26 milioni di euro per il reinserimento dei detenuti. "Assegnati a discrezione del Dap" di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2016 Fino a sei anni fa poche associazioni sapevano dell’esistenza della Cassa delle ammende, ma nessuno ai piani alti della Giustizia si è mai preoccupato della sua promozione. La denuncia delle associazioni: "Progetti da finanziare scelti senza bando". "Un laboratorio di gelateria e uno di rosticceria oltre le sbarre per aiutare i detenuti a rifarsi una vita fuori. Ma il Dipartimento amministrazione detenuti ha bocciato l’idea. Assurdo. Qui a Palermo poi cosa fanno, chi li prende? Tornano a rubare?". Dall’altra parte del telefono risponde Maurizio Artale, presidente del Centro di accoglienza Padre Nostro, fondato da padre Pino Puglisi nel quartiere Brancaccio. "Chi esce avrebbe venduto gelati, arancine, calzoni e pizzette a bordo di una moto-ape in giro per i rioni della città. È un’attività del posto che rende". Tra il 2005 e il 2014 Artale ha visto andare in fumo quattro progetti di reinserimento sociale per i carcerati e le loro famiglie. Corsi di formazione per la co-gestione di campi sportivi e fondi agricoli, recupero scolastico per i minori, micro-credito. Per la commissione della Cassa delle ammende, l’ente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che con le somme versate a fronte di sanzioni disciplinari o pecuniarie che il giudice impone al condannato in base alla legge 547/1932 deve finanziare programmi di reinserimento dei reclusi, erano inadeguati. Come centinaia di altre proposte che ogni anno arrivano dalle carceri di tutta Italia. I criteri di selezione non sono chiari, non si leggono da nessuna parte, l’approvazione è a discrezione della commissione. Eppure di soldi da investire ce ne sono tanti. Nell’ultimo bilancio, del 2014, si parla di 26,7 milioni di euro (48,2 tra conto deposito e quello patrimoniale). Un tesoretto inutilizzato, sprecato se vogliamo. Nel 2010 erano 40,5 milioni e nel 2008 ben 127,7. Fino a sei anni fa poche associazioni sapevano dell’esistenza della Cassa delle ammende, che non è certo nata l’altro ieri, era infatti il 1932. Ma nessuno ai piani alti della Giustizia si è mai preoccupato della sua promozione. "Noi l’abbiamo scoperta solo qualche mese fa e subito abbiamo diffuso la notizia" racconta Valentina Ilardi della Casa di accoglienza "Liberi di volare" di Napoli che ospita ex detenuti e condannati in affidamento ai servizi sociali. L’associazione Antigone da sempre denuncia l’assoluta arbitrarietà con cui il Dap sceglie i progetti da finanziare. Patrizio Gonnella, il presidente: "L’assegnazione è diretta, manca un bando di gara, perché non lo fanno? Sarebbe normale farlo, no? Se ne discute da cinque anni almeno ma non si è mosso un dito". C’è di più: con il decreto legge 207 del 2008 (art. 44-bis, comma 7) sono ammessi anche i progetti di edilizia penitenziaria nel tentativo di risolvere l’emergenza sovraffollamento e migliorare le condizioni di celle, bagni e corridoi. Anzi, oggi questi piani di ricostruzione sono diventati la priorità, "snaturando i principi fondanti della stessa legge" sottolinea Gonnella. I numeri sono eloquenti. "Nel 2015 abbiamo approvato 267 progetti di edilizia carceraria e 8 di rieducazione sociale" conferma Nicolò Rallo, segretario della Cassa delle ammende. I detenuti che lavorano in carcere sfiorano il 30 per cento e di questi appena la metà ha datori di lavoro privati, si legge nell’ultimo rapporto di Antigone di aprile. Lavorare alle dipendenze del carcere, si evidenzia nel documento, significa essere occupati per poche ore settimanali e guadagnare in media circa 200 euro al mese. L’infanzia violata dal 41 bis di Maria Brucale Il Dubbio, 27 luglio 2016 Il Protocollo firmato un anno fa non si estende ai figli delle recluse al carcere duro. Ormai da un anno, l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Bambinisenzasbarre Onlus, insieme al ministro della Giustizia hanno siglato un importante protocollo che consacra, ove ce ne fosse bisogno, la valenza costituzionale della potestà genitoriale e riconosce la peculiarità della condizione di figli di persona detenuta correlando ad essa una vulnerabilità meritevole di attenzione e di protezione. Il protocollo individua quali necessità primarie "favorire il mantenimento dei rapporti tra genitori detenuti e i loro figli, salvaguardando sempre l’interesse superiore dei minorenni; sottolineare la specificità dei figli di genitori detenuti, in modo da promuovere interventi e provvedimenti anche normativi che tengano conto delle necessità della relazione genitoriale e affettiva di questo gruppo sociale senza, tuttavia, indurre ulteriori discriminazioni e stigmatizzazioni nei loro confronti; tutelare il diritto dei figli al legame continuativo e affettivo col proprio genitore detenuto, che ha il diritto/dovere di esercitare il proprio ruolo genitoriale; sostenere le relazioni genitoriali e familiari durante e oltre la detenzione, agevolando la famiglia e, in particolare, supportando i minorenni che vengono colpiti emotivamente, socialmente ed economicamente, con frequenti ricadute negative sulla salute e con incidenza anche sull’abbandono scolastico; superare le barriere legate al pregiudizio e alla discriminazione nella prospettiva di un processo di integrazione sociale e di profondo cambiamento culturale, necessario per un progetto di società solidale e inclusiva. Il documento sancisce, dunque, la preminente importanza, anche riguardo alla finalità rieducativa cui ogni pena deve tendere, della tutela dei rapporti tra genitore recluso e figli ai quali deve essere garantito un legame affettivo continuativo e stabile. Le esigenze del minore, sempre prioritarie, dovranno essere tenute in considerazione nella scelta di un luogo di detenzione idoneo a garantire la possibilità di contatto con il genitore ristretto. Nelle sale d’attesa dovranno essere attrezzati locali per bambini, con zone per il gioco anche nelle sale colloqui. Dovrà essere consentito al genitore, durante la carcerazione, di essere presente nei momenti importanti della vita del minore (compleanni, primo giorno di scuola, recita, saggio, festività). Dovrà essere incentivata, per i genitori e i figli che non riescano ad incontrarsi facilmente, la comunicazione attraverso telefonia mobile ed internet, webcam e chat. Il personale di polizia penitenziaria dovrà ricevere una formazione mirata e qualificata sulle modalità di controllo da adottare sui minori improntata a non arrecare agli stessi un trauma che si aggiunge a quello connaturato alla carcerazione del proprio caro. Molte carceri hanno raccolto le raccomandazioni promananti dal protocollo e avviato percorsi di cambiamento e di comprensione che passano anche per la creazione di locali per accedere ai colloqui che, attraverso i colori vivaci o la presenza di giochi, rendano l’impatto dei minori con il carcere meno feroce e traumatico. E i detenuti in 41 bis? I loro bambini? Il loro bisogno di essere tutelati? Protetti? Accolti? La loro necessità di vivere un rapporto di amore con il proprio genitore recluso? Di ricevere dallo stesso cure, attenzioni, tenerezza, carezze? Qui il protocollo dell’infanzia si ferma. L’infanzia dei figli dei detenuti in 41 bis non ha tutela. Per loro non c’è, per legge, continuità di amore con il loro congiunto recluso. Il colloquio avviene una volta al mese per un’ora con modalità "idonee ad impedire il passaggio di oggetti", attraverso un vetro divisore a tutta altezza, con una piccola finestra chiusa a più mandate. Si svolge in una piccola cella grigia e asfittica di ferro e vetro. Dall’altra parte un uomo, il loro padre. Una donna, la loro madre, che spesso quasi non conoscono. Perquisizioni. Telecamere puntate da più posizioni. Uno sportellino aperto da cui l’agente penitenziario vigila. Un microfono o la cornetta di un telefono. Il detenuto in 41 bis padre o madre, potrà toccare i suoi bambini fino al compimento del dodicesimo anno di età per dieci minuti in un mese. Gli altri familiari dovranno essere allontanati. La Cassazione lo conferma. Le preminenti esigenze di sicurezza non possono cedere il passo a niente. Neppure all’infanzia violata. Lacrime e strazio in quell’ora attesa per un mese intero. Un’ora al mese in cui costruire un rapporto di vicinanza, affettività, intimità. Continuativo e stabile? In cella con quei 43 detenuti in fasce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 luglio 2016 "Entro il 2015 nessun bambino sarà più detenuto", aveva giurato il governo. Siamo nell’estate del 2016 e purtroppo il problema persiste ancora. L’ultima denuncia proviene da Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, dopo aver visitato il carcere avellinese di Bellizzi: "Tra gli innumerevoli impegni disattesi dal governo e dal parlamento c’è anche la mancata legiferazione in materia di bimbi detenuti. Gli sguardi di quei cinque angioletti chiusi nel nido di Bellizzi hanno rappresentato delle vere stilettate al cuore. Ho sentito l’umiliazione della coscienza e la rabbia di essere inerme di fronte a tale inciviltà. Faccio un appello ai politici perché questa barbarie dei bimbi in carcere abbia immediatamente a cessare. Un Paese non può considerarsi civile se costringe i bambini a una ingiusta detenzione". Ci sono stati altri casi recenti. A maggio di quest’anno, il carcere di Sollicciano che aveva ospitato una neonata di appena venti giorni. Per fortuna la detenuta madre, una rom, era in uno stato di fermo e quindi poi è stata liberata. Ma non era l’unica bambina nel carcere visto che in una cella limitrofa c’era un’altra bambina, detenuta con la madre, di 20 mesi. I dati parlano chiaro: secondo l’ultima proiezione messa a disposizione dal ministero della Giustizia, al 30 giugno del 2016 all’interno delle carceri italiani sono detenuti 43 bambini. Sempre dalla stessa statistica risulta che ad oggi gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) attualmente sono a Torino "Lorusso e Cutugno", Milano "San Vittore" e a Venezia "Giudecca". Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, per le madri di bambini da 0 a tre anni. Il senso è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella sono devastanti e permanenti. Il carcere romano di Rebibbia è uno degli istituti provvisto di una sezione nido, che oggi ospita circa 11 bambini, tra cui più della metà sono rom. I volontari in questi anni hanno raccolto tante testimonianze che dimostrano il disagio dell’infanzia dietro le sbarre. Con tutta la buona volontà degli operatori, i nidi degli istituti penitenziari restano quello che sono: parte di una prigione. