Il ministro Orlando: "Garantire la riabilitazione dei detenuti" Il Dubbio, 28 luglio 2016 "Le carceri hanno subito in questi anni un'evoluzione positiva, siamo riusciti a contenere un processo si sovraffollamento che aveva portato a condizioni inumane". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando a Carini per il convegno su "Espiazione della pena e diritti fondamentali della persona - Una riflessione sulla situazione carceraria italiana". "Per primo, però, ho sempre segnalato come, dopo questo traguardo, fosse importante discutere di come fare corrispondere l'attività dell'esecuzione penale all'indicazione costituzionale, ovvero - ha proseguito Orlando - come riuscire effettivamente a garantire un percorso di riabilitazione, di riscatto dei detenuti e su questo abbiamo ancora moltissimo da fare. Oggi è l'occasione per discuterne e di farlo anche con la Chiesa che con maggiore determinazione nel corso di questo pontificato si è posta questo tema e ha aiutato tutti noi a fare dei passi avanti". Il presidente del Tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, intervenendo dal Consiglio dell'ordine degli Avvocati del capoluogo siciliano ha posto l'attenzione sulle condizioni all'interno delle carceri: "Nel 2015 si sono verificati 44 suicidi e altri episodi di autolesionismo e rifiuto del vitto. Ci si uccide quando si vive male o si perde ogni speranza". Auspicando una riforma sulle condizioni dei detenuti e sulla funzione riabilitativa della pena, Di Vitale ha aggiunto: "Si ha la sensazione di un carcere dove regna trasandatezza, ma con una differenza rispetto al passato in cui il dibattito sulla funzione della pena era vivo. Una seria riforma attuata e non lasciata a meri pronunciamenti sulla carta costituirebbe una rivoluzione, ma il presente non è tempo di rivoluzione. Credo che il diritto dello Stato di privare della libertà alcuni soggetti implichi necessariamente un obbligo positivo di aiuto e riabilitazione e ci auguriamo che qualcosa accada". Allarme terrorismo, paura per spiagge e carceri. Il Viminale: stretta sui controlli di Grazia Longo La Stampa, 28 luglio 2016 Le guardie penitenziarie nel mirino dell’Isis. Una mappatura capillare dei luoghi di aggregazione di tutte le città italiane. Spiagge sotto controllo. È triplice il campo d’azione di forze dell’ordine, gruppi speciali dell’esercito e intelligence. In tre distinte circolari ministeriali si ricostruisce la pianificazione del nostro paese per la prevenzione e immediata reazioni a possibili attentati terroristici. L’allerta è alta e non si vuole lasciare nulla d’intentato. A partire dall’allarme nelle nostre carceri. Con una circolare del 22 luglio scorso, il Ministero della Giustizia pone l’attenzione ad "azioni ostili nei confronti di rappresentanti delle Forze dell’ordine, quali obiettivi da parte dello stato islamico". Se finora le prigioni erano monitorate perché ritenute "palestre" di allenamento e arruolamento di nuovi soldati del Califfato, ora finiscono sotto la lente d’ingrandimento per i pericoli che possono correre gli agenti di custodia. "In particolare - si legge sulla circolare del ministero della Giustizia - tale Abou Mohammed Al Adnani, portavoce dello Stato islamico, in un video di rivendicazione di un attentato, tra gli altri menziona la scelta delle guardie penitenziarie come obiettivo da colpire". Il sospetto nasce da informazioni "acquisite in ambito di collaborazione internazionale". E ora c’è il timore che possa trovare "proseliti" nelle prigioni. Di qui l’invito "a tutte le direzioni ed i servizi, anche se non dipendenti, ma dislocati nel proprio distretto a sensibilizzare tutto il personale di polizia penitenziaria, ma anche il restante personale a porre in essere ogni opportuna forma di attenzione e autotutela" senza trascurare tutti quei segnali che possano far presagire "azioni delittuose". Nella circolare del Viminale dello scorso 15 luglio, invece, si individuano le strategie per favorire tra le forze dell’ordine la "sensibilizzazione di misure di prevenzione e di un’accurata ricognizione degli obiettivi sensibili con particolare riguardo a quelli turistici". Spiagge e litorali sotto stretto controllo, quindi, analogamente a punti "diplomatico-consolari, religiosi, commerciali, scolastici, culturali, ricreativi" ma anche "in ambito stradale, ferroviario, portuale, aeroportuale e di frontiera terrestre". E il ministro della Difesa Roberta Pinotti sottolinea il ricorso "a forze speciali delle forze armate insieme ai Gis dei carabinieri e ai Nocs della polizia". Agli incursori del ComSubIn (Marina) e del Col Moschin (Esercito), saranno assegnati temporaneamente le qualifiche di "agenti di pubblica sicurezza". Le ultime due esercitazioni si sono svolte all’aeroporto di Malpensa, a Milano, e alla stazione ferroviaria Termini della capitale. Ma non finisce qui: con un’altra circolare tutte le questure hanno avviato un raccordo con i vari commissariati per accelerare la predisposizione di piani di difesa civile interforze in caso di attentati. È stato avviato il censimento dei luoghi di aggregazione (cinema, teatri, piazze ma anche centri commerciali), con relative planimetrie in modo da avere informazioni utili su possibili vie di fuga, punti di atterraggio elicotteri e allestimento di punti di assistenza sanitaria. Prosegue intanto la caccia ad altri complici di Mohamed Bouhlel, l’attentatore di Nizza che il 14 luglio ha ucciso 84 persone con il camion. La Francia ha chiesto al nostro pool investigativo di accertare gli spostamenti nel nostro Paese di dieci nordafricani. Si tratterebbe di persone entrate in contatto con Bouhlel e transitate a Ventimiglia. Dove, peraltro, lo scorso settembre il terrorista era stato fermato per un controllo con due tunisini e due marocchini su cui sono in corso indagini della procura romana. La carta della paura giocata sul tavolo della politica di Carlo Fusi Il Dubbio, 28 luglio 2016 No, davvero no. "Non possiamo consentire che il nostro Paese entri nell'età dell'ansia", ammonisce Sergio Mattarella. Come è noto il Quirinale, geograficamente e soprattutto politicamente, è il Colle più alto, l'osservatorio ideale per cogliere umori e avvertire tendenze. Quando la paura diventa bussola di comportamento e la razionalità cede all'incertezza, i pericoli per la tenuta sociale di una comunità crescono esponenzialmente. È il gioco del terrorismo: perciò stroncare sul nascere questo genere di pulsioni è decisivo. Ma l'ansia ha come caratteristica predominante di essere generalizzata. Penetra le coscienza da mille pertugi, si insinua dovunque trova spazio attaccando, a volte fino a disgregarle, anche le certezze più forti. Un esempio? L'immigrazione, in particolar modo se clandestina. Hai voglia a spiattellare cifre, numeri e percentuali per dimostrare che non c'è alcuna invasione e che i flussi - scafisti compresi - sono più o meno costanti: per tanti, anche se cultori del politically correct, si tratta di un fenomeno incontrollabile e ingestibile. Che genera appunto ansia, paura, angoscia. E che a sua volta produce azioni e indirizza atteggiamenti, spesso vellicati da chi politicamente su quelle paure, angosce, ansie costruisce la sua immagine e proposta. Il punto perciò è proprio questo: l'impossibilità di tenere a freno oltre un certo limite il sentimento dei cittadini che si forma attraverso tanti e svariati canali, principalmente informativi ma non solo: vedi social e Web. E il corollario di questa impossibilità diventa l'interrogativo più importante: ossia quanto l'ansia finisce per condizionare le decisioni politico-elettorali dei cittadini. Complicato rispondere. Eppure è ineludibile. Se prevale la paura, gli elettori possono essere spinti ad attaccare i governanti incapaci di proteggerli, schierandosi a favore delle forze politiche di opposizione. Può capitare che di questa spinta se ne avvantaggino partiti di ispirazione populista e di stampo demagogico. Ma quello stesso genere di paura può anche stimolare un riflesso opposto: di stringersi attorno a quel che c'è, fare muro insieme alle istituzioni anche per evitare una paura più grande ancora: che se quelle crollano, si fa strada il caos. Intendiamoci. Piegare fatti drammatici, di portata mondiale, a logiche di contrapposizione politica interna è fuorviante. Eppure anche qui: praticamente impossibile evitarlo. Torniamo a Mattarella. "Non si può ignorare o condannare la paura: è uno stato d'animo che merita rispetto. Occorre rispondervi con grande serietà", spiega il capo dello Stato. Bene: ma qual è la giusta risposta? Al dunque, inconsciamente o meno, accade che nella partita referendaria di ottobre-novembre (Pokemon permettendo...) c'è chi sulla paura più grande fa affidamento: quella per cui se vincendo il No tutto si sfarina - governo compreso visto l'annuncio del presidente del Consiglio di dimissioni in caso di sconfitta - beh allora meglio evitare. Insensato immaginare che chi coltiva questi vaticini sieda a palazzo Chigi? O che gli avversari di Matteo Renzi facciano invece affidamento sulla paura opposta, quella apparentemente più piccola ma, dal punto di vista dei loro interessi, assai più fruttuosa? Seguendo la logica del Quirinale: chi delle due parti in campo mostra più serietà? La realtà è che la paura politicamente maneggiata spesso produce effetti boomerang, con risultati opposti a quelli di chi si avventura a utilizzarla strumentalmente. Prendiamo la Brexit. Per settimane e settimane l'ormai ex premier David Cameron, l'identico ex Cancelliere dello Scacchiere George Osborne e centinaia di esponenti dell'establishment la paura negli elettori hanno vellicato, evocando scenari apocalittici nel caso in cui avesse vinto il Leave. Infatti i Britons accompagnati dalla paura hanno votato: solo che non era quella caldeggiata da Dowining Street, bensì quella dell'immigrazione o della supposta perdita di identità nazionale. Di tutt'altro genere, cioè. E, quel che più conta, con tutt'altri risultati. Insomma con la paura è obbligatorio convivere, ma assolutamente deleterio (e spesso controproducente) trafficare. È la lezione finale che arriva dal Colle. "Questo dovrebbe e deve essere il tempo della responsabilità. E la responsabilità richiede impegni comuni al di sopra delle divisioni. Sul piano continentale e su quello interno", ammonisce Mattarella. Che più o meno dovrebbe significare: niente ordalie, niente giudizi di Dio. Il referendum è un passaggio: comunque vada, dopo si deve andare avanti nella direzione indicata dai cittadini. Perché loro hanno diritto ad avere paura. Chi deve guidarli, no. Il Csm batte il governo e anticipa la stretta sulle intercettazioni di Liana Milella La Repubblica, 28 luglio 2016 Il Csm batte governo e Parlamento sulle intercettazioni. E detta il vademecum sull’uso soprattutto quando queste coinvolgono persone né indagate, né imputate. Con il visto del presidente del Csm Mattarella, il testo scritto dalla settimana commissione e che reca la firma dei togati Antonello Ardituro e Francesco Cananzi e della laica Paola Balducci, sarà approvato domani. Repubblica svela in anteprima il suo contenuto. Solo oggi invece, al Senato, la commissione Giustizia giungerà a discutere, e forse approvare, la delega al governo sulle intercettazioni. Che appare del tutto superata sia dalle circolari di ben 19 procuratori (tra cui Roma, Torino, Napoli e Firenze), sia dalla risoluzione del Csm. Il ddl, comprese le nuove norme sulla prescrizione, si avvia all’aula, dove approderà, ma solo per la discussione generale, il 5 agosto. Comunque "un buon segno" secondo il Guardasigilli Andrea Orlando, perché entro l’8 settembre