Rapporto dell’Associazione Antigone: in cella più stranieri, torna il sovraffollamento di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 29 luglio 2016 Con una depenalizzazione della cannabis, metà dei detenuti potrebbero uscire. Non migliorano molto le condizioni dietro le sbarre: celle "lisce" punitive, topi, telecamere h24, quasi nessun servizio di salute mentale. Si muore ancora nelle carceri italiane e la condizione dei detenuti è ancora molto al di sotto di standard di civiltà, tra topi, carenza d’acqua e celle "lisce" punitive, e soprattutto, dopo due anni di contenimento della popolazione carceraria in seguito alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, quest’anno si sta verificando un nuovo "tutti dentro". È quanto emerge dal pre-rapporto 2016 realizzato dall’associazione Antigone e presentato ieri a Montecitorio. I numeri parlano chiaro: rispetto al massimo storico di 69.155 detenuti, raggiunto il 30 novembre 2010, alla fine di giugno siamo tornati ad averne 54.072, cioè 1.318 in più rispetto alla stessa data dell’anno scorso. Il sovraffollamento dunque aumenta, visto che la capienza regolamentare degli istituti di pena - nel frattempo divenuti 193 in sei anni - resta a quota 49.701 posti. La crescita dipende soprattutto da un aumento delle incarcerazioni di stranieri, in gran parte al primo grado di giudizio, quindi ancora presunti innocenti. E Antigone valuta che "se fosse approvata la proposta di legge dell’inter-gruppo parlamentare "Cannabis libera" molti dei 18.941 incarcerati per violazione della legge sugli stupefacenti potrebbero uscire". Le misure alternative alla detenzione sono ancora utilizzate troppo poco, anche perché il budget dell’amministrazione penitenziaria per finanziare le comunità - meno costose e con tassi di recidiva più bassi - è ancora irrisorio, meno del 5% del bilancio. Antigone lancia perciò la campagna "20 per 20", chiede cioè che venga speso il 20% del bilancio entro il 2020. Quanto agli stranieri che sono tornati ad affollare gli istituti di pena (sono il 33,5 per cento dell’intera popolazione reclusa), quasi mille in più rispetto al 2015, è cambiata la geografia carceraria: molti meno rumeni, che perdono il primato della nazionalità più rappresentata nelle celle italiane, sorpassati dai marocchini. Mentre tra i 1.673 ergastolani solo 98 sono gli stranieri. Colpisce poi il regionalismo nelle celle: primi i campani (9.847), secondi i siciliani (7.011) e terzi, ma di gran lunga distanziati, i pugliesi (3.885). In un’estate di attentati terroristici c’è da segnalare il capitolo del rapporto che riguarda i jihadisti. Il Dap sostiene che dei 6.138 prigionieri di fede islamica ce ne sono 39 considerati "radicalizzati". E Antigone fa notare che "contro la radicalizzazione va assicurata piena individuale libertà di culto", mentre ci risulta che soltanto nel carcere di Perugia sia possibile avere l’assistenza e guida spirituale di un imam. Le ispezioni condotte dagli ottanta volontari dell’associazione Antigone mettono in luce ancora tante situazioni inaccettabili, dalle sezioni invase da topi e insetti nella Casa circondariale di Frosinone alla forte conflittualità tra gli agenti che ha portato alla rimozione del nuovo comandante a Ferrara. Ma due sono le carenze di maggior rilievo: la mancanza di una formazione specifica per gli agenti penitenziari, con relativi frequenti fenomeni di burnout - esaurimento emotivo che porta a cinismo, a condotte psicopatologiche, insonnia, spersonalizzazione - e la carenza di operatori sanitari specializzati dietro le sbarre come psichiatri, psicologi, terapisti. Tutti i disagi vengono ancora "curati" in due modi: pillole e isolamento, quando non accompagnato anche da botte. Così si calcola che il 50% dei detenuti assuma regolarmente terapie farmacologiche per problemi psichiatrici quasi sempre senza cura e senza neppure una diagnosi. Ancora esistono poi le cosiddette "celle lisce", per quanto il regolamento penitenziario non le consenta: sono celle nude, senza mobilio, dove in genere vengono rinchiusi i detenuti in isolamento o a rischio suicidio. Peccato che proprio in isolamento sono morti quasi tutti i 23 suicidi censiti nei primi sei mesi 2016 (43 nell’intero 2015). A Poggioreale esiste la "cella zero", con tanto di videocamera h24, usata per i pestaggi. Rapporto dell’Associazione Antigone: aumentano i presunti innocenti in carcere Redattore Sociale Al 30 giugno del 2016 negli istituti di pena ci sono oltre 54 mila presenze, 1.318 in più rispetto a giugno dello scorso anno. E l’incremento è dovuto all’aumento delle misure di custodia cautelare. "Il Dap investa il 20 per cento del bilancio in misure alternative". Torna a salire il numero dei detenuti presenti negli istituti di pena italiani. A lanciare l’allarme è l’associazione Antigone che questa mattina ha presentato un bilancio di metà anno durante una conferenza stampa tenutasi alla Camera dei deputati. Sebbene i numeri siano lontani dal record di popolazione detenuta raggiunto il 30 novembre del 2010 quando nelle carceri si contavano 69.155 ristretti, i dati aggiornati al 30 giugno di quest’anno fanno segnare un incremento di 1.318 unità in un anno. Al 30 giugno 2016 i detenuti erano 54.072, mentre erano 52.754 alla stessa data del 2015. La capienza regolamentare secondo il ministero della Giustizia, invece, è ancora insufficiente ed è pari a 49.701 posti, mentre gli istituti di pena diminuiscono: in 6 anni gli istituti penitenziari sono passati da 209 a 193 per esigenze di razionalizzazione. L’aumento della popolazione penitenziaria riguarda essenzialmente la quota dei detenuti in custodia cautelare. "I numeri salgono a legislazione invariata - spiega Antigone - e nonostante non crescano i numeri delle denunce pervenute all’autorità giudiziaria". Complessivamente sono 18.908 i detenuti in custodia cautelare, pari al 34,9 per cento della popolazione detenuta. Al 30 giugno del 2015 erano 17.830, pari al 33,7% della popolazione reclusa. Dunque vi è stata una crescita dell’1,2 per cento. "È qui la spiegazione della crescita globale della popolazione detenuta nell’anno trascorso - spiega il rapporto -: crescono i presunti innocenti. I detenuti in custodia cautelare sono complessivamente cresciuti di 1.078 unità, ovvero la quasi totalità dei 1.318 detenuti in più nell’ultimo anno". Secondo il rapporto di Antigone, inoltre, al 30 giugno 2016 erano 9.120 i detenuti in attesa di primo giudizio. Erano 8.878 al 30 giugno 2015. Di questi 4.566 i detenuti appellanti, contro i 4.618 del 30 giugno 2015, mentre sono 3.841 i ricorrenti in Cassazione al 30 giugno 2016, contro i 3.107 di un anno prima. Cresce anche il numero dei detenuti con più posizioni giuridiche contemporanee, 1.381 contro i 1.227 dell’anno precedente. Per Antigone, occorre ridurre l’impatto della custodia cautelare "attraverso la concessione di misure alternative per chi ha meno di tre anni di carcere da scontare, attraverso un uso ridotto dello strumento disciplinare che incide negativamente sugli sconti di pena, attraverso una nuova disciplina delle droghe". Sebbene i numeri parlino di un trend in crescita per quanto riguarda le misure alternative, in termini assoluti si tratta di dati non ancora soddisfacenti. Secondo Antigone, infatti, al 30 giugno 2016 erano 23.850 le persone in misura alternativa. Erano 23.377 un anno prima. "I numeri delle misure alternative crescono lievemente - spiega il rapporto -, come hanno fatto anche negli anni precedenti, ma rimangono tuttavia troppo bassi rispetto alle potenzialità. Se fino al 2010 il numero delle persone in misura alternativa cresceva insieme al numero delle persone detenute, aumentando complessivamente il numero delle persone sotto queste forme di controllo penale, solo dal 2010 in poi le misure alternative hanno cominciato a erodere i numeri del carcere". Secondo lo studio, a determinare un’inversione di rotta è stata la legge 199 del 2010, che consentiva di scontare l’ultimo anno di pena (alzato poi a un anno e mezzo nel 2010) in detenzione domiciliare. "La detenzione domiciliare è la misura alternativa che comporta meno impiego di risorse da parte dell’amministrazione - spiega Antigone -, ma è anche quella dal minor valore in termini di reintegrazione sociale. È necessario che si investa maggiormente nel sistema delle misure alternative alla detenzione come autentica alternativa a una visione carcerocentrica". Secondo il rapporto, sono 19.812 detenuti che devono scontare una pena residua inferiore ai tre anni e dunque potrebbero accedere alle misure alternative. "In termini percentuali - spiega Antigone -, il 56,2 per cento dei detenuti condannati in via definitiva deve scontare una pena breve facilmente sostituibile con una misura diversa dal carcere". Stabili le percentuali sui reati commessi durante una pena alternativa. Nell’anno 2015 lo 0,79 per cento delle persone che scontavano una misura alternativa ha commesso un nuovo reato. È stato lo 0,76 per cento nel 2014 e lo 0,92 per cento nell’anno precedente. "Percentuali irrisorie - spiega Antigone -, a testimonianza del fatto che investire sulle misure alternative conviene e non mette a rischio la sicurezza". Per tale ragione, Antigone chiede all’Amministrazione penitenziaria di destinare entro il 2020 il 20 per cento del bilancio del Dap in misure alternative. "Oggi per queste misure l’Amministrazione penitenziaria spende meno del 5 per cento del proprio bilancio - spiega il rapporto. La parte più avanzata del nostro sistema di esecuzione delle pene dunque è anche di gran lunga quella con meno risorse. I soldi servono tutti per il carcere". In crescita, infine, i dati dello strumento della messa alla prova, che dal 2014 è stato esteso anche agli adulti mentre prima era applicabile solo per i minorenni: vedeva coinvolte allo scorso 30 giugno 8.560 persone adulte (erano 3.969 al 30 giugno 2015). Altre 10.773 erano sotto indagine da parte dei servizi sociali per decidere dell’applicabilità dell’istituto (erano 9.633 un anno prima). Carceri come palestra del terrorismo? 39 i detenuti radicalizzati, 300 quelli "a rischio" di Francesca Angeli Il Giornale Il rischio di radicalizzazione dietro le sbarre è una realtà e a dirlo è il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervistato ieri ad Omnibus in onda su La7. "Il carcere è un luogo di segregazione - dice il Guardasigilli. E dunque in prigione la radicalizzazione è più frequente e più semplice". Nelle carceri italiane il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, segnala la presenza di 39 detenuti radicalizzati, mentre sono almeno 300 invece quelli ritenuti a rischio di radicalizzazione. Cifre comunque confermate dallo stesso Orlando che parla di 30 persone "riconducibili a fatti di terrorismo" e di "300 a rischio". Tutti, assicura il ministro, "si trovano sotto controllo" e "vengono monitorati". Ma il percorso di avvicinamento al terrorismo inizia per molti proprio dietro le sbarre. "Non sempre la radicalizzazione si realizza quando c’è un soggetto che ha già scelto la jihad - spiega il ministro - Spesso si entra per reati comuni e poi si finisce per assumere una nuova veste". Dunque importante "avere capacità di infiltrazione e di controllo all’interno di queste comunità". È necessario anche che il mondo islamico moderato collabori. "Chiediamo aiuto all’Islam per contrastare la radicalizzazione all’interno delle carceri - prosegue il ministro - L’Islam europeo deve prendere una posizione chiara di condanna". Orlando poi condivide l’analisi di Papa Francesco: "Il mondo è in guerra ma non è una guerra di religione". Il ministro ritiene che il Papa "faccia benissimo ad evitare la definizione di guerra di religione visto che una parte significativa di questi attentatori non uscivano dalle moschee ma dalle sale giochi delle periferie europee e avevano una vita assolutamente laicizzata, fino a pochi minuti prima del fenomeno di radicalizzazione". Certo innegabile che la religione giochi un ruolo ma, prosegue Orlando, "il Papa introduce un fatto nuovo mettendo in evidenza gli interessi di carattere geopolitico ed economico che ci sono dietro". E sulla situazione di affollamento nelle carceri fa il punto come ogni anno l’associazione Antigone che si occupa del rispetto dei diritti negli istituti di pena. I detenuti sono di nuovo aumentati e soprattutto cresce il numero dei detenuti in custodia cautelare. Al 30 giugno del 2016 i detenuti presenti in carcere