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva affrontato il problema dei bambini in carcere avviando a Milano la sperimentazione di un tipo di istituto a custodia attenuata per madri. Tale modello è stato realizzato in una sede esterna agli istituti penitenziari, dotata di sistemi di sicurezza non riconoscibili dai bambini. Ad oggi il governo ancora non ha adeguatamente investito in tali strutture esterne al carcere e quindi decine di bambini sono costretti a vivere dentro le patrie galere. L’altro problema è quello della troppo ampia discrezionalità dei magistrati di sorveglianza. Nonostante la legge contempli anche la detenzione domiciliare per le detenute madri, non sempre il magistrato la concede. Uno dei motivi principali è anche la residenza inesistente oppure inadatta, e colpisce soprattutto le detenute straniere e rom. Per sanare questo problema, la legge contempla anche la realizzazione delle case famiglia protette, ma ad oggi ne è stata realizzata solo una ancora non operativa nel quartiere Eur di Roma. Ma i cittadini del quartiere non la vogliono. Prescrizione, la maggioranza stringe i tempi di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2016 Sciolto il nodo politico della riforma della prescrizione, con l’intesa Pd-centristi che la scorsa settimana ha permesso di superare uno stallo durato mesi (l’intesa prevede la sospensione della prescrizione per 18 mesi sia in appello che in Cassazione a decorrere dal termine fissato dal giudice per il deposito delle motivazioni della condanna in primo grado), la maggioranza prova il rush finale al Senato sul ddl delega per la riforma del processo penale. Ieri la commissione Giustizia di Palazzo Madama ha ripreso l’esame delle parti ancora da approvare, tra cui l’articolo 13, sulla delega per rivedere le norme sulla procedibilità a querela per offese di modesta entità, e i lavori, che prevedono anche sedute notturne, sembrano procedere senza particolari intoppi. Nico D’Ascola, presidente alfaniano della commissione, conta di finire i lavori "entro giovedì", obiettivo ribadito ieri anche dal Governo. Un’accelerazione che consentirebbe alla Conferenza dei capigruppo di incardinare il provvedimento in Aula prima della pausa estiva. Quanto auspicato venerdì scorso dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e ribadito ieri a Radio 1 Rai - approvazione prima dell’estate", cioè prima del 5 agosto, quando il Parlamento chiuderà per ferie, "e senza la fiducia" - sembra davvero a portata di mano, anche se la prudenza è d’obbligo, per una riforma che è in pista da oltre 580 giorni e che comunque non verrà messa ai voti prima di settembre. Il ministro ritiene "ragionevole" e considera "un ponte in attesa di una soluzione definitiva" l’allungamento dei termini dopo una condanna in primo grado. Un freno potrebbe arrivare dal capitolo intercettazioni, su cui Ap-Ncd, pur condividendo l’impostazione generale, chiede comunque modifiche. La sottosegretaria centrista alla Giustizia, Federica Chiavaroli, al termine dei lavori pomeridiani, ha puntato il dito in particolare sulle norme sull’utilizzo dei trojan (virus informatici) nelle intercettazioni per reati gravissimi come il terrorismo, chiedendone il ritiro o almeno la modifica dell’emendamento che le ha introdotte. Da cambiare, secondo Chiavaroli, anche la modifica delle norme di semplificazione dell’utilizzo delle intercettazioni nei reati contro la Pa. Oltre alla riforma della prescrizione e delle intercettazioni il ddl, all’esame della commissione Giustizia dal settembre scorso, interviene anche sul Codice penale (tra le novità, estinzione del reato se si ripara il danno, pene aumentate per furti, scippi e rapine) e sul Codice di procedura penale, fissando termini rigorosi per l’esercizio dell’azione penale. Per il senatore Francesco Nitto Palma (Fi), tuttavia, l’intesa sulla prescrizione non supererà il vaglio della Consulta. Mentre Piercamillo Davigo, presidente Anm, apprezza l’operato del Guardasigilli ma pone l’accento sull’insostenibilità delle carenze di personale amministrativo. Il ddl che riforma il processo penale in aula “entro l’estate” di Ettore Maria Colombo Quotidiano Nazionale, 27 luglio 2016 Superato, grazie al lodo Albertini-Bianconi (senatori di Ap), lo scoglio della prescrizione, che rischiava di far naufragare tutta la barca, l’approvazione del ddl sulla riforma del processo penale - almeno al Senato, poi ri-tocca alla Camera - è a un passo. I lavori in commissione Giustizia, presidente Nico D’Ascola, filano via lisci: ieri era in votazione l’articolo 13 (la prescrizione è al 7) ed entro giovedì il ddl sarà in Aula. D’Ascola è prudente, ma sia lui che Nitto Palma (FI), che pure si oppone al testo, parlano di clima “buono e collaborativo tra i partiti”. L’ultimo scoglio sarà l’art. 36, sulle intercettazioni, che contiene il “lodo Falanga” e modifiche a oggi non ancora tutte limate tra Pd e Ncd. Il ministro Orlando (Pd) parla di “compromesso ragionevole” sia in merito al testo generale che alla prescrizione. Soprattutto esprime la speranza di vedere approvato dall’Aula del Senato tutto il ddl “entro l’estate”. Il che, fino a ieri, pareva un miraggio: il ddl è fermo da mesi, anzi da anni. Eppure, Mattarella ha chiesto, apertamente, di “fare presto”, il presidente del Senato Grasso pure (“grave se non si chiude entro l’estate” ha detto pochi giorni fa), l’Anm e il Csm manco a dirlo (ma ieri Davigo storceva la bocca: “misure insufficienti”). A bloccare tutto è stato il braccio di ferro tra il centrodestra, in questo caso spalleggiato da verdiniani e Ncd, e il Pd, del tutto solo. Con i primi che volevano “limare, smussare, tagliare le unghie ai giudici”, chiedendo compensazioni su “giusto processo” e intercettazioni e il governo che cercava - compito non facile dati i numeri al Senato, ballerini se non di più - di tenere botta, Orlando in testa. Alla fine, pare aver vinto soprattutto lui, il ministro, anche se dopo una lunga serie di infinite mediazioni con tutti: centristi, giudici, avvocati, etc. La parola fine dipenderà dalla decisione della conferenza dei capigruppo di palazzo Madama che si riunisce oggi: il Senato ha ben tre decreti in scadenza (Ilva, enti locali, processi telematici) e, per inserire il ddl sul processo penale, dovrà costringere i senatori a lavorare di venerdì, il che non è facile. Ma stavolta il ddl sul processo penale è davvero quasi legge e il ministro Orlando ce l’ha “quasi” fatta. Giustizia lumaca? Tranquilli, lo Stato vi risarcirà. Ma poi non vi pagherà di Maurizio Tortorella Tempi, 27 luglio 2016 Le cause per mancato risarcimento dopo un processo troppo lungo ormai sono la regola. Un disastro: i Tar sono sommersi dai ricorsi contro il ministero che non paga È l’ultimo paradossale paradosso della giustizia italiana. Ogni giorno, nelle aule di qualche tribunale civile, ci sono giudici che devono decidere se un cittadino abbia diritto a essere risarcito per la lentezza di altri giudici. Ma nello stesso giorno, nelle aule dei tribunali amministrativi regionali, altri giudici processano l’amministrazione dello Stato, colpevole di non aver pagato ad altri cittadini un risarcimento che un giudice civile aveva già riconosciuto fosse dovuto. Non è uno scioglilingua, non è un assurdo gioco dell’oca: è l’ultima follia della legge Pinto, varata nel 2001 dal governo Amato proprio per fare argine a migliaia di richieste di danni per la lentezza dei processi penali e civili, presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La legge Pinto stabilisce quale sia "la corretta durata dei processi" individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Il problema è che la giustizia italiana non rispetta quasi mai quei criteri. Così il numero di cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi erano stati 3.580 nel 2003, sono saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, a 45.159 nel 2013, l’ultimo anno con dati ufficiali. E anche i costi aumentano. I radicali stimano che il danno provocato dalla legge Pinto sui conti pubblici sia di circa 1 miliardo. Un muro di gomma e di vergogna - Ovviamente il governo italiano fa di tutto per non pagare quel che dovrebbe. Fa melina, come si dice in gergo calcistico: oppone un muro di gomma, inevitabilmente giudiziario. Altrettanto inevitabilmente, le vittime della "giustizia lumaca" insistono e fanno causa una seconda volta, aprendo un nuovo contenzioso. Negli ultimi anni, il processo per il mancato risarcimento dopo un processo è diventato la regola e ha prodotto un disastroso effetto a catena: i Tar sono sommersi dai ricorsi di cittadini in lotta contro il ministero della Giustizia che non paga. Nel 2003 i provvedimenti emessi dai giudici amministrativi erano stati 40; nel 2010 erano già 189. Da allora è stata un’escalation: 1.021 sentenze nel 2012; 2.178 nel 2013, 4.102 nel 2014, 6.522 nel 2015. Alla fine del giugno di quest’anno siamo già arrivati a 3.792 provvedimenti. Si calcola che un processo amministrativo su otto, ormai, riguardi i contenziosi tra cittadini e il ministero. Insomma, è una follia, un mostro che si autoalimenta. Sono convinto che se cercassimo di far capire questo paradosso a un americano, o a un inglese, non ci riusciremmo. Forse non ci arriverebbe nemmeno un cittadino del Burkina Faso, paese la cui giustizia non ha mai avuto (diciamo così) un Cesare Beccaria. Ma oltre che una follia è anche una vergogna. Cui di recente s’è aggiunta l’indecorosa furbata della legge di stabilità 2016, che ha modificato la legge Pinto solo per renderne più difficile l’applicazione. Se ne sono accorti i radicali, nessun altro ha protestato. I giornali non ne hanno scritto (tranne Tempi, a gennaio, e Panorama). Insomma, si è cercato di risolvere il problema alla fonte: se la legge Pinto costa troppo, oltre a non pagare, rendiamo più difficili anche le regole per avviare una richiesta d’indennizzo. I trucchi adottati sono insidiosi: per avere diritto al ricorso, l’imputato di un processo penale deve presentare "un’istanza di accelerazione delle udienze almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole di durata". Quando il suo giudizio arriva in Cassazione, l’imputato "deve fare istanza due mesi prima dello spirare del termine". Chi vuole fare ricorso deve stare lì con il cronometro per calcolare il momento giusto. In attesa di un giudice a Berlino. O magari in Burkina Faso. Così magistrati e giornalisti hanno rovinato la vita di mio marito di Rossana Moretti Il Dubbio, 27 luglio 2016 Sono trascorsi ben quarantaquattro anni da quando sbatterono "il mostro in prima pagina". Quel "mostro" era mio marito: Lelio Luttazzi. Da qualche giorno leggiamo sulle prime pagine dei quotidiani e ascoltiamo nelle varie edizioni dei telegiornali nomi e cognomi di persone coinvolte con accuse pesantissime in casi di corruzione. "Testimoni chiave" che riempiono pagine e pagine di verbali, che, grazie alle loro testimonianze, raccontano, citano fatti, e quello che ha detto, e quello che ha telefonato, e quello ha chiesto somme, quell’altro ha chiesto favori, e la stampa spara nel mucchio. Non parliamo poi dei tanti talk-show ai quali partecipano con solerzia giornalisti di tutte le razze. Anche se non viene configurato né ipotizzato alcun reato, giù a fare nomi, accuse, insinuazioni, spesso con arroganza e presunzione. Non occorre essere indagati, il che non giustificherebbe comunque l’essere "sbattuti in prima pagina", ma è sufficiente che il tuo nome sia citato nei verbali di tutti questi signori e signore che tanto hanno da raccontare, per non parlare poi delle intercettazioni telefoniche, per "venire sputtanati". Da sempre, invece, i