dovranno essere presentati gli emendamenti. Il Consiglio mette subito le mani avanti rivendicando "analisi e raccolta delle linee guida in tema di intercettazioni". Un’evidente polemica col governo che invece, con la delega, ipotizza di poter stabilire per legge e per suo conto come i magistrati debbano utilizzare le trascrizioni, fissando paletti sul rispetto della privacy. Del pari, il Csm ribadisce "la centralità della figura del pm nella gestione e direzione delle indagini, nella selezione delle intercettazioni, nelle procedure di stralcio e distruzione, facendo affidamento sulla sua professionalità e sulla correttezza del rapporto con la polizia giudiziaria". Spetterà al pm garantire "il corretto bilanciamento degli interessi in gioco", la riservatezza da un lato, le indagini dall’altro. Deciderà lui, anche per le conversazioni rilevanti, "se omissare i riferimenti a cose o persone" spiegando il perché. Ma proprio la polizia non potrà decidere da sola, prescindendo "dalla valutazione del pm", quali telefonate buttare subito via "perché non utili alle indagini" col rischio di "una valutazione parcellizzata, limitata e potenzialmente fallace". Secco no a una "delega in bianco alla Pg". Il Csm propone che dai brogliacci della polizia spariscano "le intercettazioni manifestamente irrilevanti ai fini delle indagini, senza alcun sunto o trascrizione". Ne resterà traccia in un indice "col solo numero progressivo". Nei casi dubbi sarà il pm a decidere, dopo aver ascoltato il nastro. Via del tutto "le conversazioni private con dati sensibili", laddove si parla di opinioni politiche o religiose, della sfera sessuale o di dati sulla salute. Sotto la dizione "conversazione con difensore" cadrebbero tutti i colloqui con gli avvocati. La risoluzione del Csm si preoccupa di garantire una tutela in più a deputati e senatori che finiscano casualmente nelle intercettazioni. "Esse non andrebbero trascritte subito, ma indicate nel brogliaccio con la dicitura "conversazione casualmente captata con parlamentare", informando il pm". Meno intercettazioni in giro, solo quelle indispensabili, con ovvie conseguenza sull’informazione. Il Csm mette per iscritto che chiede "un’accurata selezione delle conversazioni da inserire nei provvedimenti cautelari per la naturale idoneità a essere oggetto di attenzione mediatica". Confronto Orlando-Csm, avanti sull’iter delle riforme di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2016 La "collaborazione istituzionale, piena e senza riserve, nel rigoroso rispetto della reciproca autonomia" è la "condizione essenziale per affrontare le sfide riformiste da tempo in atto". A registrare il ritorno del sereno nei rapporti tra Governo e Consiglio superiore della magistratura, dopo gli scontri recenti, è il vicepresidente Giovanni Legnini, aprendo ieri il plenum chiamato a esprimersi sulle relazioni delle commissioni ministeriali, guidate da Michele Vietti e Luigi Scotti, sul progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e dello stesso Csm. Fatto inusuale, al plenum ha partecipato anche il Guardasigilli Andrea Orlando, che conferma così la sostanziale novità di approccio di via Arenula alla riforma del Csm, tema "caldo", che in passato ha sempre surriscaldato i rapporti tra politica e magistratura. Il "riformismo durevole, capace di tenere alla prova dei fatti", come auspicato dal ministro nel suo intervento a fine seduta, non passa da prove muscolari con Palazzo dei Marescialli, ma dalla "collaborazione istituzionale". Per esempio, permettere le audizioni del Csm ai componenti delle due commissioni, per far capire al meglio obiettivi e metodo della riforma. O partecipare al plenum di ieri per ascoltare, in anticipo sul ddl di riforma che potrebbe arrivare in autunno, l’opinione dei magistrati sulle norme in cantiere. A specchio, anche il Csm ha dato mostra di buona volontà, lavorando sulle relazioni delle commissioni ministeriali e non su un ddl ufficiale del ministro, ed esprimendosi con due risoluzioni (verranno votate oggi) che potrebbero evitare molte frizioni inutili. Su queste basi, non sorprende che il giudizio del plenum sia stato positivo su molti punti, come rilevato in diversi interventi dei consiglieri, in particolare sui capitoli organizzazione delle procure, mentre rilievi hanno riguardato le modifiche alle norme sulla sezione disciplinare e sulle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Tra i punti più controversi, le modifiche del sistema elettorale del plenum e il peso eccessivo delle correnti della magistratura nella scelta dei consiglieri. Esclusa l’ipotesi del sorteggio - sostenuta ieri solo dalla consigliera laica Elisabetta Casellati - il ministro ha parlato, in termini di "ipotesi di lavoro", della possibilità di individuare una sorta di doppio turno. "Non riesco a sposare l’idea secondo cui la rappresentanza sia legata al caso - ha detto il Guardasigilli - ma condivido le preoccupazioni di contenere il potere delle correnti, per salvare le correnti. Va trovato un punto di equilibrio, rinunciare al potere per mantenere una funzione di indirizzo per il pluralismo". Il meccanismo, ipotizzato nella relazione Scotti, prevede una prima fase con collegi distrettuali e un secondo turno basato su un collegio unico nazionale. In questo quadro, "solo le correnti non bastano a individuare la rappresentanza - ha osservato il Guardasigilli - così come non basta il radicamento sul territorio. La valuteremo". Prescrizione, i centristi chiedono lo stralcio sull’uso dei trojan di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2016 Vanno avanti i lavori in commissione Giustizia del Senato per portare il testo della riforma del processo penale, con le norme sulla prescrizione frutto dell’accordo di maggioranza, in Aula prima della pausa estiva. A confermarlo, e allo stesso tempo smentire il M5S, è in serata il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda: "Non appena concluso l’esame in commissione, nel corso della prossima settimana, la riforma sarà incardinata nell’Aula del Senato. Le illazioni del Movimento 5 stelle lasciano il tempo che trovano". Nel pomeriggio di ieri, infatti, al termine della riunione dei capigruppo del Senato fissata proprio per stabilire il calendario dei lavori in prossimità della pausa estiva, il portavoce del M5S Stefano Lucidi aveva affermato l’assenza di un accordo "per andare in Aula prima dell’estate sulla prescrizione". Il disegno di legge di riforma del processo penale e del codice di procedura penale è stato inserito all’ultimo posto nell’elenco dei provvedimenti da portare in Assemblea, prevedendo la sola esposizione della relazione. Si entrerà dunque nel vivo con le votazioni dell’Aula solo alla ripresa di settembre. Sul fronte dei lavori in commissione Giustizia, la maggioranza ha raggiunto l’intesa in merito alla richiesta di ritiro, arrivata da Area popolare, dell’emendamento relativo alle notifiche giudiziarie, e i relatori, Giuseppe Cucca e Felice Casson, entrambi del Pd hanno effettivamente ritirato la loro proposta di modifica in merito. "Avevamo chiesto con forza lo stralcio perché qualora questa proposta emendativa avesse avuto corso avrebbe determinato problemi riguardo la conoscibilità dei capi d’imputazione, con un’evidente compressione dei diritti dell’imputato", spiega il senatore centrista Bruno Mancuso, che ribadisce i meriti dell’approccio "propositivo e dialogante" di Ap-Ncd nei lavori della commissione Giustizia. Resta ancora da sciogliere il nodo delle intercettazioni, all’articolo 36 dell’articolato sui complessivi 41, altro fronte su cui Area popolare aveva posto alcune richieste di modifica (ad esempio in relazione all’uso dei virus informatici, cosiddetti trojan nelle intercettazioni nei casi di terrorismo e altri gravi reati). In una nota, gli alfaniani fanno notare che "un testo eccessivamente dilatato, come quello proposto, esporrebbe cittadini del tutto estranei alla vicenda processuale, ovunque essi si trovino, ad intercettazioni indirette che ne limiterebbero gravemente ed incostituzionalmente la libertà di manifestazione del pensiero". È stato inoltre soppresso l’articolo 19 del testo, che a sua volta era soppressivo dell’articolo 421 bis del Codice di procedura penale che cancellava la possibilità di procedere per ordinanza per disporre l’integrazione delle indagini preliminari incomplete. Sequestrabile l’immobile acquistato e poi ristrutturato con i fondi della fallita di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 27 luglio 2016 n. 32824. Nella categoria dei beni sequestrabili in relazione alla bancarotta fraudolenta patrimoniale non rientrano solo i beni che rappresentano il corpo del reato ma anche tutti quelli che - seppur indirettamente - attengono al delitto. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 32824/2016. I fatti - La Corte si è trovata alle prese con un'ordinanza del marzo 2016 con cui il Tribunale di Fermo aveva revocato il sequestro preventivo dell'immobile nel comune di Petritoli ordinandone la restituzione all'amministratore della società fallita a seguito di bancarotta. Il Tribunale in particolare aveva escluso la sussistenza del fumus poiché era emerso che l'immobile era stato acquistato dalla società molti anni prima, nel novembre 2000 e aveva affermato l'irrilevanza del fatto che l'immobile fosse stato ristrutturato con somme provenienti dal fallimento, visto che lo stesso era stato concesso in locazione ad altro soggetto e al più potevano essere sottoposti a sequestro conservativo i canoni locatizi. Ricorso della procura - Contro la decisione ha proposto ricorso per Cassazione il procuratore presso il tribunale di Fermo. In particolare è stato ricordato che il sequestro era stato ordinato anche come vincolo posto sul bene confiscabile come provento del reato. È stato eccepito, peraltro, che se è vero che il bene era stato acquistato nel 2000, in un anno cioè lontano dal reato, tuttavia lo stesso negli anni 2008-2011 era stato sottoposto a pesante ristrutturazione per un importo prossimo a 122mila euro che provenivano dalla fallita. Proprio in funzione di questa spesa e delle nuove potenzialità del bene nell'appello veniva chiesto il sequestro del bene. Il concetto di "cose pertinenti al reato" - La Corte ha accolto la richiesta in quanto l'espressione "cose pertinenti al reato" cui fa riferimento l'articolo 321 del cpp è più ampia di quella di corpo di reato, definita dall'articolo 253 del cppe comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato è stato commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa come il risultato della trasformazione del prodotto o del profitto. In sostanza la disponibilità dell'immobile, il cui "valore attuale" dipendeva in via esclusiva dal delitto contestato, era una circostanza adeguata a protrarre in conseguenza del reato, posto che consentiva di lucrare sul suo intervento di ripristino, realizzato con proventi illeciti. Videopoker, per il reato di esercizio del gioco d'azzardo va provata la finalità di lucro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2016 Corte d'Appello di Cagliari - Sezione 1 - Sentenza 15 giugno 2016 n. 688. A seguito del rinvenimento in un locale aperto al pubblico di macchine videopoker prive delle prescritte autorizzazioni, per la configurabilità del reato di esercizio di giochi d'azzardo va sempre accertata l'effettiva finalità lucrativa dell'apparecchio. Lo ha stabilito la Corte d'Appello di Cagliari, con sentenza 15 giugno 2016 n. 688, accogliendo il ricorso di un ambulante condannato in primo grado a tre mesi di arresto e 300 euro di ammenda. Nel corso di un controllo di