Cannabis: muro centrista, legge rinviata all’autunno di Mario Stanganelli Il Messaggero, 26 luglio 2016 Per la prima volta nella storia parlamentare italiana una legge per la legalizzazione della cannabis arriva in Aula supportata da una vasto fronte di 221 deputati costituitisi in intergruppo, di cui fanno parte 87 M5S, 85 pd e altri 49 tra Sinistra Italiana, Scelta civica, ex grillini, Gruppo misto, 2 di FI e altrettanti di Ala. Tanti, ma alla maggioranza ne manca una novantina, e per la legge il cui primo firmatario è Roberto Giachetti, di antica militanza radicale e antiproibizionista, arrivata nell’emiciclo di Montecitorio senza parere del relatore e senza dibattito in Commissione, si prevede un iter travagliato, che riprenderà in autunno con il ritorno nelle commissioni Giustizia e Affari sociali. Il ddl che legalizza il possesso, per uso personale, di 15 grammi di cannabis in casa o di 5 all’esterno e la coltivazione casalinga di 5 piantine è infatti avversato decisamente dalla quasi totalità del centrodestra e da un fronte trasversale di cattolici che divide soprattutto il Pd e che, con la assoluta contrarietà del Ncd, spacca la maggioranza di governo. È per questo che il capogruppo pd in commissione Giustizia, Walter Verini, pur compiacendosi dell’inedito esordio in Aula della legge e dell’inizio "senza ipocrisie" del dibattito generale, ha dovuto ammettere la presenza di "posizioni trasversali all’interno dei partiti, con opinioni opposte sul testo che non consentono, al momento, di trovare alcuna sintesi". Di qui e alla luce di quasi duemila emendamenti integralmente contrari al ddl, il ritorno in commissione, con la speranza che nel conseguente confronto possa, secondo lo stesso Verini, emergere qualche sintonia "almeno per quanto riguarda alcuni aspetti della materia, come l’uso a fini terapeutici della cannabis". Di contro, l’opposizione protestava per l’approdo in Aula della legge, definito da Renato Brunetta "una indecente forzatura per bypassare i quasi 2000 emendamenti contrari". Mentre, sul versante della maggioranza, il ministro dell’Interno Alfano ribadiva che il Ncd "dirà sempre no alla legalizzazione della cannabis", il ministro con delega alla Famiglia, Enrico Costa, definiva "perversa la statalizzazione dello spaccio di droga per introitare risorse da destinare alla prevenzione dal consumo degli stupefacenti" e il gruppo parlamentare di Ap, a cui entrambi appartengono, presentava, a firma di Paola Binetti, due pregiudiziali alla legge, da votare a settembre. Sul fronte opposto, in una conferenza stampa convocata dai promotori della legge, il sottosegretario Benedetto Della Vedova, primo firmatario del ddl al Senato, sottolineava lo "storico successo" di averne portato il testo in Aula "senza alcuna forzatura. Visto che sul ddl depositato in commissione Giustizia da oltre un anno c’è stato un lungo lavoro istruttorio con l’audizione di oltre 40 esperti". Della Vedova ha chiesto di "lasciare fuori dal dibattito maggioranza e governo", per dar vita a un’iniziativa parlamentare trasversale "analoga a quella che nel 70 portò alla legge sul divorzio". D’accordo con questa impostazione lo stesso Giachetti, mentre il segretario di Radicali italiani Riccardo Magi ha auspicato che il dibattito si svolga non solo in Parlamento, ma che ve ne sia "uno pubblico in tutto il Paese". Al fronte del sì si univa in un video- appello Roberto Saviano auspicando la legalizzazione della cannabis "per sottrarre alle mafie il controllo di un mercato miliardario". Appello che non turbava affatto le intenzioni barricadiere del senatore Maurizio Gasparri che, nell’eventualità di "qualche bizzarra tentazione della Camera", avvertiva che "il Senato sarà la tomba di qualsiasi scelta dissennata". Il proibizionismo antistorico di Stefano Anastasia Il Manifesto, 26 luglio 2016 Toccata e fuga. Finalmente, a un anno dalla formalizzazione della proposta dell’integruppo per la legalizzazione della cannabis, la Camera ne ha iniziato la discussione. Non è poco, ma potrebbe anche essere tutto: tutto ciò che questa legislatura e questo Parlamento si consentiranno di dire su questa annosa e vitale battaglia di libertà. Non è difficile prevederlo, considerato il clima politico che si respira nella discesa verso le prossime elezioni politiche e considerato il fuoco di fila armato dalle destre e dai settori più conservatori del mondo cattolico. La sola calendarizzazione della proposta di legalizzazione all’ordine del giorno dell’assemblea di Montecitorio ha riattivato l’abituale armamentario proibizionista, condito - come usa - da qualche scienziato pronto a testimoniare i danni irreparabili che la cannabis produce nei cervelli dei più giovani, le morti che essa causa quando sia stata assunta alla guida, ecc. ecc.. Perché, "signora mia che l’ha fumata in gioventù, le canne di oggi non sono più quelle di una volta", e giù a sparare percentuali di principio attivo doppie, triple o quadruple di quelle normalmente sequestrate dalle forze dell’ordine, le quali - evidentemente - continuano a sequestrate quelle degli anni settanta, quando la signora e il tossicologo erano giovani. O come se la legalizzazione della cannabis possa comportare un trattamento di favore rispetto all’alcool, e dunque rendere lecita la guida sotto effetto di sostanze stupefacenti. Tutte sciocchezze, ovviamente. Legalizzare la cannabis non vuol dire consentire comportamenti a rischio per l’incolumità altrui, ma - al contrario - dismettere la parte più odiosa della guerra alla droga, quella che colpisce i ragazzi delle scuole e che costringe malati e anziani signori a rifornirsi sul mercato illegale per le proprie necessità terapeutiche o di benessere individuale. 1.107.051 persone sono state segnalate ai prefetti dall’entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli per possesso di sostanze stupefacenti a fini di consumo personale. Più di un milione di persone costrette a ramanzine e piccole o grandi vessazioni solo perché trovate in possesso di sostanze palesemente non destinate allo spaccio. Ottocentomila di queste, più del 70% del totale, erano in possesso di cannabinoidi. Che senso ha questo spreco di risorse pubbliche per dissuadere o stigmatizzare un comportamento diffusamente accettato nella popolazione? Che senso ha l’impiego delle ancor più costose risorse della giustizia penale, dall’uso delle forze di polizia a quello del delicato marchingegno processuale, per la repressione di un mercato che può essere regolato per legge? Giustamente la Direzione Nazionale Antimafia invoca una disciplina che possa limitare il potere di mercato delle organizzazioni criminali e liberare risorse investigative e processuali per perseguire comportamenti ben più gravi. A settembre, dunque, se ne tornerà a discutere in Parlamento. E si vedrà cosa ne sarà. Certo è che le associazioni, i consumatori, le persone ragionevoli e di buona volontà non possono restare fino ad allora con le mani in mano, per poi lasciare alla cabala delle relazioni nella maggioranza o tra la maggioranza e le opposizioni la chiusura della partita. Ecco allora che a settembre sarà utile far arrivare in Parlamento la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dai radicali, dall’associazione Luca Coscioni e da numerose associazioni, corredata da centinaia di migliaia di firme, per dar forza all’impegno dell’intergruppo antiproibizionista e lasciare la porta aperta alla speranza di un cambio di politiche sulle droghe nel segno delle libertà e dei diritti civili. Pronta a finire in carcere di Rita Bernardini Il Tempo, 26 luglio 2016 Sul mio terrazzo ho 19 piante di marijuana che sto coltivando alla luce del sole. E non mi hanno mai arrestata. Al massimo me ne sequestrarono 56, l’anno scorso, ma poi la Procura della Repubblica di Roma ha archiviato tutto, motivando con il fatto che erano troppo piccole e cresciute in un ambiente tale da non favorire un alto principio attivo. Ho un solo processo in corso, a Siena, per via della distribuzione che feci, platealmente, con Marco Pannella e Laura Arconti, al congresso di Radicali Italiani di due anni fa. Ma non mi arrestarono. Allo stesso modo di quando, da deputata, ne distribuii mezzo chilo davanti Montecitorio. Niente manette, neanche lì. La mia domanda è: perché io non vengo arrestata e incarcerata e tanti giovani invece sì? Questo è sintomo di un atteggiamento vigliacco e ipocrita. In questi giorni è in discussione un progetto di legge alla Camera e non sappiamo ancora come andrà a finire, nonostante il forte impulso a legiferare che sta dando Benedetto Della Vedova. La Direzione Nazionale Antimafia ha dato il suo ok, sostenendo che il proibizionismo arricchisce i mafiosi, e di soldi ne fanno talmente tanti che si stanno comprando il Paese. Per la legge attuale, se uno va ad acquistare la marijuana per uso personale, non avrà il processo. Se uno se la coltiva, perché vuol evitare di ricorrere al mercato nero per alimentare la criminalità organizzata, invece è sottoposto a sanzione penale. In un Paese come il nostro dove, secondo alcuni calcoli, vi sono fino a cinque milioni di consumatori, siamo così sicuri di voler lasciare campo libero alle mafie? Sembra una domanda retorica ma evidentemente, stando all’atteggiamento dello Stato, non lo è. Ma noi vogliamo metterci la faccia fino in fondo, e perciò con l’associazione "Lapiantiamo" siamo pronti, anzi, chiediamo di andare in galera per dimostrare l’assurdità della legge in vigore. Lanciamo una sfida nonviolenta allo Stato e al sistema giudiziario. In attesa che il legislatore dimostri di essere dalla parte dei cittadini e non, piuttosto, delle mafie. E metta fine a questo assurdo protezionismo. Benedetto Della Vedova (Pd): "cannabis, i proibizionisti non hanno argomenti" di Valentina Stella Il Dubbio, 26 luglio 2016 Tutto rimandato a settembre: il voto per la proposta di legge per la legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati avverrà probabilmente alle porte dell’autunno, quando ritornerà all’esame delle Commissioni riunite Giustizia e Affari Sociali per l’esame dei circa 1.700 emendamenti presentati in gran parte dagli alfaniani di Area Popolare. Infatti si è giunti ieri nell’Aula della Camera dei Deputati senza che le Commissioni stesse abbiano dato mandato al relatore di esporre i contenuti della proposta di legge a prima firma Giachetti e redatta dall’intergruppo parlamentare ?cannabis legalè, composto da oltre 200 tra deputati e senatori di diversi schieramenti politici, e voluto fortemente dal sottosegretario agli Esteri e senatore Benedetto della Vedova che abbiamo intervistato a margine della prima discussione in Aula. Come si vince una battaglia politica così difficile? Qualcuno sostiene che non si avranno mai i numeri per l’approvazione. L’aritmetica non è una opinione. Sappiamo che alla Camera occorre la maggioranza dei parlamentari più uno, quindi 316; noi partiamo già da 221 e quindi non è impossibile raggiungere l’obiettivo. Certo è una partita aperta, il nostro scopo è di arrivare al voto con una ottantina di parlamentari che non hanno ancora firmato ma che sono pronti a farlo da qui a settembre. Chi è che non vuole questa legge e perché? Non vuole la legge chi ritiene che sarebbe un messaggio sbagliato e che ci sarebbero rischi. Ma lo status quo significa un consumo di massa che non diminuisce nonostante tutti gli sforzi repressivi e che viene gestito da un mercato criminale, dalla produzione fino alla vendita al dettaglio. A differenza delle ragioni degli antiproibizionisti - dalle iniziative di Marco Pannella negli anni ?70 e poi le disobbedienze civili del ?95 a cui partecipai insieme a lui, fui arrestato, processato e condannato in via definitiva - le ragioni dei proibizionisti sono un po’ evaporate perché il mercato non diminuisce e su di esso non c’è alcun controllo. Secondo l’onorevole Binetti la proposta di legge sarebbe in contrasto con l’art 32 della Costituzione (tutela del diritto alla salute) perché la cannabis provoca eventi avversi sugli individui che l’assumono e soprattutto danni neurologici sui ragazzi. Come replica? Rispondo all’onorevole Binetti dicendo che difendere la situazione attuale significa difendere il consumo che oggi, nel regime proibizionista, i giovani fanno di una cannabis che nessuno controlla. In un regime di legalizzazione e ferrea regolamentazione, come proponiamo noi, sarà più credibile anche il contrasto al consumo da parte dei giovanissimi. E noi abbiamo scritto che una parte dei soldi che arriveranno dalla tassazione della cannabis dovrà essere destinata a campagne di informazione e dissuasione dall’uso di tutte le sostanze, compresa la cannabis. Come giudica l’argomentazione contraria all’approvazione del magistrato Gratteri per il quale il guadagno che si sottrarrebbe alle mafie sarebbe ridicolo? La Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo ha una visione invece diversa: la legalizzazione darebbe un colpo alle mafie, libererebbe anche risorse di polizia per contrare reati di gravissimo allarme sociale. Gratteri dice però anche che se fosse per lui proibirebbe anche alcol e tabacco; quindi secondo me sbaglia ma a suo modo è coerente. Gianni Alemanno ha twittato: "L’Europa è sotto l’attacco