magistrati, seguendo "il loro libero convincimento", hanno coinvolto e continuano a coinvolgere nelle loro inchieste persone risultate poi innocenti. E che sarà mai! È giusto così? Secondo me non è affatto giusto così, è semplicemente vergognoso. E posso dirlo con convinzione di causa. Sono trascorsi ben quarantaquattro anni da quando sbatterono "il mostro in prima pagina". Quel "mostro" era mio marito: Lelio Luttazzi. Un semplice errore di un magistrato, ma quell’errore rovinò la vita di Lelio. Preso e sbattuto a Regina Coeli in cella d’isolamento in compagnia del "buiolo" senza sapere il perché? Sì, perché allora un pubblico ministero poteva decidere se e quando farti incontrare il tuo avvocato. A Lelio bontà loro, lo permisero dopo quindici giorni. Lo scrittore Giuseppe Berto nella prefazione del libro Operazione Montecristo (libro scritto in galera da Lelio durante quei 27 giorni d’inferno) scrive: "Noi siamo esposti alle offese di coloro che dovrebbero tutelarci dalle offese. È una generalizzazione necessaria, perché di pubblici ministeri come il tuo in Italia ce ne sono a centinaia. Su certe questioni noi siamo abituati a ragionare con le lettere maiuscole. Diciamo lo Stato, la Giustizia, la Magistratura. Lo facciamo per viltà, perché è faticoso rinunciare alla protezione degli dei, costatare che le Istituzioni più sacre - così si diceva un tempo - sono fatte da uomini che molto spesso sono peggiori di noi. Ma la questione di fondo rimane, ed è questa: due uomini che fanno lo stesso mestiere, usando gli stessi strumenti messi a loro disposizione dal sistema e valutando gli stessi elementi, ti trovano uno delinquente pericoloso meritevole di almeno tre anni di galera, e l’altro assolutamente innocente. È possibile lasciare un così largo margine di potere ad uomini che possono sbagliare? È possibile che i nostri legislatori non abbiano ancora capito la necessità di garantire l’indiziato? Ecco, non ho altro da dire. Auguro al tuo libro un grande successo, vorrei che tu avessi lettori a migliaia e che tutti, alla fine, arrivassero a pensare "giustizia" con l’iniziale minuscola". Era il 1970! Quarantaquattro anni fa! Lelio trascorse anni a querelare, a fare cause civili (mai una persa), poche lire per carità, ma immense soddisfazioni. Perché? Perché i giornalisti scrivendo di Lelio, non perdevano mai l’occasione di ritirare fuori quella faccenda e scriverne sempre in modo errato, con superficialità, senza documentarsi mai abbastanza. Lelio mi ha lasciata nel 2010. Ho continuato io al posto suo a fare cause: l’ultima vinta qualche mese fa. Veneto: il ministro e la carenza di magistrati “aumento non legato al caso Bpvi” Corriere del Veneto, 27 luglio 2016 Il Guardasigilli Orlando in tribunale a Vicenza: “Per funzionare, l’economia veneta deve essere sostenuta da un sistema giudiziario efficiente”. “Il compito mio e del governo è quello di mettere gli uffici nelle condizioni di affrontare al meglio l’emergenza, anche nel settore civile. Saranno poi i capi degli uffici a dover usare il personale, anche quello amministrativo, nel modo migliore, creando gruppi di specializzazione laddove la materia lo richieda”. Lo ha detto martedì il ministro della Giustizia Andrea Orlando, in parte rispondendo in questo modo anche alla sollecitazione arrivata dal governatore veneto Luca Zaia, perché si arrivi alla creazione di una vera e propria “task-force” per affrontare le inchieste legate a Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Sul tema delle ex popolari il Guardasigilli ha dichiarato: “L’aumento dell’organico dei magistrati in Veneto è una decisione che è stata presa a prescindere dalle inchieste sulle banche venete. Il Veneto è considerato regione fondamentale dal punto di vista economico, e l’economia veneta per funzionare in modo corretto deve essere sostenuta da un sistema giudiziario efficiente”. “Nel concreto ho mandato una sollecitazione al Consiglio Superiore della Magistratura per una revisione delle piante organiche - ha detto il ministro - che finisca per premiare territori che in questo momento sono in difficoltà come il Veneto. Questo significa far arrivare circa 38 magistrati in Veneto e sei a Vicenza, ma anche rafforzare gli organici a livello di Corte d’Appello e di distretto, affinché possano essere inviati in quei tribunali del distretto dove si crea una esigenza specifica alla quale rispondere”. In relazione al progetto di un tribunale della Pedemontana, dopo la cancellazione di quello di Bassano del Grappa, il ministro ha spiegato: “se parliamo di un ufficio di prossimità da organizzare a Bassano per venire incontro alle esigenze dei cittadini possiamo cominciare a lavorare concretamente già domani mattina. Ma deve trattarsi di un puro ‘front-office´ e non certo di una sezione distaccata o di un mini-tribunale. Solo una volta rivista tutta la geografia giudiziaria del Paese si potrà tornare a parlare di questo argomento”. Il guardasigilli è arrivato martedì mattina nel capoluogo berico, dove ha inaugurato la nuova ala del carcere “San Pio X”, che può contenere altri 200 detenuti oltre agli attuali 206. Il ministro, riferendosi al il sistema carcerario, non ha nascosto la situazione di crisi che “è stata affrontata, innanzitutto, - ha spiegato Orlando - con la costruzione di nuovi istituti o, come nel caso di Vicenza con l’ampliamento di quelli esistenti”. “Adesso - ha proseguito - bisogna passare ad adeguare l’organico anche della polizia penitenziaria, anche allocando meglio le risorse esistenti”. Le problematiche del sistema carcerario sono state al centro dell’incontro, durato una ventina di minuti, del ministro con i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria regionale che martedì mattina avevano organizzato una protesta davanti al carcere. Al termine Orlando si è diretto a palazzo di Giustizia di Vicenza per intrattenersi con i vertici degli uffici giudiziari, incontro che si è svolto a porte chiuse. Nessun confronto tra i piccoli azionisti della Bpvi e il ministro della giustizia, Andrea Orlando, che la delegazione di risparmiatori stava attendendo davanti al Tribunale di Vicenza, per esprimere la loro protesta. Il Guardasigilli, atteso per l’incontro con i vertici degli uffici giudiziari, è entrato da un porta secondaria del Tribunale. Il gruppo di azionisti, una trentina in tutto, era all’ esterno del Tribunale con cartelli di protesta per il danno subito dalla Banca dell’ex presidente Gianni Zonin, e speravano di poter incontrare il ministro della giustizia. La scorta di Orlando si è però accorta del drappello, ed ha preferito spostarsi all’ingresso secondario del Tribunale dove Orlando era atteso dal procuratore Antonino Cappelleri. “Nessuno mi aveva chiesto un incontro. Mi sono accorto della presenza di persone con cartelli sotto il Tribunale e se mi avessero chiesto un incontro, certo lo avrebbero ottenuto” ha spiegato il ministro. Calabria: minori detenuti, il Garante Antonio Marziale incontra l’assessore all’Ambiente giornaledicalabria.it, 27 luglio 2016 "L’obiettivo è quello di recuperare pienamente il minore detenuto, e siccome il reinserimento sociale filtra dal lavoro, allora è necessario formare i ragazzi, aiutarli a conseguire attestati di identità professionale ed agevolare quanto più è possibile il loro ingresso nella società che produce. È quanto prevede un piano che si apprestano a varare il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, e l’assessore regionale all’Ambiente Antonella Rizzo. Il percorso prevede una premialità per gli Enti che assorbiranno i ragazzi ed il coinvolgimento di consorzi operanti nel ramo ambientale nelle sue più variegate espressioni. A darne notizia, lo stesso Marziale che, facendo seguito all’incontro avuto alla Cittadella di Catanzaro alla presenza del direttore dell’Istituto penale minorile della città capoluogo, Francesco Pellegrino, dichiara: "Sono sinceramente molto grato all’assessore Rizzo per la sensibilità e la disponibilità orientate a sostenere il recupero di quanti, fra gli adolescenti, hanno sbagliato. Una società che vuole dirsi compiutamente civile deve preoccuparsi della sorte di questi ragazzi e il connubio tra l’Ufficio che sono stato chiamato a presiedere e il Governo della Regione può offrire una risposta concreta. L’Ipm catanzarese, unica casa di detenzione presente sul territorio regionale - continua Marziale - che ho visitato nel giorno stesso del mio insediamento, è da considerarsi un modello, grazie all’impegno del direttore Pellegrino, del suo staff e di tutti gli operatori, anche volontari, a contatto con i giovani detenuti. Il nostro piano di sostegno si inserisce, dunque, in un contesto già qualificato e mira ad apportare un ulteriore progresso in termini innovativi, guardando alla formazione professionale in specialità da considerarsi in espansione. Gli uffici del Garante, dell’assessorato all’ambiente e della direzione dell’IPM - assicura Marziale - sono già al lavoro per definire i dettagli e la programmazione in tempi molto brevi". Parma: "le botte in cella una lezione di vita". Parola di giudice di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 luglio 2016 Il Gip di Parma ha scritto la parola fine sulla vicenda Rachid Assarag, il quarantenne marocchino che aveva accusato gli agenti penitenziari del carcere emiliano di averlo picchiato sistematicamente per mesi. Nel 2010, grazie all’aiuto della moglie Emanuela che riuscì a fargli avere un registratore, Assarag incise quotidianamente quello che accadeva nel carcere di Parma. Tre mesi di registrazioni choc, con le voci di agenti che raccontavano senza remore episodi di aggressioni e botte ai detenuti. La vicenda balzò agli onori della cronaca solamente a settembre del 2014, quando il settimanale L’Espresso pubblicò un articolo dal titolo "Galera, botte e omertà". Nel pezzo, oltre a raccontare i pestaggi subiti da Assarag, era anche descritto il clima all’interno del carcere di Parma, dove i medici e gli operatori penitenziari, pur conoscendo quanto accadeva, non denunciavano per paura di subire ritorsioni. Le denunce, però, le aveva presentate Assarag. Quattro denunce per le violenze subite di cui, dal 2010, si erano perse le tracce. Solamente grazie al clamore mediatico suscitato dall’articolo di stampa, il pubblico ministero di Parma decise di verificare "quali procedimenti penali fossero allo stato pendenti". Se non fosse stato per l’articolo, infatti, "si sarebbe proceduto all’archiviazione, attesa la contraddittorietà del quadro probatorio e l’impossibilità di svolgere ulteriori indagini per scadenza dei termini". L’avvocato di Assarag, Fabio Anselmo, depositò allora le trascrizioni delle registrazioni. Iniziò, quindi, una attività d’indagine per falso e calunnia nei confronti degli agenti della polizia penitenziari. La Squadra Mobile della Questura di Parma ascoltò decine di persone fra guardie, medici e operatori in servizio al carcere di Parma. A dicembre del 2015, terminata l’istruttoria, il pm decise per l’archiviazione di tutte le posizioni. Le registrazioni, infatti, sono "rese note solo quattro anni dopo i fatti, una tempistica che rende estremamente