routine, i militari avevano trovato, all'interno di una struttura di legno destinata ai clienti da un venditore ambulante di alimenti, tre apparecchiature videogioco, contenenti banconote e monete ma prive dei titoli abilitativi per l'installazione e la gestione. Per il giudice di primo grado "la tipologia di tali giochi e l'evidente destinazione a fini di lucro", connotavano "con assoluta certezza la materialità del fatto contestato". Il commerciante però ha proposto ricorso sostenendo che mancava la prova che gli apparecchi "distribuissero vincite in denaro o in altra natura" e che "la durata e le concrete modalità di svolgimento delle partite fossero tali far risultare l'abilità del giocatore preponderante sull'alea". Doglianza accolta dal giudice di secondo grado secondo cui le dichiarazioni rese dall'operante nel corso del dibattimento hanno confermato che "uno degli apparecchi in sequestro dava accesso a giochi riproducenti le regole del poker, tuttavia non hanno permesso di accertare, oltre ogni ragionevole dubbio, se dal gioco scaturisse anche una vincita". Sul punto, ricorda la sentenza, l'insegnamento della Suprema Corte (n. 21639/2010) "ritiene insufficiente l'accertamento della potenziale utilizzabilità degli apparecchi per l'esercizio del gioco d'azzardo, richiedendo la sussistenza della finalità lucrativa che non può essere ritenuta esistente solo perché l'apparecchio automatico riproduca un gioco, vietato, ma dev'essere valutata alla stregua di emergenze oggettive, quali l'entità della posta, la durata delle partite, la possibile ripetizione di queste ed il tipo di premi erogabili, in denaro o in natura". Al contrario, la sentenza impugnata ha ravvisato il reato unicamente in base alle caratteristiche degli apparecchi, "senza soffermarsi a valutare l'ulteriore aspetto della finalità di lucro che connota il reato di esercizio di giochi d'azzardo". Ancor più, attendendosi alle dichiarazioni del militare, ha sostenuto la responsabilità dell'imputato "valorizzando il fatto che la macchina riproduceva il gioco del poker, che mancassero le necessarie autorizzazioni e che l'apparecchio non fosse collegato in rete con conseguente impossibilità di controllo". Come visto, però, ciò non è sufficiente per ritenere integrato il gioco d'azzardo "per la cui sussistenza - ribadisce la Corte - la giurisprudenza prevede ben altri presupposti e accertamenti che, nel caso in esame, non risultano provati, non avendo gli operanti neppure provveduto a mettere in funzione l'apparecchio". La lezione di Tortora e la tortura preventiva di Aldo Masullo Il Mattino, 28 luglio 2016 La conclusione della pubblicazione delle lettere dal carcere di Enzo Tortora, induce a riproporre la terribile domanda che, come già ricordai in un precedente intervento, il malcapitato fa: "Tante volte ho pensato "almeno fossi colpevole", starei meglio. Perché niente, niente, è paragonabile all'angoscia di chi vive, innocente, questa condizione". Questo è il punto, su cui viene chiamata a rispondere dinanzi al sentimento etico fondamentale la procedura della carcerazione preventiva. Tanto aberranti sono alcuni: effetti di tale pratica, che talvolta, quando finalmente ci si avvicina alla conclusione dibattimentale di un processo e si è alla vigilia della sentenza, qualcuno parlando dell'imputato esclama, come si è letto sui giornali: "Speriamo almeno che sia riconosciuto colpevole!". Si esprime così l'orrore per la rivelazione di una ingiustamente inflitta pena devastante, com'è la vergogna di chi ha sempre vissuto con dignità e la sua costrizione all'infame situazione di un carcere italiano. Questo orrore non è tanto la compassione per chi ha subito questo oltraggio, quanto il senso della giustizia, che naturalmente la ragione stessa comporta. Basta vedere la forza con cui un bambino si risente di un'ingiustizia subita, reale o supposta. Se è trattato dal padre meno bene di un fratello, o se incolpevole è accusato di una malefatta, la sua reazione è furiosa, ed è tanto più violenta quanto più egli avverte la propria impotenza a far valere la parità di trattamento o a dimostrare la propria estraneità a ciò di cui lo si accusa. La giustizia, soprattutto quando si fa istituzione, fuori del nesso con la ragione si riduce ad essere niente più che un sistema di esercizio del potere, ad un arbitrario dominio dell'uomo sull'uomo. L'arbitrarietà è appunto l'assenza di una legittimazione razionale a disporre in un qualsiasi modo della vita dell'altro, insomma un esercizio di forze umane incoerenti, e perciò incivili, slegate dal patto associativo fondamentale. Così violenta è la ribellione morale in chi, sapendo d'essere innocente, si ritrova nell'inferno di un carcere, che non mancano i casi in cui l'incomprimibile violenza della risposta, nell'impotenza dell'appello alla ragione, si rivolge contro lui stesso. Mortificata fino in fondo la ragione, non resta che la disperazione. Di fatto con la carcerazione vengono strappati all'uomo non solo la sua attività, i suoi affetti, i suoi rapporti con il mondo, il suo onore, ma il suo tempo, ossia ciò che, fuori dell'astrazione di orologi, calendari, agende, è la sua vita. Null'altro che una maggiore o minor parte della vita in carne ed ossa è il tempo, ciò che, tolto, nessuno più, neppure Dio, potrà restituire o indennizzare. Per le sepolture di uomini ricchi e potenti, gli antichi usavano bare di pietra chiamate contermine greco sarcofagi, cioè "divoratori di carni", poiché destinati, per così dire, a divorare e consumare i corpi dei morti. Ebbene, le carceri sono sarcofagi che divorano implacabilmente le vite, pezzi più o meno lunghi di vite. Così degli ergastolani correttamente si dice "sepolti vivi". Certamente nella realtà non mancano casi in cui è indispensabile fermare subito un assassino per impedire che egli compia poco dopo una strage, o individui pericolosi di cui per particolari circostanze possano temersi la fuga e l'elusione delle loro responsabilità. Peraltro recenti ritocchi legislativi hanno reso più stringenti le condizioni che legittimano la carcerazione preventiva. Tuttavia, come ogni giorno denunziano con vigore i radicali, sulla scia dell'indimenticabile Marco Pannella, le nostre carceri, le nostre infami carceri, sono ancora affollate di detenuti in attesa da un tempo più o meno lungo, talvolta lunghissimo, del giudizio di primo grado. Intanto anche ufficialmente si ammette che, in base alle statistiche, per un'alta percentuale di costoro è prevedibile l'assoluzione per non aver commesso il fatto, dunque il riconoscimento d'innocenza. Sono costoro gli sventurati la cui vita, in pezzi più o meno grandi, è stata ingiustamente divorata, senza possibile reintegro. Cos'è capitato a questi uomini? Essi non vivono nelle selve, ma sono cittadini di un mondo civile che, indipendentemente dalle feroci minacce con cui oggi un altro mondo lo terrorizza, non cessa di essere ordinato secondo la carta dei diritti universali sanciti dall'Onu e in Europa garantito dalla Corte suprema dei diritti umani. Essi peraltro sono cittadini italiani e i loro diritti sono garantiti "da vicino" dalla nostra veneranda Costituzione. Quel che è capitato a questi uomini è di essere stati torturati, o di esserlo ancora. Perché di questo si tratta: del carcere come tortura; del carcere che non solo per le sue condizioni infami, ma in questi casi anche come arbitrio di Stato è tortura. L'articolo 13 della nostra veneranda Costituzione dichiara solennemente: "È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Cos'è se non violenza fisica costringere persone a vivere recluse in anguste celle, strette corpo a corpo con altri sventurati, con servizi igienici rudimentali, spesso senz'acqua, ancor più spesso senza riscaldamento invernale, tra topi e scarafaggi? E cos'è se non violenza morale la costrizione all'inattività, allo stillicidio di un tempo vuoto che non passa mai? Quando poi siffatte violenze sono inflitte a uomini in attesa di un giudizio che non si sa quando verrà, e che peraltro sempre la nostra veneranda Costituzione all'articolo 27 considera "non colpevoli fino alla condanna definitiva", dunque innocenti, insomma ad uomini che addirittura, secondo i dati statistici, in gran parte saranno alla fine giudicati innocenti e perciò assolti, la gravità della tortura inflitta, in quanto lesione profonda della vita, ha qualcosa di tragico. Da molto tempo in Parlamento si trascina e poi si blocca un disegno di legge istitutivo del reato di tortura, cioè della violenza che un ufficiale dello Stato, profittando della sua posizione, infligge su di una persona in sua balia. Sorge in me un sospetto. L'oggettivo inciampo nel cammino di questa legge sta forse nel fatto che la sua approvazione striderebbe con la persistenza di una carcerazione preventiva che, di fatto, soprattutto per l'inaudita lentezza dei procedimento, è anche se non riconosciuta una figura sovrana di tortura. Dove, se condannasse formalmente la tortura, metterebbe la faccia uno Stato sistematico e impunito torturatore? Difendiamoci con queste leggi, ma più rigore di Carlo Nordio Il Messaggero, 28 luglio 2016 L'attentato di Rouen ha eliminato, qui in Francia da dove scrivo, le residue speranze di pace. E non solo di pace con l’Isis, con cui ormai la guerra è riconosciuta da tutte le forze politiche. Ma anche di pace interna, intesa come condivisione di valori e di strategie cui una nazione è chiamata quando suona il "tocsin", la campana a martello del conflitto mortale. Perché mai si è vista, neanche davanti agli orrori del Bataclan e di Nizza, una serie di reazioni così accese ed esasperate. Hollande ha ribadito che si è in guerra. Sarkozy ha aggiunto che questa va combattuta con tutti i mezzi, lasciando intendere le leggi speciali. E Marine Le Pen, attribuendo la colpa di quanto accade ai governi degli ultimi trent’anni, ha rincarato la dose. I francesi, almeno quelli intervistati dalle varie televisioni, hanno ammesso di essere disposti a rinunciare a varie libertà (e alle connesse garanzie costituzionali) pur di battere il terrorismo e riacquistare la sicurezza perduta. Intanto tutti si domandano quando e dove il nemico colpirà ancora. L’esasperazione dei francesi, e delle polemiche che ne sono la conseguenza, è questa volta giustificata da due raccapriccianti novità. La prima, l’atroce sgozzamento a freddo di un anziano e mite sacerdote cattolico. La seconda, il fatto che l’assassino fosse noto come aspirante terrorista, e che, quantunque condannato, fosse agli arresti domiciliari con la sola cautela del braccialetto elettronico. Il diluvio di critiche si è quindi riversato anche sui giudici e il sindacato magistrati ha provato, naturalmente senza successo, a difendersi. Bisogna ammettere che, al confronto, in Italia i rapporti con le toghe sono ora idilliaci. Le proposte forcaiole sono dunque fioccate. Qualcuno ha pensato addirittura a una sorta di carcerazione preventiva per i sospettati. Non bisogna stupirsi di queste apparenti stravaganze. Come abbiamo scritto più volte, le garanzie liberali sono un lusso che accompagna la sicurezza. Quando questa viene meno e le persone hanno paura, anche le anime colte e gentili diventano irrazionali e feroci. Il fatto è che l’assassino del sacerdote era un cittadino francese. E quindi tutte le misure amministrative adottabili contro gli stranieri, a cominciare dall’espulsione, sarebbero state inapplicabili. Ed é questo il dramma della Francia, e anche della Germania e del Regno Unito. Nel seno delle loro numerose comunità musulmane vivono potenziali terroristi, di seconda o terza generazione, che non possono essere allontanati. Né