del terrorismo e cosa fa il Parlamento italiano? Discute di #cannabislegale Loro sparano noi ci facciamo le canne". Perché il Parlamento deve occuparsi di questa legge? Alle battute di Alemanno non rispondo. Credo che l’Europa sarebbe un posto più sicuro se tutte le forze di polizia e i magistrati oggi impegnati - parlo di decine di migliaia di persone - a reprimere e contrastare il traffico e il consumo di cannabis, potessero rivolgere la loro attenzione al contrasto di altri tipi di reati legati alla criminalità e al terrorismo. Lei nella conferenza stampa che ha preceduto ieri la discussione in Aula ha dichiarato "questo provvedimento non riguarda il Governo e la maggioranza. Ed è bene che resti così". Cosa intendeva? Che è una legge di iniziativa parlamentare e tale deve rimanere. Non c’entra il governo, non c’entra la maggioranza, quindi se Alleanza popolare vuole invece metterli in mezzo credo che sia sbagliato. Antonio Polito sull’inserto Sette del Corriere della Sera ha scritto, riprendendo anche il pensiero di qualche deputato che è intervenuto ieri alla Camera, che in questa legge si "mescola un po’ superficialmente, e anche un po’ per approfittare della pressione delle associazioni dei malati, l’uso della marijuana a scopo ludico e quello a scopo terapeutico. Si tratta di un errore essendo materie molto diverse". Come commenta? Ai colleghi parlamentari che oggi si scoprono tutti a favore della marijuana terapeutica rispondo che mi fa molto piacere. Se erano così convinti della necessità di un intervento per rendere effettivo il diritto all’uso della marijuana terapeutica, nessuno glielo ha impedito nel corso della legislatura. All’obiezione di Antonio Polito rispondo che noi abbiamo un disegno di legge che punta alla legalizzazione e regolamentazione della cannabis e dei suoi derivati in cui abbiamo inserito anche una parte che punta a rendere il diritto alla cannabis terapeutica un diritto effettivamente praticabile per i malati. E comunque una sovrapposizione tra i due usi della cannabis in parte c’è, come dimostrano le esperienze in altri Paesi. Credo che noi abbiamo trovato un buon equilibrio nella nostra proposta. Crede che questa legge sia la migliore possibile o è perfettibile? Credo che questo sia un testo decisamente buono. Poi se qualcuno propone di migliorarlo siamo tutti quanti interessati a migliorarlo ulteriormente. A noi interessa l’obiettivo, non rivendicare a prescindere un testo. Quanto è necessaria una adeguata informazione, soprattutto televisiva, sull’argomento anche in vista del voto di settembre? Credo che sia fondamentale e mi auguro che ci sia. Lei ha sottoscritto la proposta di legge di iniziativa popolare presentata da Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni sempre a favore della legalizzazione della cannabis? Sono iniziative convergenti, come la sensibilizzazione che sul tema della marijuana terapeutica sta facendo Rita Bernardini, che servono fuori dal Parlamento per rendere più efficace la nostra azione parlamentare. Ministro Lorenzin: "la marijuana fa male e ora i bambini sono il nuovo mercato" di Michele Bocci La Repubblica, 26 luglio 2016 "Sono stata il primo ministro della Sanità ad autorizzare l’uso terapeutica della cannabis, ma è una droga e dico no alla sua normalizzazione". Il no alla legge sulla legalizzazione della cannabis lo dà come politico di Ap, il partito più schierato contro il provvedimento arrivato ieri in aula alla Camera, ma soprattutto, ripete più volte nel corso dell’intervista, come ministra alla Sanità. Beatrice Lorenzin, perché è contraria? "Perché la cannabis è droga e fa male. Siamo pieni di studi scientifici che dopo anni di consumo di massa ne sanciscono la pericolosità per la salute. Il mio compito è tutelare la salute degli italiani. Sono contraria ai messaggi banalizzanti specie verso i giovani e questa norma dà un segnale normalizzante riguardo alle droghe. Da anni i consumatori sono ragazzini, il nuovo mercato sono i bambini di 10, 11, 12 anni. Se dopo i social anche il Parlamento dice che la marijuana non fa male e gli adulti la possono usare perché un ragazzino non dovrebbe sentirsi libero di consumarla?". Se la cannabis è dannosa perché è permesso l’uso terapeutico? "Sono stato il primo ministro nella storia della Repubblica ad autorizzare coltivazione e vendita di questa sostanza per fini terapeutici. Presi questa decisione in scienza e coscienza, perché questa droga come altre, oppiacei o derivati dalla cocaina, si può usare in medicina per determinate patologie. A nessuno verrebbe in mente di dire che poiché la morfina è prescritta contro il dolore la si può prendere a casa nel weekend". Quindi la cannabis fa male? "Si, non lo dico io ma scienziati, neurologi, psicologi, farmacologi. Tra i suoi effetti collaterali più comuni ci sono alterazioni dell’umore, insonnia, tachicardia, ansia, sindrome amotivazionale. Crea dipendenza "complessa" e di certe patologie come la schizofrenia peggiora i sintomi. Negli adolescenti le conseguenze sono più rilevanti perché lo sviluppo cerebrale è ancora in corso. Se si usa con bevande alcoliche le conseguenze sono intensificate". Ecco, lei nei giorni scorsi l’ha paragonata all’alcol, che è legale. Cosa risponde a chi le dice che allora dovrebbe vietare pure la birra? "Che mi sembra una provocazione inutile, che non tiene conto della serietà con cui si dovrebbe affrontare una piaga per i giovani. Tra i ragazzi c’è un problema alcol e droga e mi chiedo: Dove vivete, non vedete cosa accade nelle città? Non c’entra nulla con il consumo, durante i pasti e moderato, di vino e birra che fa parte della nostra cultura da millenni. Mi preoccupo per i minori, e per loro l’alcol è vietato. Il modo di bere tra i giovanissimi è cambiato rispetto a soli 15 anni fa: in tantissimi abusano, anche prima della scuola o agli happy hour. L’alcol provoca danni all’organismo e al cervello dei nostri ragazzi ed è responsabile di tanti incidenti stradali. Le leggi le abbiamo fatte, bisogna farle vivere e fare tanta prevenzione". Anche il gioco d’azzardo non fa bene, ma fa incassare tasse. È stato uno sbaglio legalizzarlo? "Il nostro non è uno Stato etico, evidentemente. Ma questo non significa che non si debba fare una lotta vera contro i comportamenti devianti. E infatti è stata vietata la promozione del gioco in tv, tra i minori, online". Secondo tanti, come Roberto Saviano, la legge indebolirà le mafie. Che ne pensa? "Che a suo tempo Paolo Borsellino disse l’esatto contrario, come oggi fa il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. La droga la consumano i giovani, quella prodotta legalmente costerebbe inevitabilmente di più e rimarrebbe il mercato criminale". Nella maggioranza, Ap è l’unico partito tutto schierato per il no. Può essere un problema politico? "La legge ha avuto adesioni ma pure contrarietà trasversali. Il dibattito parlamentare deve esserci e spero sia l’occasione per rimettere la lotta a droga e dipendenze al centro della discussione nella società. Le sostanze devono farci paura: il 70% dei giovani dice di averle usate almeno una volta. Va fatto un grande lavoro culturale e di formazione per allontanare i ragazzi dalle droghe e consegnargli una vita piena e libera". I legali di Schmidheiny negano l’Eternit Bis: "Per noi non è processabile" di Silvana Mossano La Stampa, 26 luglio 2016 Parti divise anche sull’interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale sul "ne bis in idem". Non è che la strada sia automaticamente in discesa per l’Eternit Bis perché, appena sarà fissata la ripresa dell’udienza preliminare, la prima eccezione sollevata dai difensori di Stephan Schmidheiny, Astolfo Di Amato e Carlo Guido Alleva, riguarderà proprio l’interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale sul "ne bis in idem". Sentenza che trova le controparti entrambe soddisfatte. Ma come è possibile, giacché sono controparti e, come tali, anche sull’applicazione di questo principio (significa, lo ripetiamo, che una persona non può essere processata due volte per i medesimi fatti) si sono fronteggiate prima davanti al gup di Torino e poi in Corte Costituzionale, chiamata a dirimere la contrapposizione? Eppure è così: anche i difensori di Schmidheiny sono soddisfatti di come si è pronunciata la Consulta. E non di meno lo sono i pm e i legali delle parti civili. Secondo l’interpretazione di questi ultimi, il pronunciamento della Corte di legittimità dà il via libera a procedere nei confronti dell’imprenditore svizzero, ultimo proprietario in vita di Eternit italiana (chiusa nel 1986), di cui la procura di Torino chiede il rinvio a giudizio per omicidio volontario di 258 vittime dell’amianto. Secondo i difensori dell’imputato, invece, la Corte avrebbe "accolto le ragioni di fondo da noi addotte: se, cioè, ci sono gli stessi fatti, già analizzati in un precedente procedimento, non si può procedere con un altro processo". Quali ricadute per l’Eternit Bis? "Schmidheiny non può essere processato per le vittime già indicate nel primo processo (quello per disastro ambientale doloso, ndr) perché già in quel contesto si sono esaminati la condotta, il nesso causale e l’evento morte". Per le "nuove vittime", l’avvocato richiama la sentenza della Corte d’Appello (che aveva condannato Schmidheiny a 18 anni, ndr): "Afferma l’esistenza di un evento epidemiologico che includeva tutte le vittime presenti, passate e future" dice Di Amato. Pertanto, secondo l’interpretazione difensiva, "la sentenza della Corte Costituzionale è preclusiva anche per le morti successive al primo processo e, purtroppo, pure quelle future". Schmidheiny, dunque, in base a questa tesi, sarebbe inattaccabile per sempre. Torna alla memoria il "fortino" protettivo di cui spesso si parlò specialmente nel primo grado del processo: una sorta di cintura difensiva fatta di dirigenti, legali, manager delle pubbliche relazioni e aggiustatori di immagine che dovevano operare affinché non venisse raggiunto e scalfito il "livello 1". Ovvero, Schmidheiny. Tra i difensori storici di parte civile, però, Sergio Bonetto richiama a sua volta la sentenza della Corte d’Appello di Torino "la quale ribadì che l’Eternit Uno non si è occupato di morti e di patologie". Quindi non dei casi specifici. E l’avvocato Maurizio Riverditi: "Le argomentazioni attuali delle difese di Schmidheiny contraddicono le loro stesse tesi portate in Cassazione, quando lamentarono la mancata disamina delle consulenze tecniche sul nesso causale rispetto ai singoli casi di morte". E la Cassazione come reagì a questa doglianza? La Suprema Corte, a novembre 2014, oltre a dichiarare la prescrizione del maxiprocesso, in sentenza anche alle difese su quel punto "chiarendo - prosegue Riverditi - che il nesso causale e i singoli eventi di morte non sono stati oggetto di accertamento penale nell’Eternit Uno". Quindi, se quegli approfondimenti singoli non ci sono stati (e la stessa difesa ebbe a lagnarsene come di un diritto negato), allora non ci sarebbe ripetizione (ovvero non c’è "bis in idem") circa la disamina complessiva di condotta, nesso causale e morte. Il confronto sul punto non si esaurisce certo a distanza: sarà l’aula a fare da scenario e il gup avrà la responsabilità di districare la contrapposizione. Non si può che attendere la fissazione della data a Torino. Viola la Cedu privare un detenuto, in modo automatico, del diritto di elettorato di Alessio Scarcella (Consigliere Corte Cassazione) quotidianogiuridico.it, 26 luglio 2016 Pronunciandosi su un caso "bulgaro" in cui si discuteva del divieto previsto per i detenuti dalla legge costituzionale di esercitare il diritto di voto, la Corte di Strasburgo ha, all’unanimità, ritenuto violato l’articolo 3 del Protocollo n ° 1 (diritto a libere elezioni) della Convenzione europea dei Diritti umani, escludendo invece la violazione dell’articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo). In particolare, la Corte ha confermato con la sua decisione la precedente giurisprudenza, secondo cui una generale, automatica e indiscriminata limitazione del diritto di voto per i detenuti è sproporzionata quale che sia lo scopo legittimo perseguito. Sul diritto all’oblio serve la voce delle Sezioni unite di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2016 Cosa accadrebbe se improvvisamente la nostra memoria, con procedura selettiva, cancellasse tutti i ricordi tristi o spiacevoli, consentendoci di rammentare solo gli avvenimenti lieti e quelli risalenti a non oltre due anni e mezzo addietro? È quello che potrebbe accadere alla memoria collettiva, rappresentata dagli archivi di giornali e televisioni, se la sentenza della I Sezione civile della Cassazione, che ha confermato quella del Tribunale sul "diritto all’oblio", non verrà "cancellata" da un improcrastinabile intervento delle Sezioni Unite, che finalmente fissi i criteri necessari a contemperare il diritto a essere dimenticati con il diritto a ricordare. La vicenda è nota: un ristoratore, nel cui locale si era verificata una rissa con accoltellamento, aveva chiesto a un giornale on line locale la rimozione delle pagine web, contenenti l’articolo che ne aveva dato notizia, nonostante il fatto risalisse ad appena due anni e mezzo addietro