ardua la ricostruzione dei fatti". Alcuni dei dialoghi sono molto "crudi". In una conversazione con Assarag, una guardia dichiara che dentro il carcere comandano loro e non esistono né avvocati né giudici. Al riguardo, il pm, premesso che l’affermazione è "inquietante", dato però "che la guardia non ha mai usato violenza nei confronti di Assarag, tali affermazioni paiono essere più delle lezioni di vita carceraria che la guardia sta impartendo al detenuto, che delle minacce o delle affermazioni di supremazia e di negazione dei diritti". L’archiviazione suscitò polemiche. L’avvocato Anselmo parlò di "reality della vita carceraria". Il Pm di Parma, duramente criticato, venne difeso dalla locale sezione dell’Anm che, anzi, evidenziò lo scrupolo con cui erano state condotte le indagini. La vicenda venne riproposta a marzo di quest’anno al grande pubblico, grazie ad un servizio della trasmissione televisiva Le Iene, dal titolo "Lezioni di vita carceraria", dove, oltre a ripercorre l’iter processuale, venivano anche riproposti gli audio incriminati. La parola fine, dunque, il 21 luglio scorso, quando il Gip di Parma, rigettando la richiesta di opposizione, ha stroncato ogni aspettativa di Assarag confermando l’archiviazione. Le registrazioni "non consentono di collocare nel tempo gli episodi e, di conseguenza, non possono essere riferite con certezza agli episodi denunciati. Le registrazioni - prosegue il Gip - sono di non facile e sicura interpretazione essendo estrapolate da dialoghi intervenuti tra il detenuto e persone non individuate (agenti, medici, psicologi). Inoltre, le dichiarazione di Assarg presentano incongruenze tali da compromettere l’attendibilità della sua ricostruzione". Sentita dal Dubbio, la moglie di Assarag, ha dichiarato: "Che paese civile, quello che ti obbliga a fare casino, per ottenere qualcosa. E nel nostro caso abbiamo ottenuto un’archiviazione. La procura di Parma - prosegue - di fronte al mondo della giustizia è una goccia nell’oceano. La storia è tutt’altro che chiusa. La richiesta di archiviazione del Pm, confermata dal Gip, non intacca il contenuto delle conversazioni registrate in carcere. Al contrario, l’ostinazione a voler insabbiare tutto, mi fa capire quanto quelle tracce possano aprire scenari difficili da gestire, per cui preferiscono perdere tempo, per poi chiudere tutto con una prescrizione. Quanta libertà intellettuale e coscienza c’è, in una sentenza simile?" Assarag dal 2009 sta scontando una condanna a nove anni e quattro mesi di carcere per stupro. In questi anni è stato trasferito in undici carceri diverse (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella) attualmente è recluso a Bollate. A breve il Tribunale di Sorveglianza di Milano dovrà esprimersi sulla sua richiesta dei domiciliari. Parma: la Garante regionale interviene su condizioni di vita dei detenuti in Alta sicurezza Ristretti Orizzonti, 27 luglio 2016 La Garante regionale dopo la visita a Parma interviene sulle condizioni di vita dei detenuti in Alta sicurezza. Sottoscrive l’appello dei Garanti al Presidente della Repubblica per l’introduzione del reato di tortura. Venerdì scorso la Garante delle persone private della libertà personale si è recata a Parma per incontrare alcuni detenuti dell’Alta sicurezza che avevano fatto richiesta di colloquio con la figura di garanzia regionale. I detenuti, oltre alle questioni di carattere personale, hanno rappresentato alla Garante il problema della invivibilità delle celle a causa del caldo torrido, chiedendo l’estensione delle ore di apertura. I detenuti dell’Alta sicurezza hanno riproposto il tema, al momento non risolto anche per ragioni di capienza, dell’assegnazione delle celle singole per gli ergastolani. Hanno chiesto, inoltre, notizie e informazioni sui contenuti della recente circolare dell’Amministrazione penitenziaria sulla "Possibilità di accesso a internet da parte dei ristretti negli istituti penitenziari", prevista anche per i detenuti dell’Alta sicurezza, o in condizioni di regime particolare, salvo valutazione caso per caso da parte delle Direzioni. Queste problematiche di carattere collettivo e generale sono state rappresentate alla Direzione degli Istituti di Parma, che ne ha preso nota assicurando il proprio interessamento. Inoltre, sempre in questi giorni, la Garante della regione Emilia-Romagna ha sottoscritto, insieme ad altri garanti regionali e territoriali, l’Appello dei Garanti dei Detenuti al presidente della Repubblica Mattarella dopo il rinvio in Commissione, del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura in Italia, trasmesso dal Garante nazionale all’Ufficio di Presidenza. Vicenza: tribunali e carceri in tour per il Ministro della Giustizia Orlando di Luca Lippi intelligonews.it, 27 luglio 2016 Ieri ha fatto visita prima al Casa circondariale San Pio X, poi al nuovo Tribunale di Borgo Berga, nel pomeriggio prima di rientrare è in agenda un incontro nella sede dell’ordine degli avvocati. Prima tappa, dunque, il carcere di Vicenza dove è stata inaugurata la nuova ala, un padiglione nuovo di zecca capace di accogliere 200 persone. Attorno alle 12.30 il Ministro si è spostato nel nuovo tribunale di Borgo Berga che ha poi visitato, incontrando tra gli altri il Procuratore Capo Antonino Cappelleri. Il ministro all’interno del carcere San Pio X ha scoperto una lapide intitolata a Filippo Del Papa, agente penitenziario ucciso nel compimento del proprio dovere negli anni Quaranta e ha tenuto una relazione sulla situazione delle carceri. Sia all’esterno del carcere che all’estero del tribunale ci sono state delle manifestazioni di protesta, tenute sotto controllo dalla forze dell’ordine: nel primo caso a protestare è stata la Polizia penitenziaria che lamenta la scarsità di organico all’interno del penitenziario berico, mentre nel secondo caso si è registrata la presenza di un gruppo di ex soci delle due principali banche venete, le cui azioni sono crollate. Questi ultimi non hanno comunque incontrato il Ministro, che è stato fatto entrare dai garage sotterranei e non dall’ingresso principale. Caserta: 20 detenuti di Carinola al lavoro esterno con la Camera di Commercio di Napoli Ansa, 27 luglio 2016 Accordo tra ente camerale e Direzione casa reclusione Carinola Venti detenuti della casa di reclusione di Carinola (Caserta), ammessi al lavoro esterno per attività di utilità sociale, "presteranno il proprio contributo a vantaggio della collettività per la sistemazione di alcuni locali e la piccola manutenzione edile nelle sedi della Camera di Commercio di Napoli". È questo il contenuto di un accordo stipulato tra la direzione della casa di reclusione di Carinola e la Camera di Commercio come fa sapere una nota dell’ente camerale. L’iniziativa, si sottolinea, "è resa possibile grazie alla normativa nazionale che regola le modalità di svolgimento dei lavori di pubblica utilità indicando espressamente tra questi le prestazioni nella manutenzione e decoro dei beni del demanio e del patrimonio pubblico". I detenuti impegnati sono "di affievolita pericolosità sociale", individuati dalla Direzione dell’istituto con provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno, così come indicato nell’accordo siglato tra Carmen Campi, direttore della casa di reclusione di Carinola, e Girolamo Pettrone, commissario straordinario dell’ente camerale partenopeo. "L’accordo - evidenzia Campi - garantisce un duplice vantaggio: da un lato, vuole favorire l’offerta di un modello di relazione utile al reinserimento socio-lavorativo di detenuti meritevoli che avranno la possibilità di espiare parte della pena fuori dall’istituto impegnandosi gratuitamente per la collettività, dall’altro, intende contribuire al risparmio della Camera di Commercio per quanto riguarda la spesa per i lavori programmati". Dal canto suo Pettrone sottolinea: "Considerato che sono in corso i lavori di adeguamento della sede centrale di Piazza Bovio per concentrare tutti gli uffici delle ex Aziende Speciali nei locali della nuova struttura unica S.I. Impresa e occorre provvedere con urgenza, tra l’altro, al trasloco e alla sistemazione materiale dell’arredamento e della relativa documentazione, nonché ai lavori di piccola manutenzione edile, abbiamo condiviso con la direzione carceraria di attivare questa iniziativa sociale che comporta un risparmio per l’ente di oltre 350mila euro, previa copertura assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali confermata dall’Inail". "Si tratta - conclude Pettrone - di un’iniziativa dal forte connotato sociale e di collaborazione istituzionale che si ritiene debba essere replicata sul territorio". Cagliari: "Solidarietà, ne vale la pena", organizzata una lotteria per i detenuti indigenti cagliaripad.it, 27 luglio 2016 "Solidarietà, ne vale la pena" è il nome della lotteria promossa dall’associazione Socialismo Diritti Riforme per raccogliere fondi a sostegno dei detenuti indigenti. L’iniziativa, che mette in palio 100 premi, intende anche sensibilizzare l’opinione pubblica sulla realtà detentiva del Villaggio penitenziario di Cagliari-Uta. La raccolta fondi ha ottenuto il sostegno del Cafè Regio (corso Vittorio Emanuele 283) che ospiterà la serata conclusiva con l’estrazione dei numeri vincenti, in programma domani pomeriggio 28 luglio alle 17:30. Ospite dell’iniziativa la poetessa Marinella Fois. Intratterranno i partecipanti con le chitarre Giuseppe Idda e Roberto Milia. "Le condizioni di disagio economico - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - si sommano spesso a quelle culturali producendo degli effetti di sofferenza devastanti tra coloro che stanno scontando la pena detentiva. Molti non hanno la possibilità di effettuare una telefonata ai familiari, altri non possono acquistare un biglietto per la nave o per il treno per poter tornare a casa dopo aver pagato il debito con la società". I premi, che comprendono alcuni manufatti realizzati da detenuti o messi a disposizione dai soci, resteranno a disposizione nella sede di Sdr per 30 giorni. I numeri estratti, alla presenza di un funzionario del Comune di Cagliari, saranno resi noti attraverso il sito e la pagina Facebook di "Socialismo Diritti Riforme Le troppe realtà negate nella guerra degli islamisti di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 27 luglio 2016 Si è registrato il salto di qualità che si temeva: dal massacro degli "infedeli" sparando nel mucchio all’assassinio mirato degli uomini-simbolo dell’odiata cristianità occidentale. È purtroppo logico che i religiosi, anche europei, siano un bersaglio. È il salto di qualità che si temeva: dal massacro degli "infedeli" sparando nel mucchio all’assassinio mirato degli uomini-simbolo dell’odiata cristianità occidentale. Non si era ancora spento il rumore per l’attentato del giovane affiliato dello Stato Islamico in Germania che un paio di islamici radicali va a sgozzare un sacerdote e un’altra persona in una chiesa cattolica francese. È purtroppo logico, è nella logica della guerra santa islamica, che i religiosi cristiani, anche europei, siano un bersaglio. Per chi ha scelto di appartenere a quel mondo non ha alcuna