erano 54.072 contro i 52.754 dello scorso anno. È ancora lontano il record del 2010 quando le quasi 70.000 presenze nelle celle costarono all’Italia il richiamo dell’Europa. La capienza regolamentare delle carceri italiane stabilita dal ministero della Giustizia sarebbe infatti di 49.701 posti. Sono 18.908 i detenuti in custodia cautelare ovvero il 34,9 per cento della popolazione carceraria. Molti gli stranieri, uno su tre. Sono 18.166 e rappresentano il 33,5 per cento dei reclusi. In calo i carcerati rumeni, in aumento invece i marocchini. I detenuti che si professano cattolici sono 29.658, decisamente la maggioranza. Quelli che dichiarano fede islamica 6.138 e 2.263 gli ortodossi. Secondo Antigone i 19.812 detenuti con una pena residua inferiore ai tre anni potrebbero accedere alle misure alternative, decongestionando le celle. Prigioni affollate ma costose. In Italia infatti il costo giornaliero del sistema penitenziario è pari a 141,80 euro. In Inghilterra è di 109 euro per 85mila detenuti; in Francia di 100 euro per 77mila detenuti; in Spagna 52 euro per 65mila. Il magistrato Alfredo Mantovano "mettiamo i jihadisti al carcere duro, come i mafiosi" di Orlando Pacchiani Il Giorno, 29 luglio 2016 Per arginare i sempre più frequenti casi di radicalizzazione nelle carceri serve un nuovo 41 bis, modellato sul terrorismo jihadista. Alfredo Mantovano, magistrato di Corte d’appello, già sottosegretario all’Interno e a lungo parlamentare, propone una soluzione simile a quella adottata nel 1992 dal nostro Paese, dilaniato dallo stragismo mafioso. "Doveva essere una soluzione transitoria, dopo un quarto di secolo nessuno può disconoscerne i meriti", dice Mantovano. E quale utilità potrebbe avere contro i fondamentalisti? "Mafia e terrorismo sono fenomeni diversi, male modalità di aggregazione e reclutamento che passano dal carcere hanno molti elementi di analogia. Con il 41 bis i capi mafia agli arresti hanno smesso di mandare messaggi all’esterno ed esercitare una sorta di dominio tra le sbarre che produceva affiliazione". Lei riscontra analogie con la situazione attuale? "La vicenda del giovane francese, in contatto con elementi fondamentalisti in carcere e poi autore dell’omicidio a Saint Etienne, è emblematica. Quando si vive in condizioni di disagio e vicinanza, si può essere preda di chi usa argomenti persuasivi". Ma la situazione attuale in Italia qual è? Quanto bisogna essere preoccupati? "Da noi c’è un buon interscambio informativo tra dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, forze di polizia, servizi. Ma per il tipo di minaccia, le modalità di aggressione e la molteplicità di obiettivi attuali, è necessario alzare il livello di guardia". Quindi un nuovo 41 bis. "Cambiando quello che c’è da cambiare rispetto a quella normativa, i presupposti sono analoghi. Non si tratta di fare leggi speciali, ma di impedire contatti che possano tradursi in nuove azioni di terrorismo. E non bisogna aspettare. Servono decisioni rapide, quello che succede a due passi da noi non lascia tranquilli. Finora siamo stati immuni per una serie di ragioni, rafforziamole". Quali sono queste ragioni? "Intanto abbiamo un sistema di sicurezza ramificato sul territorio. La presenza capillare delle caserme dei carabinieri sul territorio è una ricchezza straordinaria, il loro rapporto con questure, polizia, Digos, permette un costante scambio di informazioni. Ci sono poi ragioni culturali: da noi non esistono banlieue dove l’estremismo prolifera. Ma non basta. Le maglie vanno strette, senza smantellare ciò che funziona". Avverte un pericolo del genere? "C’è qualche segnale non incoraggiante. Qualche mese fa è stato soppresso il Corpo forestale, mi auguro non sia l’inizio di un percorso più ampio di ristrutturazione. Poi c’è la previsione dell’ufficio sulla cyber sicurezza direttamente alla presidenza del Consiglio: ma quel mestiere lo fanno già polizia postale, carabinieri e altri. Rafforziamo quello che c’è, invece di moltiplicare i soggetti disperdendo risorse ed energie, come successo in Francia con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti". Si riferisce ai casi di soggetti controllati e pure liberi di compiere stragi? "Ogni caso ha la sua storia, ma è evidente che si pagano errori fatti negli anni. Hollande ha aumentato i corpi di polizia sprecando soldi, ha mandato a casa tanti agenti esperti che conoscevano il territorio, in più in Francia si è pensato che l’emergenza fosse conclusa con la finale degli Europei di calcio. E non si è pensato a un simbolo come il 14 luglio. Ma i terroristi, a quanto pare, conoscono la storia di Francia più di chi la governa". La cannabis si è imprevedibilmente impantanata di Cesare Maffi Italia Oggi, 29 luglio 2016 Gli ostacoli alla Camera si sono dimostrati più forti del previsto. All’inizio di questa settimana si divulgavano, con ampio risalto, notizie sulla possibile legalizzazione della cannabis. Adesso si ha una sola certezza: la Camera tornerà a occuparsene, ma non si conosce con quale esito. Addirittura si leggevano schemi delle previste disposizioni sul consumo, sulla coltivazione, sulle sanzioni. Un pessimo esempio, non c’è che dire, di informazione, posto che si era di fronte a un progetto di legge che arrivava per la prima volta in aula, senza avere concluso l’iter in commissione: dunque, qualsiasi notizia fornita sui contenuti, dati come fossero già legge, era tanto prematura quanto inopportuna. Vedremo, a settembre o forse a ottobre, il destino del provvedimento. Però alcuni dati vanno rammentati. I sostenitori della legalizzazione avvertono che sussiste un’ampia base parlamentare di sostenitori, il che è vero, perché partire da oltre duecento deputati è un indubbio punto di forza. Di fatto, compatti a favore sono pentastellati e sinistra. I democratici che si sono dichiarati per legalizzare la cannabis sono 85: i deputati del Pd, però, sono oltre 300. Come la pensano? Bisogna poi considerare i contrari. Sicuramente FdI e Lega, in larga misura Fi, meno sicure le posizioni fra i tanti collocati nel gruppo misto o nel variegato centro. Sul piano politico, l’ostilità già espressa dagli alfaniani (anche a livello di governo) fa dubitare che il percorso possa risultare facile. Le molte centinaia di emendamenti, già presentati e non discussi, stanno lì a dimostrare che gli ostacoli ci sono. Questo, alla Camera. Sul voto del Senato, poi, nessuno si pronuncia. O meglio, alcune voci ostili si sono già alzate nel centro-destra per annunciare che a palazzo Madama la legge non passerà mai. La previsione potrebbe essere smentita dai fatti; tuttavia è da considerarsi, al presente, motivata. Quel che infastidisce sono i richiami, esternati sovente dai contrari, sul tipo: "Non è una priorità", "La gente si aspetta altro", "sono ben diversi i problemi da risolvere". Argomenti simili vennero frapposti alla legge sulle unioni civili e c’è da pensare sarebbero innalzati anche contro le nuove norme sull’eutanasia, la cui trattazione procede con tanta lentezza da renderne di fatto impossibile l’approvazione entro la legislatura. Perché chi è contrario a simili provvedimenti non esprime i motivi, che sovente sono più che fondati, per dire di no? Perché ricorre a simili, vacui artifici dialettici? Se si guardasse alla larga maggioranza delle leggi, bisognerebbe dire che ben altri sarebbero stati i provvedimenti da affrontare, stante la gravosità, i costi, le complicazioni, i pesi che ogni nuovo provvedimento di solito introduce. Nuove linee guida del Csm: "sobrietà e omissis". Stretta sulle intercettazioni? Il Dubbio, 29 luglio 2016 Serve "sobrietà contenutistica" nei provvedimenti giudiziari che riportano stralci di intercettazioni e diventa "centrale è il ruolo del pm, che, nel trattamento dei dati sensibili, potrà operare una prima selezione delle conversazioni". Lo scrive la Settima Commissione del Csm, nella delibera sulle linee guida in materia di intercettazioni che oggi sarà all’esame del plenum. Il pm potrà selezionare "le conversazioni da utilizzare e valutare anche se omissare, nelle conversazioni comunque rilevanti, i riferimenti a cose o persone, se non strettamente necessari, dandone conto con adeguata motivazione". Secondo la Commissione, che intende così offrire "buone prassi" a tutti gli uffici giudiziari invitando i magistrati ad "agire con la massima attenzione e ferma l’autonomia organizzativa ed ermeneutica delle norme processuali", un "uso accorto e professionale degli strumenti normativi, anche attraverso l’uso mirato e razionale dell’udienza stralcio, che tenga conto anche delle ricadute organizzative, consente di predisporre adeguate misure di garanzia e salvaguardia dei dati e delle informazioni sensibili raccolte nel corso delle indagini, e che non sono attinenti nell’informazione provvisoria". Il documento presentato al plenum, di cui sono relatori il presidente della Settima Commissione Francesco Cananzi, e i consiglieri Antonello Ardituro e Paola Balducci, prende spunto dal monitoraggio che Palazzo dei Marescialli ha eseguito sulle circolari assunte sul tema intercettazioni in numerose Procure italiane: uno studio che "dimostra - si legge nella delibera - l’esistenza di una peculiare, meritevole e crescente attenzione da parte dei Procuratori della Repubblica in ordine al tema del trattamento dei dati tratti da intercettazioni, tesa ed evitare l’ingiustificata diffusione di conversazioni non funzionali ai provvedimenti giudiziari e a valorizzare, nell’ambito dell’autonomia interpretativa, il sistema normativo vigente, alla luce dei canoni costituzionali in gioco". Il rimedio alla divulgazione di dati sensibili contenuti in intercettazioni "non può essere rappresentato dalla riduzione dell’area operativa del mezzo di ricerca della prova in esame, che è indispensabile per le investigazioni", né "tantomeno dall’opzione di riportare per riassunto e non in forma integrale le conversazioni nei provvedimenti giudiziari, con il rischio di ridurre la genuinità della prova scaturita dalla conversazione intercettata", scrive la Settima Commissione del Csm. "La mera raccolta di dati personali, infatti - si legge nel documento - non provoca una lesione del diritto alla riservatezza, che invece deriva dall’eventuale patologica violazione delle regole di gestione di simili dati". Tendere alla "maggiore limitazione possibile della divulgazione dei dati sensibili": tale operazione "dovrà essere compiuta tenendo conto che in tali casi ci si troverà di fronte alla inevitabile necessità di operare un contemperamento di interessi parimenti garantiti e tutelati, con l’esigenza di ricercare il giusto equilibrio tra valori costituzionali, nessuno dei quali è tanto prevalente da imporre automaticamente il sacrificio dell’altro", è scritto nella delibera. "Una attenta e responsabile applicazione di tali presidi - si legge nel documento che domani arriverà in plenum - ovvero di alcuni di essi potrà consentire di assicurare in via generale un livello avanzato di tutela ai soggetti coinvolti nonché ai magistrati responsabili del trattamento del dato, di operare, nell’ambito della legislazione vigente, in un quadro di regole e di standards operativi condiviso dall’organo di governo autonomo". Le intercettazioni saranno al centro del dibattito in commissione giustizia che sta chiudendo la riforma del processo penale. Sul tavolo l’utilizzo dei virus informatici, i cosiddetti trojan horse, per gli ascolti. Area popolare chiede una disciplina più puntuale che limiti l’uso ai luoghi di cui all’ art. 614 c. p. e ai reati gravi quali il terrorismo e l’associazione a delinquere di stampo mafioso. All’intesa si sta lavorando. Stralciato il capitolo delle notifiche degli atti giudiziari, nella seduta notturna di ieri è stata approvata la proposta avanzata dalla senatrice Rosaria Capacchione (Pd) e dal senatore di Ala Ciro Falanga per dare una corsia preferenziale ai reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione. Caso Uva: rapire un ubriaco non è reato di Mario Di Vito Il Manifesto, 29 luglio 2016 Le motivazioni della sentenza che ha assolto poliziotti e carabinieri. "Una sentenza sconcertante". Così il senatore del Pd Luigi Manconi definisce le 162 pagine con cui il tribunale di Varese ha motivato la sentenza di assoluzione per i dei due carabinieri e sei poliziotti finiti sotto processo per la morte di Giuseppe Uva. A questo proposito, Manconi ha presentato nella mattinata di ieri un’interrogazione