e il processo fosse ancora in corso. Il titolare del sito aveva, perciò, respinto la richiesta ma, nelle more del procedimento, instaurato dall’interessato, aveva deciso di cancellare l’articolo. Il Tribunale ha ugualmente valutato la domanda, anche se solo per la liquidazione delle spese, riconoscendo la legittimità della pubblicazione e la prevalenza del diritto di cronaca, per un tempo non superiore, però, a quello necessario a raggiungere lo scopo informativo, che ha considerato validamente decorso, passati appena diciotto mesi, esattamente quelli intercorsi fra la pubblicazione dell’articolo e la diffida a rimuoverlo. La Cassazione si è limitata a confermare in toto la sentenza, con una motivazione che, visti gli interessi in gioco e le prevedibili conseguenze, avrebbe meritato almeno qualche parola in più: sono aumentate, infatti ed in modo considerevole, le richieste di rimozione, che richiamano proprio tale decisione che, per la sua laconicità, le alimenta. Com’è noto, nel nostro ordinamento non esiste un diritto all’oblio, al punto che l’articolo 17 del Regolamento europeo 2016/679, relativo al trattamento dei dati personali, si occupa del "diritto alla cancellazione (diritto all’oblio)" e lo inibisce ove il trattamento sia necessario all’esercizio del diritto alla libertà d’espressione e di informazione o ai fini di archiviazione nel pubblico interesse. E tuttavia, tale precisa scelta non sembra aver condizionato la sentenza, che non ha tenuto alcun conto dell’attualità del fatto, derivante dalla pendenza del processo. Il diritto all’oblio, così, finisce per rimanere disancorato da uno dei suoi capisaldi, la definitiva conclusione della vicenda, che ne fa venir meno, nel tempo, l’interesse pubblico. Ma c’è di più, perché la struttura tranciante della motivazione tralascia di considerare anche gli altri criteri, fin qui applicati, per valutare le singole richieste, quali la natura delle notizie, alcune delle quali, per la loro rilevanza, non perdono mai di interesse e non dovrebbero, perciò, essere cancellate dalla memoria collettiva; o il ruolo pubblico del protagonista che consente, ove addirittura non imponga, la conservazione delle informazioni che lo riguardano; o il ricorso ai rimedi intermedi, dall’aggiornamento alla deindicizzazione, adottati per contemperare appunto le esigenze contrapposte. Certo le regole ci vogliono e sono state anche individuate dal Garante della privacy, che di recente ha ritenuto legittimo il rifiuto di cancellare le pagine web che si occupavano di un ex terrorista, poiché il diritto all’oblio incontra un limite quando riguarda crimini di particolare gravità. Per converso, la sentenza sembra "disegnare" il diritto assoluto di esigere la cancellazione di qualunque notizia scomoda, anche non datata, esercitando il quale anche personaggi noti alle cronache e non come benefattori potranno rivendicare una verginità mediatica che l’appiattimento miope su principi rigidi potrebbe ridar loro. Le conseguenze di un’indiscriminata rimozione delle pagine web a richiesta finirebbe per privare chi vuole informarsi dello strumento principale, il ricorso ai motori di ricerca collegati a siti sorgente, che potrebbero rapidamente essere svuotati della gran parte dei loro contenuti. Sardegna: Comunità di accoglienza per i detenuti, la Regione stanzia 200mila euro Agi, 26 luglio 2016 La Giunta regionale ha approvato un Fondo, finanziato con 200mila euro, per le comunità per l’accoglienza di giovani adulti e adulti sottoposti a misure restrittive della libertà personale. Con un protocollo d’intesa col tribunale di sorveglianza sarà valutato il fabbisogno per l’inclusione sociale dei detenuti. Associazioni e cooperative sociali che gestiscono questo tipo di comunità saranno invitate a esprimere manifestazioni d’interesse. Sempre su proposta dell’assessore della Sanità Luigi Arru, l’esecutivo ha approvato il regolamento per le strutture residenziali integrate e lo stanziamento di 2,5 milioni di euro per la sanità penitenziaria: copriranno i costi gestionali per il 2016 e tengono conto delle risorse assegnate dallo Stato per le annualità 2013-2015. Infine, la Giunta ha approvato il riparto 2015-2017 delle risorse per le Asl. Sicilia: lettera aperta ai deputati regionali "nelle carceri diritti violati" siciliainformazioni.com, 26 luglio 2016 Il governo della Regione siciliana non si è occupato della condizione dei detenuti nelle carceri. Lo prova il fatto che per tre anni il Presidente della Regione ha disatteso l’applicazione di una legge che gli imponeva di nominare il Garante. Le critiche mosse all’esecutivo provengono dal Comitato "Esistono i Diritti", che ha inviato ai deputati regionali siciliani una lettera aperta, "affinché chiedano, avendone il potere, al Presidente Rosario Crocetta di presentarsi, con urgenza, in Aula per riferire al Parlamento siciliano sulla perdurante e reiterata negazione dei diritti umani dei cittadini detenuti che abbiamo il diritto/ dovere di rieducare e reinserire nella società, secondo il dettato di quella nostra Costituzione che, ogni giorno viene vilipeso." "Nell’anno 2005, si ricorda nella lettera aperta inviata ai parlamentari siciliani, la Regione Siciliana istituiva la figura del Garante per la tutela dei diritti dei detenuti e per il loro reinserimento sociale, art. 33 della legge regionale n°5 del 19 maggio. Successivamente, l’art. 33, comma 2, della legge regionale del maggio 2012, fu integrato e modificato dall’art. 23, commi 4 e 5, della legge regionale del 22 dicembre 2005 n° 19. In virtù di detta modifica, fu demandato al Presidente della Regione, di nominare per decreto il Garante per la tutela dei diritti dei detenuti. Sino al 16 settembre 20013, le funzioni del Garante, fissata per legge in sette anni, furono svolte dal dott. Salvatore Fleres. A quel punto, era compito/dovere proprio del Presidente della Regione, pertanto, nominare altro garante, secondo i parametri indicati dalla legge. Invece, il Presidente della Regione, disattendendo ad un dovere impostogli dalla legge istitutiva dell’ufficio del Garante non ha ritenuto, inspiegabilmente, di procedere ad una nuova nomina per ben tre lunghi anni, durante i quali non c’era il Garante, ma il suo Ufficio ha continuato ad esistere, con le sue sedi di Palermo e Catania, con oltre 10 dipendenti, tra dirigente, funzionari, istruttori, assistenti, che malgrado obbligati all’inerzia, hanno continuato a percepire gli stipendi, senza potere adempiere ai loro compiti, arrivando all’assurdo di non potere neanche aprire la corrispondenza che arrivava dalle carceri all’indirizzo del Garante, né potuto visitare le carceri, in mancanza dell’unico titolare dell’Ufficio che potesse autorizzare e delegare. "Tale situazione di "vacatio", oltre a vanificare i principi propri della legge, istituita a garanzia e tutela dei diritti umani delle " persone" detenute, la loro qualità della vita, il diritto alla salute ed infine il loro reinserimento sociale, ha creato un gravissimo danno economico alla Regione Siciliana, come hanno denunciato i Radicali siciliani, presentando un esposto presso la Corte dei Conti di Palermo, in data 20 gennaio 2014, ed il Comitato " Esistono i Diritti" che ha invitato, più volte, il Presidente a procedere ad una nuova nomina. "Tutto questo avveniva nel silenzio più totale del Parlamento siciliano, in spregio alla legge e ai diritti umani dei detenuti. Questa era la situazione sino al 13 aprile 2016, data in cui, inaspettatamente, il Presidente Crocetta firmava il nuovo decreto per nominare il prof. Giovanni Fiandaca nuovo garante dei diritti dei detenuti, facendo rientrare la Regione Sicilia, da lui rappresentata, e l’intera Assemblea nell’alveo della legalità. "Sono passati, ben, tre mesi dall’insediamento del nuovo garante che, per storia e valore giuridico, ci aveva fatto sperare in un approccio positivo, dopo tre anni di " distrazione" da parte dell’Istituzione ma, i tragici avvenimenti delle ultime settimane: il suicidio di due detenuti a Palermo, il suicidio di un giovane detenuto presso la struttura detentiva psichiatrica giudiziaria (Opg) di Barcellona. Pozzo di Gotto, lo sciopero della fame dei detenuti di Palermo che lottano per il diritto alla salute, garantito dalla nostra Costituzione, per la dignità di potere usufruire dell’acqua per l’igiene personale, ci fanno ricordare che, nonostante l’Italia sia il Paese di Beccaria, nulla o poco sia cambiato dalla condanna che la Corte Europea di Strasburgo ha inflitto al nostro Paese per il trattamento inumano dei detenuti. "Tra tutti gli accadimenti delle ultime settimane, il suicidio del giovane detenuto all’interno della struttura penitenziaria psichiatrica giudiziaria di Barcellona Pozzo di Gotto, riteniamo meriti un’attenzione particolare ed un’attenta riflessione, malgrado tutti suicidi rappresentino una sconfitta per lo Stato, perché si trattava del suicidio di un giovane detenuto che non avrebbe dovuto essere ospite dell’OPG, non essendo gravato da pericolosità sociale ed essendo affetto da lieve disturbo comportamentale e che, quindi, avrebbe dovuto essere trasferito in una REMS, cioè in una struttura alternativa, così come detta il decreto legge del 31 marzo 2014 n° 52, convertito con modificazioni dalla legge 30 maggio, n° 81 del 2014, che rappresenta l’ultimo tassello legislativo della chiusura degli OPG, anzi il " completamento del superamento degli OPG". Il decreto legge, tra le altre cose prevedeva: - la proroga al 31 marzo 2015 del termine ultimo per la chiusura degli OPG e della conseguente entrata in vigore delle REMS. - l’applicazione in via residuale, della detenzione in OPG, nell’eventualità risultasse la sola misura idonea in presenza di pericolosità sociale. Ci rendiamo conto che questo processo di chiusura delle OPG sarà lungo e laborioso, tanto che le regioni hanno chiesto una proroga di alcuni anni, oltre il termine ultimo del 31 marzo 2015, ma siamo esterrefatti che, ancora, ci siano dei detenuti, non socialmente pericolosi che siano detenuti nelle OPG e non siano stati trasferiti nelle due REMS già predisposte dall’ Assessore alla Salute, Lucia Borsellino, in data 27 marzo 2015. Quali criteri e priorità sono stati seguiti nel trasferimento dei 100 detenuti delle OPG, rispetto ai 40 posti disponibili? Quanto tempo la Regione intende impiegare per chiudere definitivamente gli OPG? "Ci chiediamo cosa possa avere provato un uomo privato della sua libertà e, cosa ancora più grave detenuto in una struttura psichiatrica, molto simile a quelle che un tempo furono i manicomi criminali. Ci chiediamo se le relazioni degli psichiatri in servizio nella struttura OPG di Barcellona Pozzo di Gotto abbiano evidenziato l’aggravarsi della sua depressione e se abbiano sottolineato la necessità di una sorveglianza h24. "Tante sono le domande che chiunque abbia a cuore i diritti umani, si pone. Noi, come comitato " Esistono i Diritti" ci poniamo queste domande e le porgiamo a Voi, signori Deputati, che rappresentate il Popolo siciliano, già gravato da tante negazioni dei diritti umani e civili e che, siamo sicuri, auspichino che le leggi promulgate dal nostro Parlamento non rimangano mera dichiarazione di intenti e demagogiche affermazioni. Il nostro è il Parlamento più antico d’Italia è merita dei rappresentanti attenti e sensibili alle problematiche degli "ultimi". Per queste ragioni, pensiamo che sia venuto il momento che il Presidente Rosario Crocetta si presenti in Aula per riferire sulla grave situazione delle carceri siciliane. Come comitato Esistono i Diritti", quindi, ci appelliamo a Voi, affinché chiediate, con urgenza, al Presidente Crocetta, avendone il potere di venire a riferire nel Parlamento Siciliano. Per il Comitato "Esistono i Diritti" Gaetano D’Amico, Rossana Tessitore e Alberto Mangano Padova: i familiari chiedono verità e giustizia per la morte di Mauro Guerra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2016 Venerdì prossimo 29 luglio, in occasione del primo anno dall’uccisione di Mauro Guerra, ci sarà una messa, un convegno e poi una fiaccolata per ricordarlo. Durante il convegno saranno trasmessi i video messaggi del senatore Luigi Manconi, presidente della commissione dei diritti umani del Senato e di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Interverranno il consigliere comunale padovano Giuliano Altavilla e Ilaria Cucchi, Lucia Uva, i familiari, gli amici e gli avvocati di Mauro. Contemporaneamente sarà allestita una mostra con i quadri di Mauro Guerra. Sì perché Mauro, 32enne di Carmignano di Sant’Urbano, laureato in Economia aziendale, dipendente di uno studio commercialista di Monselice, buttafuori per arrotondare in un locale di lap dance, aveva anche la passione di dipingere. E proprio quel terribile 29 luglio di un anno fa, Mauro era all’interno della sua casa a dipingere uno dei suoi quadri quando due carabinieri gli avevano chiesto di seguirli in caserma, distante pochi metri dalla sua abitazione. Il motivo ancora non si conosce, anche se all’epoca i giornali locali parlavano di un Tso, il trattamento sanitario obbligatorio. Nella realtà dei fatti nessuno lo aveva disposto. L’unica cosa che si sa è che dopo mezzora, Mauro Guerra scappa dalla caserma e corre verso casa inseguito dapprima da due carabinieri che poi diventano sempre di più. Alla fine sono dieci i militari che irrompono all’interno della sua abitazione e ci rimangono diverse ora con l’intento di convincere Mauro a salire inspiegabilmente sull’ambulanza già pronta per ricoverarlo. A quel punto finge di accettare, fa finta di raggiungere l’ambulanza ma poi ricomincia a scappare verso i campi del paese. Inizia il dramma. I carabinieri lo inseguono e uno riesce a raggiungerlo riuscendo a chiudergli l’anello della manetta intorno al polso. Mauro, completamente disarmato, riesce a colpire il militare per divincolarsi e proseguire la sua fuga. La situazione si complica e nasce la tragedia. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il comandante di stazione, il maresciallo Marco Pegoraro, insediato appena tre mesi prima nel comando, avrebbe voluto salvare il carabiniere dall’aggressione e quindi avrebbe prima sparato due colpi in aria e poi uno al fianco che avrebbe causato la morte di Mauro. In realtà c’erano dei testimoni. I familiari, il giorno dopo la tragedia, lo hanno riferito immediatamente, con una telefonata al numero verde di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa: "Abbiamo la testimonianza di diverse persone che erano lì - aveva raccontato una parente al telefono - i carabinieri hanno la loro versione ma noi abbiamo i testimoni. Mauro era stato bloccato, già gli era stata infilata una delle manette ma il carabiniere lo avrebbe aggredito e lui ha reagito. Non so cosa gli abbia detto ma è vero che Mauro lo ha colpito, due-tre pugni, non so. Così si è divincolato, si è girato ed è andato via quasi camminando? camminava? ma gli hanno sparato alle spalle. E gli altri carabinieri, che erano a cento metri, quando sono arrivati, hanno continuato a prenderlo a calci quando già era a terra!". Dalla ricostruzione della vicenda, la storia si fa ancora più inquietante: nessuno avrebbe verificato i parametri vitali, nessuno avrebbe permesso ai familiari, che pure erano presenti durante le tre ore di assedio della loro casa, di avvicinarsi, e ancora non sappiamo a che ora l’uomo abbia esalato l’ultimo respiro. La procura ha aperto un fascicolo, sono stati sentiti alcuni testimoni ed effettuati degli accertamenti, tra cui l’esame autoptico e la perizia balistica. L’unica cosa certa è che Mauro Guerra, completamente disarmato, scalzo e in mutande, è morto a causa di un colpo di pistola da parte del maresciallo e da una distanza non inferiore ai 50cm ma non superiore ai 5 metri e il proiettile lo ha trafitto all’addome. Dalle stesse indagini effettuate dai carabinieri, si viene a sapere che il proiettile è entrato dal basso verso l’alto e, grazie ad un esame tossicologico, Mauro risulta negativo a ogni tipo di sostanza stupefacente. Sappiamo anche che tempo fa il pm aveva chiesto una proroga delle indagini. Ma allo stato attuale non si ha la certezza che il processo ci sarà. I promotori del convegno richiedono con forza verità e giustizia per Mauro Guerra, che si faccia chiarezza sulla vicenda, ma all’interno di un’aula di tribunale. Temono, però, che ci sia il rischio molto concreto che per la morte di Mauro venga chiesta l’archiviazione. Parma: reato di tortura, il Garante di firma l’appello al presidente Mattarella parmatoday.it, 26 luglio 2016 Appello dei Garanti dei Detenuto al presidente della Repubblica Matterella dopo il rinvio in Commissione, del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura in Italia. "Incomprensibile e ingiustificabile è il rinvio in commissione del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura alla sua terza lettura parlamentare. Facciamo appello al Presidente della Repubblica affinché faccia valere la sua autorevolezza e le sue responsabilità istituzionali nei confronti della comunità internazionale che da decenni ci chiede l’adempimento di un preciso impegno assunto con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma già presente ai Costituenti, quando vi fecero riferimento nell’unico obbligo di punire previsto dalla nostra Carta fondamentale (art. 13, co. 4: "È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà"). L’ennesimo insabbiamento del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura equivarrebbe a un messaggio di impunità verso pratiche violente, offensivo nei confronti della grande maggioranza degli appartenenti alle forze di polizia che ben conoscono i fini e i limiti del loro agire. Di fronte alle inquietudini che stanno mettendo a dura prova il diritto internazionale dei diritti umani e i fondamenti delle democrazie liberali, la Repubblica Italiana non può permettersi di subire nuove condanne dalla Corte europea dei diritti umani e di essere sanzionata in sede internazionale per via delle inadempienze parlamentari. Quando una chiara assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche sarà stata presa, non sarà difficile individuare nel testo della Convenzione ONU o in quello recente approvato da Papa Francesco per lo Stato del Vaticano la soluzione più idonea alla formulazione del reato di tortura. Come Garanti delle persone private della libertà, conosciamo la sofferenza con cui le persone detenute affrontano condizioni di detenzione rese intollerabili dal caldo, dall’affollamento e dalla mancanza di risorse. Solo la fiducia nello Stato di diritto, nelle sue istituzioni e nel rispetto dei diritti fondamentali consentono di mantenere un filo di speranza e di garantire un governo pacifico delle nostre carceri. Questa fiducia non può essere disattesa dalle istituzioni repubblicane. Hanno sottoscritto i Garanti dei detenuti: Anastasia Stefano, Garante Regioni Umbria e Lazio, Battistuta Maurizio, Garante del Comune di Udine, Berti Franca, Garante Comune di Bolzano, Cavalieri Roberto, Garante Comune di Parma, Corleone Franco, Garante Regione Toscana, De Giovanni Rosanna, Garante Comune di Fossano, Dossoni Mario, Garante Comune di Sassari, Gallo Monica, Garante Comune di Torino, Laganà Elisabetta, Garante Comune di Bologna, Marighelli Marcello, Garante Comune e Provincia di Ferrara, Mellano Bruno, Garante Regione Piemonte, Michelizza Armando, Garante Comune Ivrea, Naldi Alessandra, Garante Comune di Milano, Oppo Gianfranco,, Garante Comune di Nuoro, Petrini Davide, Garante Comune di Alessandria, Ravagnani Luisa, Garante Comune di Brescia, Roveredo Pino, Garante Regione Friuli V. G. Santoro Emilio Ass.ne "Altro Diritto", Garante Comune di San Gimignano Siviglia Agostino, Garante Comune di Reggio Calabria Solimano Marco, Garante Comune di Livorno Bellinello Giulia Elisa, Garante Comune di Rovigo Cellamaro Anna, Garante Comune di Asti Chiotti Bruna, Garante Comune di Saluzzo Flaibani Roswitha, Garante Comune di Vercelli Forestan Margherita, Garante Comune di Verona Jahier Vanna, Garante Provincia Di Pavia Magistrini Silvia, Garante Comune di Verbania Prandi Alessandro, Garante Comune di Alba Sonia Caronni Sonia, Garante Comune di Biella Toccafondi Ione, Garante Comune di Prato Tretola Mario, Garante Comune di Cuneo. Firenze: protesta delle detenute di Sollicciano "agenti assenti per più di tre ore" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2016 Quando un detenuto protesta viene punito senza aver ascoltato la sua ragione. È quello che ha denunciato Eros Cruccolini, garante dei detenuti di Firenze, diffondendo un comunicato di alcune detenute recluse nel carcere di Sollicciano. Il garante fa anche sapere che invierà il documento al presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. "Nel comunicato - spiega Cruccolini - è stato oscurato il nominativo della persona per ragioni di privacy. Si parla di una inadempienza grave che si è verificata il 26 giugno scorso. Devo comunque commentare che ciò che succede in carcere è originale e allo stesso tempo ripetitivo, non dando nessun segno di cambiamento: infatti tre ragazze per le loro proteste hanno ricevuto un provvedimento disciplinare che consiste nell’esclusione per 15 giorni dalle attività in comune, senza ricevere nessuna spiegazione sulle motivazioni. Mi immagino comunque che abbiano protestato più di altre rispetto a ciò che era successo: la mancanza di agenti per un periodo molto lungo in un momento di sicura emergenza, visto che una ragazza aveva compiuto un atto di autolesionismo e molte celle erano chiuse, tenendo conto inoltre che altre 4 ragazze si sono fatte visitare e sono state riscontrate loro contusioni con prognosi di 2 o 3 giorni". "A questo punto ? conclude ? auspichiamo che in tempi brevi si conoscano le motivazioni dell’assenza del personale in sezione, poiché questo genera insicurezza nei detenuti, e se la ricostruzione del fatto descritto dalle ragazze corrisponderà vediamo quali provvedimenti saranno adottati". Il garante dei detenuti di Firenze ha spiegato che nel reparto femminile di Sollicciano le recluse sono state lasciate senza agenti penitenziari per tre ore consecutive. Ad aggravare la situazione, sarebbe stato il fatto che una detenuta "ha cominciato a innervosirsi fino a compiere un atto di autolesionismo". Una situazione, che secondo Cruccolini, avrebbe potuto avere ripercussioni ben più gravi. "È impensabile lasciare sguarnito di agenti un reparto per tre ore di fila". A Sollicciano attualmente sono recluse 66 donne per un totale di 691 detenuti. La capienza regolamentare però è di 495 posti. Un sovraffollamento che riguarda anche il resto delle carceri italiane. Roma: il 27 luglio a Ladispoli esposizione dei manufatti dei detenuti di Regina Coeli terzobinario.it, 26 luglio 2016 Questa è la storia di uomini come noi che nella vita hanno commesso degli sbagli enormi per i quali ora stanno scontando una pena tanto grande da desiderare la rivalsa e il cambiamento radicale della propria coscienza, semplicemente perché ribaltare le abitudini è possibile se nel cuore di ognuno cominciano a maturare volontà e aspirazioni. È il racconto dei detenuti della VI sezione della Casa Circondariale di Regina Coeli di Roma, uomini che con determinazione e impegno nati da penitenze e prese di coscienza, hanno realizzato dei piccoli manufatti con l’inarrestabile aiuto di donne come Angiolina Freda, magistrato in pensione che ha dedicato la sua vita alla giustizia e alla solidarietà, e uomini che hanno creduto nel loro possibile cambiamento, perché ognuno di noi commette degli errori ma tutti devono avere la possibilità di mostrare al mondo la rinascita e ricevere fiducia, affinché questa possa poi essere restituita nel migliore dei modi. Cambiare è possibile ma crediamo fermamente sia compito di ognuno accogliere le perpetranti richieste d’aiuto dei più deboli, i derisi, gli ultimi, affinché un semplice grido raccolto possa diventare seme per frutti sempre più dolci. Il Colorificio Spennellando di Ladispoli ha voluto accogliere le urla silenziose di peccatori, esseri umani che dopo molti errori hanno deciso di intraprendere un percorso diverso, un pellegrinaggio che sta dando una svolta radicale non solo alla loro coscienza, ma anche alla vita di coloro che hanno il piacere di aiutarli. Mai giudicare un nostro simile, piuttosto accompagnarlo nel suo frastagliato ma volenteroso percorso di rinascita. Gli incredibili lavori realizzati dai detenuti di Regina Coeli potranno essere visionati all’interno del punto vendita situato in Via Nino Bixio 8/10 (Zona Claudia, Ladispoli) a partire da Mercoledì 27 Luglio 2016, giorno in cui alle ore 17 ci sarà l’inaugurazione. I manufatti potranno essere acquistati versando, a buon cuore, una piccola offerta. Il ricavato delle vendite sarà poi restituito agli autori dei lavori artigianali. Monza: "Parole oltre i muri", i detenuti compongono un album hip hop di Paolo Signorelli lultimaribattuta.it, 26 luglio 2016 Il carcere serve per la riabilitazione del detenuto, così che, una volta scontata la pena (breve o lunga che sia), possa essere reinserito nella società. Guardando le prigioni italiane, le condizioni fatiscenti in cui si trovano, nella maggior parte dei casi, questa é pura utopia. Non dappertutto però. A Monza, per esempio, un gruppo di detenuti ha composto e realizzato un album hip hop all’interno della struttura che sta riscuotendo un successo in credibile. Si chiama "Parole oltre i muri" ed è già disponile on line all’indirizzo bit.ly/ParoleOltreIMuriAlbum. Tantissime le condivisioni e gli apprezzamenti. Nove brani rap nati e cantati direttamente nel carcere di Monza, con l’obiettivo di lanciare un messaggio agli altri detenuti, per aiutarli ad inventarsi un futuro diverso. Di speranza, nonostante le sbarre e la privazione della libertà per un errore commesso. "Gli errori sono stati incatenati barricati/ si viene sempre e solo giudicati e condannati/ i pregiudizi della gente/ mi lasciano totalmente indifferente", gridano i detenuti nella canzone "Gli Errori", che è una delle nove tracce ascoltabili dell’album autoprodotto. I "galeotti-cantanti" sono stati seguiti durante tutto il loro percorso dal rapper Kiave. "Sono stato sempre convinto che ogni uomo abbia diritto a una seconda opportunità. L’Hip Hop l’ha data a me e ora io cerco solo di trasmettere quello che questa cultura è destinata a fare: proiettare le persone verso qualcosa di più, di migliore". Una bella