importanza che l’Europa sia ormai il luogo più secolarizzato della Terra, che molte chiese siano deserte, che i seminari possano sopravvivere soprattutto grazie all’afflusso di giovani cristiani dalle regioni extraeuropee, o che tanti fra i cosiddetti infedeli europei massacrati non frequentino chiese, siano atei, agnostici o cristiani di fede molto tiepida. In un certo senso, i jihadisti hanno ragione: perché, pur quasi scomparsa dalla coscienza di tanti europei, forse la maggioranza, la religione cristiana ha comunque forgiato il mondo europeo e occidentale. Anche se molti europei non possiedono più gli strumenti per comprenderlo, le categorie culturali che essi usano derivano da quella tradizione. La mattanza dei cristiani (colpevoli di aderire a una religione occidentale) per mano di estremisti islamici dura da tanti anni in tanta parte del mondo. Ma ancora poco tempo addietro, l’Europa credeva, sconsideratamente, di essere immune dagli attacchi della cristianofobia islamista. Come di consueto in questi casi, le prime agenzie di stampa sull’attacco alla chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, hanno subito ipotizzato che i due aggressori, inneggianti a Daesh, fossero persone "afflitte da problemi mentali". Poi, quando è venuto fuori che uno dei due era schedato come estremista islamico, il tema, diciamo così, "psichiatrico", è stato messo (provvisoriamente?) da parte. Sarebbe ora di finirla. È assai probabile che se uno si vota all’assassinio di persone inermi sia affetto da gravi tare. O vogliamo forse dire che colui che entrava nelle SS per il gusto di commettere omicidi o il bolscevico che scannava contadini ricchi o tutti quelli che il Partito definiva nemici, o la guardia rossa impegnata in azioni criminali per conto di Mao Tse Tung, fossero persone serene ed equilibrate? È difficile che lo fossero. Ma ciò non permette di occultare il rapporto fra le loro azioni e il totalitarismo. Non si può fingere che nazismo e comunismo non c’entrassero niente. Allo stesso modo, dire che il tale o talaltro jihadista ha problemi mentali non consente di negare il legame che c’è fra la sua azione e la guerra dichiarata dall’islamismo radicale contro l’Occidente. Con l’eccezione del tedesco-iraniano della strage di Monaco, qui sono sempre in gioco problemi politici, militari, di sicurezza, non le mancate cure psichiatriche. L’unica vera novità è che oggi il web, rendendo istantanee le comunicazioni, consente alla propaganda violenta di diffondersi molto più rapidamente di un tempo, di suggestionare con assai maggiore efficacia gli psicolabili in cerca di nobili motivi per ammazzare il prossimo. L’estremismo islamico ci sguazza. La si giri come si vuole ma questo è il problema. Mentre l’islamismo estremista in Francia "vota a destra", lavora per favorire la vittoria di Marine Le Pen alle Presidenziali dell’anno prossimo, i politici europei "per bene" ci mettono del loro per garantirsi future sconfitte politiche, riempiendo l’aria di parole senza senso. Come la pietosa bugia secondo cui, siccome i terroristi islamici ce l’hanno con le nostre libertà (e questo è sicuro), noi dobbiamo non fare arretrare di un millimetro il perimetro di quelle libertà. Ma è impossibile. Per fare il primo e più ovvio esempio, è molto probabile che la libertà pressoché totale di cui ha sempre goduto il "popolo della Rete" stia per trasformarsi in un ricordo. Constatato che il web è, al pari dei coltelli e degli esplosivi, un’arma da combattimento utilizzata dagli estremisti islamici, diventeranno sempre più estesi, stringenti e capillari i controlli per bloccare la circolazione di messaggi jihadisti. Con inevitabili ricadute negative sulla più generale libertà di comunicazione. Lo stato di emergenza è stato dichiarato in Francia perché così prevede la Costituzione. Ma è probabile che forme non dichiarate, non formalizzate, di stato di emergenza si affermino un po’ ovunque in Europa. Saranno le opinioni pubbliche ad esigerlo. Un’Europa sotto attacco dopo settanta anni di pace ininterrotta è costretta a cambiare tutti i suoi criteri di giudizio. Per esempio, non sarà più possibile fare previsioni economiche senza mettere in conto gli effetti psicologicamente devastanti dell’aggressione terrorista. C’è un problema per le classi politiche che devono affrontare l’emergenza. C’è un problema per gli intellettuali, molti dei quali ancora impantanati, quando si parla di Islam, nelle trappole del politicamente corretto. E c’è un problema per le Chiese cristiane, quella cattolica in primis. L’impressione è che, per ragioni essenzialmente geo-religiose, una parte della Chiesa (non tutta certamente) si sia rassegnata a dare per perduta l’Europa secolarizzata, ad assumerla come definitivamente dimentica della sua tradizione cristiana, e che per questo stia scommettendo su altre aree del mondo. Perdendo di vista il fatto che un Cristianesimo che allentasse troppo i suoi legami con l’Europa diventerebbe molto diverso da ciò che è stato. Se questa impressione fosse esatta, allora bisognerebbe dire che quella parte della Chiesa starebbe commettendo un grave errore. L’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe aprirle gli occhi. Dopo l’attacco in Francia, pronte a intervenire in Italia le forze speciali dell’esercito di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 27 luglio 2016 Sono partite le prime misure con l’espulsione dall’Italia altri due fondamentalisti: più controlli tra i frequentatori di moschee e di altri ambienti ritenuti a rischio. Mattarella: "Dobbiamo impedire che vinca la paura. ll nostro Paese non entri nell’età dell’ansia". È l’azione che fa compiere il salto di qualità all’offensiva terroristica e riporta l’Italia al centro dell’attenzione. Perché più volte su "Dabiq", la rivista ufficiale dello Stato Islamico, i "soldati" sono stati incitati a "colpire Roma", con fotomontaggi che mostravano una bandiera nera sventolare sul cupolone di San Pietro. E adesso quella minaccia diventa più concreta, il timore degli analisti si materializza nella parrocchia di Saint-Etienne-du-Rouvray, in Francia, dove le modalità di azione dei due fondamentalisti riportano direttamente a ciò che avviene nelle aree mediorientali, dove "Daesh" ha il controllo della situazione e i prigionieri vengono prima umiliati con il rito dell’inginocchiamento e poi sgozzati. Proprio come sarebbe accaduto a padre Jacques Hamel, il parroco di 86 anni ucciso davanti ai fedeli. Ma soprattutto perché l’obiettivo - una chiesa cattolica - ha un valore simbolico fortissimo, dunque il pericolo di emulazione si trasforma in un incubo per chi deve garantire sicurezza. E allora si pianifica ogni possibile intervento, prevedendo l’impiego dei corpi speciali militari in caso di emergenza. E intensificando l’attività di controllo in quegli ambienti dove potrebbero annidarsi possibili seguaci dei fondamentalisti islamici, pronti a morire pur di rispondere all’appello del Califfo che li ha invitati a colpire "ovunque e in ogni modo". La mobilitazione di squadre speciali militari è stata prevista nell’ambito del potenziamento del controllo del territorio. Dunque direttamente da chi gestisce la pianificazione delle misure dell’ordine pubblico al ministero dell’Interno. In caso di emergenza potranno essere utilizzati gli specialisti del Consubin e del Col Moschin, ai quali saranno assegnati temporaneamente le qualifiche di "agenti di pubblica sicurezza" in modo da poterli impiegare anche per eventuali perquisizioni e arresti. Sono già state effettuate quattro esercitazioni. Se la "chiamata" dovesse arrivare da un luogo che si trova a nord di Roma saranno a disposizione dei comandanti dei Gis dei carabinieri, al sud della Capitale il comando spetterà invece ai Nocs della polizia. In entrambi i casi si tratta di operazioni di altissimo rischio che prevedono incursioni, ma anche eventuali negoziazioni in caso di presa di ostaggi. È l’ipotesi peggiore tra quelle esplorate negli ultimi mesi, ma nulla viene sottovalutato soprattutto di fronte a un susseguirsi di eventi che non hanno alcun legame tra loro se non l’esaltazione di chi ha deciso di immolarsi in nome della jihad Ieri sono state sollecitate due nuove espulsioni. Ultime di una lunga serie di misure prese dal ministro dell’Interno Angelino Alfano su segnalazione delle forze di polizia e di intelligence. Si tratta di stranieri che hanno avuto contatti con "foreign fighters" o comunque con ambienti legati al fondamentalismo. Ma anche persone che hanno inneggiato all’Isis, sia frequentando siti internet specializzati, sia muovendosi in quei luoghi di aggregazione che possono trasformarsi in aree di reclutamento. E dunque moschee, centri culturali, palestre, carceri. Dall’Italia sono stati allontanati più di cento islamici, tra loro anche numerosi predicatori. Altri saranno costretti a lasciare il territorio nelle prossime settimane, al termine di un’istruttoria svolta per verificare anche i possibili collegamenti con altri Stati europei in uno scambio informativo che i vertici dei nostri apparati continuano a sollecitare nell’ambito di un’azione di prevenzione che deve tenere conto anche di dettagli apparentemente senza significato. In particolare esplorando legami e contatti del passato che potrebbero essere stati saldati di nuovo, anche durante la detenzione per reati diversi da quelli legati al terrorismo. Le azioni portate a termine da giovanissimi, talvolta con problemi di depressione o comunque vittime di atti di emarginazione - come il ragazzo che ha sparato nel McDonald’s di Monaco oppure quello che ha ucciso una donna a colpi di machete a Reutlingen, vicino Stoccarda - convincono gli analisti sulla necessità di intervenire su un doppio binario nella prevenzione. Da una parte ci si rivolge agli ambienti islamici sollecitando segnalazioni su tutte quelle situazione potenzialmente a rischio. Dall’altra si dialoga con i gestori dei colossi del web per rimodulare i criteri dei motori di ricerca. È un lavoro coordinato dal sottosegretario alla Presidenza Marco Minniti che ha due obiettivi: frenare la pubblicazione di video e filmati dell’orrore utilizzati dall’Isis per farsi propaganda ed effettuare "controinformazione" sulle azioni jihadiste cercando in questo modo di frenare il proselitismo via web. Consapevoli comunque che il livello di pericolo continua a salire. Intanto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel corso della cerimonia del Ventaglio al Quirinale per l’incontro dei giornalisti, ha parlato del difficile momento che gli stati europei, compreso l’Italia, stanno affrontando contro il terrorismo islamico. "Dobbiamo impedire è che la paura ci vinca. Non possiamo consentire che il nostro Paese entri nell’età dell’ansia". Il capo dello Stato ha anche ricordato "l’enormità del crimine" di padre Jacques Hamel come anche le vittime dei fatti di Dacca, Nizza, Kabul, Istanbul e "la barbara uccisione di Giulio Regeni". "Non vi è soltanto l’assalto feroce del terrorismo", ha aggiunto "questa stagione sembra dare spazio ad ogni tipo di violenza, sembra davvero che il demone della violenza si sia nuovamente diffuso in