possono essere isolati o incarcerati, se non nei casi di crimini commessi e giudizialmente riconosciuti. Ecco perché, in queste occasioni, emergono voci che in altri tempi sarebbero state bollate come inaccettabili rigurgiti liberticidi, e che adesso trovano spazio, attenzione e persino condivisione anche in ambienti democratici e liberali. Questo almeno in Francia, qui ed ora. E da noi? Da noi la situazione è, non sappiamo ancora per quanto, meno disperata. Non solo perché l’attività di intelligence e di controllo territoriale hanno, almeno fino adesso, funzionato. Ma anche e soprattutto perché i pochi o tanti sospettati di connivenza terroristica, non essendo cittadini italiani, hanno potuto, nella più perfetta legalità costituzionale, essere individuati ed espulsi. La mancanza di un impero coloniale, e della conseguente "integrazione" di milioni di individui di culture diverse, ci hanno evitato di ficcarci nel vicolo cieco dove annaspano i francesi. Nonostante gli impacci burocratici, e le risorse limitate e insufficienti, siamo ancora in grado di rispedire al mittente i seminatori di fanatismo e di odio. Questo tuttavia ripropone, in termini ancora più drammatici e urgenti, il tema del controllo delle frontiere, della cessazione dell’immigrazione clandestina, della rapida ed efficace distinzione tra esuli politici, profughi economici e potenziali criminali. In sostanza, nient’altro che l’applicazione, senza animosità ma anche senza indulgenza, delle leggi esistenti. Qualche anima bella protesterà che prima di tutto bisogna essere umani. No, prima di tutto bisogna essere saggi e giusti, ricordando che la giustizia con una mano regge la bilancia e con l’altra la spada. E che un chirurgo bravo sacrifica un braccio per salvare una vita, anteponendo il raziocinio alla stucchevole pietà. Soltanto così, applicando rigorosamente le leggi esistenti, potremo evitare che un’ondata di paura ne reclami di tragiche nel futuro. A proposito di "terrorismo psicopatico" di Giovanni De Plato (professore di Psichiatria dell’Università di Bologna) Il Manifesto, 28 luglio 2016 Come si fa a parlare di "terrorismo psicopatico" a commento della strage di Monaco? Come si fa a parlare di "Quei giovani psicotici e il delirio terroristico" a commento della strage di Nizza e dell’aggressione di Gaukkonigshofen? E come si fa a tramutare il disturbo mentale, che è una sofferenza, in pericolosità e violenza distruttiva, che sono il frutto avvelenato della politica dell’odio? Purtroppo lo si fa e lo teorizza Massimo Recalcati. Lo psicanalista lacaniano non si interroga sulla complessità del mondo postmoderno e sull’intreccio di forme arcaiche e di reti tecnologiche, preferisce parlare di psicosi e di farne la spiegazione dei mali odierni. Su la Repubblica di venerdì 22 luglio scrive, a proposito dei due distinti e diversi episodi di Nizza e Gaukkonigshofen, che entrambi "Sembrano scaturire dai fantasmi più oscuri della mente psicotica. Le scene stesse degli attentati assomigliano sempre più a vere e proprie allucinazioni". Non soddisfatto, sempre sullo stesso quotidiano di domenica 24 luglio, riscrive sulla strage di Monaco: "È la follia, il passaggio all’atto chiaramente psicotico, la psicopatologia di coloro che hanno compiuto gli ultimi attentati". Recalcati ricorrere a improprie citazioni dei padri della psicoanalisi e della psicologia per avallare le sue assurde teorie. Infatti, non spiega minimamente quale relazione causale, ammesso il caso che ce ne fosse una, potrebbe legare il disturbo depressivo, psicotico o il bullismo a comportamenti stragisti. Le moderne conoscenze scientifiche ci dicono che non esiste alcun nesso deterministico tra i disturbi mentali e la violenza o il terrorismo. Gli articoli di Recalcati, all’opposto, negano queste moderne evidenze della psicopatologia e della clinica psichiatrica. Restiamo stupiti per tanta arbitrarietà, per la deformazione dei tragici fatti avvenuti a Nizza, a Gaukkonigshofen e a Monaco. La corretta informazione sulle stragi di questi tristi giorni, permette di cogliere quanto sia complicata la storia personale degli autori e come siano intricate la motivazione e le finalità dei loro atti. Giustamente, le autorità della polizia e della magistratura di Francia e Germania sono caute, prima di pronunciarsi vogliono indagare i fatti in tutti i loro aspetti e dettagli. Recalcati non ha dubbi, da una immediata e superficiale conoscenza dei fatti desume che la matrice è la psicosi degli autori. E non si preoccupa che così alimenta nel lettore, senza strumenti critici, la paura e lo stigma verso la persona con disturbo mentale. Per evitare questi effetti, non si dovrebbe dare spazio e credibilità a chi vuole rivalutare il triste paradigma della psichiatria manicomiale, che identificava la "malattia mentale con la pericolosità a sé e agli altri". È evidente che i fatti tragici di Nizza, Gaukkonigshofen e di Monaco non possono essere accomunabili da un’unica ragione, tantomeno clinica. Di qui la preoccupazione per le analisi di Recalcati e di chi piega i fatti reali del terrorismo politico a improprie categorie di diagnosi psichiatrica. Troppo semplice, troppo facile per essere vero. Sarebbe meglio saper riflettere sulla drammatica realtà dei conflitti a livello globale e dei fatti di terrorismo politico o di violenza sociale a livello locale. Abbiamo bisogno che le nuove conoscenze scientifiche diventino sempre più sapere diffuso, perché occorre vincere e non alimentare la cultura della paura, del pregiudizio e dello stigma. Pisa: denuncia del Nursind "al Rems di Volterra personale in pericolo" infermieristicamente.it, 28 luglio 2016 La struttura Rems di Volterra ospita 10 pazienti, ex detenuti degli Ospedali di Polizia Giudiziaria. Ad assisterli 4 infermieri. Quando la struttura sarà a regime i pazienti saranno 28. Tra di loro ex detenuti con alle spalle delitti gravissimi, fino all'omicidio. E i 4 infermieri in servizio sono "reclutati" attraverso le agenzie interinali, senza esperienza specifica, senza che nella struttura sia presente uno psichiatra che possa intervenire prontamente in caso di gravi criticità, senza che all'interno della struttura vi sia del personale di sorveglianza (una guardia giurata c'è, ma per regolamento deve rimanere all'esterno della struttura). È il ritratto di una situazione potenzialmente esplosiva, che ha già purtroppo dato dimostrazione di facili inneschi: una infermiera minacciata di morte, un'altra sequestrata da un paziente sotto la minaccia di un manubrio da palestra. Il Nursind da tempo denuncia la pericolosità di questa situazione, rivolgendosi a tutte le autorità competenti (ASL, Sindaco, Regione), ma senza ottenere risposte e, soprattutto, fatti concreti. Senza entrare nel merito dei processi e dell'efficacia terapeutica, ovviamente, il sindacato però denuncia fermamente il gravissimo e verificato rischio cui il personale in servizio è sottoposto. "Qui non c'è la sicurezza per chi lavora. Noi chiediamo semplicemente che lì dentro ci sia qualcuno che fisicamente abbia la possibilità di intervenire. Abbiamo chiesto incontro all'Asl ma ad oggi non hanno risposto, abbiamo scritto anche alla Regione una settimana fa. Chiediamo risposte", queste le parole di Daniele Carbocci, del Direttivo Nazionale Nursind. Apparentemente qualcosa sembra finalmente muoversi: presentata stamani in Consiglio regionale una mozione d'ordine per impegnare Presidente e Giunta regionali a intervenire per tutelare la sicurezza del personale e ad avviare una indagine interna sugli episodi di violenza già verificatisi (Clicca). Prevista per domani la visita dell'Assessore Saccardi alla struttura. Genova: a Creto 15 "detenuti" con malattie mentali "una soluzione provvisoria" di Pablo Calzeroni e Roberto Sculli Il Secolo XIX, 28 luglio 2016 Creto, sulle alture della Valbisagno. È qui che la Regione vuole allestire una struttura di accoglienza per i pazienti che non possono essere più ospitati dagli ospedali psichiatrici giudiziari dismessi. Il "Rems", la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza alternativa - così si chiamano i centri disegnati con l’intento di superare gli arcaici "Opg" - troverebbe posto in uno stabile già esistente, adibito a centro di recupero per minori. E si tratterebbe di una soluzione tampone, perché, nei primi mesi del 2017, si prevede di aprire il centro unico e definitivo per l’intera Liguria, quello di Calice al Cornoviglio, in provincia della Spezia. "Non posso fornire dettagli - precisa l’assessore alla Sanità e vice presidente della Regione, Sonia Viale - se non che la situazione richiedeva un intervento molto urgente per gestire il periodo transitorio". Salvo intoppi, la delibera, caldeggiato più volte, e per ovvi motivi, dai vertici di tutti i tribunali, sarà varato dalla giunta il 5 agosto. Poi la decisione finale sarà di Franco Corleone, commissario incaricato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando di vegliare sull’intero processo, che sconta gravi ritardi in tutta Italia. In Liguria peraltro la situazione è meno critica di altrove perché, quantomeno, un progetto per creare il nuovo centro esiste. Il problema è che i 15 pazienti che attualmente sono sottoposti al cosiddetto regime di cura obbligatorio e si trovano a Castiglione delle Stiviere (uno storico Opg adibito a Rems temporaneo), devono trovare una sistemazione. Il rapporto con la struttura lombarda è peraltro gestito tramite una convenzione, che, alla Liguria, costa 547 mila euro l’anno. Intesa che, peraltro, è in scadenza. Alla scelta di Creto e in particolare del centro Tuga 1 si è arrivati dopo aver valutato diverse opzioni e promosso una manifestazione di interesse tra gli operatori del settore. La conversione, vista la funzione attiva - il centro ospita già pazienti con problemi psichiatrici, assegnati a programmi riabilitativi dal tribunale - dovrebbe essere più rapida e meno costosa. In più, è relativamente isolata. Sanremo (Im): detenuto tenta il suicidio ingerendo medicinali, salvato di Luca Simoncelli riviera24.it, 28 luglio 2016 Un detenuto del penitenziario di Valle Armea, oggi verso le 13.30, ha tentato di togliersi la vita ingerendo barbiturici o medicinali simili. Si tratta di un 42enne italiano che è stato salvato dall’intervento dagli agenti della Polizia Penitenziaria prima, e dal personale sanitario del carcere dopo. Alla fine il paziente è stato trasferito dalla Casa Circondariale di Valle Armea, tramite un’ambulanza della Croce Verde, all’ospedale "Borea" in codice giallo di media gravità. "Quello dei pazienti psichiatrici è uno dei tanti problemi che affliggono il carcere di Sanremo - spiega il segretario del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) Michele Lorenzo - purtroppo in quella Casa circondariale il medico psichiatra è presente solo poche ore alla settimana, a fronte di molti detenuti che presentano patologie simili. Inoltre - continua Lorenzo - continua l’emergenza per l’organico nel carcere: un numero esiguo di agenti che non permette di avere un controllo più capillare sul possesso di medicinali da parte dei detenuti". Ancona: Agrirock, festa per l'orto sociale dei detenuti al carcere del Barcaglione di Enrico Fede vivereancona.it, 28 luglio 2016 La riabilitazione al carcere passa dall’orto. Ma è un orto rock quello sociale del carcere anconetano del Barcaglione. Grande festa mercoledì pomeriggio, con il concerto della band Gang alle 17.30 e il barbecue delle 18.45, per la conclusione del progetto "Agrirock" ideato dalla direzione della Casa di Reclusione che ha fornito i semi e tutto il materiale necessario. Si è trattato infatti del