storia sicuramente, visto soprattutto le notizie negative di cronaca quasi quotidiana che arrivano dalle carceri italiane. Radio Carcere: i bambini detenuti e le false promesse del ministro Orlando Ristretti Orizzonti, 26 luglio 2016 "Entro l’anno nessun bambino sarà detenuto" (era il 21 luglio del 2015 e nulla è cambiato!). La testimonianza di Gabriella che ha vissuto la detenzione con suo figlio. A seguire le lettere dalle carceri. Link: https://www.radioradicale.it/scheda/482013/radio-carcere-i-bambini-detenuti-le-false-promesse-del-ministro-orlando-entro-lanno Spaesati e deboli, noi europei e la paura del declino di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 26 luglio 2016 Si è formata nella gente comune l’idea di una crisi di civiltà, alla quale ha contribuito il constatare la scomparsa progressiva di ideali ambiti all’orizzonte dell’Occidente. La serie di attentati che sta colpendo i Paesi del vecchio continente ancor di più rafforza lo stato d’animo di sfiducia e di angoscia che si è insediato da tempo nelle opinioni pubbliche europee. Ognuno di quegli attentati consolida l’idea che bisogna "fare qualcosa", qualcosa di realmente efficace, reagire in qualche modo. Ma ogni volta è giocoforza constatare che nessuno sa indicare veramente che cosa si possa fare, e come. Tanto meno lo sanno i governi e i partiti che li sostengono, i quali appaiono sempre più destinati a perdere in tal modo autorevolezza e consensi. Cresce così ogni giorno quel sentire venato di angoscia e nutrito dall’impotenza che ormai si sente spirare un po’ dappertutto in Europa. Il sentimento della nostra decadenza, di una vera e propria crisi di civiltà. Nutrito potentemente dall’idea - o forse bisognerebbe dire dalla consapevolezza? - che una lunga fase felice della nostra storia si è chiusa per sempre e che ne è iniziata una di segno contrario: caratterizzata dalla dissoluzione dei precedenti equilibri mondiali favorevoli, dalla progressiva perdita da parte delle nostre società di una messe vastissima di opportunità preziose, dal subitaneo tramonto di convinzioni, di abitudini, di modelli di relazioni interpersonali più che degni e per l’innanzi radicatissimi Sempre più andiamo familiarizzandoci con l’idea di vivere un’epoca di sconfitta e di ripiegamento, di declino. Che non a caso è innanzi tutto un inquietante declino demografico: come se ci stesse venendo meno perfino la volontà biologica di avere un futuro. Qualcosa, insomma, che assomiglia, come dicevo, a una vera e propria complessiva crisi di civiltà. Dopo il 1989 e la fine dell’Unione Sovietica la storia si è rimessa in moto a un ritmo che nessuno immaginava così impetuoso. Nel vicino e medio Oriente, dal Bosforo all’Atlante, dal Kharakorum a Bassora, sta rapidamente venendo meno l’ultima parte che ancora resisteva della vecchia sistemazione territoriale della Pace di Versailles - quella voluta a suo tempo dai franco-inglesi e poi ereditata dagli americani - ratificando un vuoto di potere mondiale, non proprio a noi propizio. Che ha il suo simbolo nelle ritirate e nelle sconfitte strategiche Usa dell’ultimo quindicennio. In tutt’altro campo, un trentennio di crescita debole e di salari stagnanti in Europa e non solo, accompagnati da una prolungata contrazione dovunque della spesa sociale, ci stanno conducendo a dubitare sempre di più dell’antico sogno democratico. Ritornano massicciamente tra noi antiche povertà e antiche diseguaglianze, fratture e rancori antichi. Mentre i sistemi politici delle nostre società appaiono sconvolti dalle conseguenze di quanto ho appena detto e dagli effetti della globalizzazione pseudoliberista: con i poveri, le vittime del disagio sociale, e parti massicce della classe operaia che votano per la Destra, e invece la Sinistra che sempre più si qualifica come il partito delle élite mondializzate, colte, moderniste e agiate. Anche il quadro ideale cui eravamo abituati, l’insieme dei valori e delle istituzioni deputati a incarnarli e preservarli, gli orizzonti culturali che ci erano consueti, appaiono sconvolti e in buona parte annichiliti. La pervasività dei media elettronici, con il conseguente declino della scrittura; la perdita di capacità formativa da parte dell’istruzione scolastica, non più custode come un tempo di alcun legame con il passato; infine la secolarizzazione, intrecciata a un sempre crescente individualismo frantumatore di ogni legame a cominciare da quello familiare: sono questi fattori che disegnano un orizzonte in cui una parte non piccola (forse maggioritaria) della popolazione dell’Occidente euro-americano fatica sempre di più a riconoscersi. Accade, tra l’altro, che una popolazione sempre più composta di anziani - quindi per forza di cose legata a costumi antichi - sia sospinta invece, inesorabilmente quanto paradossalmente, verso abitudini, valori, modelli di rapporti umani e stili di vita nuovi, nuovissimi (penso ad esempio a quanto sta accadendo nella sfera della vita sessuale) per essa inediti ed estranei, i quali richiedono un adattamento e un abbandono del proprio retaggio personale spesso penosi, non poche volte impossibili. Chi può dire il senso di frattura, di spaesamento, che tutto questo produce? Il malessere che scava come un tarlo nello spirito pubblico, e magari è destinato a toccare livelli esplosivi quando vi si aggiunge con il fenomeno dell’immigrazione l’arrivo di genti sconosciute? È un senso di frattura rispetto al passato, di spaesamento, di non essere più padroni in casa propria, che confluisce e a propria volta alimenta l’impressione di perdita, di declino e di crisi di cui dicevo prima. Come se la storia, dopo avere per tanto tempo lavorato a nostro favore, lavorasse ormai contro di noi. Nasce da qui, da questi stati d’animo, la difficoltà psicologica di credere nel futuro, di aprirsi ad esso, di cominciare a costruirne uno. Ci sentiamo delle società vecchie, prive di energia. Alle quali proprio mentre questo sentimento di sfiducia nell’avvenire andava prendendo piede e divenendo dominante, dall’alto, dalle classi dirigenti, paradossalmente non ci sono venuti altro in tutti questi anni che inviti a cambiare. Dal suono sempre più insulso nella loro astrattezza, dal momento che erano proprio i cambiamenti fin lì intervenuti a fare paura, a essere visti con crescente inquietudine. È in questo modo che si è creata in molti l’idea di un incombente destino di decadenza, di una crisi di civiltà. Un’idea alla quale ha dato un contributo decisivo - io credo, e lo dico sapendo di dire qualcosa che a certe orecchie suona blasfemo - il constatare da parte della gente comune, dell’uomo della strada, come stessero progressivamente scomparendo dall’orizzonte del pensiero politico dell’Occidente e dalla sua azione concreta, ambiti ideali, dimensioni e modalità pratiche che non solo ne avevano caratterizzato la secolare esistenza, ma ne avevano altresì assicurato un successo così rilevante. Fatti oggetto a vario titolo, negli ultimi trent’anni (ma naturalmente tutto è cominciato assai prima), di una delegittimazione ideologico-culturale sempre più penetrante, l’impiego della forza, la dimensione dello Stato, e il Cristianesimo, più in generale il nesso religione-società, sono stati messi più o meno del tutto fuori gioco. In certo senso sono virtualmente - e agli occhi di molti "semplici", sospetto, inspiegabilmente - scomparsi dall’orizzonte sia pubblico che privato. È stata per gran parte l’opera di élite superficialmente progressiste, di debolissima cultura storica e politica, succubi delle mode, le quali hanno così creato un vuoto culturale e sociale enorme. Quel vuoto che da tempo forze torbidamente eterogenee hanno facilità a cercare di riempire con le loro ricette il più delle volte improbabili ma dalla presa emotiva potenzialmente sempre più forte. Intervista a Zygmunt Bauman: "le risposte ai demoni che ci perseguitano" di Davide Casati Corriere della Sera, 26 luglio 2016 Alle radici dell’insicurezza che attanaglia la società europea con la riflessione del sociologo e filosofo polacco. "Attenzione al fascino pericoloso di uomini forti". Quella a cui stiamo assistendo - in modo così prossimo e sconvolgente, nelle ultime settimane - è un’epoca segnata "dalla paura e dall’incertezza. E non bisogna illudersi: i demoni che ci perseguitano non evaporeranno". Anche perché - spiega il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, uno dei grandi pensatori della sfuggente modernità in cui viviamo - la loro origine ha a che fare con gli stessi elementi costitutivi della nostra società e delle nostre vite. Professor Bauman, di fronte alla catena di attacchi di questi giorni, l’Europa si trova a fare i conti con un abisso di paura e di insicurezza. Quali risposte possono colmarlo? "Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale. La paura generata da questa situazione di insicurezza, in un mondo soggetto ai capricci di poteri economici deregolamentati e senza controlli politici, aumenta, si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite. E quella paura cerca un obiettivo su cui concentrarsi. Un obiettivo concreto, visibile e a portata di mano". Un obiettivo che molti individuano nel flusso di profughi e migranti. "Molti di loro provengono da una situazione in cui erano fieri della propria posizione nella società, del loro lavoro, della loro educazione. Eppure ora sono rifugiati, hanno perso tutto. Al momento del loro arrivo entrano in contatto con la parte più precaria delle nostre società, che vede in loro la realizzazione dei loro incubi più profondi". Di fronte a questa sfida, si moltiplicano i richiami da parte di alcune forze politiche alla costruzione di nuovi muri. Si tratta di una risposta sensata? "Credo che si debba studiare, memorizzare e applicare l’analisi che papa Francesco, nel suo discorso di ringraziamento per il premio Charlemagne, ha dedicato ai pericoli mortali della "comparsa di nuovi muri in Europa". Muri innalzati - in modo paradossale, e in malafede - con l’intenzione e la speranza di mettersi al riparo dal trambusto di un mondo pieno di rischi, trappole e minacce. Il Pontefice nota, con preoccupazione profonda, che se i padri fondatori dell’Europa, "messaggeri di pace e profeti del futuro", ci hanno ispirato nel "creare ponti, e abbattere muri", la famiglia di nazioni che hanno promosso sembra ultimamente "sempre meno a proprio agio nella casa comune. Il desiderio nuovo, ed esaltante, di creare unità sembra svanire; noi, eredi di quel sogno, siamo tentati di soffermarci solo sui nostri interessi egoistici, e di creare barriere"". Nei suoi studi, lei ha indicato come valori fondativi delle nostre società la libertà e la sicurezza: dopo un’epoca in cui, per far crescere la prima, abbiamo progressivamente rinunciato alla seconda, ora il pendolo sta invertendo il suo corso. Quali riflessi politici ne derivano? "Di fronte a noi abbiamo sfide di una complessità che sembra insopportabile. E così aumenta il desiderio di ridurre quella complessità con misure semplici, istantanee. Questo fa crescere il fascino di "uomini forti", che promettono - in modo irresponsabile, ingannevole, roboante - di trovare quelle misure, di risolvere la complessità. "Lasciate fare a me, fidatevi di me", dicono, "e io risolverò le cose". In cambio, chiedono un’obbedienza incondizionata". Sembra quello che sta proponendo il candidato alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, le cui posizioni su sicurezza e immigrazione sono state di recente indicate dal presidente ungherese Viktor Orban come modelli anche per l’Europa... "Quella a cui stiamo assistendo è una tendenza preoccupante: istanze di tipo sociale, come appunto l’integrazione e l’accoglienza, vengono indicate come problemi da affidare a organi di polizia e sicurezza. Significa che lo stato di salute dello spirito fondativo dell’Unione Europea non è in buona salute, perché la caratteristica decisiva dell’ispirazione alla base dell’Ue era la visione di un’Europa in cui le misure militari e di sicurezza sarebbero divenute - gradualmente, ma costantemente - superflue". L’Islam è indicato da alcune forze politiche - ad esempio, la tedesca Pegida - come una fede intrinsecamente violenta, incompatibile con i valori occidentali. Che ne pensa? "Bisogna assolutamente evitare l’errore, pericoloso, di trarre conclusioni di lungo periodo dalle fissazioni di alcuni. Certo: come ha detto il grandissimo sociologo tedesco Ulrich Beck, al fondo della nostra attuale confusione sta il fatto che stiamo già vivendo una situazione "cosmopolita" - che ci vedrà destinati a coabitare in modo permanente con culture, modi di vita e fedi diverse - senza avere compiutamente sviluppato le capacità di capirne le logiche e i requisiti: senza avere, cioè, una "consapevolezza cosmopolita". Ed è vero che colmare la distanza tra la realtà in cui viviamo e la nostre capacità di comprenderla non è un obiettivo che si raggiunge rapidamente. Lo choc è solo all’inizio". Siamo destinati quindi a vivere in società nelle quali il sentimento dominante sarà quello della paura? "Si tratta di una prospettiva fosca e sconvolgente, ma attenzione: quello di società dominate dalla paura non è affatto un destino predeterminato, né inevitabile. Le promesse