Europa". Certo, "l’allarme più alto è per la violenza che nasce dalla propaganda terroristica di ispirazione islamista", ma "non vi è solo questa violenza, occorre capire da dove scaturiscono tante manifestazioni di violenza" e occorre "la collaborazione attiva delle comunità religiose d’Europa , particolarmente di quelle islamiche. Il terrorismo si può sconfiggere con una sempre più ampia e completa collaborazione operativa tra gli Stati, superando inerzie e resistenze a condividere informazioni". La mia lettera ai fratelli musulmani: denunciamo chi sceglie il terrore di Tahar Ben Jelloun (traduzione di Elisabetta Horvat) La Repubblica, 27 luglio 2016 L’appello di Tahar Ben Jelloun. "Dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci contro Daesh". "Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri". L’Islam ci ha riuniti in una stessa casa, una nazione. Che lo vogliamo o no, apparteniamo tutti a quello spirito superiore che celebra la pace e la fratellanza. Nel nome "Islam" è contenuta la radice della parola "pace". Ma ecco che da qualche tempo la nozione di pace è tradita, lacerata e calpestata da individui che pretendono di appartenere a questa nostra casa, ma hanno deciso di ricostruirla su basi di esclusione e fanatismo. Per questo si danno all’assassinio di innocenti. Un’aberrazione, una crudeltà che nessuna religione permette. Oggi hanno superato una linea rossa: entrare nella chiesa di una piccola città della Normandia e aggredire un anziano, un prete, sgozzarlo come un agnello, ripetere il gesto su un’altra persona, lasciandola a terra nel suo sangue tra la vita e la morte, gridare il nome di Daesh e poi morire: è una dichiarazione di guerra di nuovo genere, una guerra di religione. Sappiamo quanto può durare, e come va a finire. Male, molto male. Perciò dopo i massacri del 13 novembre a Parigi, la strage di Nizza e altri crimini individuali, siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che "questo non è l’Islam". Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l’Islam è una religione di pace e di tolleranza. Non possiamo più salvare l’Islam - o piuttosto - se vogliamo ristabilirlo nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l’Islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l’Islam dalle grinfie di Daesh. Abbiamo paura perché proviamo rabbia. Ma la nostra rabbia è l’inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l’Islam è in Europa. Se l’Europa ci ha accolti, è perché aveva bisogno della nostra forza lavoro. Se nel 1975 la Francia ha deciso il ricongiungimento famigliare, lo ha fatto per dare un volto umano all’immigrazione. Perciò dobbiamo adattarci al diritto e alle leggi della Repubblica. Rinunciare a tutti i segni provocatori di appartenenza alla religione di Maometto. Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini. Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, né di pretendere piscine per sole donne. Così come non abbiamo il diritto di lasciar fare questi criminali, se decidono che la loro vita non ha più importanza e la offrono a Daesh. Non solo: dobbiamo denunciare chi tra noi è tentato da questa criminale avventura. Non è delazione, ma al contrario un atto di coraggio, per garantire la sicurezza a tutti. Sapete bene che in ogni massacro si contano tra le vittime musulmani innocenti. Dobbiamo essere vigilanti a 360 gradi. Perciò è necessario che le istanze religiose si muovano e facciano appello a milioni di cittadini appartenenti alla casa dell’Islam, credenti o meno, perché scendano nelle piazze per denunciare a voce alta questo nemico, per dire che chi sgozza un prete fa scorrere il sangue dell’innocente sul volto dell’Islam. Se continuiamo a guardare passivamente ciò che si sta tramando davanti a noi, presto o tardi saremo complici di questi assassini. Apparteniamo alla stessa nazione, ma non per questo siamo "fratelli". Oggi però, per provare che vale la pena di appartenere alla stessa casa, alla stessa nazione, dobbiamo reagire. Altrimenti non ci resterà altro che fare le valigie e tornare al Paese natale. Legalizzazione cannabis, il muro che deve cadere di Franco Corleone Messaggero Veneto, 27 luglio 2016 Il fatto che la discussione sia approdata in Parlamento dopo decenni di polemiche è un fatto storico. La macchina della punizione non ha ottenuto alcun effetto sui consumi e sulla loro riduzione, ma ha intasato i tribunali, ha riempito le carceri e ha arricchito il narcotraffico. Il 25 luglio, la Camera dei deputati ha iniziato la discussione delle proposte di legalizzazione della canapa. È facile prevedere che l’approvazione della legge non sia dietro l’angolo non solo per l’ostruzionismo di alcuni gruppi parlamentari, ma per la necessità di smontare pregiudizi e falsità costruiti nei decenni e che hanno consolidato un senso comune sul divieto per legge del consumo di tutte le sostanze stupefacenti senza distinzione. Il fatto che la discussione sia approdata in Parlamento dopo decenni di polemiche è un fatto storico. Cade infatti il tabù del proibizionismo che nacque negli anni trenta negli Stati Uniti proprio sulla demonizzazione della marijuana. Non era bastato il fallimento del divieto dell’alcol eliminato dal presidente Roosevelt per impedire che una nuova caccia alle streghe si imponesse con la repressione delle minoranze etniche. Un apparato propagandistico eccezionale fu messo in campo, mobilitando i mezzi di informazione e tanti pseudo scienziati per enfatizzare i danni dell’uso della canapa. La campagna non era fondata sui fatti, (nessuno è mai morto per uno spinello), ma sui miti e sulle falsificazioni moralistiche. Infatti si trattava di una lotta del Bene contro il Male. Il Italia l’acme fu raggiunto con l’approvazione della legge Iervolino-Vassalli nel 1990 fortemente voluta da Bettino Craxi e peggiorata nel 2006 con la legge Fini-Giovanardi che solo grazie a una decisione della Corte costituzionale nel 2014 è stata spazzata via. Le conseguenze in questi venticinque anni sono state drammatiche sulla giustizia e sul carcere. La macchina della punizione non ha ottenuto alcun effetto sui consumi e sulla loro riduzione, ma ha intasato i tribunali, ha riempito le carceri e ha arricchito il narcotraffico. I dati sono eloquenti. Nel 2015 gli ingressi in carcere per violazione dell’art. 73 che colpisce la detenzione di sostanze stupefacenti e in concreto consumatori e piccoli spacciatori sono stati pari al 27%, in diminuzione rispetto alle punte del 30% degli anni precedenti. Le presenze in carcere sono pari al 32% e in cifra assoluta sono pari a 16.712 persone su 52.164 detenuti. Se aggiungiamo i detenuti tossicodipendenti, colpevoli di reati di strada e non di spaccio, si conferma che la questione droga pesa per quasi il cinquanta per cento sull’affollamento carcerario. Le operazioni di polizia e le segnalazioni all’autorità giudiziaria si confermano per il cinquanta per cento relative ai cannabinoidi. Quindi nonostante la caduta della parte più repressiva e punitiva della legge Fini-Giovanardi che ha comportato una diminuzione del sovraffollamento carcerario per effetto della minore criminalizzazione della canapa, rimane un’incidenza enorme sul fenomeno. Questa è la ragione del documento inviato alla commissione Giustizia della Camera dal Procuratore nazionale Franco Roberti della Direzione Nazionale Antimafia a sostegno della proposta Giachetti e a favore della legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis. Questo parere mette in luce il peso del narcotraffico sull’economia e sulla democrazia visto il fallimento della strategia repressiva e soprattutto contesta l’accanimento contro il consumo di sostanze meno dannose e che ha comportato un enorme dispendio di energie delle forze dell’ordine e dei giudici per un risultato impossibile. Chi sostiene che la canapa fa male e quindi va proibita, non si preoccupa della nocività della sostanza del mercato nero e delle conseguenza della stigmatizzazione dei giovani sulla loro vita. Dal 1990 alla 2015 sono stati segnalati alle prefetture per mero consumo 1.107.051 persone e di questo ben 800.000 pari a oltre il 72% per cannabis e sottoposte a sanzioni amministrative odiose. L’altra novità che si è imposta rispetto alla menzogna dei danni della canapa è l’affermarsi dell’uso terapeutico della marijuana. La legalizzazione non farà aumentare i consumi, ma li renderà più sicuri e fornirà risorse attraverso la tassazione per azioni educative e di informazione. La war on drugs è finita. Occorre costruire una politica intelligente. Alfano: non voteremo mai la legalizzazione della cannabis di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2016 "Mai voteremo la legalizzazione della cannabis". A confermare il no dei centristi al ddl trasversale per la "legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati", incardinato ieri in Aula alla Camera è il ministro dell’Interno e leader di Ap-Ncd Angelino Alfano, intervistato questa mattina a "Radio anch’io" (Radio 1 Rai). "Sarebbe un grave problema - ammonisce poi rivolgendosi al partito del premier - se il Pd decide di andare avanti cercando alleanze strane o trasversali". La legalizzazione della cannabis, insiste Alfano in linea con le posizioni della ministra della Salute Beatrice Lorenzin, è "un colossale errore, pessimo per la salute dei ragazzi e per l’unità delle famiglie". "Noi siamo una forza molto innovatrice sui programmi ma riteniamo che qualcosa sia da conservare", conclude, citando l’esempio delle unioni civili, provvedimento sul quale i centristi si sono opposti in merito alle adozioni gay e alla parificazione con la famiglia tradizionale. Referendum, contrario a dimissioni Renzi se vincono i No - Tra i temi toccati dal ministro dell’Interno anche gli effetti politici di un eventuale vittoria dei No al referendum d’autunno sulla riforma costituzionale e gli alti stipendi dei molti dirigenti Rai messi ieri on line da viale Mazzini nell’ambito di una "Operazione Trasparenza" imposta dalla legge di riforma della governance aziendale. "Sono totalmente contrario alle dimissioni del premier Renzi se vincono i ‘nò al referendum - chiarisce Alfano - invitando Matteo Renzi a "riformulare il suo approccio" sul punto. La data di scadenza del governo, ha ricordato Alfano, "è quella delle elezioni politiche, nelle quali si dà un giudizio sull’operato complessivo dell’esecutivo, altrimenti si confonde una parte con il tutto". Duro invece il commento sui compensi che la Rai riconosce a Antonio Campo Dall’Orto: "Il direttore generale della Rai non può guadagnare 6 volte più del presidente del Consiglio". In Italia "il presidente del Consiglio ha un imponibile di 107mila euro, il direttore generale della Rai ne guadagna oltre 600mila. Ma che Rai è?". "Se la dirigenza Rai continua così - aggiunge Alfano - a furor di popolo farà privatizzare la Rai. Ci sarà una valanga di gente che lo chiederà. Ma perché il canone che pagano i cittadini deve andare a finanziare giornalisti esterni, dell’Espresso o di Repubblica per lavorare in Rai?". Sì a programma comune con FI, ma resta il "problema Salvini" - Si parla anche delle fibrillazioni interne all’area di