ai ministeri della Giustizia, degli Interni e della Difesa: "Da quanto si legge nelle motivazioni - sostiene il senatore - i carabinieri hanno commesso un sequestro di persona, ma il loro comportamento è scusabile, perché sarebbero incappati in un grave errore di valutazione". In buona sostanza, per il tribunale non si può parlare di arresto illegale perché, di fatto, la notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva non sarebbe stato arrestato, ma portato in caserma senza avvertire il procuratore di turno né stilare verbali di alcun genere. L’azione si spiegherebbe con il tentativo da parte degli uomini in divisa di evitare che Uva e il suo amico Alberto Biggiogero, ubriachi a notte fonda per le vie del centro di Varese, arrecassero danni di un qualche genere. Eventualità che la Corte d’Assise deve aver considerato inevitabile, visto che, nelle 162 pagine di motivazioni, diverse sono quelle dedicate ai reati commessi da Uva durante la propria vita, come se il processo fosse stato contro di lui. Per i giudici fermare i due uomini in quel modo è stato senza dubbio un errore, ma non un reato, visto che le intenzioni erano tutto sommato buone e che, soprattutto, l’azione era perfettamente coerente con le decisioni della catena di comando. "Se persino i superiori da cui dipendevano gli imputati - si legge nelle motivazioni della sentenza - erano e sono persuasi che sia legittimo privare della libertà personale un soggetto ubriaco al fine di interrompere le azioni moleste, non si può che concludere che l’errore in cui sono incorsi gli operanti è scusabile". Soprattutto questo passaggio, per Manconi, rappresenta "un pericoloso precedente" perché "le forze di polizia sarebbero autorizzate a derogare dai dettati costituzionali che tutelano la libertà personale come un bene prezioso, ovvero un diritto fondamentale e inviolabile di tutti i cittadini". In altre parole, spiega ancora il senatore del Pd e presidente dell’associazione A Buon Diritto: "Se un carabiniere o un poliziotto non sa distinguere tra un trattamento legittimo e uno illegale, sono davvero i cittadini a doverne fare le spese?". Oltre al principio in base al quale l’illegalità di un arresto può diventare un errore poco più che formale - e, in fin dei conti, scusabile, i giudici di Varese hanno assolto le divise imputate da tutte le altre accuse. Non si trattò di omicidio preterintenzionale a causa della "insussistenza di atti diretti a percuotere o ledere" Giuseppe Uva, particolare che emerge dall’analisi delle perizie mediche e dall’audizione dei consulenti tecnici che "consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso" del gruista 42enne. Con queste sentenza la giustizia infine ammette di non essere capace di spiegare come sia morto Uva. Non per colpa medica, come stabilito da una sentenza della primavera del 2012 che ha assolto il dottor Carlo Fraticelli, né per conseguenza dell’arresto e della notte passata nella caserma di via Saffi, considerando l’assoluzione dei due carabinieri e sei poliziotti. Semplicemente, poche ore dopo il Tso e il ricovero nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, il cuore di Giuseppe a un certo punto ha smesso di battere. Un mistero. D’altra parte che il tentativo di scoprire la verità su questa morte fosse difficilissimo si era capito sin dalle prime battute dell’indagine, con l’inchiesta su quanto avvenuto in caserma che è cominciata soltanto nel 2012, quattro anni dopo i fatti e dopo che ben tre giudici, in vari dispositivi, avevano intimato al pm Agostino Abate di verificare il comportamento tenuto da poliziotti e carabinieri. Nel 2014, dopo un provvedimento disciplinare del Csm contro Abate per la negligenza con cui aveva condotto l’indagine e varie richieste di archiviazione per gli indagati da parte della procura, si arrivò all’imputazione coatta degli indagati. Il dibattimento, però, era a quel punto già irrimediabilmente compromesso: nessuna prova nei fascicoli, testimoni demoliti e poi dichiarati inattendibili, pochissimi elementi da portare davanti alla Corte. Alla fine le assoluzioni sono parse tanto dolorose quanto inevitabili. Ha diritto alla cannabis per curarsi ma non può pagarla: in carcere il pianista Pellegrini di Corrado Zunino La Repubblica, 29 luglio 2016 Un altro arresto a giugno per cinque piantine coltivate sul davanzale. L’uomo accusa forti dolori alle ossa: "Resto sdraiato sul pavimento della cella, non dormo mai". Appelli al governo e digiuni in solidarietà. Fabrizio Pellegrini, 47 anni, pianista, attore e pittore da tempo senza reddito, dallo scorso 11 giugno è tornato in cella. Nel carcere di Chieti. Gli hanno trovato cinque vasetti di cannabis sul davanzale di casa: le cresceva per provare a lenire il dolore, insopportabile, che gli provoca la fibromialgia. "Posso definirmi scheletrico, ma anche questi pochi chili sono un peso insopportabile per la mia colonna vertebrale". Un mese e mezzo fa un giudice lo ha rispedito in cella: "Resto giorni interi sdraiato sul pavimento cercando pace e un po’ di sonno". La sua patologia è detta sindrome di Atlante, dalla figura mitologica costretta a tenere la terra sulle proprie spalle. A Fabrizio Pellegrini, una testata di capelli neri alla Caparezza, l’Asl locale ha certificato la necessità di una terapia a base di cannabinoidi. Solo che costa 500 euro al mese, e l’uomo - che lavora poco proprio per la malattia che lo perseguita - quei soldi non li ha. Per lui la Regione Abruzzo non ha mai attivato il Fondo, 50mila euro, previsto da una legge regionale, la più avanzata in Italia. Da otto anni Pellegrini entra ed esce da tribunali e carceri. Non vuole comprare marijuana sul mercato nero, i 500 euro mensili quando ha potuto li ha chiesti agli amici, collette, poi ha scelto la strada dell’autocura dando sempre risalto pubblico alle sue necessità e alle sue coltivazioni. Nel 2008 è stato arrestato per la prima volta dagli agenti della squadra mobile di Chieti: "Possesso ai fini di spaccio". In tribunale il suo avvocato ha portato cartelle cliniche, referti medici e relazioni tecniche per dimostrare la profondità dei suoi disturbi muscolo-scheletrici - dipendono anche dall’ansia - e certificare la richiesta fatta dall’Asl di Chieti di ricevere cannabis dall’Olanda. Aveva potuto pagare il Bedrocan - questo il nome del farmaco concesso - la prima volta, poi basta. E successivamente l’Azienda sanitaria non si è mai accollata le spese. La patologia di Fabrizio Pellegrini è connotata da "una sofferenza cronica del sistema immunitario che, negli stadi avanzati, porta all’erosione di tutte le articolazioni". L’artista, tra l’altro, ha allergie certificate ai farmaci cortisonici, agli antidolorifici. I suoi quadri sono diventati sempre più rari, faticosi, le serate al piano si sono diradate. Sostituite, invece, da mattinate in tribunale e puntuali condanne. Sospensioni della patente, spese processuali. Per ora le condanne sono tutte in primo grado. Colpisce il fatto che un giudice abbia autorizzato la somministrazione gratuita del farmaco a base di cannabis a un 43enne residente nella vicina Avezzano, affetto da sclerosi multipla. Il principio attivo del Thc è considerato cura, in Italia, dal 2007. Pellegrini, invece, deve pagare la terapia. Già. Per il pianista che non dorme mai è partita una gara di solidarietà e denuncia che in tutta Italia si sta manifestando con diverse iniziative. Digiuni a staffetta dei Radicali italiani, malati di sclerosi multipla - come Andrea Trisciuoglio, segretario dell’Associazione LaPiantiAmo - che a loro volta decidono di interrompere la cure con la cannabis. Sul suo sito è intervenuto anche Roberto Saviano: "Cinquecento euro al mese equivalgono a un mutuo, a un affitto, cifra folle che sarebbero in pochi a potersi permettere", ha scritto. Nel mondo antiproibizionista è partito un appello, che chiede l’intervento del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Si legge: "Per la prima volta nella storia del nostro Paese un disegno di legge che prevede la legalizzazione della cannabis è all’esame del Parlamento, ma gli ostacoli da superare sono molti e intanto i danni del proibizionismo continuano a manifestarsi indisturbati come nella vicenda di Fabrizio Pellegrini". In cella perché coltiva cannabis per curarsi. Battaglia radicale per l’artista di strada di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 29 luglio 2016 C’era anche lui nel 2013, quando Rita Bernardini, con un’azione di disobbedienza civile, piantò semi di canapa a Montecitorio. Ora è rinchiuso nel carcere di Chieti, da 5o giorni, accusato di aver coltivato alcune piantine di cannabis. Solo che Fabrizio Pellegrini, 47 anni, lo ha fatto non per piacere o lucro, ma perché è affetto da fibromialgia, malattia che gli provoca dolori lancinanti. La cannabis di Stato, prevista per motivi terapeutici, non è mai arrivata. Al suo posto, la galera. Il primo a dargli solidarietà, commovente, è stato Andrea Trisciuoglio, segretario dell’associazione LaPiantiAmo, affetto da sclerosi multipla. Ha sospeso la sua terapia a base di cannabinoidi per chiedere la scarcerazione di Pellegrini. Insieme a lui digiuna da giorni Norberto Guerriero, dell’associazione radicale foggiana Mariateresa Di Lascia. E con lui altri, radicali e non solo. A favore di Pellegrini si sono spesi in Parlamento Luigi Manconi e Pippo Civati. Ieri si è aggiunto, dal suo blog, Roberto Saviano. Tra le richieste, un intervento del ministro della Giustizia Andrea Orlando e della Salute Beatrice Lorenzin. Pellegrini ha 47 anni, è un artista da strada, pianista e pittore. Una madre e una sorella. Il suo corpo è malato, affetto dal 2002 da una grave malattia autoimmune. Spiega l’avvocato radicale Vincenzo Di Nanna: "È intollerante agli oppiacei: l’unica medicina efficace, è certificato, è la cannabis". La Regione Abruzzo è la prima ad aver creato un fondo apposito, 5o mila euro. Ma la legge è inattuata. La Asl prescrive la cannabis a Pellegrini e ottiene l’autorizzazione dal ministero a importarla dall’Olanda, ma non anticipai soldi. Pellegrini, indigente, paga 50o euro, raccolti con una colletta. Gli bastano per un mese. Poi decide di far da sé. Finisce in carcere nel 2003 per tre giorni, nel 2005 per tre mesi, nel 2008 per un mese. Poi la condanna definitiva, cumulo di due pene, a poco più di due anni. 11 legale d’ufficio non chiede in tempo le misure alternative e lui finisce in cella. Passa giornate disteso per terra, paralizzato dai dolori alla colonna vertebrale. Rita Bernardini lo va a trovare due volte in cella. Racconta Guerriero: "Sta malissimo, gli hanno rasato i capelli, ha ecchimosi dappertutto. Il carcere di Chieti è vergognoso". Conferma l’avvocato Di Nanna: "Sono in sette in una cella da tre. Lui è incompatibile con la detenzione. Non viene curato, fa yoga sulla branda e soffre. Non ha più sensibilità alle mani. E perché? Perché non ha voluto dare soldi alla criminalità". La legge sulla cannabis, arriva alla Camera, si è impantanata. I radicali raccolgono firme per una legge di iniziativa popolare. Pellegrini aspetta. Arresto europeo: le misure restrittive si scontano dalla pena di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2016 Le misure restrittive della libertà personale, ad alcune condizioni, possono essere equiparate a quelle privative come la detenzione. Con la conseguenza che, in questi casi, le autorità nazionali sono tenute a decurtare dalla pena da scontare nel Paese di emissione il periodo in cui il destinatario del mandato di arresto europeo è stato sottoposto a misure come arresti domiciliari e braccialetto elettronico nello Stato di esecuzione. È la Corte Ue, con la sentenza depositata ieri (C-294/16), a stabilirlo, chiarendo la nozione di custodia della decisione quadro 2002/584 relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna (recepita in Italia con legge n. 69/2005), come modificata dalla 2009/299 che rafforza i diritti processuali delle persone. A rivolgersi a Lussemburgo, un tribunale distrettuale polacco alle prese con il calcolo della pena detentiva da far scontare a un proprio cittadino condannato a tre anni. L’uomo si era sottratto alla giustizia e, a seguito dell’adozione di un mandato di arresto europeo, era stato arrestato nel Regno Unito. Nello Stato di esecuzione era stato sottoposto all’obbligo di soggiorno in casa per 9 ore durante la notte e, in aggiunta, all’obbligo di indossare il braccialetto elettronico. Consegnato