dei demagoghi fanno presa, ma hanno anche, per fortuna, vita breve. Una volta che nuovi muri saranno stati eretti e più forze armate messe in campo negli aeroporti e negli spazi pubblici; una volta che a chi chiede asilo da guerre e distruzioni questa misura sarà rifiutata, e che più migranti verranno rimpatriati, diventerà evidente come tutto questo sia irrilevante per risolvere le cause reali dell’incertezza. I demoni che ci perseguitano - la paura di perdere il nostro posto nella società, la fragilità dei traguardi che abbiamo raggiunto - non evaporeranno, né scompariranno. A quel punto potremmo risvegliarci, e sviluppare gli anticorpi contro le sirene di arringatori e arruffapopolo che tentano di conquistarsi capitale politico con la paura, portandoci fuori strada. Il timore è che, prima che questi anticorpi vengano sviluppati, saranno in molti a vedere sprecate le proprie vite". Lei ha sostenuto che le possibilità di ospitalità non sono senza limiti, ma nemmeno la capacità umana di sopportare sofferenza e rifiuto lo è. Dialogo, integrazione ed empatia richiedono però tempi lunghi... "Le rispondo citando ancora una volta papa Francesco: "sogno un’Europa in cui essere un migrante non sia un crimine, che promuove e protegge i diritti di tutti senza dimenticare i doveri nei confronti di tutti. Che cosa ti è accaduto, Europa, luogo principe di diritti umani, democrazia, libertà, terra madre di uomini e donne che hanno messo a rischio, e perso, la propria vita per la dignità dei propri fratelli?". Queste domande sono rivolte a tutti noi; a noi che, in quanto esseri umani, siamo plasmati dalla storia che contribuiamo a plasmare, consapevolmente o no. Sta a noi trovare risposte a queste domande, e a esprimerle nei fatti e a parole. Il più grande ostacolo per trovarle, quelle risposte, è la nostra lentezza nel cercarle". Migranti, sbarchi verso quota 90mila. Alfano: "i Comuni collaborino all’accoglienza" Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2016 Gli stranieri sbarcati in Italia da gennaio 2016 a ieri sono stati quasi 90mila (per l’esattezza 88.351, 600 in meno rispetto allo stesso periodo del 2015), e il sistema nazionale di accoglienza si occupa attualmente di 138mila migranti, in forte crescita rispetto ai 103.792 registrati del 2015. Uno dei problemi maggiori è rappresentato dai minori non accompagnati, che hanno già raggiunto il livello dell’intero 2015 (12.360). Numeri da record, quelli illustrati oggi dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, che potrebbero costringere il Viminale a chiedere ai prefetti di mettere a disposizione altri posti. Da qui l’appello del ministro agli amministratori locali: "Abbiamo bisogno della collaborazione dei Comuni". Si tratta di recuperare nuove strutture per l’ospitalità dei migranti, oggi alloggiati prevalentemente nelle strutture temporanee (103.043 unità). Il resto si trova nei centri di prima accoglienza, posti Sprar (Sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati) e hotspot. Nonostante la crescita dei migranti bisognosi di accoglienza il Viminale non intende cambiare la linea seguita finora e basata sul coinvolgimento del maggior numero possibile di Comuni nell’ospitalità, evitando le grosse concentrazioni. "Noi - spiega Alfano - ci muoviamo secondo una linea pratica, che è quella di non caricare nessun Comune e nessuna Regione di un peso insostenibile: per fare questo, abbiamo bisogno della collaborazione dei Comuni, che stanno lavorando a un piano di equa distribuzione dei migranti sul territorio nazionale, e io spero che in tempi rapidi si possa dare il via all’attuazione di tutto questo". Nel frattempo, ricorda il ministro, "con l’azione e con la regia ministeriale abbiamo ottenuto un’equa distribuzione tra le Regioni in tutta Italia". Al momento, la Regione con più stranieri ospitati è la Lombardia (18.008, pari al 13% del totale), seguita da Sicilia (14.096, il 10%) e Campania, Veneto e Lazio (tutte con 10mila, pari all’8% del totale). In testa tra le nazionalità dei migranti sbarcati si trovano i nigeriani (17%), seguiti da eritrei (13%), gambiani, ivoriani e sudanesi (tutti al 7%). "L’obiettivo - conclude Alfano - è quello di far sì che in Europa avvenga il collocamento equo fra i vari Paesi dei rifugiati, dei profughi e di chi scappa da guerre e persecuzioni, e poi chiudere accordi con i Paesi terzi del Mediterraneo, con i Paesi di partenza e di transito dei migranti, per riuscire a rimpatriare quelli che sono entrati irregolarmente sul territorio nazionale". Lo sciopero dei migranti: "Fateci entrare in Europa" di Leo Lancari Il Manifesto, 26 luglio 2016 E l’Austria finisce un’altra barriera. Hanno marciato da Belgrado fino al confine con l’Ungheria per chiedere al premier ungherese Viktor Orbán di riaprire il confine permettendogli così di entrare in Unione europea. Inascoltati, ieri hanno dato inizio a uno sciopero della fame che giurano di proseguire fino a quando non avranno raggiunto il loro scopo. È la pacifica protesta avviata quattro giorni fa da 130 migranti, principalmente afghani e pachistani, ma anche siriani e iracheni. Da quando Budapest ha innalzato una recinzione di filo spinato al confine con la Serbia diverse centinaia di migranti sono rimasti intrappolati, impossibilitati ad andare avanti ma anche a ritornare indietro. A nord come a sud, infatti, la frontiere sono chiuse da mesi e sbarrano definitivamente quella che fino a marzo scorso era la rotta balcanica. Marcati stretti dai poliziotti serbi, i migranti aspettano seduti a terra in un campo fuori Horgos, un villaggio di circa 6 mila abitanti nei pressi della frontiera. Hanno chiamato la loro protesta "la marcia della pace" e adesso innalzano cartelli di cartone con scritto "Please, open the border". Parole al vento, c’è da scommetterci. A riaprire quel confine Orbán infatti non ci pensa neanche, anzi l’Ungheria ha varato leggi sempre più dure che puniscono con il carcere i migranti che entrano clandestinamente nel suo territorio Agenti di polizia e militari pattugliano incessantemente strade e villaggi fino a otto chilometri di distanza dal confine, riportando indietro ogni straniero sorpreso senza documenti. Respingimenti spesso eseguiti senza troppi complimenti, come testimoniano i tanti racconti fatti dai migranti circa i maltrattamenti subiti. Il risultato di questa politica di chiusura è che oltre ai 3.000 migranti bloccati in Serbia, altri sono prigioniere nella terra di nessuno che separa i due paesi. Budapest accoglie infatti appena trenta domande di asilo al giorno, lasciando centinaia di uomini, donne e bambini accalcati lungo la linea di confine in attesa del proprio turno. In che condizioni lo ha denunciato nei giorni scorsi Medici senza frontiere che parla di campi profughi improvvisati, senza servizi igienici né acqua pulita. Una situazione che riguarderebbe tutti i Balcani occidentali ma particolarmente drammatica proprio al confine serbo-ungherese. Condizioni di vita terribili, specie se si considera che riguardano persone fuggite da guerra e miseria, e come conseguenza - denuncia l’organizzazione - hanno un aumento dei disturbi gastrointestinali, delle malattie respiratorie e della pelle. Ma anche psicologiche, con un incremento dei casi di depressione. Sperare in questo momento che la situazione cambi è davvero un esercizio di ottimismo. Orbán sta infatti puntando tutto sulla demonizzazione dei migranti, al punto di non esitare a accusarli di presunte contiguità con i terroristi che nell’ultimo anno e mezzo hanno insanguinato l’Europa e bollandoli come potenziali stupratori. Paure sulle quali il premier ungherese sta basando la campagna del referendum che il prossimo 2 ottobre chiederà agli ungheresi se accettare o no le quote di rifugiati imposte dall’Unione europea. Il paradosso è che Orbán rischia di rimanere vittima della sua stessa politica. Mente infatti l’Ungheria rafforza tutti i suoi confini, l’Austria ha appena finito di preparativi per innalzare, nel caso ce ne fosse bisogno, una sua barriera ai confini con l’Ungheria. La paura di Vienna è che il flusso di migranti provenienti da est - e che oggi si attesta sui 20-30 arrivi al giorno - possa improvvisamente crescere. Ma il contenzioso tra i due paesi riguarda ben altro, e in particolare la possibilità che Budapest si riprenda tutti i richiedenti asilo arrivati in Austria attraverso l’Ungheria, come impongono le regole di Dublino. L’argomento sarà al centro dei colloqui che si terranno oggi a Budapest tra lo stesso Orbán e il primo ministro austriaco Christian Kern. Caso Regeni: l’Italia ottiene i video della metro, saranno analizzati dagli esperti tedeschi Il Messaggero, 26 luglio 2016 Un accertamento congiunto proprio su quel video che tante volte l’Italia aveva chiesto all’Egitto. Sono le immagini delle stazioni Bohooth e Naguih della metropolitana del Cairo, dove sarebbe transitato Giulio Regeni il 25 gennaio scorso, prima di sparire: verranno sottoposte a perizia in Germania, a settembre, nei laboratori di una società specializzata, la stessa che ha prodotto il sistema di telecamere. L’esame è stato deciso in accordo tra la procura di Roma e la procura generale del Cairo. Agli esperti tedeschi saranno consegnati gli hard-disk dai quali i tecnici dovranno estrapolare, poiché contengono dati sovrascritti, le immagini del giorno della scomparsa del ricercatore friulano. La collaborazione con Il Cairo, dunque, resta aperta, malgrado alcuni "buchi neri" nelle indagini, come la mancata consegna agli italiani del traffico di celle telefoniche dei luoghi dove Regeni dovrebbe essere passato e anche dove è stato ritrovato il cadavere. In questo ambito i contatti tra i due uffici giudiziari sono incentrati sulle modalità attraverso le quali gli effetti personali del giovane (passaporto, carta di credito e tesserini universitari) sono finiti nella disponibilità di una presunta banda criminale. Per la procura romana, infatti, la pista indicata dalla polizia egiziana sul ruolo di quella banda nella morte del ragazzo continua a essere considerata inattendibile. Oltre ai rapporti con la capitale egiziana, la magistratura di Roma mantiene contatti anche con le autorità inglesi in merito ai legami che la vittima aveva, tra l’altro, con esponenti dell’università di Cambridge. Professori il cui atteggiamento ha comunque lasciato sgomenti anche i familiari del ricercatore. Durante una trasferta in Inghilterra effettuata dai pm proprio per interrogare la tutor di Giulio, questa si è avvalsa della facoltà di non rispondere, e ha alzato un muro sulla possibile verità. Nel frattempo, ieri, al Pantheon si è svolta una fiaccolata in sua memoria. "Sono trascorsi ormai sei mesi dalla sparizione del nostro Giulio - hanno dichiarato i genitori in collegamento telefonico alle 19,41, orario in cui il giovane è sparito - Siamo qui a chiedere sempre più forte verità e giustizia. Grazie a tutti coloro che hanno organizzato la fiaccolata e a tutti coloro che sono lì in piazza - ha aggiunto la mamma Paola - Anche noi abbiamo acceso delle piccole fiaccole. Sempre e ancora giallo per lui". Caso Regeni: Amnesty International "l’Italia paese solo sullo scenario internazionale" di Veronica Di Norcia La Repubblica, 26 luglio 2016 Sono passati sei mesi dalla scomparsa e dalla morte di Giulio Regeni, il ricercatore assassinato in Egitto e il cui corpo martoriato venne rinvenuto al Cairo lo scorso 3 febbraio. Questa sera a Roma una fiaccolata (alle 19 in piazza della Rotonda, al Pantheon) organizzata da Amnesty International. Riccardo Noury è il portavoce dell’associazione. Perché ancora non si riesce a far luce sulla vicenda? La Procura italiana sta facendo tutto il possibile. Il problema sono le autorità egiziane, che rendono tutto più difficile perché vogliono scagionare il governo del Cairo da ogni responsabilità. La procura di Roma si è vista anche negare piena collaborazione dall’Università di Cambridge, per conto della quale Giulio stava svolgendo ricerche sull’economia egiziana. La commissione istituita al Cairo che lavora al caso Regeni ha respinto le richieste della procura, dicendo che sono in contrasto con la Costituzione egiziana. Sono motivazioni assurde. Come giudica l’ipotesi che la morte di Regeni sia uno strumento per sabotare i rapporti diplomatici tra Italia ed Egitto? Io mi baso su fatti concreti e non su voci. I segni sul corpo di Giulio sono comuni a molti altri egiziani che hanno subito torture. Il giorno in cui è scomparso Regeni era un giorno particolare, la capitale egiziana era piena di agenti di sicurezza perché ricorreva l’anniversario delle rivolta del 2011 contro il governo Mubarak. A questo va aggiunto che in Egitto c’è un forte sospetto verso tutti gli stranieri. Le istituzioni internazionali hanno richiamato l’Egitto sul rispetto dei diritti umani? L’Italia è un paese solo sullo scenario internazionale. Dire che Giulio era un cittadino europeo è stata solo retorica. In realtà, soltanto il governo italiano si è interessato alla cosa, e lo stesso si può dire per un cittadino francese che è morto in Egitto nel 2013 di cui si sta occupando con scarsi risultati solo Parigi. In più sono mille giorni che un cittadino irlandese è nelle prigioni del Cairo e Dublino non riesce a tirarlo fuori. A livello internazionale non c’è nessuno che ci sta aiutando a far luce sulla vicenda e nessuno che richiami l’Egitto a rispettare i diritti umani. È proprio questo il problema più grande. Caso Regeni: anche dopo sei mesi noi non abbassiamo lo sguardo di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone e Cild) Il Manifesto, 26 luglio 2016 La lotta per la memoria dei familiari delle vittime ha portato a coltivare una chance di giustizia. Una giustizia lenta, giunta a democrazia conquistata, ma benedetta e parzialmente riparatrice. Per questo non va abbassato lo sguardo e per questo va con ostinazione chiesta giustizia e verità per Giulio Regeni. Perché altrimenti forte è la tentazione istituzionale di far prevalere ragioni di presunta realpolitik. Sono trascorsi lunghi sei mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni, brutalmente torturato e ammazzato in Egitto. E sulla vicenda è piombato drammatico, pesante, doloroso, colpevole il silenzio. Siamo abituati oramai a masticare tutto, a dimenticare rapidamente tutto quello che accade travolti da un’altra tragedia che prende il posto della precedente nell’agenda pubblica. Il silenzio è un’arma letale in storie come queste. Il silenzio è sempre qualcosa che sta dalla parte dei carnefici, mai dalla parte delle vittime. Il silenzio fa male. Il silenzio è la pietra tombale nella ricerca della verità. Il silenzio è l’anticamera dell’impunità. Da mesi c’è silenzio da parte delle autorità italiane. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella più o meno tre mesi fa aveva affermato che "non vogliamo e non possiamo dimenticare la sua passione e la sua vita orribilmente spezzata. Fare memoria è un atto di pace". Non c’è pace senza giustizia. Non è un caso che una delle organizzazioni radicali che più si sono impegnate nella campagna per la giustizia internazionale e per la nascita di una Corte penale internazionale si chiami per l’appunto "Non c’è pace senza giustizia". Non può esservi pace senza una prospettiva di giustizia. La memoria serve a restituire giustizia. La giustizia è una delle gambe della pace, quella positiva e non quella transitoria che è l’assenza temporanea di guerra. Il diritto alla pace è un diritto dei popoli, ma è anche un diritto degli individui. Dunque il silenzio pesa sulla giustizia e non fa presagire nulla di buono sulle prospettive di pace. Il silenzio sulle torture e sull’assassinio di Giulio Regeni è un attentato alla giustizia e alla pace. Giustizia, democrazia, diritti umani e pace sono intimamente connessi. L’oblio, nel caso di Giulio Regeni, potrebbe essere una soluzione di comodo a portata di mano per chi a livello istituzionale è imbarazzato nell’esercitare pressione nei confronti delle autorità egiziane. Chiunque si occupi di diritti umani sa che in casi come questo bisogna essere tenaci, determinati. L’oblio porta alla rimozione. La memoria porta alla giustizia. Non sarà oggi, non sarà domani, ma un giorno la conservazione della memoria potrebbe condurre alla verità. Così è accaduto nelle tante storie degli scomparsi e torturati nelle dittature latino-americane. La lotta per la memoria dei familiari delle vittime ha poi portato per taluni di loro a coltivare una chance di giustizia. Una giustizia lenta, giunta a democrazia conquistata, ma benedetta e parzialmente riparatrice. Per questo non va abbassato lo sguardo e per questo va con ostinazione chiesta giustizia e verità per Giulio Regeni. Perché altrimenti forte è la tentazione istituzionale di far prevalere ragioni di presunta realpolitik. La forza internazionale del nostro Paese va invece proprio misurata nella sua capacità di non dimenticare Giulio Regeni, nel combattere a fianco dei genitori alla ricerca della verità. Giulio Regeni è stato torturato. Le autorità egiziane si sono palesemente e sfrontatamente opposte alla collaborazione con gli inquirenti italiani. Da troppo tempo non sentiamo le nostre istituzioni - con l’eccezione del senatore Manconi, presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato - alitare addosso a quelle egiziane. Per questo ancora una volta la società civile italiana - Amnesty International, Antigone, Cild insieme ad A Buon Diritto, Arci, Articolo 21, Cittadinanzattiva, Fnsi, Iran Human Rights Italia, Italians for Darfur, LasciateCIEntrare, Ordine dei Giornalisti del Lazio, Premio Roberto Morrione, Un Ponte per, Usigrai, il Manifesto - ha deciso ieri sera in piazza a Roma di far sentire la propria voce contro il silenzio e per la giustizia nella consapevolezza che giustizia significa democrazia, diritti umani e pace. Mauritania: Cristian Provvisionato, il prigioniero dimenticato di Stefania Maurizi La Repubblica, 26 luglio 2016 Da quasi un anno Cristian Provvisionato, collaboratore di una società milanese che si occupa di cybersecurity, è detenuto in Mauritania con l’accusa di "attentato alla sicurezza del paese", ma il dossier della Farnesina parla genericamente di "truffa ai danni dello Stato". Convinto di andare a svolgere una banale missione commerciale, il contractor è finito in un gioco più grande di lui. Un caso dai contorni ambigui su cui pesa l’inquietante silenzio delle autorità e l’ombra dello scandalo che nei mesi scorsi ha travolto la Hacking Team. Un intrigo internazionale. E un caso che potrebbe rivelarsi un nuovo scandalo italiano della cyber sicurezza, dopo l’affare Hacking Team, che un anno fa fece finire il nostro paese sui giornali di tutto il mondo. Forse è per questo che non se ne parla? Per non riaprire la pagina dello spregiudicato business italiano in questo settore, proprio in un periodo in cui la nomina di Marco Carrai a cyber zar ha innescato uno scontro politico? Da undici mesi un cittadino italiano, Cristian Provvisionato, è prigioniero in Mauritania, trattenuto dal governo di questo stato africano di 3 milioni e mezzo di anime, che ha cercato di acquistare software per la sorveglianza, tipo quello della Hacking Team, da una strana coppia di aziende: la Wolf Intelligence con sede a Monaco, in Germania, e la Vigilar Group di Milano. In che intrigo sia finito Provvisionato, ad oggi, non è chiaro. La sua è una storia avvolta nella nebbia della guerra. Una guerra che ormai non si combatte più solo con eserciti e kalashnikov, ma con computer, cyber mercenari e armi invisibili: le cyber weapons, software micidiali che permettono a governi, servizi segreti e forze di polizia di entrare in computer e telefoni per localizzare, spiare e perfino piazzare prove false a carico di chiunque vogliano incastrare. Una chiamata maledetta. Tutto ha inizio il 14 agosto 2015, come racconta a Repubblica il fratello Maurizio Provvisionato: quel giorno Cristian è al mare in Liguria, ma una telefonata lo raggiunge in piena vacanza. A chiamarlo è Davide Castro, che con il padre Francesco, gestisce l’azienda milanese Vigilar Group che si occupa di security. Cristian ha un contratto a tempo determinato con la Vigilar, e poiché ha bisogno di lavorare, ha dato la propria disponibilità a farlo anche ad agosto. "Castro gli dice che si è creata un’urgenza: hanno una loro persona in Mauritania, che però deve rientrare per urgenti motivi familiari", ci dice Maurizio, spiegandoci che a suo fratello viene assicurato che il lavoro da fare nella capitale mauritana, Nouakchott, è un semplice meeting con il governo locale per presentare un’azienda che vende prodotti di cyber sicurezza: la Wolf Intelligence, con cui Davide Castro ha rapporti di affari. Cristian Provvisionato non ha alcuna esperienza nel settore informatico: lui e il fratello sono contractor che si occupano di sicurezza fisica e Cristian ha iniziato a lavorare per la Vigilar facendo servizi di scorta non armata, investigazioni, security per i grandi eventi, insomma quanto di più lontano dal mondo cyber. Ma anche da questo punto di vista, "Castro lo rassicura, dicendogli che la sua figura è solo di presenza, in quanto è richiesto un europeo, perché [quelli della] Wolf sono indiani e, per quanto bravi, un europeo dà lustro", ci racconta il fratello. È cosa nota che i paesi non europei interessati a queste cyber armi cerchino proprio la tecnologia occidentale, percepita come la più avanzata. Cristian Provvisionato ha appena il tempo di rientrare a Milano dal mare e di partire per Nouakchot. "La sera del 16 agosto - ricorda ancora Maurizio - mi scrive su Whatsapp e mi dice: sono arrivato, è venuto a prendermi questo Leonida Reitano, era accompagnato da uomini del governo. O così si suppone, perché il meeting era con il governo mauritano". Missione oscura. Leonida Reitano è la persona che Cristian doveva sostituire in Mauritania con urgenza e sui suoi profili social Reitano si definisce un giornalista investigativo specializzato in Osint (Open Source Intelligence), ovvero nella ricerca di tutte quelle informazioni che si possono ricavare dalle fonti aperte, cioè pubbliche: articoli di giornali e siti web, trasmissioni radio e tv, libri, pubblicazioni specialistiche. A che titolo il giornalista si trovasse in Mauritania per conto di un’azienda privata di security come la Vigilar Group, in affari con una società di cyber intelligence come la Wolf, non è chiaro, né, interpellato da Repubblica, Reitano lo spiega con esattezza: "Io mi trovavo in Mauritania con un incarico ottenuto con le stesse modalità del Provvisionato - ci risponde via email - si trattava di un incarico vago e ricevuto con un preavviso di un giorno per partire. Io mi sono fidato, esattamente come il Provvisionato, di Davide Castro e sono partito", scrive, aggiungendo di non avere alcun rapporto stabile con la Vigilar e di averli conosciuti nell’ambito di un proprio corso sulle investigazioni online: "Avendo apprezzato il mio training, mi hanno coinvolto successivamente in iniziative formative rivolte a soggetti aziendali e in un paio di casi mi hanno commissionato attività investigative online. Ma si tratta di casi sporadici (3-4 consulenze in due anni)", conclude. Scambio di prigionieri? Provvisionato e Reitano rimangono insieme per due giorni, poi secondo la ricostruzione di Maurizio Provvisionato, Cristian ricambia la cortesia di accompagnare Leonida Reitano all’aeroporto, visto che doveva ripartire. E lì, secondo quanto scrive Cristian via Whatsapp, la scena è anomala: Reitano, che aveva appena ricevuto indietro il suo passaporto trattenuto dalle autorità mauritane, sarebbe stato accompagnato all’aereo da uomini del governo, come chi viene scortato alla partenza, senza troppi complimenti. Nella sua email al nostro giornale, Reitano contesta questa ricostruzione, senza peraltro fornire la sua versione dei fatti, ma annunciando che lo farà nelle sedi competenti. Partito Reitano, Cristian Provvisionato rimane in attesa del tecnico della Wolf Intelligence che deve presentare alle autorità mauritane: Manish Kumar. Ma più si avvicina il giorno della scadenza del suo biglietto aereo per rientrare in Italia, più Provvisionato capisce che qualcosa non va: "Una decina di giorni dopo che è lì, i Castro se ne escono fuori che il meeting è saltato e che non si farà più". Da allora Cristian Provvisionato è trattenuto in Mauritania: è detenuto in una caserma delle forze antiterrorismo del Paese, un trattamento di favore, come riconosce la famiglia con un pizzico di gratitudine alle autorità mauritane, considerando che, se fosse chiuso in una galera africana, forse non sarebbe ancora vivo, anche perché Cristian è diabetico e durante i primi tre mesi di detenzione - quelli in cui era saltato ogni contatto con i familiari - ha perso trenta chili. Da undici mesi, la famiglia di Cristian è alla ricerca disperata di aiuto da parte delle istituzioni italiane per riportarlo a casa, prima che le sue condizioni fisiche possano deteriorare irreversibilmente. Formalmente, il governo di Nouakchott lo trattiene in stato di arresto per "una sua presunta partecipazione a una associazione finalizzata alla truffa ai danni dello Stato nel settore della sicurezza", recita una scheda della Farnesina che ricostruisce il caso. Alla famiglia, però, l’ambasciatrice mauritana a Roma, Mariem Aouffa, avrebbe detto altro, come ci rivela il fratello Maurizio: "Io e mia madre abbiamo avuto due incontri con l’ambasciatrice, e in quei due incontri ha sempre parlato di attentato alla sicurezza nazionale, e non di truffa". Software scottanti. Una cosa è certa: le tecnologie per la sorveglianza come quelle che la Wolf Intelligence si vanta di commercializzare sul suo sito (e come anche il trojan Rcs della Hacking Team) sono molto delicate e non permettono solo di spiare e tracciare chiunque - dai sospetti terroristi ai dissidenti politici - ma possono contenere soluzioni tecnologiche che consentono all’azienda che le vende di spiare sul cliente che le acquista, come conferma a Repubblica il guru della sicurezza informatica, l’americano Bruce Schneier. "Certo che possono contenerle - ci dice Schneier - e questa possibilità sussiste per ogni singolo software che usiamo: dal programma Word di Microsoft fino a Google Chrome, da una app del telefono fino a Rcs. E se non ci si fida dell’azienda da cui il software proviene, allora non va usato". Wolf Intelligence ha mai concluso l’affare con il governo mauritano