centrodestra, da settimane alla ricerca di un equilibrio e di un nuovo leader dopo le elezioni amministrative . "Non vedo difficoltà a fare un programma comune con Forza Italia", ribadisce Alfano, che evidenzia però "il problema Salvini, con la sua posizione estremista e lepenista". "La nostra collocazione - spiega Alfano - resta saldamente nel Ppe, dove milita Forza Italia. Non siamo - aggiunge - diventati di sinistra, veniamo da una traiettoria di centrodestra ma il centrodestra di oggi non è quello che abbiamo conosciuto ieri, se c’è dentro uno come Salvini". "Se Fi - prosegue il ministro - vuole un’alleanza lontana da Salvini, siamo disponibili a farlo: si sceglie insieme il nome del movimento e si stabiliscono regole comuni. Il leader non va scelto a tavolino, ma con regole democratiche come ha fatto il Pd". Trent’anni di proibizionismo sul corpo di Fabrizio Pellegrini di Luigi Manconi e Antonella Soldo Il Manifesto, 27 luglio 2016 Ma di cosa parliamo quando parliamo di legalizzazione della cannabis? Certo, le questioni in campo sono tante, gli approcci molteplici e le evidenze scientifiche - di natura giuridica, sanitaria e sociale - che motivano una normativa antiproibizionista risultano davvero incontrovertibili. Ma, poi, c’è la vita vissuta, l’esperienza della fatica e del dolore, e ci sono esigenze, urgenze che premono. Dunque, la libertà di autodeterminazione dell’individuo, la regolamentazione di mercati oggi tanto più pericolosi perché illegali, e la salute pubblica: ma, forse prima di tutto, c’è Fabrizio Pellegrini, recluso in una cella del carcere di Chieti. Questa è la sua storia, che riassume tragicamente l’eredità di contraddizioni lasciateci da decenni di politiche proibizioniste. Pellegrini è un pianista di 47 anni, malato di fibromialgia, che si trova in carcere da oltre un mese per aver coltivato alcune piante di cannabis nel suo appartamento. La patologia da cui il suo corpo è affetto è connotata da una sofferenza cronica del sistema immunitario, che negli stadi avanzati, porta all’erosione di tutte le articolazioni, con un dolore incessante, e la conseguente impossibilità di trovare una qualche forma di riposo: "Alcune volte passo interi giorni disteso sul pavimento, anche l’esile peso del mio corpo è insopportabile per la mia colonna vertebrale". Quasi per caso, alcuni anni fa, Pellegrini si accorge che l’assunzione di cannabis gli consente di recuperare una maggiore mobilità e un po’ di sonno. Ma rivolgersi al mercato illegale vorrebbe dire avere un prodotto di pessima qualità e oltretutto assai costoso. Così Pellegrini comincia a coltivare alcune piante sul suo balcone, dando luogo a una micidiale sequenza di arresti, perquisizioni, reclusioni, procedimenti giudiziari. Ma nonostante le difficoltà e le umiliazioni, il dolore è troppo forte e non appena libero Pellegrini ricomincia a coltivare le sue piante. Uno spiraglio di speranza si apre quando incontra un medico che comprende la sua situazione e gli prescrive della canapa terapeutica. Ma non appena si reca a ritirare il farmaco si accorge che i suoi problemi non sono finiti: per un mese di terapia il costo è di 500 euro: denaro che non ha, e che deve raccogliere attraverso una colletta tra amici. Ma, successivamente, non riesce più a sostenere la spesa. E torna alla coltivazione domestica. E ciò in un paese dove il thc, il principio attivo della cannabis, è stato ammesso in terapia sin dal 2007, e in una regione, l’Abruzzo, che dispone della più avanzata legge regionale in materia. Legge che prevede una formazione specifica per il personale sanitario, e che istituisce un fondo annuo di 50 mila euro per porre a carico del servizio sanitario regionale la cannabis dei pazienti abruzzesi. Ma, ciò nonostante, macchinosità burocratiche e limiti rigidissimi, costi insostenibili e resistenze culturali, rendono i farmaci a base di cannabinoidi tutt’altro che agevolmente accessibili a chi ne abbia documentata necessità. Ecco, i legislatori dovrebbero sempre considerare che le norme che vanno ad approvare, o che vanno ad abrogare, si incarnano poi nella vita sociale e nei corpi delle persone in carne e ossa. Per esempio in quella di Fabrizio Pellegrini che aspetta disteso sul pavimento di una cella del carcere di Chieti. Canapa, i miti italiani e i fatti del Colorado di Luca Marola Il Manifesto, 27 luglio 2016 Il dibattito sulla regolamentazione della cannabis sta entrando nel vivo anche in Italia e già gli ultimi paladini di quel proibizionismo che in quarant’anni di cieca applicazione ha portato ai disastri che stiamo vivendo, lanciano le proprie invettive. Come al solito senza alcun dato ed evidenza scientifica a supporto. In questo contesto è molto utile leggere il primo report ufficiale prodotto a marzo dal Dipartimento di Salute Pubblica dello Stato del Colorado, il primo degli Stati Uniti a sperimentare la regolamentazione legale della cannabis. Molti sono gli spunti di riflessione per avviare un maturo dibattito in Italia. Innanzitutto il consumo di cannabis mentre aumenta tra gli adulti (dal 21 al 31% tra i 18-25 anni e dal 5 al 12% tra i maggiori di 26 anni di età), tra i minorenni resta sostanzialmente invariato: "Un cambiamento non significativo". La cannabis legale non ha portato, quindi, ad un aumento del consumo tra i giovani che anzi è stato rilevato addirittura in diminuzione da uno studio del mese scorso. E qui Maurizio Lupi, che accusa chi vuole legalizzare di voler "condannare un’intera generazione" di giovani, trova la smentita. Un’altra bufala tutta italiana viene smontata dai dati provenienti da oltreoceano: il numero di conducenti colti sotto l’effetto di cannabis, sola o in combinazione con altre sostanze, è calato dell’1% nel 2015 rispetto all’anno precedente. I fatti smentiscono quindi un incremento della guida sotto gli effetti da stupefacenti, ed anche Giovanardi è sbugiardato. L’ammontare delle entrate fiscali per lo stato sono in netta ascesa: "Le entrate complessive dovute a tasse, licenze ed accise sono aumentate dai $76,152,468 nel 2014 a $135,100,465 nel 2015 con un incremento del 77%. La quota destinata all’edilizia scolastica ed all’assistenza sociale ammonta a $35,060,590 nel 2015". A fine 2015 erano 2.530 le licenze per la vendita concesse dall’amministrazione pubblica di cui oltre il 70% concentrate a Denver. Quasi 110.000 pazienti si sono registrati per ottenere cannabis terapeutica dai dispensari, il 93% dei casi per lenire dolori cronici, il 20% spasmi muscolari ed il 12% la nausea. Crollano gli arresti per reati connessi alla marijuana del 46% tra il 2012 ed il 2014 anche se rimane irrisolta la questione razziale con il 51% di arresti di bianchi in meno, il 33% di ispanici e un decremento del solo 25% tra la popolazione afroamericana. Il numero di arresti tra i neri resta tre volte superiore a quello tra la popolazione bianca. Per quanto riguarda il crimine, vi è un decremento del 3% per i reati contro la proprietà e di oltre il 6% per quanto riguarda i crimini violenti. Aumentano i casi di chiamate agli ospedali per presunte intossicazioni da cannabis ma questo dato è influenzato dal fatto che legalizzando, lo stigma sociale si è molto affievolito e pertanto è probabile che nel passato non ci si rivolgesse agli ospedali mentre solo ora, senza alcuna minaccia penale sulla testa, la situazione è realmente monitorabile. È ancora prematuro, sottolinea il Dipartimento di Salute Pubblica del Colorado, trarre delle conclusioni sui potenziali effetti della legalizzazione della cannabis sotto i profili sanitari, di sicurezza pubblica, di comportamenti giovanili, sia perché servono i dati di almeno i primi tre anni di sperimentazione (fine 2017) sia per la difficoltà di reperire dati credibili del passato proibizionista. Quel che è evidente, ad oggi, è che il consumo, la vendita e la produzione di cannabis legale in Colorado non ha fato crollare il cielo né spalancato le porte dell’inferno. Francia: giustizia e sicurezza sotto accusa, lo Stato forte non protegge più di Massimo Nava Corriere della Sera, 27 luglio 2016 Alzato il livello di sorveglianza nella capitale e attorno agli obiettivi sensibili, la minaccia tocca le aree meno prevedibili. Sono ancora nel pieno del clamore mediatico le polemiche sulla sicurezza dopo la strage di Nizza, il rimpallo di responsabilità fra apparati dello Stato, gli scambi d’accuse fra forze politiche e fra poteri locali e nazionali, ed ecco il nuovo, terribile, colpo alla schiena di uno Stato e di una popolazione sempre più smarrita e indignata. Man mano che si precisano contorni e retroscena dell’orrendo crimine nella chiesa alla periferia di Rouen, i decibel delle polemiche interne e della tensione collettiva non possono che salire. Perché di fronte, questa volta, non ci sono fantasmi apparsi all’improvviso dal loro abisso di follia, né sbandati di periferia, approdati al radicalismo religioso, secondo percorsi improvvisati e tortuosi che nemmeno il più ossessivo dei sistemi di controllo potrebbe neutralizzare. Questa volta ci sono due miliziani votati al sacrificio, uno dei quali già gravato da sospetti e denunce, un arruolato fra i foreign fighters, bloccato per caso al confine per la Siria. Soprattutto, questa volta, c’è un individuo condannato, scarcerato da pochi mesi, "controllato" da quel braccialetto elettronico sempre invocato come la misura preventiva più efficace contro ogni genere di minaccia, non essendo attuabile una sorveglianza fisica e totale di migliaia di delinquenti in libertà vigilata e - per stare all’ambito terroristico - di alcune centinaia, forse migliaia di individui radicalizzati. Logico chiedersi che cosa non abbia funzionato, perché i dispositivi di sicurezza siano stati ancora permeabili, nonostante lo stato d’emergenza e le misure speciali adottate nei mesi scorsi, a partire dall’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, e prorogate dopo la strage di Nizza. È forse ingeneroso parlare di leggerezza e approssimazione da parte di un governo e di apparati da mesi in allerta continua, che hanno comunque ottenuto qualche risultato apprezzabile e che hanno permesso uno svolgimento ordinato e sicuro (se si eccettua la giornata di ordinaria follia degli hoolingan croati, inglesi e russi) di una manifestazione lunga e complessa come gli Europei di calcio. Ma è un fatto che il governo, il presidente, il suo ministro degli Interni sono oggi nel mirino di una popolazione disorientata, che ha perso fiducia in uno Stato tradizionalmente forte, accettato e rispettato per la sua forza, la sua capacità di proteggere, oltre che di erogare servizi. È su questo smarrimento, su questa assenza di risposte che nessuno può dare nell’immediato, che si innestano polemiche politiche sempre più feroci e divisive della coesione nazionale. Non c’è solo il Front National a soffiare sul fuoco, evocando reazioni militanti e analisi che criminalizzano intere comunità. Ieri ha alzato la voce l’ex presidente Nicolas Sarkozy, il quale, come del resto diversi esponenti della destra repubblicana, tende ad accreditare la tesi che il presidente Hollande e il governo socialista non abbiano fatto abbastanza, abbiano