alla Polonia, l’uomo aveva chiesto che l’anno così trascorso nel Regno Unito fosse decurtato dalla sua pena detentiva. Di qui la richiesta di chiarimenti a Lussemburgo, in particolare sull’articolo 26 della decisione quadro. È vero - osserva la Corte - che la norma dell’atto Ue precisa che lo Stato membro emittente è tenuto a dedurre il periodo complessivo di custodia, che risulta dall’esecuzione di un mandato d’arresto europeo, dalla durata totale della detenzione "che dovrà essere scontata nello Stato emittente in seguito alla condanna a una pena o a una misura di sicurezza privative della libertà", ma la decisione quadro non chiarisce il significato di custodia. Si tratta, in ogni caso, precisano gli eurogiudici, di una nozione che non può essere desunta dagli ordinamenti nazionali, ma è propria dell’ordinamento Ue. Con la conseguenza che i giudici nazionali sono tenuti a procedere all’interpretazione conforme del diritto nazionale alla luce del testo e della finalità della decisione quadro. Pur ammettendo le difficoltà interpretative dovute anche alla circostanza che la nozione varia a seconda delle differenti versioni linguistiche, la Corte ha stabilito che è necessario distinguere tra misure privative della libertà personale, che certo rientrano nella nozione di custodia, da quelle restrittive che, in via generale, dovrebbero essere escluse. Tuttavia, nei casi in cui le misure applicate nello Stato di esecuzione, per la durata, gli effetti e le modalità di esecuzione hanno un grado di intensità tale che queste restrizioni sono assimilabili a una privazione della libertà corrispondente al carcere, il periodo va decurtato rientrando nella nozione di custodia. Situazione che, però, non sembra alla Corte si sia realizzata nel caso in esame. Detenuti, per l’interrogatorio in udienza non è necessaria la registrazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 28 luglio 2016 n. 33051. La regola che impone la registrazione degli interrogatori delle persone in stato di detenzione non si applica nel caso in cui l’interrogatorio avvenga nel corso di una udienza. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 28 luglio 2016 n. 33051, rigettando il ricorso di due imputati per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, secondo cui invece "l’omessa registrazione degli interrogatori svolti in sede di udienza di convalida del fermo, avrebbe determinato la nullità dell’ordinanza applicativa della misura cautelare". Il procedimento riguardava cinque persone ristrette in carcere dal Gip del tribunale di Roma (che a sua volta aveva confermato la misura già disposta dai giudici territorialmente competenti), con l’accusa di aver messo in piedi una stabile organizzazione per il traffico di cocaina dall’Olanda, nascondendo il denaro all’interno di camion adibiti al trasporto di fiori, adoperati poi per la successiva importazione dello stupefacente. In merito al motivo di ricorso sollevato da due imputati, la sentenza ricorda che le Sezioni Unite hanno chiarito, fin dal 1998, che "lo strumento documentativo normale degli atti del procedimento penale è quello della verbalizzazione (a norma dell’articolo 134 c.p.p.) avendo la riproduzione audiovisiva funzione meramente aggiuntiva, limitata, peraltro, alla ipotesi in cui essa si appalesi come assolutamente indispensabile". "Invertendo il canone di priorità dei mezzi di documentazione - prosegue la citazione - l’articolo 141 bis c.p.p., introdotto dalla legge 8 agosto 1995 n. 332, prevede, come normale modalità documentativa dell’interrogatorio di persona in stato di detenzione, la riproduzione fonografica o audiovisiva essendo la verbalizzazione prevista solo in forma sommaria ed in ambito complementare". Tale disposizione, prosegue la sentenza, trova dunque applicazione negli interrogatori condotti dal Gip per la revoca o sostituzione di misure cautelari, l’estinzione di misure disposte per esigenze probatorie, l’interrogatorio in carcere prima del dibattimento, nonché in quelli effettuati dal Pm nei confronti di imputati in un procedimento connesso, nomina e assistenza del difensore, interrogatorio dell’arrestato o del fermato. È invece "esplicitamente escluso", affermano le Sezioni unite, che tali formalità "debbano adottarsi anche in caso di interrogatorio reso in udienza, sicché le particolari modalità di documentazione previste dall’articolo 141-bis c.p.p.", vale a dire l’ausilio di mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva, "non riguardano l’atto compiuto nel corso dell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo, del giudizio abbreviato o dell’udienza preliminare" (Cassazione n. 9/1998). Mentre, precisa la sentenza, la mancata "trasmissione", da parte del pubblico ministero, al giudice per le indagini preliminari o al tribunale del riesame, "unitamente al verbale redatto in forma riassuntiva delle dichiarazioni rese da soggetto in stato di detenzione, anche della relativa registrazione fonografica o audiovisiva, non dà luogo a inutilizzabilità della dichiarazione, essendo prevista tale sanzione soltanto per l’ipotesi che la registrazione non venga effettuata". Per la corruzione nel privato fino a tre anni di reclusione di Federica Micardi Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2016 Approvata in via definitiva la legge di delegazione europea 2015. Ieri il Senato ha dato il via libera con 141 sì, 35 no e 42 astenuti. Nei 21 articoli del provvedimento ci sono le deleghe al Governo per l’attuazione di 13 direttive, una decisione quadro, una raccomandazione del Comitato europeo per il rischio sistemico, due direttive in via regolamentare. Le materie sono le più varie, si va dagli animali esotici alle etichette alimentari, dalle emissioni alla qualità di benzina e diesel, dai sistemi antiriciclaggio alla lotta alla corruzione nel sistema privato. Il tempo concesso, in caso di delega al Governo va dai 60 giorni ai due anni. Tempi di attuazione ridottissimi - 60 giorni - sono previsti solo per la riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero: va vietata la distribuzione gratuita, va progressivamente ridotta la commercializzazione e va avviata una campagna di informazione e sensibilizzazione all’uso della plastica. Un altro tema su cui i tempi sono contingentati è quello relativo alla corruzione nel settore privato. Entro tre mesi deve essere approvato un Dlgs ad hoc; per il reato di corruzione deve essere prevista la reclusione da un minimo sei mesi a un massimo di tre anni e l’interdizione temporanea per chi esercita funzioni direttive o di controllo presso società o enti privati. Per tutte le altre previsioni - fa eccezione l’armonizzazione delle regole per commerciare materiali da costruzione che va fatta entro sei mesi - i tempi riconosciuti sono di almeno 12 mesi. L’allineamento dell’Italia con le direttive Ue porterà alla creazione, nel nostro paese, di un nuovo comitato di controllo per gli aspetti finanziari. L’articolo 10 della deliberazione europea prevede infatti la creazione di un comitato nazionale ad hoc per le politiche macro-prudenziali cui parteciperanno Bankitalia, Consob, Ivass e Covip. Il comitato avrà specifiche funzioni di indirizzo e raccomandazione alle Autorità che vi prendono parte e poteri di richiesta di informazioni a soggetti pubblici e privati con potere sanzionatorio in caso di inottemperanza. La legge in questione (Ddl 2345) recepisce - con anticipo rispetto ai tempi concessi dalla Ue - anche la normativa volta a incentivare il mercato dei pagamenti digitali, il cosiddetto Psd2 (Directive on payment services); due gli obiettivi: favorire l’uso di strumenti di pagamento elettronici e promuovere lo sviluppo di un mercato concorrenziale dei servizi di pagamento. Sul tema era stato presentato dal senatore Orellana un emendamento, poi ritirato, che mirava ad incentivare l’uso del bancomat per i pagamenti privati attraverso il riconoscimento di una detrazione fiscale del 3% sul totale dei pagamenti annuali effettuati dai consumatori finali. La confisca allarga il raggio d’azione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2016 Confisca più incisiva per una serie di reati. A partire dall’auto-riciclaggio per finire alla corruzione tra privati, passando per criminalità organizzata e delitti informatici. Lo prevede il decreto legislativo approvato ieri sera dal consiglio dei ministri, messo a punto dal ministero della Giustizia recependo la direttiva 2014/14/Ue con oggetto il congelamento e la confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nella Ue. Il decreto stabilisce misure di adeguamento delle norme interne in una prospettiva di uniformità nell’Unione di misure di aggressione, nelle diverse forme (diretta, allargata o per equivalente) ai patrimoni di provenienza illecita. In quest’ottica si estende il perimetro di azione della cosiddetta confisca estesa, dove il modello è quello della misura di prevenzione disposta inizialmente in funzione antimafia. Una tipologia che è applicabile anche ai beni non direttamente collegati al reato di cui però il condannato non è in grado di giustificare la provenienza e posseduti in maniera sproporzionata rispetto al reddito prodotto in maniera legittima. Non è cioè necessario provare un nesso causale tra i beni oggetto della misura e il reato. Ora questa forma di misura va a chiudere il cerchio dell’arsenale a disposizione per combattere la condotta di auto-riciclaggio, rilevante penalmente da un anno e mezzo. Se infatti la confisca allargata è già possibile per le fattispecie di riciclaggio e reimpiego non altrettanto era stato previsto per il reato disciplinato dall’articolo 648ter 1 del Codice penale. Il medesimo modello di confisca viene poi previsto anche per i casi di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati collegati all’introduzione in Italia di banconote false. Confisca estesa che sarà inoltre applicabile anche al reato di corruzione tra privati (e per questo reato è introdotta contestualmente anche la misura della confisca per equivalente, almeno nella misura del prezzo e dell’utilità pagata, analogamente a quanto avviene per la corruzione semplice) e, chiarendolo in maniera definitiva, ai reati di terrorismo internazionale. La confisca, nella forma per equivalente, quando cioè non è più possibile procedere a sottrarre direttamente il profitto del reato, è poi prevista dal decreto anche per il reato di associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti. Potrà essere disposta anche nel caso di patteggiamento per il medesimo reato di traffico di stupefacenti: per giurisprudenza costante è già ammessa, d’altra parte, la confisca del profitto dopo la dimostrazione del vincolo di pertinenza tra le somme detenute e l’attività illecita, soprattutto nel caso di semplice detenzione e non anche di cessione. E sul fronte delle misure a carico delle società, con un innesto nel decreto 231 del 2001, la confisca obbligatoria per equivalente andrà a colpire anche le condotte illecite legate alle frodi e falsificazioni dei mezzi di pagamento diversi da contanti. Diventerà poi obbligatoria, ma qui ci muoviamo sul terreno della confisca nei suoi modelli più "classici", la misura di "messa sotto chiave" dei beni strumentali alla commissione di attacchi ai sistemi informatici (ma anche per una serie di falsificazioni comprese dal Codice penale). In particolare, per l’accesso abusivo a un sistema informatico, la detenzione e diffusione di codici di accesso a sistemi informatici o telematici, l’intercettazione illecita, l’alterazione o falsificazione di comunicazioni, l’installazione di apparecchi idonei a intercettare. Attraverso una modifica all’articolo 240 del Codice penale, per questa categoria di reati, la confisca obbligatoria, questa volta per equivalente, è estesa al profitto. Il decreto non interviene invece, ma si tratta di una scelta consapevole, sul fronte della tutela delle vittime. Il ministero della Giustizia ha infatti ritenuto sufficientemente efficaci le disposizioni attuali che permettono a chi ha subito gli effetti di un delitto sui propri beni di chiedere la restituzione attraverso la misura del sequestro conservativo. Empoli: detenute trasferite dal carcere-modello all’inferno di Sollicciano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2016 La struttura di Empoli sarà trasformata in una Rems per i pazienti dell’ex Opg di Montelupo. Chiude il carcere all’avanguardia per le detenute in custodia