coinvolgimento di circa centocinquanta detenuti - tra i quali anche il super tifoso Alessio Abram - che negli ultimi 730 giorni hanno coltivato circa 30 quintali di ortaggi. Ortaggi destinati sia ai coltivatori che ai carcerati che non hanno voluto prendere parte al programma, ma comunque ottenuti anche grazie ai consigli degli agricoltori pensionati della Coldiretti Marche. Proprio la Coldiretti - presente il direttore regionale Enzo Bottos (reduce dalla vittoria sui risarcimenti per i danni da selvatici a Palazzo Raffaello) - si è resa principale partner del progetto, insieme a Assam, Cia e Coopagri. Costato circa 2.000 euro - ricavati dai fondi regionali -, l’orto sociale si sviluppa in tre parti, una per ogni piano detentivo della struttura e si prefigge l’obiettivo di maturare la consapevolezza del detenuto verso il rapporto tra attività svolta e risultato ottenuto. "In due anni - la spiegazione del Responsabile Esecutivo e Funzionario Tecnico Sandro Marozzi - abbiamo visto tanta partecipazione da parte dei detenuti ad un progetto utile a riempire il loro tempo libero e migliorarne la consapevolezza". Terrorismo, l’antidoto da trovare di Franco Venturini Corriere della Sera, 28 luglio 2016 L’attacco alla Germania dimostra che l’Isis colpisce pure chi non è in primissima linea sul fronte. Il massacro in Francia può avere un intento provocatorio che va oltre il delitto commesso e fa parte di una strategia che va spiegata meglio all’opinione pubblica. Sono rimasti in pochi, quelli che preferiscono non parlare di guerra. Piuttosto ogni nuovo orrore conferma la lungimiranza e la precisione della ormai lontana definizione di papa Francesco, "una guerra a pezzettini": insieme asimmetrica e globale, anti occidentale e anti islamica, barbara ma guidata da menti sofisticate. L’accelerazione degli attacchi ci chiama a riflettere e a capire in fretta, perché anche l’Isis ha fretta. E mette nel mirino non soltanto i nostri valori, ma anche quel nostro modello di convivenza sociale che il Califfato spera di rovesciare servendosi dei nostri stessi strumenti, da Internet alle elezioni democratiche. Senza saperlo Abu Bakr al Baghdadi imita Lenin, quando diceva "i capitalisti ci venderanno la corda con cui li impiccheremo". Il capo dei bolscevichi non riuscì nell’intento, si tratta ora di fermare le strategie che al Baghdadi utilizza per entrarci in casa. La linea che separa "pazzi" e terroristi si fa ogni giorno più sottile. E anche meno rilevante. Con poche eccezioni (il movente passionale nell’omicidio di Reutlingen, se sarà confermato) gli autori dei più recenti attacchi terroristici sono in minoranza "soldati" dell’Isis e in maggioranza giovani islamici con problemi psichici o psicologici. Problemi che possono essere di semplice frustrazione, e possono nascere anche da banali desideri di rivalsa. I l bacino dei potenziali radicalizzati diventa così enorme, e viene sfruttato in automatico perché l’Isis ha piazzato sui social network o sui siti internet le trappole per catturare i più vulnerabili tra quanti sono in crisi di identità. L’offerta non è trascurabile: una ideologia, per chi è disorientato dal non averne; il "riscatto" morale e sociale con un altissimo livello di visibilità; una militanza religiosa fondamentalista fatta apposta per mobilitare. Il terrorista è tra noi, più che mai. E una riflessione sulla pericolosità del web, accanto alle sue molteplici e ormai irreversibili virtù, prima o poi bisognerà farla ai più alti livelli. L’attacco di martedì alla chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, con lo sgozzamento di un sacerdote ottuagenario, può avere un intento provocatorio che va oltre il delitto commesso. I "crociati" cristiani, certo, sono da sempre nemici, come gli ebrei. Ma il gesto è troppo feroce per non autorizzare il sospetto che si voglia innescare un contro-terrorismo, una reazione che si volga contro le moschee o comunque contro la generalità dei francesi di religione islamica. Per l’Isis sarebbe un trionfo, e dopo non gli risulterebbe difficile versare altro olio sul fuoco. L’Isis è in campagna elettorale. In Francia, nemica da sempre e ideale terreno di sovversione con i suoi sei milioni di islamici. Ma ora anche in Germania, che prima sembrava trascurata. Come non ricordare che in Francia si vota a maggio e in Germania a settembre 2017, che in Francia il Front National guida i sondaggi e in Germania Angela Merkel è stretta tra l’estrema destra e i suoi colleghi di partito bavaresi, come non vedere che Heidingsfeld, Monaco e Ansbach sono tutti in Baviera, come non capire che la questione migratoria è per l’Isis un grimaldello formidabile capace di affogare i moderati nelle urne e di portare al potere una destra estremista contro cui sarà più facile lottare per arrivare un giorno al trionfo islamico? Questo è soltanto l’incubo di Houellebecq, si dirà. Può darsi, ma a condizione che un risveglio collettivo riesca a dissolverlo in tempo. All’Italia, poi, non deve sfuggire una circostanza che la riguarda. Attaccando per la prima volta la Germania (almeno con l’operazione rivendicata di Ansbach) il Califfato ha voluto, secondo il comunicato dell’agenzia Amaq, "colpire i Paesi che partecipano alla coalizione contro l’Isis". La Germania, infatti, è membro di quella coalizione, come l’Italia. E come l’Italia non ha sin qui usato la forza militare direttamente contro l’Isis, dedicandosi invece a ricognizioni aeree e all’addestramento di forze locali. In più i militari italiani provvedono alla evacuazione di feriti dal campo di battaglia e proteggono i lavori di sistemazione della diga di Mosul. Il segnale è semplice: anche chi fa meno di noi nella coalizione (conta poco che le ricognizioni aeree italiane siano in Iraq e quelle tedesche in Siria) è stato attaccato. Basta saperlo, e basta non farsi troppe illusioni senza per questo smettere di sperare che l’assenza di attacchi sul nostro territorio continui. La minaccia si va dunque precisando mentre si allarga. Una minaccia che non è certo destinata a decrescere, mentre in Iraq si prepara l’assalto alla roccaforte di Mosul. E che inevitabilmente moltiplicherà i suoi colpi in Europa come ha già fatto nelle ultime settimane, poco importa se con il meccanismo della emulazione guidata dalla Rete o con quello degli ordini eversivi mandati da Raqqa. Per reagire dobbiamo affrontare l’Isis sul campo di battaglia, ma anche sul suo terreno favorito: quello che penetra l’opinione pubblica, quello che recluta sfruttando la debolezza dei singoli. La politica e i media, in ogni Paese europeo, devono saper andare oltre i fatti di sangue, devono spiegare chi e perché li commette, devono avvertire l’opinione pubblica che un burattinaio stragista sta puntando sui cittadini elettori per sfruttare la paura del terrore e il disagio che nasce dai flussi migratori. E occorre capire questo disagio, smetterla di scomunicare i "populisti" quando non sono avvoltoi in attesa del peggio, combattere invece le facili generalizzazioni e trasmettere una genuina volontà politica che escluda la resa. Per le grandi nazioni europee è la prova più dura dalla fine della Seconda guerra mondiale, perché contro al Baghdadi non abbiamo ancora trovato l’antidoto che avevamo nei confronti dell’Urss durante la Guerra fredda. E di tempo, calendario elettorale alla mano, ne abbiamo poco. Serve una nuova strategia per rieducare gli jihadisti di Lorenzo Vidino La Stampa, 28 luglio 2016 Più controlli e integrazione: ecco che cosa possono fare gli Stati per impedire altri massacri senza snaturare secoli di civiltà. "Erano noti alle autorità". Dopo l’atroce attacco nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray si è diffusa la notizia che gli attentatori, come prima di loro quelli di Parigi, Orlando, Ansbach e molti degli altri posti che sono stati di recente insanguinati dalla follia jihadista, erano già stati in qualche modo "attenzionati". Anzi, nel caso specifico uno dei due, Adel Kermiche, che a soli 19 anni era il più vecchio del mini-commando, era stato da poco rilasciato per decorrenza dei termini. Il giovane era stato detenuto per i suoi tentativi di unirsi allo Stato islamico e indossava un braccialetto elettronico. Il suo caso era andato ad arricchire la folta schiera (più di diecimila) dei "Fichier S", i files che i servizi francesi tengono sui soggetti radicalizzati. È una dinamica comune a tutta Europa, sia a Paesi nell’occhio del ciclone del terrorismo come la Francia sia a quelli, come il nostro, che sebbene vedano un numero crescente di casi di radicalizzazione, fortunatamente non sono toccati dal fenomeno con la stessa intensità. Le forze anti-terrorismo di ogni Paese europeo sono a conoscenza di migliaia di casi di soggetti che danno chiari segnali di estremismo, siano essi una semplice frequentazione di siti jihadisti o, in casi più avanzati, contatti con ambienti o gruppi jihadisti e perfino esperienze pregresse di combattimento e condanne. Ma questi comportamenti non rappresentano di per sé un crimine passibile di arresto. Giustificano un’attenzione elevata, che però le forze di polizia e intelligence europee, stremate dal numero elevatissimo di casi, non riescono sempre a prestare. Se poi aggiungiamo che spesso il passaggio dall’estremismo da tastiera, cioè dal passare le giornate su siti jihadisti, all’azione avviene in maniera fulminea e imprevedibile, si spiegano casi come quelli di Saint-Etienne-du-Rouvray. Giusto scandalizzarsi per le inefficienze dell’anti-terrorismo (e ce ne sono state tante di recente, si badi bene), ma bisogna capire tra che paletti si muovono. Cosa fare allora? All’indomani di attentati c’è sempre chi invoca misure draconiane, in sostanza arrestare qualsiasi persona che abbia dato segnali di estremismo. Si fa in certi Paesi mediorientali, dove una parola sbagliata porta alla prigione senza condanna, ma menti fredde capiscono che un tale approccio comporterebbe lo snaturamento di secoli di civiltà del diritto occidentale. È chiaro che vanno aumentati gli effettivi per potenziare le capacità di monitoraggio, cosa che i francesi hanno fatto subito dopo Charlie Hebdo (gli agenti vanno però addestrati e ci vorrà del tempo prima di vedere i frutti della mossa). Ma ci si rende sempre più conto che le tattiche tradizionali dell’anti-terrorismo non bastano e soluzioni alternative sono necessarie. È in tal senso che verte il Piano di Azione contro Radicalizzazione e Terrorismo recentemente varato dal governo francese. Il Piano prevede l’istituzione di dodici centri di reintegrazione per jihadisti da aprirsi nei prossimi mesi. Alcuni hanno come obiettivo il recupero di soggetti "sotto monitoraggio in quanto vulnerabili alla radicalizzazione" attraverso un doppio canale: da una parte attività di "de-indottrinamento" attraverso percorsi con psicologi e psichiatri, dialoghi di gruppo su temi come la religione e la geopolitica, e infine un lavoro individuale con l’obiettivo di allontanare gli individui da influenze radicali; dall’altra prevede una formazione professionale e dei tirocini. Altri centri saranno specificamente destinati a foreign fighters di ritorno. Il nuovo programma francese è ispirato a modelli già usati in vari Paesi mediorientali ed europei. Nella città danese di Aarhus, per esempio, le autorità hanno da anni creato un programma per il reinserimento dei jihadisti che sono tornati in Danimarca dopo aver combattuto in Siria. I primi risultati paiono positivi e nessuno dei circa 30 soggetti sottoposti al programma si è macchiato di attività terroristiche dopo essere ritornato in patria. Non sono certo buonismo e ingenuità che spingono le autorità