai raggiunta è quella che un tempo fu delle scommesse clandestine e del gioco d’azzardo: tutti le facevano con gli allibratori della mafia, andando a giocarsi le "martingale" nelle bische e arricchendo e ingrassando i criminali e i killer. Affidando i denari delle scommesse ai "bravi" della criminalità organizzata. Poi un bel giorno arrivò il buon senso. Ed è quello che spera che arrivi oggi anche il sottosegretario agli Affari Esteri, Benedetto Della Vedova, in tante interviste rilasciate in questi giorni specie a Radio Radicale. Di Della Vedova si sa che l’ultima destinazione politica conosciuta è stata la "Scelta Civica" di Mario Monti. Lui però di sicura fede radicale. E sempre lui (insieme a Luigi Manconi per il Pd) un annetto e mezzo fa ebbe il coraggio di promuovere l’intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, che annovera ormai oltre 220 tra deputati e senatori. Adesso, a partire dal 25 luglio, Della Vedova spera che il Parlamento sia veramente sovrano, se del caso aspettandosi un aiutino dai Cinque Stelle. Che però in quanto ad ambiguità nella prassi politica non sono secondi a nessuno, come da ultimo si è visto sulle possibili riforme dell’Italicum paventate dalla sinistra del Pd. Sia come sia, il 25 luglio la proposta sulla legalizzazione, e non liberalizzazione come scrivono quelli in perfetta malafede e disonestà intellettuale (casomai la liberalizzazione assomiglia al regime di monopolio della criminalità creato da questo ottuso proibizionismo), approderà in Parlamento e lì se ne vedranno delle belle. Ma già da ora converrebbe ragionare sull’indotto della pianta della canapa e della sua ripresa di coltivazione: sia per uso ricreativo, come si dice di chi la fuma, sia per uso terapeutico; sia infine, ma non da ultimo, per il pregiato tessuto che, solo fino agli anni Settanta del secolo passato, molti preferivano persino al lino. Almeno d’estate. L’indotto canapa in Italia potrebbe valere anche il doppio dei sette o otto miliardi di euro previsti come "income revenue" dalla tassazione di chi la usa per farsi le canne, cioè oltre sei milioni di italiani, quasi tutte le settimane. L’aspetto più paradossale, fino a pochi mesi orsono, era il proibizionismo sui malati e sull’uso terapeutico, anche fai-da- te, della cannabis: o finivano in galera come pusher per essersi coltivati le piantine sul terrazzo o dovevano rivolgersi agli spacciatori per alleviare i dolori del cancro o gli impedimenti di malattie come la Sla o erano costretti a comprarsi costosissimi prodotti in Inghilterra, pagandosi cure da 7 o 8mila euro al mese con il rischio di non vedersele rimborsare dal Servizio sanitario nazionale. Che invece se uno chiede la morfina per il semplice lenimento dei dolori fa molte meno storie. Chiedere per credere i dati all’"Associazione Luca Coscioni" o a Rita Bernardini, che negli ultimi anni ne hanno visti non pochi di poveri cristi malati finire in carcere per poche piantine coltivate in casa. Un mondo alla rovescia all’insegna di presunti valori etici che spesso sono stati la foglia di fico per coprire pesanti complicità della politica italiana con la criminalità organizzata. L’Italia del secondo millennio, è il parere di tanti esperti, dal professor Umberto Veronesi in giù, non può più permettersi di mettere al bando la pianta di canapa. Costa troppo e non serve a nulla: la mafia, le mafie, incassano più da hashish e marijuana che dalle droghe pesanti. Almeno dai dati della Procura nazionale Antimafia che nel rapporto 2014 desumeva, dal semplice calcolo aritmetico dei carichi di droghe leggere sequestrate, che quasi ogni italiano, vecchi e bambini compresi, per statistica consumasse 250 grammi di marijuana o hashish l’anno. Statistiche come il pollo di Totò, chiaramente, ma pur sempre indicative di una diffusione capillare come quella che riguarda il consumo di tabacco o di alcool. Ergo? La marijuana e i suoi derivati in un’ottica squisitamente liberale e radicale, andrebbero legalizzate anch’esse, visto che in fondo il cittadino può decidere cosa fare della propria vita e salute. In realtà anche le droghe pesanti andrebbero prima o poi legalizzate per sottrarre il mercato del vizio alla mafia, ma in questo ultimo caso si parla di