attenuata. Per trasferire definitivamente tutti i pazienti detenuti illegalmente nell’ex Opg di Montelupo, il carcere di Empoli - un istituto virtuoso e molto legato al tessuto della città - verrà trasformato in una Rems. Le detenute del Pozzale, 15 al momento, andranno a Sollicciano: recentemente soggetto a denunce da parte del garante dei detenuti. Con lo sconcerto generale si chiude definitivamente un carcere modello che ha permesso recuperi importanti e ha portato avanti un progetto che ha plasmato fin da subito tutta la città e le amministrazioni comunali che si sono susseguite negli anni. Il percorso che ogni donna reclusa intraprendeva, funzionava: quasi tutte le donne tossicodipendenti riuscirono ad uscire dal tunnel della droga e si sono potute inserire in circuiti di normalità. Il carcere di Empoli, inoltre, si era candidato per un esperimento importantissimo e ancora necessario. Il transessualismo, si sa, non viene riconosciuto dalle direzioni carcerarie, quindi generalmente le trans sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali separati per detenuti "a rischio" insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. Per evitare questo problema della doppia punizione, ad Empoli, nel 2010, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle detenute transessuali: l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano decise di bloccare l’iniziativa. Eppure era già tutto attrezzato per trasformare la casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in penitenziario riservato ai soggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso. Una virata che, comunque, non aveva cancellato quello spirito di avanguardia e rispetto della dignità delle detenute. Però ora è ufficiale la chiusura per convertire l’istituto in una Rems. A condannare questa iniziativa non sono stati solamente gli addetti ai lavori, ma anche la sindaca della città Brenda Barnini: "La chiusura del carcere femminile del Pozzale apre una grande ferita nella nostra comunità. Fin dall’inizio del mandato amministrativo mi sono adoperata più volte per rappresentare alle istituzioni regionali e ministeriali la qualità e l’importanza della relazione che si era instaurata tra il cosiddetto "carcerino" e la nostra città. Grazie alla direzione del dottor Puja tante e rinnovate sono state le iniziative che hanno portato le ragazze ospiti ad entrare in contatto con la società empolese e altrettante le occasioni in cui i cittadini sono potuti entrare dentro. In particolare i progetti realizzati in collaborazione con Giallo Mare Minimal Teatro e le scuole superiori, così come i laboratori di scrittura e le occasioni di incontro estive dentro al giardino dietro le mura. Tutte iniziative volte a ridurre la distanza tra dentro e fuori e a mettere in moto percorsi virtuosi di scambio di esperienze e di punti di vista". La sindaca conclude: "Le valutazioni meramente economiche sul costo dell’organizzazione e sui pochi numeri di persone ospitate non vanno certo nella direzione dell’umanizzazione della pena e dell’effettivo valore riabilitativo della stessa. Seguiremo con attenzione il percorso preoccupandoci sia del destino personale delle ragazze ospiti sia della riconversione dell’immobile in Rems". C’è tristezza e rammarico anche tra gli artisti che hanno operato nel carcere. Ad esempio c’è Giallo Mare Minimal Teatro, la compagnia teatrale empolese che dal 1998 ha condotto all’interno della casa circondariale femminile del Pozzale il progetto Teatro carcere, coinvolgendo in 18 anni di attività oltre 270 detenute. Spiega Vania Pucci, presidente della compagnia: "L’esperienza di Pozzale è stata esemplare e modello a livello nazionale. Nei nostri progetti le ragazze hanno sempre trovato l’occasione per ritrovare se stesse e per fare un piccolo salto culturale, affrontando tematiche forti e impegnative. Il nostro lavoro è stato sempre premiato dalle continue sorprese ed emozioni che queste donne ci hanno regalato. L’interazione e la sinergia che è stata poi raggiunta con il rapporto con la città è stato il premio di tutto il lavoro portato avanti dalle ragazze. La distanza fra "dentro" e "fuori" è stata annullata e questo non ha prezzo, sia per chi sta in carcere che per chi invece è un cittadino libero". Si aggiungono le proteste dei sindacati della polizia penitenziaria soprattutto perché non erano stati informati di questa iniziativa. Il caso Empoli era stato già sollevato - quando cominciò a ventilare questa ipotesi - dal vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti (Pd), depositando un’interrogazione a risposta scritta al ministro della Salute e a quello della Giustizia e valutando l’iniziativa "come assolutamente non idonea l’attivazione di una struttura sanitaria per malati psichici socialmente pericolosi in un carcere". Un grazie all’esponente del Pd era arrivato dall’associazione "Andrea Tamburi" "per la sensibilità e l’attenzione dimostrata nei confronti di una situazione, certo difficile da gestire, che però deve riscontrare, da parte di tutti i soggetti istituzionali coinvolti, una piena aderenza allo spirito e ai precetti della legge 81/2014 per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari". Oramai però la chiusura e la conversione in Rems del carcere di Empoli è ufficiale. In molti sperano a un ripensamento dovuto dal buon senso, soprattutto per il bene delle detenute che stavano percorrendo un proficuo percorso che sarà bruscamente interrotto. Busto Arsizio: "Vocelibera", è online il numero sei della rivista dei detenuti informazione.it, 29 luglio 2016 Un articolo tratto dal giornale. "Prelievo del Dna per arrestati e detenuti. I dati gestiti dai robot, saranno cancellati tra 20 anni". È entrata in vigore la legge 85 del 2009 che prevede il prelievo obbligatorio, anche coattivo, del Dna di tutti i detenuti e degli arrestati per delitti non colposi, obbligo introdotto con l’obiettivo di realizzare una banca dati nazionale, principalmente nell’ottica antiterrorismo (ma non solo). Si tratta di una novità importante, in quanto metterà a disposizione degli investigatori uno strumento potentissimo per la soluzione di casi criminali. Ma il tema è molto delicato, in quanto riguarda aspetti particolarmente "sensibili" come il i dati genetici di ciascuno. Fino ad ora i prelievi, e le successive analisi, potevano essere effettuate unicamente nel corso di indagini penali, su disposizione della magistratura. Ora la legge autorizza una mappatura generalizzata, con conseguente creazione di un archivio nazionale. L’accertamento potrà rivelarsi molto utile nei casi di persone scomparse. E il loro Dna potrà essere recuperato sugli effetti personali, ma anche sui consanguinei qualora siano disposti volontariamente a sottoporsi all’esame. Ad occuparsi dei prelievi è stato designato il personale della polizia penitenziaria, ma se ne potranno occupare anche le forze dell’ordine. Ad operare dovranno essere sempre in due, infilando una specie di "leccalecca" in bocca al detenuto o alla persona arrestata. I tamponi dovranno poi essere conservati con precise modalità per garantire la correttezza del dato raccolto. L’obbligo di prelievo del Dna riguarda tutti coloro i quali stanno scontando pene definitive, ma anche i semplici indagati ai quali è stata applicata una misura cautelare, oppure il cui arresto sia stato convalidato, anche se con successiva remissione in libertà. Ciò pone problemi operativi non da poco: ad esempio, un indagato per cui il giudice abbia disposto la scarcerazione in attesa del processo per direttissima (o subito dopo la condanna con sospensione della pena) dovrà essere condotto per il prelievo in carcere, dove sarà necessario realizzare una struttura sempre disponibile. Salvo ipotizzare di poter trattenere per chissà quanto una persona di fatto libera. Tempi raddoppiati per la conservazione dei campioni presi ai condannati per mafia e terrorismo. Saranno due le strutture a custodire la Banca dati del Dna: una alla Criminalpol, l’altra in un Laboratorio centrale a Rebibbia di diretta dipendenza del ministero della Giustizia. I dati verranno gestiti con un software che prevede un doppio sistema: un primo livello verrà utilizzato soltanto per le indagini svolte in Italia. Un secondo livello "sarà impiegato anche per le finalità di collaborazione internazionale". L’elenco dei nomi inseriti nella Banca dati verrà conservato per 20 anni. Su questo punto le procedure sono particolarmente rigide, perché necessitano di "profili di autorizzazione predefiniti", per soggetti già in possesso di "credenziali di e previo superamento di una procedura di autenticazione "forte". A occuparsi materialmente della catalogazione e della schedatura non sarà direttamente l’uomo, ma strutture robotizzate. In Italia esistono già delle Banche dati custodite da carabinieri e polizia, anche se tra loro non esiste scambio di informazioni. Sono circa 50 mila i Dna raccolti durante le indagini. Con il nuovo Regolamento i vecchi profili confluiranno nel "grande sistema" e verranno aggiornati e riclassificati. Sono esclusi dall’obbligo di prelievo del Dna le persone coinvolte in delitti colposi, oppure nei reati tipici dei "colletti" bianchi, primi fra tutti quelli tributari o fiscali. La cancellazione dei profili genetici dalla banca dati nazionali è prevista in caso di assoluzione, e comunque trascorsi 30 anni, o 40 anni nel caso in cui il condannato sia recidivo. Volterra (Pi): i detenuti della Compagnia della Fortezza, dalla cella al palcoscenico Il Dubbio, 29 luglio 2016 Il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore ha visitato ieri l’istituto penitenziario di Volterra, diretto da Maria Grazia Giampiccolo, dove ha assistito allo spettacolo "Dopo la tempesta", l’opera segreta di Shakespeare con i detenuti della Compagnia della Fortezza diretti dal drammaturgo Armando Punzo. "Lo spettacolo - ha spiegato Gennaro Migliore - è un esempio di buona pratica che gli Istituti di reclusione possono mettere in campo per ricostruire i legami tra le persone detenute e la società. Le iniziative che mettono al centro progetti volti a favorire lavoro e cultura negli istituti penitenziari sono lo strumento più efficace che abbiamo a disposizione per il reinserimento dei detenuti perché mettono al centro la persona e la sua capacità individuale di recupero. Lo sviluppo di progetti di questo tipo che ho avuto modo di apprezzare anche in altri istituti di reclusione - ha aggiunto il sottosegretario - non devono essere iniziative isolate ma frutto di una programmazione a livello nazionale affinché la pena possa svolgere a pieno il ruolo assegnatogli dalla nostra Costituzione. Il mio auspicio - ha concluso Migliore - è che questa visione diventi sempre più patrimonio comune non solo degli educatori e delle Associazioni che si occupando di diritti dei detenuti, ma anche delle decine di operatori civili del carcere e quelli di polizia penitenziaria che con abnegazione svolgono, spesso in condizioni di carenza d’organico, un lavoro tanto delicato quanto importante". Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani, ecco la mappa gli orrori di Vladimiro Polchi La Repubblica, 29 luglio 2016 Nel dossier "Piccoli schiavi invisibili" di Save the Children un dato inquietante: nel nostro Paese il commercio di persone costituisce la terza fonte di reddito per le organizzazioni criminali, dopo il traffico di armi e droga. Ragazze nigeriane e romene buttate per strada. Minori egiziani, bengalesi e albanesi costretti a spacciare. Giovani somali ed eritrei, "in transito" nel nostro Paese, vittime di sfruttamento. Alla vigilia della Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani (che si celebra il 30 luglio), Save the Children mappa gli orrori del 2016 nel dossier "Piccoli schiavi invisibili". A partire da un dato: nel nostro Paese la tratta di persone costituisce la terza fonte di reddito per le organizzazioni criminali, dopo il traffico di armi e droga. Sbarchi: il boom dei bambini soli. I minori vittima di schiavitù nel mondo sarebbero un milione e 200mila. Una vittima di tratta su cinque è un bambino o un adolescente. "Quello della tratta è un fenomeno estremamente complesso - si legge nel dossier - soprattutto in Italia, che spesso coinvolge minori stranieri non accompagnati, cioè senza adulti di riferimento, molti dei quali sono in transito nel nostro Paese e si spostano da una città all’altra. Basti pensare che in Italia, tra gennaio e giugno 2016, sono arrivate via mare 70.222 persone in fuga da guerre, fame e violenze. Di queste 11.608 sono minori, il 90% dei quali (10.524) non accompagnati, un numero più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (4.410 da gennaio a giugno 2015)". Ragazze in vendita e baby spacciatori. Tra i minori vittima di tratta e sfruttamento in Italia, molte sono le ragazze nigeriane, romene e di altri Paesi dell’Est Europa, sempre più giovani, costrette alla prostituzione su strada o in luoghi chiusi. Attraverso le attività delle unità mobili, Save the Children ha anche intercettato gruppi di minori egiziani, bengalesi e albanesi inseriti nei circuiti dello sfruttamento lavorativo e nei mercati del lavoro in nero, costretti a fornire prestazioni sessuali, spacciare droga o commettere altre attività illegali. A destare particolare preoccupazione sono poi i minori "in transito", tra i quali spiccano eritrei e somali che, una volta sbarcati sulle nostre coste, in assenza di sistemi di transito legali e protetti, si allontanano dai centri di accoglienza e si rendono invisibili alle istituzioni nella speranza di raggiungere il Nord Europa, divenendo facili prede degli sfruttatori. Il business degli sfruttatori. Nel nostro Paese, la tratta di persone costituisce la terza fonte di reddito per le organizzazioni criminali, dopo il traffico di armi e di droga. Il numero dei procedimenti a carico degli sfruttatori, e soprattutto quello delle condanne in via definitiva, rimane però limitato. In Italia, dal 2013 al 2015, sono stati denunciati per reati inerenti la tratta e lo sfruttamento un totale di 464 individui, alla maggior parte dei quali viene contestato il reato di riduzione in schiavitù. Per lo specifico reato di tratta di persone sono stati arrestati più di 190 soggetti di nazionalità prevalentemente romena, albanese e nigeriana. Secondo i dati riportati dal ministero della Giustizia, il 12% degli autori di reati connessi alla tratta e allo sfruttamento sono di nazionalità italiana. Il caso delle schiave nigeriane. Il numero delle minori nigeriane arrivate in Italia è in continuo aumento: nei primi sei mesi del 2016, sono state registrate 3.529 donne di nazionalità nigeriana sbarcate sulle nostre coste, tutte molto giovani, e 814 minori non accompagnati. "Questo dato riflette un trend in aumento che ha visto un incremento del 300% degli arrivi di ragazze nigeriane nel nostro Paese tra il 2014 e il 2015". La maggior parte di loro sono adolescenti di età compresa tra i 15 e i 17 anni, con un numero crescente di bambine di 13 anni. Secondo le testimonianze raccolte da Save the Children, le ragazze vengono adescate nel circuito della tratta tramite conoscenti, vicini di casa, compagne di scuola o spesso anche sorelle maggiori già arrivate in Italia. Una volta reclutate, vengono costrette a un giuramento tramite i riti dello juju o del voodoo, con cui si impegnano a restituire allo sfruttatore il proprio debito, che si aggira tra i 20.000 e i 50.000 euro. Spesso vengono costrette alla prostituzione già durante il viaggio che le porterà in Italia, mentre attraversano il Niger e durante la successiva sosta in Libia. Molte ragazze vengono indotte alla prostituzione già nelle aree limitrofe ai centri di accoglienza, oppure vengono trasferite dai trafficanti in Campania per essere smistate e distribuite nelle principali città italiane. Le ragazze sono costrette a pagare un affitto sia per il luogo in cui vivono che per il marciapiede, con un costo per quest’ultimo che va dai 100 ai 250 euro al mese. I ragazzini egiziani. I ragazzi egiziani condividono l’esigenza di dover mandare soldi a casa per pagare il debito contratto dalla famiglia prima della partenza e questo li trasforma in facili reclute del lavoro nero. A Milano e Torino, la maggior parte viene sfruttata in pizzerie, panifici o mercati ortofrutticoli. A Roma, sono tantissimi i minori egiziani che lavorano all’interno dei mercati generali della frutta e verdura, nelle pizzerie, negli autolavaggi o nelle frutterie. Vengono pagati pochissimi euro e a volte non vengono proprio retribuiti, con la scusa che il lavoro svolto costituisca un apprendistato. In alcuni casi, sono anche vittime di sfruttamento sessuale o coinvolti in attività illegali come lo spaccio di sostanze stupefacenti. Contro la guerra abbiamo la forza "armata" delle nostre idee di Biagio de Giovanni Il Messaggero, 29 luglio 2016 Guerra di religione? Guerra di civiltà? Guerra globale? Come definire ciò che sta accadendo, mantenendo ferma la parola "guerra"? Dare nome alle cose è decisivo, non solo per una attitudine conoscitiva, ma per individuare, in questo caso, la natura del nemico e lo spazio della sua azione e della sua ideazione, e così poter dar l’avvio a una politica nei suoi confronti: non solo militare, quando questa è necessaria, ma culturale, pedagogica, fatta e composta di idee in grado anche di riattualizzare sentimenti e di ridare forza e convinzione a un Occidente incerto e diviso, in tanta tragedia, e diviso anzitutto sui nomi da dare alle cose e agli eventi. Muoviamo da un dato, il più ovvio possibile: chi ci fa guerra? C’è un soggetto complessivo che si chiama Stato islamico, e togliamo, per favore, la immancabile aggiunta "sedicente", che vuol essere ironico svalutativa e serve solo a nascondere la testa sotto la sabbia. Il primo dato che ci viene incontro è dunque politico, esso ci segnala un progetto politico che muove da un’area geografica ben determinata. Ma la vede come un luogo di partenza, la riconquista di uno spazio originario, di una terra promessa che viene giudicata violentata sia da una ben conosciuta lotta intra-islamica, sia da una storia lontanissima e dalle ripartizioni franco-inglesi successive alla prima guerra mondiale. Da lì, per la stessa natura del progetto, la guerra tende a irradiarsi dappertutto, dalle regioni limitrofe, a zone importanti dell’Africa, e soprattutto all’odiato Occidente, che lo Stato islamico vede come il suo vero nemico, lo schiacciante prevaricatore della sua identità. Il primo aggettivo che connota la guerra è dunque "globale", e su questo non mi fermo molto, e mi sembra un dato acquisito che stenta a riconoscere solo chi è fermo alla storia classica delle guerre tra Stati, travolte dall’irrompere, appunto, dello spazio globale. Ma che cosa aggiungere a "globale"? Il fatto che sia lo Stato "islamico" a dichiararla, a chiamarla "guerra santa", impone inevitabilmente che al nostro sguardo si presenti una dinamica religiosa. Il punto di vista che quello Stato esprime è innegabilmente questo, e peraltro è ciò che permette mobilitazione ed espansione. Nelle parole d’ordine intrise di violenza che girano nella rete, di guerra per la vita e per la morte, c’è sempre quel dato ultimo, che indica la lotta all’infedele senza distinzioni, un sacrificio della vita individuale per la salvezza, comunque poi quest’ultima sia formulata o promessa. Questo dato è innegabile e tutte le sue derubricazioni sono reazioni che non esito a definire infantili. Ma da qui, il problema che insorge è di estrema complessità e di non certo facile analisi. Il mondo degli esperti su questo è diviso. In quale misura c’è, dentro l’Islam, almeno un elemento di fondazione che può legittimare una rappresentazione così cupa e tragica della coesistenza tra gli uomini? Che può dividere l’umanità in fedeli e infedeli? Azzardo una ipotesi che ha dei sostenitori: è l’immediatezza del rapporto tra Rivelazione e Storia che dal Corano sembra trasfondersi nelle coscienze di alcuni. Come se la storia medesima diventasse sacra, data la possibilità di leggere in un rapporto diretto, di coincidenza immediata, la relazione tra la Parola del profeta e il Libro in cui essa è consegnata. Problematica, dunque, la distanza tra Rivelazione e Storia, con conseguenze che possono contenere intolleranze radicali e violenze; quella relazione che nella rivelazione cristiana è segnata, invece, da una distinzione, quella che ha consentito al cristianesimo, nelle sue varie confessioni, di conquistare progressivamente l’idea della libertà dell’uomo, nello spazio della storia, proprio dove si muove l’azione degli uomini. Vorrei anche aggiungere che, anche se questa ipotesi fosse, come credo, argomentabile, ciò non implicherebbe in nessun modo un "vade retro" all’Islam come tale. Le componenti dei monoteismi sono assai complesse, e le rappresentazioni di essi che prevalgono di volta in volta sono anche legate al divenire complessivo delle società in cui essi vivono e si sviluppano. E qui ci sarebbe da ricordare che il potente avvio di un rapporto dell’Islam con l’Età moderna è poi precipitato nel progressivo isolamento di quella confessione religiosa. Si può aggiungere che in tutti i monoteismi ci sia qualcosa di intrinsecamente violento, nella stessa idea della creazione del mondo dal nulla e dell’unico dio che ne è protagonista. Onde le diatribe secolari, diffuse dappertutto, e nell’Occidente cristiano, sul tema della libertà e della storia. O sulla necessità della conversione, magari con forme di convincimento un tempo un po’ dure. Che concludere su questo passaggio? Che sicuramente, dal punto di vista dello Stato islamico, la religione conta, che senza il suo collante non sarebbe immaginabile quella mobilitazione globale di cui si intravede addirittura la crescita, naturalmente un elemento collegato con tanti altri, però lì unificato, lì mobilitante. Ma proprio perché consapevoli di questo, il punto di vista euro-occidentale non può esser quello della "guerra di religione", questo lo lasciamo a quella zona dell’islamismo radicale imbevuto di violenza assoluta. L’Occidente, le guerre di religione le ha lasciate deperire da circa 500 anni, e non possiamo far rinverdire oggi, nella nostra coscienza, segnata dall’Età moderna, quello che è scomparso dalla nostra storia, ed è lontano dalle nostre menti; e non possiamo essere riafferrati da quella rappresentazione, o spinti ad accoglierla, ad opera di nessuna spinta esterna. L’Occidente deve rispondere a una guerra di religione non con lo stesso armamentario, rovesciato di senso, ma rivendicando e rielaborando al meglio la propria conquista della distinzione tra religione e politica, liberandola da ipoteche nascoste, combattendo per mantenerla più che mai viva. Non si dimentichi che, nelle lotte novecentesche tra i totalitarismi e la democrazia, gli elementi di una "religione" collettiva hanno travolto il mondo nella loro assoluta violenza, da noi, nell’Occidente moderno. Altra lezione da non dimenticare. Guerra di civiltà, infine? Anche qui reticenze, resistenze ad ammetterlo, ed è necessario molto senso delle distinzioni. Non guerra di civiltà tra Occidente ed Islam, ma guerra di civiltà contro quella visione dell’Islam che si chiama Isis. Guerra, in questi confini, tra due visioni della civiltà, una civiltà della forza e della violenza pure, di una forza che pretende di essere anche giustizia e verità assoluta, dove tornano in campo forze primordiali che stanno nel cono d’ombra dell’umanità, quelle forze che hanno in orrore la luce, e che vivono dell’idea purificatrice della morte. Una civiltà può essere ossessionata da una sola idea, da un solo principio assoluto e questo ci può far comprendere perché essa non è destinata a vincere, ma a una condizione: che l’Occidente riprenda il senso della complessità della sua civiltà, che non si nasconda nell’indifferenza che sta nelle nostre società. In questione, voglio dirlo in conclusione, non sta rinverdire e richiamare le radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente; piuttosto sta nel rimettere a fuoco la nostra identità plurale, comprensiva anche del nostro rapporto con l’Islam, nel ridar corpo alla costituzione ricca di tutto ciò che sta nelle nostre vite, opporre questo a quel delirio di morte. Una forza, insomma, armata di idee. Richiedenti asilo: in Europa un milione di profughi in attesa del riconoscimento di Daniela Fassini Avvenire, 29 luglio 2016 Mentre non si fermano i flussi migratori, calano le richieste d’asilo in Europa. Secondo i dati diffusi da Eurostat, sul primo trimestre 2016, in tutto sono state 287.085 le domande d’asilo di chi è stato costretto a fuggire dal proprio paese per guerra, fame e discriminazione. Erano 426mila dell’ultimo periodo dello scorso anno, con un calo quindi del 33%. Anche in Italia si registra un calo del 10%, arrivando a oltre 22mila, anche se il Belpaese si attesta come la