danesi o francesi a vedere non solo un potenziamento dell’apparato anti-terrorismo ma anche l’introduzione di misure volte alla prevenzione della radicalizzazione e alla reintegrazione come possibili soluzioni alle crisi che stiamo vivendo. Non è possibile monitorare ogni Adel Kermiche d’Europa 24 ore su 24 - anche se si potesse legalmente non esistono le risorse per farlo. Né lo si può tenere in carcere ad aeternum senza che abbia compiuto un crimine. Possono il tipo di interventi previsti dal nuovo piano francese o dalla città di Aarhus convincere i vari Kerniche d’Europa a non seguire le sirene del Califfato? In certi casi sì, come varie esperienze dimostrano. In altri no, come nel caso di un jihadista tedesco recentemente coinvolto in un attacco contro un tempio Sikh a Essen nonostante fosse sottoposto a un programma di de-radicalizzazione. Ma visto che l’alternativa è lasciare i Kerniche d’Europa a se stessi, un tentativo di de-radicalizzazione appare la soluzione più sensata. Papa Francesco: "La guerra c’è ma è per soldi e dominio" di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 28 luglio 2016 Polonia. Le celebrazioni per la giornata mondiale della gioventù entrano nel vivo. Il santo padre ricevuto dal presidente polacco Andrzej Duda. "Non c’è guerra di religione, c’è guerra di interessi, per i soldi, per le risorse naturali, per il dominio dei popoli". Ha commentato così papa Francesco l’uccisione di Padre Jacques che ha scosso la Francia e il resto del mondo. I conflitti sono generati da cause materiali. Il santo padre è consapevole che viviamo in un epoca in cui ogni cordon sanitaire contro gli estremismi politici si è definitivamente spezzato. L’idea di una guerra santa in corso nel mondo è ridotta a quello che è, ovvero a spauracchio agitato trasversalmente dai partiti populisti di destra e non solo, la cui ascesa non sembra destinata a subire battute di arresto nel breve e medio periodo. Il pontefice ne ha smontato la ragion d’essere con una sola frase mettendo a nudo le contraddizioni della retorica populista, pseudo-cattolica e xenofoba professata in tutto il mondo dai vari Le Pen, Trump, e Orban di turno e dal loro elettorato. Un segnale forte, anzi fortissimo, mandato all’Occidente, letteralmente da carpire al volo, visto che il pontefice lo ha dichiarato a bordo del suo aereo ancora prima di atterrare a Cracovia. Una visione materialistica quella di papa Francesco che non contrasta con lo slancio spirituale e evangelico della sua missione: è da qui che passa l’eccezionalità del suo pontificato. Non c’e dubbio che papa Francesco lo dirà chiaro e tondo anche alle centinaia di migliaia di giovani accorsi in Polonia in occasione della trentunesima Giornata mondiale della gioventù. Intanto, le celebrazioni sono entrate nel vivo dopo l’atterraggio del pontefice che è stato ricevuto dal presidente della Repubblica polacca Andrzej Duda, in attesa dei numerosi bagni di folla tra i fedeli in programma fino a domenica. Ad accoglierlo nella citta polacca dove Karol Wojtyla fu vescovo, giungeranno almeno un milione e mezzo di persone da tutto il mondo. Un’atmosfera di festa, ben oltre i confini del giardino anulare di Planty che separa con il suo tracciato verde il centro storico dagli altri quartieri cracoviani. Fino a domani, papa Francesco si sporgerà ogni sera dalla stessa finestra da cui Giovanni Paolo II era solito affacciarsi durante le sue appassionate conversazioni notturne con i giovani radunati di fronte al palazzo arcivescovile nella piazza del convento francescano. Un gesto di continuità con il passato in un paese in cui sono state eretti più di 7mila monumenti dedicati a Giovanni Paolo, nonostante l’opposizione ad ogni forma di idolatria personale professata in vita da Karol Wojtyla. Una Cracovia gioiosa che si ammanterà per una settimana della veste del multiculturalismo grazie ai canti e alle preghiere dei pellegrini, a dispetto delle ingenti misure di sicurezza varate dal governo della destra populista Diritto e giustizia (PiS). Allerta massima nelle strade del paese con almeno 37.000 forze di sicurezza mobilitate in occasione del soggiorno del papa. Giovedì scorso, le forze dell’ordine avevano fermato un cittadino iracheno in un ostello di Lodz al quale sono state trovate delle tracce di esplosivo C4 sugli abiti e la valigia. L’uomo, reduce da una breve tappa a Cracovia, si sarebbe recato in Polonia per aprire un ristorante. "Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia", è il motto dell’evento cracoviano annunciato due anni fa a conclusione dell’ultima Gmg, svoltasi a Rio de Janeiro. Una scelta confermata poi dalla decisione di convocare l’Anno della Misericordia mediante la bolla Misericordiae vultus dell’11 aprile 2015. "Ogni parrocchia accolga una famiglia di profughi. Lo faranno per prime le due parrocchie del Vaticano. Cominciamo dalla mia diocesi di Roa", aveva annunciato papa Francesco a settembre scorso in un breve discorso poco prima dell’Angelus. Dopotutto, l’accoglienza dell’Altro è una delle sette opere di misericordia corporale. Ma non tutti i vescovi o parroci sono per un’applicazione estensiva di tale concetto. È probabile che papa Francesco abbia ribadito lo stesso concetto all’alto clero polacco ieri in occasione di una riunione a porte chiuse nel castello di Wavel. E così che il vecchio diktat locale di Monsigor Marek Jedraszewski in materia di accoglienza "dobbiamo essere aperti ma anche prudenti e responsabili", non è più accettabile. Soprattutto in un paese dove la parola prudenza fa rima con una strategia di chiusura totale nei confronti degli immigrati e dei rifugiati, professata in patria dai politici PiS. La chiesa è tenuta a dare il buon esempio alla società civile senza "se" e senza "ma". Un obiettivo tutt’altro che facile da perseguire. "La Polonia è un paese omogeneo dal punto di vista etnico. Il fenomeno dell’immigrazione in generale (dei profughi e rifugiati in particolare) è nuovo, diverso, è strano per un polacco medio", si legge in un comunicato stampa da parte di Pawel Rytel-Andrianik, portavoce dei vescovi polacchi, diffuso dal Vaticano pochi giorni prima della Gmg. Sbarchi dei minori non accompagnati triplicati in 5 anni, gara di solidarietà tra i Comuni La Repubblica, 28 luglio 2016 Solo nel 2014 accolti 13mila piccoli arrivati con i gommoni senza mamma e papà e poi presi in carico dai servizi sociali. È quanto emerge dal Rapporto Anci-Cittalia. Aumenta l'impegno dei Comuni per aiutare i minori sbarcati in Italia senza mamma e papà. Dal 2011 il numero dei minori stranieri non accompagnati (Msna) contattati o presi in carico dai servizi sociali dei Comuni italiani "è incrementato in maniera esponenziale", passando dai 4.588 del 2010 ai 9.197 del 2011, dai 9.678 del 2013 fino ai 13.523 del 2014. Dalla prima rilevazione 2004-06 (7.870) sono quasi raddoppiati. È quanto emerge dal Rapporto Anci-Cittalia - presentato a Roma - che fa il punto sulle politiche di accoglienza per i minori non accompagnati che arrivano nel nostro paese. Nel 2014 le regioni con il numero più elevato di piccoli stranieri non accompagnati erano Sicilia (oltre 3.100), Lazio (2.241) e Calabria (1.470). Mentre è Roma il comune con i maggior numero di Msna (1.960), seguono Reggio Calabria (695), Palermo (557), Messina (556) e Catania (532). Come sono suddivisi i piccoli migranti? In generale il 96% dei Msna sono maschi, il 55,6% ha 17 anni e oltre la metà proviene da quattro paesi: Egitto (21,5%), Bangladesh (13,2%), Gambia (10%) e Albania (9,1%). Dal 2004-2006 sono aumentati i richiedenti di protezione internazionale: si passa da 251 minori agli oltre 3.000 del 2014 (23,4%). "I Comuni sono il luogo in cui i diritti diventano concretamente esigibili soprattutto per quanto riguarda la tutela dei minori solo che arrivano sul nostro territorio - ha affermato Umberto Di Primo, vicepresidente dell'Anci - il numero di minori stranieri non accompagnati presenti in Italia è rimasto stabilmente alto nel corso degli anni, attestandosi mediamente intorno alle 8.000 unità annue, con un incremento particolarmente costante negli ultimi 3 anni". Una situazione che richiede un sistema di accoglienza e integrazione strutturato e realmente diffuso su tutto il territorio nazionale. "Per queste ragioni è necessario affrontare alcuni nodi cruciali per definire puntualmente la filiera dell'accoglienza: dall'aumento dei posti nelle reti strutturate di prima e di seconda accoglienza - ha aggiunto Di Primo - alla deroga al blocco del turnover del personale per i Comuni che accolgono i minori soli nell'ambito dello Sprar, fino alla riduzione dei tempi di nomina del tutore e del rilascio del permesso di soggiorno ed evitando la creazione di circuiti speciali di accoglienza dedicati esclusivamente ai minori stranieri non accompagnati". Alla luce del rapporto Luca Di Bartolomei, responsabile sport del Pd, ha inviato una lettera alle istituzioni sportive - dal presidente del Coni Malagò al n.1 della Figc Tavecchio - per lanciare una proposta: "Regaliamo a questi ragazzi una giornata diversa, attraverso il tifo che potrebbe essere strumento di unione e non più megafono di intolleranza". Di Bartolomei suggerisce di stringere collaborazioni per portare i giovani rifugiati ad assistere nel weekend alle 700 partite di serie A e B: "Si rafforzi la cornice istituzionale già esistente fra Coni, Figc, lega di serie A e B e il dipartimento immigrazione per ospitare negli stadi italiani i minori ogni settimana: costerebbe poco e loro dimenticherebbero per un secondo di essere un mare lontani da casa". Migrati. I derelitti dell'accoglienza: "Cacciati anche dai centri" di Giovanni Masini Il Giornale, 28 luglio 2016 Gli accampamenti di profughi ridisegnano la geografia urbana di Milano. L'ultimo gruppo di migranti allo sbando si è sistemato in piazzale Susa, nella zona semicentrale fra le vie chic intorno a corso Indipendenza e il quartiere popolare dell'Ortica. Si tratta di una trentina di africani, che da una settimana trascorrono le ore centrali del giorno a ciondolare sulle panchine del parco pubblico che segna l'inizio di viale Argonne, nel traffico convulso della circonvallazione esterna. Sono stati espulsi dal centro di via Corelli, conferma la Prefettura, dopo la rivolta scatenata due settimane fa per richiedere migliori condizioni di vita e un'accelerazione nelle procedure per il rilascio di documenti. Provengono dall'Africa subsahariana: Mali, Senegal, Camerun, Costa d'Avorio. Con l'eccezione di due donne, sono tutti ragazzi fra i venti e i trent'anni, perlopiù richiedenti asilo o in attesa di essere convocati davanti al giudice per conoscere l'esito del ricorso contro una sentenza sfavorevole. "L'Italia mi ha salvato dal mare racconta l'ivoriano Umar, 23 anni, il bianco degli occhi che spicca sulla pelle nerissima del viso E ora chiedo all'Italia di non abbandonarmi in questa piazza, come un cane. Ho chiesto asilo qui perché amo il vostro Paese, non voglio andarmene. Ma non posso vivere così". Umar e i suoi compagni trascorrono le ore del giorno ai giardinetti, facendo la spola fra una panchina e l'altra. Al calar della sera si trasferiscono vicino alla stazione Centrale, dove dormono accampati nella zona di via Sammartini. Ogni giorno vanno a mangiare alla mensa dei frati minori di via Kramer, una volta alla settimana c'è la doccia. Dicono di non conoscere i motivi per cui li hanno cacciati dal centro di via Corelli, si trincerano dietro l'ignoranza della legge: "Io non sapevo che in Italia non è possibile chiudere gli operatori del centro dietro a una porta protesta Umar gesticolando Se lo avessi saputo non lo