sottovalutato il pericolo, abbiano fatto persino qualche calcolo elettorale sulle comunità d’immigrati e di musulmani. Si invocano quindi misure ancora più dure, espulsioni, domicili coatti, indagini a tappeto dovunque si annidi il sospetto di complicità. Purtroppo per la Francia, la nuova strage in una delle regioni più dolci e tranquille del Paese, la terra cara a Proust e Maupassant, conferma la diffusione e la diramazione delle minacce sul territorio, anche nelle aree meno prevedibili, forse proprio perché è accresciuto il livello di sorveglianza e di sicurezza nella capitale e attorno agli obiettivi più sensibili. Ma soprattutto conferma l’impossibilità di recuperare un terreno che è stato perduto da molto tempo e che ha sancito il sostanziale fallimento del modello d’integrazione basato sui valori della Repubblica e sui principi di laicità e tolleranza religiosa. Dalle rivolte nelle periferie, catalogate nella sociologia dell’emarginazione giovanile e della microcriminalità, si sono sviluppati molti virus di varia natura che hanno offerto molto materiale al proselitismo, alla propaganda religiosa, alle proposte macabre di suicidio militante. In questo senso, la Francia, per la sua storia e per le sue componenti sociali, è l’angolo d’Europa più esposto. Il suo equilibrio di componenti etniche e religiose è fragile, costantemente complicato da pregiudizi, stereotipi, rivalse che risalgono nei secoli. Il rischio enorme che oggi corre la Francia, rispetto a questo mondo che le appartiene da generazioni, è appunto l’arroccamento, che è poi l’anticamera della divisione sociale, dello scontro culturale, etnico e religioso. Ci sono leader politici, intellettuali e profeti di sventura che forse non aspettavano altro. Ma sul banco dell’accusa, c’è anche una cultura politica impregnata di sociologia della giustificazione che non ha mai visto o voluto vedere da dove veniva il pericolo. La commistione di terrorismo "telecomandato" dalla propaganda esterna e di terroristi improvvisati a chilometro zero è sconvolgente. Forse siamo di fronte a un piano preordinato o forse l’effetto mediatico nell’era digitale moltiplica potenziali terroristi e fenomeni d’imitazione che nessuna azione repressiva o militare potrà definitivamente escludere. Di sicuro, la quasi contemporaneità di attentati in Francia e Germania - una sorta di passaparola sulle sponde del Reno - colpisce al cuore quell’asse di intese politiche e relazioni diplomatiche che finora ha impedito il disfacimento dell’Europa. Il terrorismo che ferisce la Francia spalanca le porte al populismo. L’offensiva in Germania (dopo lo choc della catena di stupri a Capodanno) fa vacillare le coraggiose politiche di accoglienza e integrazione di Angela Merkel. Dopo Brexit, è questo l’obiettivo strategico del Califfato? Turchia: dalle Camere Penali italiane un appello per il rispetto dei diritti umani camerepenali.it, 27 luglio 2016 In considerazione dell’acuirsi nelle ultime ore delle violenze e degli abusi sulle migliaia di persone private della libertà a seguito del fallito colpo di stato, l’Unione delle Camere Penali Italiane si è fatta promotrice presso l’Unione Internazionale degli Avvocati Penalisti Europei di un appello al Consiglio d’Europa affinché valuti la sussistenza delle condizioni per la permanenza della Turchia nel suo ambito. L’iniziativa è volta a far sì che, l’Organizzazione internazionale che si prefigge come obiettivo il rafforzamento della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, questi ultimi garantiti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dia un segnale forte al Governo turco per indurlo ad assicurare il rispetto della dignità umana e delle garanzie dei cittadini; rappresenta il seguito concreto della volontà politica condivisa dai rappresentanti delle principali associazioni forensi internazionali ed emersa nell’ambito del recente Convegno di Venezia, organizzato da Ucpi e Camera Penale Veneziana, sul tema "La centralità del ruolo dell’avvocato per la democrazia e la tutela dei diritti fondamentali" verso un’azione comune dell’Avvocatura in difesa dei diritti fondamentali. Non abbiamo dubbi che le professioni siano nel mirino per la loro funzione sociale di difesa dei diritti come espressione dello stato di diritto e la loro rilevanza per il funzionamento della democrazia. Arresti arbitrari, persecuzione di massa, trattamenti crudeli, inumani e degradanti delle persone private della libertà personale, restrizioni della libertà di espressione e della libertà di stampa e dei mezzi di comunicazione, censura della libertà di istruzione, attacco alla indipendenza della magistratura, sospensione del diritto all’accesso ad un difensore per i detenuti e paventata restaurazione della pena di morte, sono incompatibili con i diritti garantiti dalla Convenzione Europa dei Diritti dell’Uomo. Questo anche considerando la deroga ex art. 15 della Convenzione notificata dalla Turchia, deroga che non può riguardare il diritto alla vita e all’incolumità personale, il diritto di non essere torturati, la proibizione della schiavitù e il principio di legalità. In ogni caso, nessun reato per quanto grave giustifica una qualsiasi deroga a diritti fondamentali e quindi inalienabili di tutti gli indagati o imputati in procedimenti penali. Per questo sollecitiamo il Consiglio d’Europa a monitorare l’azione delle Istituzioni turche, come noi stessi ci impegniamo a fare, evidenziando la possibilità di considerare l’espulsione della Turchia dal Consiglio d’Europa o la sospensione della sua adesione secondo gli artt. 3 e 8 dello Statuto, fino a quando non saranno ripristinati standard minimi di tutela dei diritti fondamentali. Beniamino Migliucci Presidente dell’Unione Internazionale degli Avvocati Penalisti Europei Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Australia: abusi "stile Abu Grahib" nella prigione minorile di Don Dale ilpost.it, 27 luglio 2016 La rete televisiva ABC ha trasmesso una serie di filmati in cui si vedono i maltrattamenti di alcuni detenuti "stile Abu Grahib". Un’inchiesta della rete televisiva australiana ABC andata in onda lunedì 25 luglio ha mostrato una serie di abusi subiti dai detenuti di una prigione minorile nel nord del paese. I filmati trasmessi nel corso del programma Four Corners mostrano un detenuto legato a una sedia e incappucciato, in una maniera che a molti ha ricordato la prigione di Abu Grahib, in Iraq, dove alcuni militari americani e contractor civili abusarono dei detenuti nel 2004. In un altro filmato si vedono gli agenti usare lacrimogeni contro alcuni detenuti chiusi nelle loro celle, mentre in un altro ancora si vede un detenuto denudato mentre alcune guardie lo tengono bloccato al suolo. Il primo ministro australiano Malcolm Turnbull ha detto di essere profondamente scioccato dalle immagini e ha annunciato un’inchiesta sugli episodi. Il Guardian ha scritto che sei detenuti della prigione denunceranno i maltrattamenti subiti. Gli abusi mostrati da ABC sono avvenuti tra il 2014 e il 2015 nel centro di detenzione Don Dale, vicino Darwin, nel Northern Territory, nel nord dell’Australia. Si tratta di una regione dove da tempo il sistema penitenziario minorile è sotto accusa per gli abusi subiti dai detenuti, in particolare da quelli minorenni. Tutti i detenuti mostrati dai filmati erano di origine indigena. Si tratta di un gruppo che costituisce il 96 per cento dei minori che si trovano in strutture di detenzione e il 30 per cento del totale della popolazione carceraria. I filmati, ha scritto il Guardian, hanno riaperto il dibattito sui rapporti tra il governo australiano e la popolazione indigena e quello sull’approccio molto duro utilizzato dal governo del Northern Territory per gestire la criminalità. Il primo ministro Turnbull ha detto che l’inchiesta non riguarderà soltanto le accuse al centro di detenzione Don Dale, ma sarà estesa anche al resto del sistema penitenziario del Northern Territory. Turnbull ha detto che l’obbiettivo della commissione è scoprire: "Se esiste una cultura diffusa in tutto il sistema penitenziario del Northern Territory o se gli abusi sono limitati a un centro di detenzione specifico". I dettagli su come opererà la commissione non sono ancora molto chiari, mentre alcuni hanno sottolineato il ritardo della decisione di Turnbull, visto che il sistema penitenziario del Northern Territory è sotto accusa oramai da molto tempo. Il primo ministro della regione, Adam Giles, ha detto di aver guardato i filmati con "orrore" e che nel sistema penitenziario esiste una cultura che ha contribuito a tenere nascosti gli abusi subiti dai detenuti. Giles ha aggiunto che la competenza sul sistema penitenziario sarà tolta al procuratore generale John Elferink, una figura controversa i cui metodi molto duri sono stati spesso criticati. Uno dei filmati più impressionanti mostra Dylan Voller, un detenuto di 17 anni, mentre viene legato a una sedia da alcuni agenti. Voller indossa un cappuccio e ha un collare che gli tiene legata la testa allo schienale della sedia. Secondo ABC, Voller è rimasto bloccato sulla sedia per due ore. Sedia, cappuccio e collare fanno parte degli strumenti di "restrizione" regolarmente approvati dal governo del Northern Territory. L’Unicef Australia ha detto che quello che è avvenuto al Don Dale "potrebbe essere considerato una forma di tortura". Martedì 26 luglio l’avvocato di Voller, Peter Ò Brien, ha diffuso una lettera manoscritta del ragazzo, in cui Voller ringrazia "tutti gli australiani per il supporto" ai detenuti e alle loro famiglie, e aggiunge: "voglio cogliere quest’occasione per scusarmi con la comunità per i miei sbagli. Non vedo l’ora di uscire e rimediare". Ò Brien ha detto che attualmente Voller è detenuto in una prigione per adulti, ma dovrebbe essere rilasciato immediatamente: "l’impatto di questi anni di sevizie deve essere subito valutato, e Dylan necessita di assistenza immediata. Ogni ragazzo rinchiuso in isolamento nel Northern Territory deve essere subito liberato". In un altro filmato si vedono alcuni detenuti venire spruzzati con gas lacrimogeno. L’episodio è avvenuto nell’agosto del 2014 e all’epoca il governo del Northern Territory spiegò che il gas era stato utilizzato per bloccare un tentativo di fuga da parte dei detenuti. Il filmato di ABC, però, mostra che soltanto uno dei sei ragazzi colpiti dal gas stava cercando di fuggire. Gli altri cinque si trovavano ancora chiusi nelle loro celle. Egitto: scontro tra detenuti Fratelli musulmani e Stato islamico nel carcere di Tora Nova, 27 luglio 2016 Una violenta rissa è scoppiata nei giorni scorsi nel carcere egiziano di Tora tra i detenuti dello Stato islamico e quelli dei Fratelli musulmani. Secondo quanto riferiscono gli attivisti dei Fratelli musulmani su Facebook, "ci sono stati scontri con armi da taglio tra i detenuti dello Stato islamico e quelli dei Fratelli musulmani nella zona di ricezione dei detenuti del carcere di Tora e si contano numerosi feriti". La notizia è apparsa su numerosi social network islamici dove si parla del "mancato intervento delle guardie carcerarie che avrebbero assistito allo scontro".