seconda nazione in Europa per numero di richieste, dopo la Germania. Ma il dato più preoccupante è quello relativo alle richieste d’asilo ancora "pendenti", in grande aumento, arrivate a 1 milione (60mila in Italia). Secondo i dati Eurostat aggiornati a fine marzo, è questo infatti il numero di richieste d’asilo ancora all’attenzione delle autorità dei Paesi europei, raddoppiato rispetto a un anno fa. A fine marzo 2015 erano circa 560mila. Con 473mila richieste all’esame (il 47% dell’Ue) la Germania si trova di gran lunga a gestire la quota più importante, seguono la Svezia (147.300; 15%), Austria (84.500; 8%), Italia (60.000; 6%) e Francia (42.900; 4%). Chi sono e da dove arrivano i richiedenti asilo - Tra gennaio e marzo 2016, sono soprattutto Siriani, iraqeni ed afghani a presentare le domande per il riconoscimento dello status di rifugiato in Europa. I siriani hanno presentato 102mila domande, mentre iraqeni e afghani 35mila domande circa entrambi. In Italia a richiedere lo status di rifugiato sono invece soprattutto persone che arrivano da Nigeria, Pakistan, Gambia, Senegal e Bangladesh. La Lombardia rimane la Regione al primo posto per numero di domande presentate presso le commissioni territoriali. Italia secondo Paese in Europa per richieste - Sebbene anche l’Italia veda numeri in calo del 10%, dalle 24.710 domande ricevute nel quarto trimestre 2015 alle 22.335 dei primi tre mesi del 2016, il Paese è al secondo posto in Europa (8%), dopo la Germania (175mila; 61%), per richieste ricevute. In Italia attualmente vivono 58mila rifugiati. Un numero contenuto rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea, basti pensare ai 571.000 rifugiati che vivono in Germania o ai 193.500 in che vivono nel Regno Unito, e ancor più se comparato a quanti vivono nei Paesi di primo asilo. In Pakistan vivono 1.702.700 rifugiati, in Iran 886.500 e in Siria 755.400 rifugiati (fonte Acnur). Il piano Ue di ridistribuzione: primo gruppo di rifugiati italiani in Lussemburgo - La Commissione europea ha stabilito che 24mila profughi arrivati dopo il 15 aprile in Italia e 16mila in Grecia, in maggioranza siriani ed eritrei, saranno ricollocati in altri paesi europei nei prossimi due anni. La maggioranza dei richiedenti asilo andrà in Germania 5.258 (21,91%). Seguono la Francia, 4.051 (16,88%); Spagna, 2.573 (10,72%), Cipro, 104 (0,43%); Malta, 175 (0,73%); Lussemburgo 221 (0,92%). Intanto il Lussemburgo ha accolto il primo gruppo di rifugiati trasferiti dall’Italia. Si tratta di 20 persone, 15 adulti e cinque bambini, che rientrano tra i 557 rifugiati che il Lussemburgo si è impegnato ad ospitare, provenienti da Grecia e Italia entro la fine del 2017. Il Paese ha già reinsediato 39 richiedenti asilo provenienti dalla Grecia. I profughi nel limbo greco di Gilberto Mastromatteo Avvenire, 29 luglio 2016 "Ci hanno sgomberati mercoledì mattina. Erano quattro mesi che non dormivo in un letto vero". Sayed viene da Kabul ed è un cristiano convertito. Non sa ancora se essere contento o preoccupato. È appena arrivato a Oinofyta, nel cuore della Beozia, dove ha sede il centro attrezzato per migranti cui è stato destinato dalle autorità elleniche. Un piccolo modulo abitativo per sé e la sua famiglia. Fino a due giorni fa, dormivano sotto una tenda, sulla banchina E1 del porto del Pireo. Sono stati tra gli ultimi ad abbandonare la enorme tendopoli che per mesi ha occupato lo scalo marittimo, a pochi chilometri da Atene. Da ieri, quell’accampamento non esiste più. "Al Pireo siamo rimasti due mesi - racconta Sayed - altri due li avevamo trascorsi a Lesbo. Ora, Dio solo sa quanto rimarremo qui". Stando ai dati diffusi dalla Guardia costiera greca, lunedì mattina, quando sono iniziate le operazioni di sgombero, erano rimaste poco più di mille persone nello scalo ellenico. Siriani, iracheni, afghani e pakistani. Qualche nordafricano. I trasferimenti sono andati avanti fino a ieri, al ritmo di 400 al giorno. Uno sgombero progressivo, per una tendopoli che la scorsa primavera era giunta ad ospitare 8mila rifugiati. "Oltre a Oinofyta, sono stati portati nel centro attrezzato di Trikala, in Tessaglia - spiega Asimina Bakali, una delle operatrici del gruppo greco Solidarity Now, che in questi mesi ha presidiato quotidianamente il porto del Pireo. Tutto si è svolto al meglio. Del resto, i richiedenti asilo conoscevano la propria sorte, ormai da settimane". Lo sgombero era stato annunciato. Dapprima solo voci. Poi le voci si sono tramutate in dichiarazioni istituzionali. "Il Pireo è solo l’inizio - le parole del ministro per le Politiche migratorie, Yiannis Mouzalas - e a seguire, sarà la volta di Elliniko, l’altro campo, vicino all’aeroporto Venizélos, dove vivono ancora circa 3.500 persone". "Erano mesi che minacciavano la chiusura di questo campo - testimonia Yarbanna, trentenne, saharawi di Al Aaiun, ora ospitato nella struttura di Trikala -. Al Pireo ero arrivato a marzo. All’epoca ci vivevano almeno 7mila persone. Siamo diventati sempre di meno, ma le condizioni non sono mai migliorate". In tutto i migranti potevano contare su una cinquantina di bagni chimici e una dozzina di docce. Mentre l’assistenza medica era quella fornita dai pochi volontari delle organizzazioni non governative presenti. L’emergenza sanitaria era continuamente dietro l’angolo. Jinn Khan ha 25 anni e viene da Wazirabad, nel Punjab pakistano. Anche lui è stato trasferito a Oinofyta. Ma fino a lunedì scorso dormiva all’interno della piccola stazione marittima del gate E1. "Non ce la facevamo più - racconta. Il caldo, di giorno, stava diventando insopportabile. Di notte non si riusciva a dormire. Il cibo non era buono". E poi le risse, sempre più frequenti. A metà luglio un migrante afghano è rimasto ucciso, nel campo di Elliniko, accoltellato a morte da un connazionale, dopo un alterco. "Abbiamo paura - confessa Jinn - e siamo stanchi. Attendiamo una risposta da mesi alle nostre richieste d’asilo. Spero che ora l’Europa ci dia una mano. Siamo esseri umani anche noi". Il limbo burocratico, per chi si affida alla via legale, è estenuante. Molti hanno come obiettivo quello di essere ricollocati in un altro Paese dell’Unione europea, mediante il programma d’emergenza voluto da Bruxelles. Ma, come prima tappa, bisogna avanzare una richiesta d’asilo alle autorità greche. L’intervista può avvenire esclusivamente via Skype. Ma nessuno risponde alle chiamate. "Carenza di personale" si giustificano da Atene. "Ho chiamato per settimane. Ma niente". Alaa, 27 anni da Aleppo, ora vive a Trikala. Al Pireo era giunto tre mesi fa. Per arrivare in Grecia, con sua moglie e sua figlia di due anni, ha speso 6mila euro finora. "Vorrei solo poter chiedere asilo, legalmente - dice. Se non me lo permetteranno, sarò costretto a tornare dai trafficanti e a tentare di farmi portare in Svezia". Un ‘passaggiò per l’Austria, via Balcani, costa 2.500 euro. Ma gli smuggler, i trafficanti, stanno riprendendo a far soldi anche in Turchia. Quasi mille persone hanno raggiunto le isole greche di Lesbo, Chio, Samo e Kos, nelle ultime due settimane. Un’impennata che si è fatta più rilevante subito dopo il fallito tentativo di golpe dello scorso 15 luglio, ad Ankara. La metà è approdata a Mitilene, dove tra sabato e domenica scorsi si sono registrati 222 arrivi. Vanno ad aggiungersi ai circa 57mila migranti attualmente bloccati nel Paese ellenico. "Continuano a partire perché pensano che ce la faranno - dice Alaa, che troveranno facilmente asilo qui in Europa. Lo pensavo anch’io. Ma mi sbagliavo". Francia: lo Stato di diritto in campagna elettorale di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 29 luglio 2016 Francia sotto attacco. Hollande vara la Guardia nazionale. La destra chiede più repressione, ma non tutti sono pronti a travolgere lo stato di diritto. Assassinio di padre Hamel: anche il secondo terrorista era schedato "S". È già campagna elettorale, a nove mesi dalla presidenziali, che saranno seguite a ruota dalle legislative. La destra è partita all’attacco di Hollande e del governo, che cercano di parare i colpi. Mentre è confermata l’identità del secondo terrorista di Saint-Etienne-du-Rouvray, Abdel Malik P., 19 anni, residente in Savoia, anche lui schedato "S", cioè a rischio radicalizzazione, dal 29 giugno scorso. Tre persone a lui vicine sono in stato di fermo, una delle quali lo aveva accompagnato in un tentativo di andare in Siria. Il contrattacco di Hollande si limita all’annuncio della creazione, probabilmente già dal prossimo settembre, della Guardia nazionale, formata da riservisti (esercito, gendarmerie, polizia) e volontari. 15mila riservisti mobilitati a breve, in prospettiva un corpo di 40mila persone, nei fatti un nuovo nome e un po’ più di consistenza a una struttura che esiste già, la riserva operativa. Hollande risponde a distanza anche a Donald Trump: "la Francia resterà sempre la Francia, è quando ci si abbassa che non si è più se stessi". Al centro dell’attacco di parte della destra contro l’esecutivo: lo stato di diritto. Oggi, Hollande e la maggioranza socialista difendono il diritto, dopo essersi scottati fortemente otto mesi fa con la brutta avventura della proposta di riforma costituzionale sulla privazione della nazionalità per i terroristi con doppio passaporto. Ieri, Nicolas Sarkozy, candidato non ancora dichiarato alle primarie della destra del prossimo novembre, ha ripetuto l’accusa al governo di perdersi dietro "arguzie giuridiche". Il ministro della Giustizia, Jean-Jacques Urvoas, ha risposto che l’ex presidente vuole "la guantanamizzazione del diritto". Il vice-segretario dei Républicains, Roger Karoutchi, sarkozista, riassume: "contro dei terroristi armati di coltelli e di kalashnikov, dovremmo batterci con il Codice? Chi stiamo prendendo in giro?". Hervé Morin, Udi (centro-destra), ex ministro delle Difesa chiede una "israelizzazione della sicurezza". Non tutta la destra è d’accordo con questa deriva. L’ex primo ministro, François Fillon, ricorda che l’articolo 411 del Condice penale punisce la congiura con potenze nemiche. Benoist Apparu, portavoce di Alain Juppé (candidato alle primarie della destra) condanna: "si crea artificialmente la contrapposizione tra stato di diritto e protezione dei francesi". Marine Le Pen resta in agguato, non ha bisogno di gridare, c’è già Sarkozy che riprende le sue idee. Il pretesto è la polemica che cresce sulla sorveglianza dei due terroristi di Saint-Etienne-du-Rouvray, entrambi schedati "S". Dalla Germania sarebbe venuta una allerta, nei giorni precedenti l’attacco. Era stata segnalata una foto di Abdel Malik P., il 10 giugno scorso i servizi turchi avevano individuato il futuro terrorista, ma poi vengono perse le tracce e la Francia pensava fosse ancora in Turchia, mentre era già rientrato l’11 giugno. Il 29 sarà schedato "S". Sulle reti sociali Adel K., il primo terrorista, invitava a "prendere un coltello" e andare "in una chiesa". Adel K., dopo essere stato in carcere, era sotto sorveglianza giudiziaria, liberato con braccialetto elettronico da un collegio di giudici, che avevano dato credito alle sue promesse e assicurazioni. Il pm aveva fatto appello. In Francia ci sono 10.500 persone considerate "radicalizzate", ha indicato il governo, con grandi differenze di implicazione. Sarkozy e Le Pen chiedono che vengano chiuse in centri speciali, su decisione amministrativa (cioè senza intervento del giudice). 