avrei mai fatto. Mai. Volevamo solo chiedere i documenti che ci riconoscessero come rifugiati politici". A dargli manforte interviene Christine, corpulenta matrona camerunense. Trentatrenne, cristiana, ha lasciato in Africa un marito e due figli. Le avevano detto, ci spiega, che in Italia si poteva iniziare una vita migliore: "Vivere così, nella polvere, è da animali si infervora Gli operatori del centro d'accoglienza ci hanno messi alla porta da un giorno all'altro, senza nemmeno dirci il perché. Hanno separato le mogli dai mariti, vi sembra giusto?". Spalleggiata da tutto il gruppo di immigrati, la donna denuncia quella che chiama la "mafia" dell'accoglienza: "Nei campi profughi c'è molto razzismo: gli arabi sono favoriti, più è scura la tua pelle meno diritti hai". Se è difficile accertare l'incidenza di questi "favoritismi", è certo che la situazione di Christine è delle peggiori. In tutta la Lombardia i richiedenti asilo sono quasi diciottomila: a Milano la situazione è al collasso e l'apertura del campo base di Expo, a settembre, non garantirà più di centocinquanta posti letto. Nonostante l'assessore al Welfare Pierfrancesco Majorino moltiplichi le promesse d'intervento, gli africani di piazzale Susa raccontano che nessuno, in sette giorni, si è fatto vivo con loro: non il Comune, non le autorità sanitarie, non la polizia. Solo le "maestre" che al centro d'accoglienza insegnavano loro qualche parola d'italiano. I profughi sono arrabbiati, ma soprattutto increduli. Non si capacitano che il Paese dei loro sogni, l'Italia, abbia deluso le loro aspettative: "Se avessimo commesso un reato saremmo in carcere, giusto? - domanda Umar nel suo francese concitato Ma non abbiamo fatto nulla e ci siamo ritrovati per la strada. Ma questa piazza è peggio di una prigione: non ho nulla per mangiare e per sfamarmi mi costringono a rubare". Caporalato: inferno nero nei ghetti pugliesi di Giovanni Masini Il Giornale, 28 luglio 2016 Le ruote sollevano nuvole di polvere quando l’auto si ferma in mezzo alla campagna, in cerca di qualcuno cui chiedere informazioni. "Per il gran ghetto girate a destra all’altezza del filare di cipressi. Seguite lo sterrato, poi di nuovo a destra al mucchio di spazzatura. Non potete sbagliare". Persino le indicazioni puzzano di spazzatura e di morte, quando si tratta di arrivare al gran ghetto di Rignano Garganico, la maggiore delle decine di bidonville che da qualche anno punteggiano la campagna pugliese, ridisegnandone la geografia fisica ed antropica. Sono i ghetti: agglomerati di baracche dimenticati in mezzo ai campi, abitati da braccianti-schiavi immigrati. Secondo i dati 2015 della Flai Cgil, nel pieno della stagione estiva i ghetti arrivano ad ospitare oltre settemila anime, solo contando i braccianti regolari. Quelli clandestini sarebbero almeno il doppio. Si tratta di anime dannate, giunte in Italia inseguendo il sogno di una vita migliore e ritrovatesi per dodici ore al giorno con una zappa in mano, chini su un filare di piante di pomodoro che sembra non finire mai, a lavorare sempre più in fretta per trentacinque euro al giorno. Trentacinque miserabili monete, a cui vanno però sottratti cinque euro per il passaggio in macchina fino al luogo di lavoro; un euro al giorno per dormire in una delle baracche del ghetto; altri tre o quattro euro per mangiare e per bere. È il sistema del caporalato, la piovra che ricatta e opprime decine di migliaia di lavoratori, italiani e stranieri, nelle campagne del nostro Mezzogiorno. Il meccanismo, nella sua infernale spietatezza, è semplice. Ai braccianti viene offerto un lavoro pagato generalmente a cottimo, che non richiede manodopera qualificata e con la garanzia di un impiego continuo e praticamente certo. L’unica condizione è l’assenza di ogni condizione. Durante la raccolta dei pomodori - uno dei lavori più duri, assolto quasi solo dai robusti braccianti africani - la paga oraria va dai 4 euro ai 2,5 euro l’ora. Naturalmente non c’è contratto, assicurazione, contributi o malattia. Di ferie nemmeno a parlarne. Contano solo i pomodori che a fine giornata hai ammonticchiato nei cassoni. Più pomodori raccogli, più guadagni. Il sistema di sfruttamento, però, non si limita al rettangolo di terra brulla del campo, ma si estende a tutta la giornata del lavoratore: "Ogni giorno pago cinque euro al caporale che mi porta al lavoro - ci spiega il quarantenne Nourdin, padre senegalese e madre mauritana - Se lavoro per dieci ore a tre euro e cinquanta centesimi l’ora, che è una buona paga, guadagno trentacinque euro al giorno, sette giorni alla settimana. Ma se da questi trentacinque inizi a sottrarre cinque euro per il trasporto, uno per il posto letto, quattro per il cibo e altri mille balzelli, dall’obolo per ricaricare il cellulare a quello per trovare dei vestiti nuovi, non mi resta quasi nulla". A spiegarlo dati alla mano è Leonardo Palmisano, sociologo e ricercatore da anni impegnato nella lotta al caporalato con azioni di denuncia che gli sono valse querele e minacce. Sul tema ha scritto un libro, "Ghetto Italia", a quattro mani con Yvan Sagnet, coraggioso ex bracciante che ha deciso di denunciare lo sfruttamento in cui era tenuto insieme ai suoi compagni e che ora collabora attivamente con il sindacato. "I braccianti spendono presso i caporali circa dieci euro al giorno - racconta - Per 2500 persone, sono 25000 euro al giorno. Una stagione di sessanta giorni frutta dunque ai caporali ben 1,5 milioni di euro, e solo dal ghetto di Rignano." Nell’ormai decennale storia del ghetto sono sorti diversi negozi che rendono questa assurda favela foggiana un vero e proprio villaggio dell’Africa nera in terra di Puglia. Nei quartieri ordinati per nazionalità si incrociano bar e ristoranti, bordelli, macellerie, officine meccaniche e bazar, una moschea e perfino un grande mercato all’aperto. Alle tre del mattino i braccianti si ritrovano nelle piazze dello slum, dove i caporali formano le squadre da caricare sui furgoni. Alle cinque inizia la giornata, un lavoro massacrante e senza sosta, sotto lo sguardo annoiato dei guardiani. Una scena che ricorda quelle della Capanna dello zio Tom. Non sono rari i casi di morti sul lavoro: braccianti stramazzati al suolo dopo quattordici ore di fatica, cadaveri fatti sparire nel nulla o scaricati davanti al pronto soccorso da un’auto con la targa coperta che si allontana in tutta fretta. L’unico tramite fra il ghetto e il mondo esterno è Concetta Notarangelo, della Caritas locale: indaffaratissima, ci guida all’interno delle baracche prendendo nota della situazione di questo o quel profugo. In molti si sono visti negare la protezione internazionale ed hanno presentato ricorso al giudice, bloccati in attesa dell’udienza per mesi interi. Qualcuno prova a strappare un contratto di lavoro regolare, ma uscire da questa bolgia infernale non è facile. La manodopera è sovrabbondante e questo contribuisce a mantenere bassi i prezzi. Che però non sono stabiliti dai proprietari terrieri, ma dalle aziende della grande distribuzione collocate alla fine della filiera agroalimentare. "Le industrie dei pelati fissano il prezzo e lo comunicano ai grossisti - spiega Palmisano - I grossisti stabiliscono il prezzo al quintale e lo impongono ai coltivatori, che a loro volta si rifanno sui braccianti attraverso i caporali. Una catena al ribasso dove tutti lucrano su chi sta sotto, fatta eccezione per gli ultimi". Un simile sistema rende economicamente insostenibile qualsiasi tentativo di produzione etica che corrisponda il giusto ai lavoratori della terra. I braccianti lo sanno e cercano di contenere le spese per risparmiare il più possibile e raccogliere qualche centinaio di euro necessario - ma spesso non sufficiente - ad uscire dal ghetto. Qualcuno, come il diciannovenne Fofò, prova a cavarsi d’impiccio con lo studio: di giorno raccoglie gli ostaggi, la sera prova a studiare un po’ di italiano. Grazie alla Caritas, è riuscito a prendere parte a un progetto della protezione civile. Un giorno sogna di intraprendere una professione normale, forse il medico. Domani andrà ancora nei campi. Ma prima ancora c’è il tempo di tirare qualche calcio a un pallone nella partitella con i suoi compagni di baracca. In cielo il sole, indifferente, tramonta sul ghetto di Rignano. Domani sorgerà, ancora, sulle schiene dei braccianti già chini sulle piantine dei pomodori che finiranno sulla nostra tavola. Cannabis. L'appello dei Radicali "Una firma e un digiuno contro il proibizionismo" Il Dubbio, 28 luglio 2016 Per la prima volta nella storia del nostro Paese un disegno di legge che prevede la legalizzazione della cannabis è all'esame del Parlamento. Si tratta di un momento cruciale e di un passaggio delicatissimo. Dopo decenni di lotte antiproibizioniste, come Radicali, sappiamo che in questa fase ci giochiamo tutto (o quasi). E sappiamo - e lo conferma il rinvio della discussione a settembre - che non è ancora tempo di tirare sospiri di sollievo: ma che occorre tenere alta l'attenzione e rilanciare la battaglia, per scongiurare il rischio che questa opportunità storica finisca in un dibattito parlamentare confuso e irrazionale. Per evitare, insomma, che la possibilità concreta di portare a termine questa campagna venga archiviata per sempre. Per questo, come abbiamo fatto negli ultimi 3 mesi, continueremo a raccogliere le firme dei cittadini, nelle strade e nelle piazze di tutta Italia, per una proposta di legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione della cannabis e la decriminalizzazione dell'uso di tutte le sostanze. Si tratta di un tema sociale gravissimo, lasciato scoperto: i cittadini italiani ne sono ben consapevoli. D'altra parte, le resistenze da parte di chi, all'interno delle istituzioni, continua nonostante tutto a difendere lo status quo causato dalle politiche proibizioniste, non si faranno attendere. E quelle "pregiudiziali costituzionali" e quei quasi 2mila emendamenti già presentati in Commissione non rappresentano che le prime avvisaglie dell'ostruzionismo a cui sarà sottoposto il provvedimento. Gli ostacoli da superare sono molti e intanto i danni del proibizionismo continuano a manifestarsi indisturbati. Come nella vicenda di Fabrizio Pellegrini. Pianista di 47 anni, malato di fibromialgia, si trova recluso nel carcere di Chieti da oltre un mese per aver coltivato alcune piante di cannabis. Dal 2007 in Italia il principio attivo della Cannabis è ammesso in terapia, dopo vari tentativi, Fabrizio ne ottiene una prescrizione: per un mese di trattamento è tuttavia costretto a spendere circa 500 euro che, solo grazie a una colletta, riesce a mettere insieme. Si tratta di una spesa che va oltre le sue limitate finanze. Dunque, la coltivazione domestica di qualche pianta, gli appare l'unica alternativa terapeutica. E pensare che proprio in Abruzzo dal 2014 è in vigore la più avanzata legge regionale in materia di cannabinoidi per cui il medicinale è posto a carico del servizio sanitario regionale dotato di un fondo annuo di 50mila euro per tale scopo. Legge che risulta inapplicata. Così Pellegrini si trova in carcere. Le sue condizioni vanno aggravandosi, son comparse ecchimosi lungo la colonna vertebrale ed è costretto ad assumere farmaci per alleviare il dolore. Nonostante altri malati, in altre carceri d'Italia, siano autorizzati all'uso di cannabinoidi a Chieti queste terapie non son previste. A sostegno di Fabrizio Pellegrini, in questi giorni Andrea Trisciuoglio, segretario dell'associazione LaPiantiAmo, malato di sclerosi multipla, ha cominciato un'iniziativa nonviolenta di sospensione della propria terapia a base di cannabinoidi per chiedere