cifre che coinvolgono numeri tarati sulle centinaia di migliaia di consumatori, in Italia, e non sui milioni. In un momento di crisi nera, dove non si creano più posti di lavoro, dove lo Stato raschia continuamente il fondo del barile per ottenere soldi e dove la tassazione ha ormai livelli insostenibili, la cannabis e i suoi derivati rappresenterebbero il classico uovo di Colombo. Permettersi di non vedere quello che è sotto gli occhi di tutti rischia di diventare una scelta che pagheranno anche le future generazioni. E dopo quasi un secolo di proibizionismo, le prime campagne mediatiche contro la marijuana risalgono al 1937 e al sindaco Fiorello La Guardia quattro anni dopo la fine del proibizionismo sull’alcool (guarda caso), sarebbe ora di farla finita. O di "piantarla", come dicono gli slogan a doppio senso di tante campagne radicali. Per la cronaca, La Guardia, cui fu intitolato persino l’aeroporto di New York, è stato spesso associato come colluso con la mafia italoamericana del whiskey, così come fu per il nonno di Kennedy e per tanti altri politici dell’epoca. Le campagne mediatiche della fine degli anni Trenta servirono per spingere il mercato illegale e vertevano tutte su assiomi razzisti: i cartelli propagandistici a New York dicevano che la cannabis era la droga dei neri che poi violentavano le donne bianche. L’America dopo quasi cento anni adesso ha "cambiato verso". L’Italia, che al contrario era stata molto più tollerante con le droghe all’epoca del fascismo (le pene erano ridicole anche per il grande contrabbando), che aspetta oggi a riappropriarsi del diritto di regolamentare il consumo, magari consapevole, di questa sostanza? Egitto, tre anni dopo: dal golpe alla protesta di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 luglio 2016 Intervista. Tamer Wageeh, attivista dei diritti umani, nell’anniversario del colpo di Stato di al-Sisi del 3 luglio 2013: "Dall’aprile scorso in piazza le nuove e diverse opposizioni al militarismo neoliberale del regime". Al-Sisi ha blindato Il Cairo. Giovedì il timore di manifestazioni nel terzo anniversario del golpe si è tradotto nella chiusura di Tahrir, piazza simbolo della rivoluzione del 2011. A celebrare è solo il presidente che ha autorizzato a scendere in piazza solo i suoi sostenitori e in tv ha incensato l’esercito che depose il predecessore Morsi. Da allora la spinta popolare catalizzata dal movimento Tamarod, che nel 2013 permise ai militari di strappare il potere ai Fratelli Musulmani, non esiste più: la barbara violenza della repressione di Stato, cominciata già un mese dopo con massacri di massa di islamisti, ha annichilito il paese per due anni. Fino a primavera: le proteste sono riesplose. Con quali possibili effetti? Ne abbiamo discusso con Tamer Wageeh, direttore dell’Economic and Social Justice Unit dell’associazione Egyptian Initiative for Personal Rights. In un’analisi su Mada Masr lei parla delle manifestazioni di aprile come del primo passo verso la nascita di una nuova opposizione. Che potenzialità ha? La contro-rivoluzione del luglio 2013 ha vinto grazie alla mobilitazione di milioni di persone: ha sconfitto la rivoluzione con il sostegno popolare. L’uso della forza è venuto dopo, prima ha sfruttato la paura della Fratellanza e della rivoluzione stessa. Ma nell’ultimo anno e mezzo sono apparse crepe nell’apparentemente granitico sostegno popolare e nell’alleanza politica tra forze contro-rivoluzionarie e apparati dello Stato. Si sono riaperti spazi per la critica, non perché lo Stato sia diventato più indulgente, ma perché sempre più persone hanno ricominciato ad ascoltare le voci alternative, scettiche del regime. Ad aprile questa critica è scesa in piazza, un passo importante. Non va vista come una vittoria definitiva delle opposizioni, il regime ha subito reagito e il movimento si è temporaneamente paralizzato. Ma la sua forza resta: ci stiamo muovendo in avanti, anche se a zigzag. Da chi è formato l’attuale movimento di opposizione? La natura dell’opposizione è la questione centrale, due livelli intrecciati ma allo stesso tempo separati: attivisti e politici da una parte, masse popolari dall’altra. I primi fanno parte del ‘movimento politico coscientè, formato da tre strati: il primo è quello dei rivoluzionari ‘hard-corè, i critici del regime dalla prima ora. Sebbene alcuni furono inizialmente entusiasti del golpe del 2013, sono le persone di "gennaio", quelle della rivoluzione di Tahrir. Il secondo strato sono i nuovi gennaioli, giovani che a causa dell’età non parteciparono alla rivolta del 2011 ma si sono uniti negli anni successivi: una categoria importante che dà freschezza alla rivoluzione, a decine di migliaia di persone che in tutto l’Egitto resistono guidati dai sogni di gennaio. Il terzo è composto dai vecchi politici di professione, i partiti di opposizione che appoggiarono in gran parte il golpe e solo dopo hanno espresso dissenso per le sue atrocità. Questo movimento si è riattivato con la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, ma è politicamente frammentato. I rivoluzionari non si fidano delle manovre dei politici; i politici giudicano i rivoluzionari immaturi. Inoltre c’è un problema con gli islamisti: i Fratelli Musulmani sono stati attivi fin dal primo giorno del golpe, eppure il nuovo movimento non ha un atteggiamento chiaro nei loro confronti. C’è disprezzo. Ma gli islamisti, nonostante isolamento popolare, attacchi dello Stato e dissenso interno, sono più forti di certi movimenti laici. E il secondo livello, le masse popolari? Qual è il loro ruolo? La base è formata da settori della popolazione stanchi dello status quo a causa dell’aumento dei prezzi e la crisi economica. Operai e dipendenti pubblici, studenti e venditori ambulanti, ma anche imprenditori, non sopportano più questa situazione. Ma il vecchio e il nuovo movimento di opposizione sono troppo autoreferenziali e poco interessati a costruire legami con le masse. A volte arrivano al punto di ‘odiarè le masse perché avrebbero tradito la rivoluzione. I rivoluzionari giungono dalla classe medio-bassa: grandi ideali ma scarsa maturità ideologica. Perché finora al-Sisi ha agito al sicuro? La protesta di aprile è stata la prima dall’estate 2014, quando fu eletto presidente A causa del supporto popolare di cui godeva all’inizio e dell’inerzia dei sentimenti contro-rivoluzionari di settori della popolazione stanchi dell’instabilità. A causa del potere dell’apparato militare e del sostegno regionale, del Golfo. Lei definisce il regime di al-Sisi militarismo neoliberale. È oggi in pericolo? La classe di governo egiziana ci ha fatto ingurgitare neoliberismo con la forza per 40 anni, ma è un progetto fallito. Ora sta mutando, si sta militarizzando perché politicamente guidato da una dittatura militare e economicamente basato sulle forze armate, primo capitalista del paese. Come la Russia di Putin. I centri capitalisti combaciano con i centri della sicurezza e danno vita ad uno Stato oligarchico il cui principale interesse è rubare e corrompere. La forma di distribuzione del potere, in mano a esercito e servizi, non solo spoglia lo Stato del vitale ruolo di rappresentante degli interessi dell’intera società, trasferendolo su territori feudali e litigiosi, ma riflette anche la mancanza di visione strategica dell’élite governativa. La nuova opposizione saprà organizzarsi come nel 2011? Un fattore fa da ostacolo: il ricordo degli anni della rivoluzione è vivo. La gente si chiede: perché muoverci ancora? Cosa sarà diverso stavolta? Per rispondere positivamente a questa domanda, dovrebbe comparire un’alternativa reale che oggi manca. L’unica opzione sono sommosse che non hanno la capacità di sviluppare un movimento rivoluzionario. La protesta della stampa può fare da catalizzatore? Sicuramente. Lo Stato assedia il movimento e il movimento è in declino. Ma le iniziative dei sindacati - medici, giornalisti, ingegneri - sono catalizzatori della lotta. Anche se sembra che stiano fallendo, sono esplosioni continue che spingeranno al cambiamento. Cina: prelievi forzati di organi ai detenuti di coscienza di Lisa D’Ignazio eunews.it, 2 luglio 2016 Presentato al Parlamento europeo un rapporto sulla pratica che il governo di Pechino smentisce, ma restano le inquietanti testimonianze di molti praticanti del Falun Gong. Negli ospedali cinesi i chirurghi trapiantano tra i 60mila i 100mila organi l’anno, cifre che superano di gran lunga la quantità di fegati, reni e