2147 francesi o stranieri residenti in Francia sono implicati nelle filiere jihadiste di Siria e Iraq, 898 hanno velleità di partire sul campo, più di mille sono già stati in quei paesi, 680 sono ancora lì (un terzo sono donne, un quarto dei convertiti recenti). La Procura di Parigi ha aperto informazioni giudiziarie su 553 persone tornate dalla Siria: 268 sono state incriminate (169 sono in carcere preventivo, 93 sotto controllo giudiziario), 49 sono in attesa di giudizio, 71 sono già condannati. Negli ultimi anni, tre nuove leggi anti-terrorismo sono state approvate. E con la nuova estensione dello stato d’emergenza per 6 mesi (fino a gennaio 2017) sono state reintrodotte le perquisizioni amministrative (extra-giudiziarie). È stata avviata una riforma dei servizi segreti. A maggio sono state approvate 80 misure, tra cui un piano di lotta al finanziamento del terrorismo. Dall’aprile 2014 c’è un numero verde per segnalare le radicalizzazioni, a settembre sarà aperto il primo centro di reinserzione e altri seguiranno. Esiste, cioè, già un enorme arsenale anti-terrorismo, uno dei più importanti in Europa, che è stato usato anche come arma di repressione contro le manifestazioni sociali (Cop21, Loi Travail). Intanto, le derive dei politici alimentano un clima di tensione. In Corsica, l’Flnc minaccia Daech: ci saranno "risposte determinate" in caso di attacchi sull’isola. A Cannes, il sindaco di destra ha proibito "le borse voluminose e opache". Per cercare di ritessere un’unità, il Cfcm (culto musulmano) ha invitato i musulmani ad andare a messa domenica in chiese cattoliche. Aumenta il numero dei media che aderiscono all’impegno di non pubblicare più nomi e foto dei terroristi, una deputata Lr propone una legge. A Saint-Etienne-du-Rouvray c’è stata una cerimonia in omaggio a padre Hamel. Turchia: il cimitero dei "traditori" è la memoria del regime di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 luglio 2016 Turchia. Nessuna lapide né funerale: così il regime dell’Akp esalta l’uomo forte Erdogan e prosegue con la punizione collettiva. La guerra di propaganda del presidente Erdogan si combatte anche sui corpi. Sui cadaveri dei golpisti uccisi il 15 luglio non passa la rimozione del tentato putsch ma la sua memoria, necessaria all’esaltazione dell’uomo forte che fa a brandelli anche l’ultima occasione di decenza. Questo hanno fatto le autorità turche pochi giorni fa quando, tra l’annuncio di super carceri e super tribunali, hanno infilato anche la costruzione di un cimitero ad hoc per i golpisti. Sono serviti solo due giorni a metterlo in piedi, un lotto di terra spianata a poca distanza da un canile, nella parte orientale di Istanbul. Per i morti nessuna pietà, né laica né religiosa: non saranno celebrati riti funebri, né saranno erette lapidi. Nessun nome, solo un cartello ("Cimitero dei traditori") a eterna memoria del regime che non perdona: l’unica parola che resterà impressa sui cadaveri lì sepolti. "I passanti - ha detto tronfio il sindaco di Istanbul Topbas - li malediranno". Ad avvelenare un clima già polarizzato interviene anche l’ufficio turco per gli affari religiosi: con una direttiva nega preghiere e funerali. Il resto lo fa la paura della punizione collettiva che si è abbattuta sulla Turchia e circuisce i vivi. Per ora nel cimitero è sepolto un solo defunto (pare si tratti del capitano Mehmet Karabekir, 34 anni e due figli): la madre non ha reclamato il corpo, per timore di rappresaglie e violenze, all’ordine nel giorno nella Turchia delle epurazioni di massa. Il controllo è saldo nelle mani del sultano, almeno per ora, fino a quando la destabilizzazione dell’intera società non esploderà in tutta la sua gravità. Lo stato di emergenza continua a ingurgitare diritti e libertà e a costruire le basi nuove del regime: ieri il ministro degli Interni Efkan Ala ha annunciato, come misura precauzionale, la consegna ai poliziotti turchi di armi pesanti. "La polizia otterrà presto armi pesanti nella quantità necessaria all’uso. Non è nostra intenzione agire come se nulla fosse accaduto". Così, aggiunge, "si impedirà a persone inaffidabili e a malati di mente di agire, non saranno in grado di concretizzare le loro cattive intenzioni". Simili armi in mano alla polizia, per le strade delle città, nei luoghi di potenziali proteste, non rassicurano visti i precedenti: agli agenti, tre anni fa, bastarono cannoni ad acqua e gas lacrimogeni per uccidere a Gezi Park. La militarizzazione della società è una realtà non più relegata solo al massacrato sud-est kurdo, alle prese con esercito e polizia da un anno. A ciò si accompagnerà, è il secondo annuncio di Ala, una ristrutturazione dei servizi segreti. Facile immaginare che la rete tentacolare delle spie di Stato si ampli ulteriormente alla caccia di presunti traditori (in un paese normale, oppositori). Non solo: tutto finirà tra le mani sapienti del sultano. Il controllo del Mit, i servizi segreti turchi, potrebbe infatti passare dall’ufficio del primo ministro a quello della presidenza. Lo ha proposto lo stesso Erdogan in un incontro con una delegazione parlamentare: altro passo verso il presidenzialismo che in Turchia è realtà senza bisogno di scomodare riforme costituzionali. La china presa da Ankara e che aggrava una situazione già molto poco democratica fa parlare anche l’Onu: ieri il segretario generale Ban Ki-moon, in una telefonata con il ministro degli Esteri Cavusoglu, ha espresso "profonda preoccupazione" per l’ondata di arresti e chiesto ad Ankara di rispettare i propri obblighi in termini di diritti umani. Nelle stesse ore il governo, con un decreto legge pubblicato in gazzetta ufficiale e approvato sotto lo stato di emergenza, chiudeva definitivamente 131 media, accusati di legami con la rete dell’imam Gülen, considerato da Erdogan ideatore del tentato golpe. Così scompaiono tre agenzie stampa (tra cui Cihan, della rete Feza di cui fa parte anche il giornale commissariato Zaman), 16 canali tv, 23 stazioni radio, 45 quotidiani, 15 riviste e 29 case editrici. Tutti i documenti, i beni mobili e immobili diventeranno di proprietà dello Stato. Turchia: parla Fethullah Gülen "Erdogan è rimasto avvelenato dal potere" di Viviana Mazza Corriere della Sera, 29 luglio 2016 L’imam turco in esilio si racconta al Corriere nel suo esilio in Pennsylvania: "Ho più volte criticato il colpo di Stato e rifiuto con forza ogni accusa di un mio coinvolgimento". Il settantacinquenne Gülen nega ogni responsabilità e, nella sua prima intervista a un giornale italiano, si dice sicuro che l’America lo proteggerà dalle richieste di estradizione di Ankara. Gülen vive dal 1999 in esilio auto-imposto ai piedi dei monti Pocono nella Pennsylvania rurale, tra campi di grano e vigneti, sostenitori red-neck di Trump e contadini Amish, a due ore d’auto da New York. Veniamo ammessi nel suo compound di dieci ettari: vi sorgono otto-nove grandi case, che ospitano studenti del suo movimento religioso Hizmet ("il servizio"), in un terreno alberato affacciato su un laghetto. L’accesso alla proprietà è chiuso, sorvegliato da una guardia armata e da telecamere ovunque: sugli alberi, i pali, le case. La comunità è oggetto di pettegolezzi e vista con sospetto da alcuni abitanti del villaggio di Saylorsburg, che non ci sono mai entrati ma lo chiamano tra il serio e il faceto "il campo dei terroristi". Altri, come Howard Beers che per anni ha fatto lavori di costruzione nel compound, hanno un punto di vista diverso e partecipano alle cene del Ramadan, alle quali però non si vede mai Gülen. Il predicatore, citando i problemi di salute (diabete e alta pressione) accetta di rispondere alle nostre domande per iscritto. È preoccupato che gli Stati Uniti possano accettare la richiesta turca di estradizione? Teme che le elezioni Usa possano avere un peso su questa decisione? Chiederebbe asilo altrove? "Finora il governo degli Stati Uniti non ha confermato di aver ricevuto una richiesta ufficiale di estradizione dal governo turco. È evidente che si tratta di una richiesta politicamente motivata e sono sicuro che i fatti lo dimostreranno. Ho più volte criticato il colpo di stato e rifiuto con forza ogni accusa di un mio coinvolgimento. Le autorità del governo degli Stati Uniti hanno detto chiaramente che seguiranno le procedure legali nel rispetto della legge e del diritto. Non sono preoccupato e coopererò con le autorità americane". Lei e Erdogan eravate alleati una volta. Che cosa l’ha portata a fidarsi di lui? Se ne è pentito? "Durante la campagna elettorale del 2002, il partito di Erdogan promise di portare avanti il tentativo di ingresso della Turchia nell’Unione europea, di difendere i diritti umani e le libertà e di porre fine alla discriminazione dei cittadini sulla base della loro visione del mondo e appartenenza a gruppi sgraditi. Nessun altro partito portava avanti riforme democratiche e per l’ingresso nell’Ue quanto il partito di Erdogan. Durante il suo primo mandato, Erdogan applicò davvero alcune riforme democratiche e fu elogiato per questo dai leader europei. Ma sembra che, dopo essere rimasto al potere troppo a lungo, il presidente Erdogan e il suo partito siano stati affetti dal veleno del potere. Non mi pento di aver appoggiato le riforme democratiche. Se fosse stato un partito diverso a promuoverle, lo avrei sostenuto ugualmente. Adesso, col senno di poi, mi rendo conto di avergli dato troppa fiducia. Mi pento di aver creduto che fossero sinceri sulle cose che promettevano di portare a termine". Lei ha milioni di seguaci. Non è possibile che alcuni di loro, anche senza la sua approvazione o a sua insaputa, abbiano orchestrato il colpo di stato in Turchia? "La mia posizione, i miei scritti, i miei discorsi, le mie idee, sono pubblici e chiari. In tutta la mia vita, sono stato vittima di colpi di stato, ho sofferto durante i regimi militari, e ho criticato l’intervento dell’esercito nella politica locale. Se degli individui che leggono le mie opere o che ascoltano i miei discorsi o simpatizzano con le mie idee sono stati coinvolti nel colpo di stato, allora quello che hanno fatto è un tradimento dei miei valori di base". Qual è il futuro del suo movimento Hizmet, e quanto è importante la sua presenza in America? "La caccia alle streghe di Erdogan ha visto un’accelerazione in Turchia dopo la globalizzazione del mio movimento Hizmet. Quando lui ha chiuso le porte ad attività come i festival culturali e linguistici, altri Paesi li hanno accolti. Quando Erdogan ha spinto gli ambasciatori turchi a fare pressioni sui rispettivi governi stranieri per chiudere le scuole create da membri di Hizmet, quei governi hanno rifiutato di farlo. Hizmet è nato in Turchia ma è abbracciato oggi da tutto il mondo, perché i suoi valori sono i valori condivisi dall’umanità. Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi che ha dato il benvenuto ai membri di Hizmet, ma non è assolutamente l’unico. Anche il vostro Paese, l’Italia ha accolto Hizmet. Infatti, nel 1998 ho incontrato Giovanni Paolo II e abbiamo scambiato le nostre idee su come promuovere la pace nel mondo usando la religione come strumento positivo. Da quello che capisco dai media, anche il vostro attuale Papa ha promosso tentativi validi per aumentare l’empatia e il rispetto reciproco tra i cittadini del mondo". Erdogan ha parlato della possibilità di istituire la pena di morte per punire i traditori. Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, ha detto che se lo farà, la possibilità di ingresso nell’Ue sarà fuori questione per la Turchia. Che cosa dovrebbe fare l’Ue per la Turchia? E per lei, signor Gülen? "Ho appoggiato a lungo la richiesta di Ankara di ingresso dell’Unione Europea, che è stata una politica dello Stato per decenni. Credo che far parte dell’Ue sia il modo migliore per assicurare che la Turchia resti democratica e che i diritti e le libertà fondamentali siano protetti. Se la Turchia diventasse uno Stato membro, questo potrebbe aiutare i gruppi oppressi nel Paese, assicurando che Erdogan rispetti i trattati firmati e le promesse che ha fatto. I Paesi europei sono il principale partner commerciale della Turchia. Il sistema finanziario turco è integrato con l’Europa e con il resto del mondo. L’Europa può influenzare la Turchia in modo positivo". Indonesia: fucilati quattro detenuti condannati per reati di droga Ansa, 29 luglio 2016 Inutili gli appelli alla clemenza da parte dei familiari delle vittime: un indonesiano, Freddy Budiman, e tre nigeriani, Seck Osmane, Michael Titus e Humphrey Ejike; la pena è stata eseguita dopo la mezzanotte al carcere dell’isola di Nusa Kambangan. Il procuratore generale, Muhammad Prasetyo, ha spiegato che sono state invece sospese altre 10 esecuzioni precedentemente annunciate, "sulla base di considerazioni giuridiche e non". Nel "braccio della morte" in Indonesia si trovano attualmente oltre 100 persone, condannate, in gran parte, per reati legati alla droga. Marocco: polizia interviene per fermare una rivolta carceraria a Casablanca Nova, 29 luglio 2016 La polizia marocchina è intervenuta ieri notte con le squadre anti-sommossa per reprimere una rivolta scoppiata all’interno del carcere di Akasha, a Casablanca. Un gruppo di detenuti ha appiccato il fuoco in una parte del carcere che si trova ad Ain al Sabaa per cercare di fuggire. Testimoni hanno visto la polizia giungere in forze ed hanno sentito l’eco degli spari delle armi usate dagli agenti per sedare la rivolta. Al momento si registrano 4 detenuti feriti dopo la rivolta.