la scarcerazione di Fabrizio, iniziativa a cui in questi giorni hanno aderito e continuano ad aderire con una staffetta di sciopero della fame numerosi militanti e dirigenti radicali. E così proseguiremo: un digiunatore al giorno fino a quando il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, non interverranno per acquisire una perizia medico-legale volta ad accertare l'incompatibilità di Fabrizio Pellegrini con la reclusione, così come prevede il nostro codice penale. E ancora, un digiunatore al giorno affinché il governatore della Regione Abruzzo, Luciano d'Alfonso, intervenga a garantire l'effettiva applicazione della normativa regionale in materia di cannabis terapeutica, per evitare nuovi "casi Pellegrini". Una firma e un digiuno, dunque. Per Fabrizio e per tutte le vittime del proibizionismo. I radicali foggiani, Riccardo Magi - Segretario di Radicali Italiani, Filomena Gallo - Segretaria dell'Associazione "Luca Coscioni", Marco Cappato ? Tesoriere dell'Associazione "Luca Coscioni", Andrea Trisciuoglio - Segretario de "La PiantiAmo", Alessio Alberti, Anna Antonaccio, Matteo Ariano, Marco Beltrandi, Rocco Berardo, Dario Boilini, Barbara Bonvicini, Valeria Cafeo, Paola Calzoni, Giuseppe Candido, Michele Carelli, Alessandro Celuzza, Alessio Di Carlo, Carlo Gandolfo, Franco Giacomelli, Marzia Guerriero, Norberto Guerriero, Davide Iglina, Paolo Izzo, Matteo Mainardi, Diego Mazzola, Giacomo Negri, Anna Rinaldi, Michele Rinaldi, Alexandre Rossi, Gianni Rubagotti, Gino Ruggeri, Giovanni Sansi, Angela Scaramuzzi, Antonella Soldo, Rita Tomaselli, Maria Laura Turco. Turchia: le reclute scomparse nelle mani dello Stato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 luglio 2016 Le famiglie di centinaia di soldati accampate davanti al carcere chiedono di sapere cosa ne è di figli, nipoti, mariti. Lavori in corso per un nuovo tribunale che ospiti il maxi processo. Ancora purghe: spiccati altri 47 mandati d’arresto contro giornalisti. Qualcuno dorme in auto, qualcun altro in moschea. Ma la maggior parte delle centinaia di persone che da giorni campeggiano davanti alla prigione di Silivri, a Istanbul, resta sotto il sole caldo di fine luglio. Sono i familiari di alcuni dei migliaia di soldati arrestati dopo il tentato golpe del 15 luglio: sono qui, in attesa. Vogliono notizie dei figli, dei mariti, dei fratelli. Non sanno dove sono, né quanto ci resteranno. Di certo sanno solo che sono in mano allo Stato. Da lunedì un vero e proprio campo è nato di fronte ai cancelli del complesso di Silivri, famiglie arrivano da tutto il paese per sapere cosa ne è di 1.600 reclute, una piccola parte degli 8.651 soldati che ieri le forze armate hanno detto essere stati arrestati. Non hanno ricevuto comunicazioni dalle autorità: una forma di sparizione forzata (come denunciato nei giorni scorsi da Amnesty International) che ricorda pratiche egiziane. "Il mio ragazzo è innocente. Prendeva solo ordini", grida Nevin, la madre di Gorkem Ilhan, 23 anni. Gli mancavano 5 giorni per terminare il servizio militare quando una fazione dell’esercito ha tentato il putsh. "Sta pagando per aver obbedito, per aver fatto quello che gli hanno detto di fare". Una storia simile a quella di molti altri, alcuni rilasciati: il governo ha fatto cadere le accuse nei confronti di 2mila militari perché non erano al corrente del golpe. Ilhan lo aveva saputo poche ore prima, racconta la madre, ma è stato minacciato: obbedisci o sei morto. Le storie si somigliano tutte: c’è Tulay Baseymez, che non trova più suo figlio Selcuk di 28 anni ("Un mese fa era a sud est \[contro il Pkk\]. Ero la madre di un ufficiale, ora sono la madre di un traditore"); c’è Ahmet Atas, arrivato dalla città meridionale di Van, alla ricerca del nipote 20enne Hayrettin; c’è Tekmile Unal, da Kirklareli, che ha visto portare via da casa il figlio 26enne Sinan. Lo stato d’emergenza imposto dal governo dell’Akp non aiuterà a migliorare le condizioni di detenzione dei golpisti, veri o presunti: il fermo è stato esteso ad un mese, 30 giorni durante cui il sospetto resta in custodia, senza poter vedere un giudice. Cosa possa accadere in quel mese è immaginabile e il rapporto di Amnesty ne dà una chiara idea: interrogatori prolungati per estorcere confessioni, torture, stupri. A ciò si aggiunge la difficoltà a rivolgersi ad un avvocato: è il tribunale a scegliere i legali dei "traditori". Fuori da Silivri, insieme alle famiglie, c’è Berat Can Tanik, avvocato che ha da poco terminato la leva. L’ha scampata per poco. Ora rappresenta 8 commilitoni ma non è ancora riuscito a vederli: "Non sono autorizzato ad incontrarli. Ma ho letto le loro dichiarazioni: gli era stato detto che fuori c’erano dei disordini e la polizia non riusciva a contenerli". Intanto lontano dal super carcere si pianifica la costruzione di un super tribunale: il ministro della Giustizia Bozdag ha annunciato la creazione di una nuova corte nel distretto di Sincan, ad Ankara, dove si terrà il maxi processo contro gli ufficiali accusati di golpe. Prosegue anche la più generale campagna di epurazione nel paese: Erdogan infila tutti nel comodo calderone del movimento dell’imam Gülen. Ci finiscono tutti, anche soggetti in passato bollati con tutt’altra etichetta: marxisti, sostenitori del Pkk o del presidente siriano Assad. Dalle purghe non potevano di certo salvarsi gli ex dipendenti del quotidiano di opposizione Zaman, commissariato a marzo perché legato a Gülen: sono stati spiccati ieri mandati d’arresto per 47 giornalisti ex impiegati del giornale. Tra loro gli ex direttori delle versioni turca e inglese. Australia: l'Abu Ghraib australiana per i piccoli aborigeni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2016 Ragazzini denudati, irrorati di gas lacrimogeni e ammanettati per ore ad una sedia di contenimento con tanto di cappuccio in testa. Non parliamo dei detenuti di Abu Ghraib e di Guantánamo, ma dei reclusi al carcere minorile australiano. La denuncia che ha sconvolto l'Australia è stata trasmessa - con tanto di video girato in un centro di detenzione per minori presente nel Territorio del Nord - dall'emittente Abc e riguarda il periodo tra il 2010 e 2015. Dopo la messa in onda delle immagini shock, il premier australiano Malcolm Turnbull ha ordinato un'inchiesta parlamentare: "Creeremo una Commissione reale su questi eventi, in questo centro. Intendiamo farlo in maniera congiunta con il governo del Territorio del Nord. Serve un'inchiesta, dobbiamo agire in fretta, andare a fondo e far emergere quanto accaduto così come la cultura che ha permesso che accadesse e che rimanesse nascosto per così tanto tempo". Alcuni media locali parlano di una rivolta scatenata dai ragazzini i quali erano scappati dalle loro celle situate nell'ala di isolamento, conosciuta come l'unità di gestione del comportamento. Ma le immagini trasmesse smentiscono questa ricostruzione: si vede solo un ragazzino che fugge dalla sua cella dopo essere stato malmenato da una guardia penitenziaria. In un caso, uno degli adolescenti, D. V. ora 17enne, si vede ammanettato su una sedia costrittiva con la testa dentro un cappuccio e lasciato così per ore. In altre registrazioni viene spogliato nudo e tenuto disteso a faccia in giù dalle guardie in più occasioni. La maggior parte di quei ragazzi reclusi sono aborigeni. Gli attivisti per i diritti umani, a cominciare da Amnesty, accusano il governo di aver ignorato il problema finché non è diventato pubblico, perché gli adolescenti brutalizzati erano indigeni. Il Territorio del Nord ha il più alto tasso di detenzione minorile in Australia e il 97% dei detenuti sono aborigeni. La relazione annuale di Amnesty sulla situazione detentiva australiana è una delle peggiori. La percentuale di nativi in carcere rispetto ai non nativi risulta sproporzionata; in alcuni casi, minori sono stati detenuti con gli adulti. Ma non solo. L'Australia ha mantenuto la linea dura nei confronti dei richiedenti asilo, con respingimenti di imbarcazioni, refoulement, detenzione obbligatoria a tempo indeterminato ed esame delle richieste d'asilo in aree extraterritoriali a Nauru e Papua Nuova Guinea. Il personale e gli appaltatori che hanno denunciato violazioni dei diritti umani nelle strutture detentive per migranti hanno rischiato di subire procedimenti penali ai sensi di nuove norme. La nuova legislazione sulla "sicurezza" ha esteso i poteri di intercettazione dei dati ed è stata approvata una legge per privare della cittadinanza australiana le persone con doppia nazionalità. Ma per i popoli nativi la situazione è ancora più tremenda: per i minori aborigeni, la probabilità di essere arrestati è di 24 volte superiore a quella dei coetanei non nativi. Poiché in Australia l'età della responsabilità penale è 10 anni, le leggi hanno permesso in ogni giurisdizione la detenzione di bambini di 10 e 11 anni, in violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia. Nel Queensland i minori sono detenuti insieme agli adulti e, proprio nel centro detentivo del Territorio del Nord che ha creato scandalo, la separazione tra detenuti minori e adulti è molto ridotta. Ma anche per i detenuti adulti nativi la situazione non è rosea: la probabilità di essere incarcerati è 14 volte più alta di quella dei non nativi e hanno continuato a verificarsi decessi in custodia. A maggio dell'anno scorso, un nativo nel Territorio del Nord è morto per arresto cardiaco in una stazione di polizia, tre ore dopo essere stato preso in custodia perché sospettato di avere bevuto alcolici in un luogo in cui non era consentito. Gli aborigeni subiscono una forte discriminazione anche in termini di servizi essenziali: a giugno dell'anno scorso, il governo federale ha delegato ai governi statali la responsabilità dei servizi essenziali e municipali per le comunità native remote. Il premier dell'Australia Occidentale ha dichiarato che, in conseguenza di tale passaggio di responsabilità, avrebbero potuto essere chiuse fino a 150 comunità. La dichiarazione ha provocato diffuse proteste, in seguito alle quali il governo dell'Australia Occidentale ha avviato un processo di consultazione. Il Paese è stato criticato per la mancata ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e per non aver affrontato il problema dell'alto tasso di incarcerazione dei nativi. Tuttavia, ha respinto le raccomandazioni sull'approvazione di una legge sui diritti umani e sull'eliminazione della detenzione obbligatoria dei richiedenti asilo. Ora che è uscito allo scoperto la tortura nei confronti dei detenuti minorenni aborigeni, si spera che la situazione migliori. Australia: premier promette inchiesta dopo violenze su detenuti minorenni euronews.com, 28 luglio 2016 Stanno provocando grande scalpore in Australia le immagini di violenze compiute da alcune guardie nel penitenziario minorile di Don Dale ai danni di detenuti adolescenti. Il primo ministro australiano Malcolm Turnbull ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sui singoli episodi emersi. Ma a chi insiste perché venga ampliato il raggio delle indagini e sospetta abusi anche in altre strutture, Turnbull risponde: "Queste inchieste sono più efficaci quando i termini di riferimento sono chiaramente definiti, così si entra, si fa un’inchiesta approfondita e si stila un rapporto. Invece le Commissioni Reali che vanno avanti per anni e anni, secondo la mia esperienza, sono deludenti". A far discutere è anche l’uso di sedie di contenzione che alcuni hanno paragonato ai metodi di Guantánamo e Abu Ghraib. Una legge ne ha autorizzato l’uso nella regione coinvolta dallo scandalo, ma ora ne è stato sospeso l’utilizzo nei penitenziari minorili.