cuori resi disponibili dai donatori volontari. Un dato inquietante che, secondo un rapporto presentato mercoledì 29 giugno al Parlamento europeo, dimostrerebbe l’esistenza in Cina del fenomeno del prelievo forzato degli organi da prigionieri di coscienza, come attivisti e oppositori politici o praticanti di minoranze religiose, è ancora diffuso. La settimana precedente lo stesso rapporto era stato presentato al National Press Club di Washington da parte dei suoi tre autori David Matas, Ethan Gutmann e David Kilgour. "Quello che stiamo cercando di fare è di spingere il governo cinese a fermare l’omicidio dei suoi cittadini per prenderne gli organi", ha spiegato David Kilgour, attivista canadese per i diritti umani e ex membro del parlamento, secondo cui "in Cina si sta consumando un enorme crimine contro l’umanità." Ufficialmente esistono in Cina 146 ospedali autorizzati a eseguire trapianti che nell’ultimo anno hanno realizzato 7.785 operazioni di questo genere, sebbene le statistiche parlino di soli 2.766 donazioni volontarie di organi. Inoltre, i tre ricercatori avrebbero scoperto che in numerosi ospedali non autorizzati vengono quotidianamente trapiantati reni, fegati, cuori, milze e una gamma infinita di organi. In assenza di dati ufficiali, i tre ricercatori hanno stimato che l’80% degli organi usati in Cina provengono da prigionieri di coscienza. Il rapporto di 798 pagine è stato duramente contestato sia dal governo che da molti medici cinesi che parlano di "accuse prive di fondamento". La Cina ha riconosciuto che il fenomeno esisteva in passato, ma sostiene che dall’anno scorso sia completamente scomparso. In realtà, è vero che "la Cina non è l’unico paese dove viene praticato il fenomeno del prelievo forzato di organi", ha puntualizzato uno dei ricercatori, David Matas, avvocato per i diritti umani, "ma la differenza con altri paesi è che in Cina è una pratica istituzionalizzata". A difendere la posizione del governo cinese si sono schierati anche alcuni esperti come Jeremy Chapman, un chirurgo australiano specializzato in trapianti ed ex presidente della Società di trapianti di Montreal, in Canada, che ha descritto il rapporto come frutto di "pura immaginazione e nato da motivazioni politiche", contestando anche le fonti del rapporto che secondo lui provengono "tutte dalle testimonianze di praticanti del Falun Gong", un movimento spirituale cinese fondato osteggiato e censurato dal governo. Per gli autori del rapporto, invece, nessuno più delle persone perseguitate a interesse a rivelare certi segreti. "Le uniche testimonianze sull’Olocausto - spiegano - sono quelle riportate da documenti di ebrei che non erano ritenuti attendibili per la stessa ragione". Un rifugiato cinese arrivato negli Stati Uniti l’anno scorso ha raccontato di essere stato sottoposto a un infinito numero di esami del sangue durante la sua detenzione in Cina. Ciò dimostrerebbe che i praticanti del Falun Gong vengono costantemente monitorati per verificare la compatibilità del loro corpo alla donazione di organi. Nel traffico di organi non solo coinvolti solo cinesi, ci sarebbero numerosi stranieri che pagano somme di denaro molto elevate per i trapianti. Nel mondo solo Taiwan, Israele e la Spagna hanno una legislazione che contrasta il turismo degli organi. Il rapporto dei tre ricercatori sta facendo il giro del mondo. Anche Miss World Canada Anastasia Lin si è mobilitata contro tale pratica e sta lanciando una nuova campagna di sensibilizzazione contro il prelievo forzato di organi in Cina. Dal continente americano il 13 giugno scorso è arrivata la condanna anche del Congresso degli Stati Uniti che ha approvato all’unanimità la Risoluzione 343 contro il prelievo forzato di organi organizzato dallo Stato da prigionieri di coscienza non consenzienti in Cina, compresi un grande numero di praticanti del Falun Gong e di altre minoranze etniche e religiose. Sul fronte europeo, invece, lo scorso 27 aprile alcuni membri di cinque gruppi politici del Parlamento Europeo hanno avviato una dichiarazione scritta che chiede l’apertura immediata di un’indagine indipendente sul prelievo forzato di organi in Cina, facendo seguito alla risoluzione del PE del 12 dicembre 2013 sullo stesso fenomeno.