e consegnato la sua tecnologia al governo di Nouakchot? E se sì, è possibile che i mauritani abbiano fiutato qualche irregolarità nelle tecnologie consegnate? Una scatola vuota. Repubblica ha contattato il quartier generale della Wolf Intelligence a Monaco, in Germania, dopo ripetuti tentativi anche telefonici e via posta elettronica per raggiungere Manish Kumar - il tecnico della Wolf che Cristian aspettava in Mauritania - abbiamo ricevuto una risposta via email (dall’account manish@wolfintelligence.com) che non fornisce alcuna spiegazione dell’accaduto, ma mostra che chi scrive conosce un inglese molto approssimativo: un’anomalia, considerato che Kumar dovrebbe essere un professionista indiano con competenze informatiche. Le visure che abbiamo effettuato alla Camera di Commercio tedesca mostrano che la Wolf è stata creata solo il 29 gennaio 2015, Manish Kumar ne è l’unico azionista e la nazionalità di Kumar è solo indicata come "cittadino straniero", registrato presso un indirizzo degli Emirati Arabi. Consultando i dati di registrazione del sito web della Wolf Intelligence, però, la società sembra esistere fin dal luglio 2014 con una serie di indirizzi fisici a Londra, New York e Svizzera. Gennaio 2015 risulta essere anche la data di creazione di una società di cyber intelligence di Davide Castro della Vigilar di Milano: dalle visure alla Camera di Commercio di Barcellona, risulta che l’azienda si chiama V-Monitoring Intelligence Enforcement Division SL (V-Mind), ma ha avuto vita breve, visto che è finita in liquidazione ad aprile 2016. Il legame con Hacking Team. Wolf Intelligence e Vigilar non sono le uniche società a cui il governo mauritano si è rivolto per acquistare tecnologia per la sorveglianza. Le email interne della società milanese Hacking Team, pubblicate da WikiLeaks e consultabili da chiunque sul sito dell’organizzazione di Julian Assange, dimostrano che il 21 ottobre 2014 c’è stato un primo contatto tra la Hacking Team e il consigliere del presidente della Repubblica mauritana, Ahmed Bah dit Hmedia, interessato ad acquistare il trojan della Hacking. Ahmed Bah è, a detta della famiglia di Cristian Provvisionato, la prima autorità della Mauritania che ha fatto visita a Cristian quando ormai lui aveva capito che c’erano dei problemi. La corrispondenza email tra Ahmed Bah e la Hacking Team dimostra che la società milanese ha chiesto al governo mauritano di chiudere l’affare entro il 2014. Perché tanta fretta? Probabilmente perché a gennaio 2015 sarebbe cambiato tutto: la nuova legislazione europea, introdotta alla fine del 2014, ha reso le tecnologie per la sorveglianza, come il trojan della Hacking, dei beni dual-use, ovvero beni per uso sia civile che militare, imponendo alle aziende che le commercializzano una serie di licenze governative che ne controllano l’esportazione. Business in fumo. L’affare tra la Hacking Team e la Mauritania, però, non va in porto: l’11 dicembre 2014, Ahmed Bah dit Hmedia scrive alla Hacking (qui la mail in inglese): "La vostra offerta è troppo costosa". Contattata da Repubblica per chiedere se abbia mai lavorato con la Vigilar Group e la V-Mind dei Castro e se Manish Kumar e la sua Wolf Intelligence abbiano mai lavorato come distributori della tecnologia Hacking Team in Mauritania, la società milanese ha dichiarato di non conoscere né Vigilar né V-Mind, mentre di Wolf Intelligence, Hacking Team ha precisato di sapere "solo che è presente sul mercato (partecipazione alle fiere di settore, pubblicità, ecc), Wolf afferma di proporre un prodotto simile a quello di Hacking, ma non c’è mai stata alcuna collaborazione tra le due società". Verità non dette. Le email interne pubblicate da WikiLeaks dimostrano che Hacking Team, in realtà, sa qualcosa di più della Wolf Intelligence che non il fatto della sua mera esistenza sul mercato: la corrispondenza dimostra ripetuti contatti tra Manish Kumar e la Hacking Team, ma il 20 febbraio 2015, dopo un incontro con Manish Kumar e un suo collega della Wolf Intelligence, il boss della Hacking, Davide Vincenzetti, scrive (qui la mail): "La mia conclusione è che siano (rimasti) dei totali ciarlatani e che i loro metodi siano assolutamente fuori da ogni business standard". Dunque storia chiusa? Non proprio. A questa email di Vincenzetti che chiama Manish Kumar e il suo collega della Wolf dei "totali ciarlatani", risponde il colonnello Riccardo Russi (qui la mail), uno dei contatti più preziosi della Hacking Team all’interno dei servizi segreti italiani, come dimostrano le mail della società. "Dubito che [Manish Kumar della Wolf] abbia un prodotto anche solo passabile….", scrive il colonnello, aggiungendo: "Sono assolutamente d’accordo con te David. Ti chiedo però di non chiudere i rapporti in modo definitivo… la sua conoscenza potrebbe sempre servire ad altri scopi….". A quali scopi potevano servire Manish Kumar e la sua Wolf Intelligence e qualcuno li ha usati? Svizzera: come gestire il rilascio di detenuti incarcerati per terrorismo? di Veronica Devore swissinfo.ch, 26 luglio 2016 Il primo dei tre uomini condannati in marzo per aver pianificato un attacco terroristico in Svizzera avrebbe già dovuto essere scarcerato. Ma l’iracheno è stato posto in detenzione in vista dell’espulsione. Cosa succederà in seguito è oggetto di un intenso dibattito in seno ai servizi segreti svizzeri e al mondo politico. Poco dopo la sentenza emessa in marzo, il procuratore generale della Confederazione Michael Lauber aveva riconosciuto che le autorità erano confrontate con un dilemma: cosa fare dei tre uomini condannati per terrorismo una volta scontate le pene? "Da una parte, le persone condannate per terrorismo non possono avere il permesso di rimanere in Svizzera. Dall’altra, non possiamo mettere a repentaglio la tradizione umanitaria della Svizzera. Ora dobbiamo riflettere sulla questione e fornire delle risposte appena questi individui verranno rilasciati dalla prigione", aveva detto qualche tempo fa alla radio svizzera di lingua tedesca SRF. Quella di quest’anno è stata la prima condanna pronunciata in Svizzera per attività legate all’autoproclamato Stato islamico (Isis). Quattro iracheni, arrestati nel 2014, sono stati processati con l’accusa di pianificare un attentato. Tre sono stati giudicati colpevoli, mentre il quarto è stato prosciolto dall’accusa di essersi recato in Siria per fornire apparecchi radio a membri dell’Isis. Il Tribunale penale federale di Bellinzona (TPF) ha inflitto 4 anni e 8 mesi di carcere a due imputati e 3 anni e 6 mesi al terzo. Quest’ultimo, che ha scontato i due terzi della pena, avrebbe dovuto essere rimesso in libertà il 21 luglio: infatti, secondo i giudici del TPF, non ci sarebbe rischio di nuove infrazioni. Tuttavia, le competenti autorità cantonali argoviesi hanno deciso di prolungare la detenzione, fino al 30 ottobre, in vista dell’espulsione. Una decisione intervenuta in seguito a un decreto di espulsione e di divieto di ingresso in Svizzera a tempo indeterminato emanato dall’Ufficio federale di polizia (Fedpol), il quale lo considera ancora un pericolo per la sicurezza della Confederazione. L’uomo - un 31enne padre di due figli - può inoltrare ricorso al Dipartimento federale di giustizia e polizia e successivamente al governo federale. Quanto agli altri due iracheni condannati, secondo i giudici del TPF dovrebbero essere rilasciati l’anno prossimo. La situazione è molto complessa e delicata e sugli sviluppi regna l’incertezza. Alain Mermoud, consulente di intelligence dell’esercito svizzero, intravvede tre possibili scenari: l’estradizione dei tre uomini in Iraq, l’apparizione di nuove prove - che è quello che sostiene Fedpol nel suo decreto relativo al 31enne - per tenerli dietro le sbarre, oppure la liberazione in Svizzera sotto stretta sorveglianza. "Chi vuole riprendersi dei terroristi? Nessuno. Ci sono quindi poche possibilità che vengano estradati", osserva Alain Mermoud. La Svizzera, prosegue, non dispone di alcun accordo di estradizione con l’Iraq, un paese insicuro in cui le persone non possono essere rispedite senza mettere in pericolo le loro vite. Se non vi sono nuove prove che giustificano la necessità di tenerli in carcere, fa notare Alain Mermoud, mancano le basi legali per prolungare la detenzione. Per questi motivi, "la probabilità più elevata è che vengano liberati". "Hanno saldato il loro debito con la società. È il principio che abbiamo nella nostra legislazione. Dobbiamo però tenerli d’occhio", sottolinea l’esperto di intelligence. Sorvegliarli, ma come? In Svizzera, i servizi segreti sono autorizzati a sorvegliare degli individui tramite strumenti elettronici se c’è motivo di credere che possano rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale. Sebbene i detenuti siano considerati legalmente riabilitati dopo aver scontato la pena, "non significa che non possono più costituire una minaccia per la sicurezza", fa notare Isabelle Graber, responsabile della comunicazione del Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC). A differenza di altri paesi europei, che fanno ricorso ai braccialetti elettronici per tener sotto controllo gli individui ad alto rischio, la Svizzera non autorizza tale pratica. La nuova legge sui servizi segreti, che conferisce maggiori capacità di sorveglianza al SIC, è quindi assolutamente necessaria, sostiene Alain Mermoud. In base alla legge approvata lo scorso anno dal parlamento, i servizi di intelligence dispongono di un arsenale più ampio per sorvegliare le comunicazioni private. Contro la nuova legge è però stato lanciato con successo un referendum e l’ultima parola spetterà al popolo svizzero in occasione delle votazioni federali di settembre. Nel frattempo, Alain Mermoud ritiene che le autorità debbano "pensare fuori dagli schemi", ad esempio coinvolgendo la comunità e facendo ricorso all’auto-vigilanza. "Il governo potrebbe pagare degli informatori per tener d’occhio le persone ad alto rischio. Lo stereotipo è l’anziana signora nascosta dietro alla tenda. Ma forse è questa la miglior possibilità che abbiamo", afferma, puntualizzando che si tratta semplicemente di un’idea e non della politica del governo elvetico. Personalmente, prosegue, preferirebbe che i tre iracheni "avessero degli incentivi per lasciare il paese di loro volontà". Alain Mermoud non specifica però quali potrebbero essere questi incentivi. La questione di cosa fare con i terroristi imprigionati è un tema scottante in Europa, dove la pena detentiva per atti di terrorismo pronunciata nei paesi membri dell’Ue è stata in media di 6 anni nel 2014, contro i 10 nel 2013, secondo Europol. "Malgrado l’intenso lavoro dei servizi segreti e le severe leggi contro il terrorismo, i terroristi europei finiscono spesso in prigione per meno di 10 anni per reati che negli Stati Uniti verrebbero invece puniti con 20 anni di carcere o con l’ergastolo", fa notare il giornalista Sebastian Rotella in un articolo di ProPubblica in cui parla delle "prigioni europee con le porte girevoli". Durante il processo agli iracheni, la Procura federale aveva chiesto una pena di 7 anni e mezzo per due imputati. Alla fine, i 4 anni e 8 mesi stabiliti dalla corte sono inferiori alla media europea. Infliggendo lunghe pene detentive, i governi mandano un messaggio forte che il terrorismo non viene tollerato, indica Christina Schori Liang, consulente del Centro per la politica di sicurezza di Ginevra. Alcune ricerche approfondite, fa però notare, mostrano che il tempo trascorso dietro alle sbarre può avere conseguenze indesiderate. I recenti attacchi terroristici a Bruxelles e a Parigi hanno influenzato "nel modo più assoluto" il dibattito sulla durata della detenzione, ma "il dibattito più grande concerne quello che succede in prigione" in merito al reclutamento dei terroristi, sottolinea. Le menti degli attacchi di Parigi si sono probabilmente radicalizzate in prigione, ritiene Christina Schori Liang. Una recente edizione della rivista online dello Stato islamico ha d’altronde menzionato che il tempo trascorso in prigione incoraggia la causa dell’organizzazione in quanto le permette di diffondere il suo messaggio. "Compromesso svizzero" sui terroristi - Tutto questo pone le autorità di fronte a una questione ancor più spinosa quando si tratta di gestire i detenuti incarcerati per terrorismo. In Svizzera, il raggruppamento del servizio che si occupava di questioni riguardanti l’estero con quello strategico di intelligence ha dato luogo a un contrasto tra quadri giuridici, afferma Christina Schori Liang. "Inoltre, le autorità svizzere sorvegliano le attività sulle reti sociali di circa 400 possibili terroristi che potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza. Questo numero è costantemente in crescita e alla fine risulterà difficile stare al passo coi tempi". Alain Mermoud concorda che le strutture esistenti in Svizzera, in particolare il fatto che ogni autorità cantonale lavora in modo autonomo, "possono essere un ostacolo" quando si tratta di comunicare e di lottare contro le minacce terroristiche. In merito alla questione di come gestire i terroristi che hanno scontato la pena, Alain Mermoud afferma comunque di "essere fiducioso che la Svizzera troverà un compromesso elvetico. Nulla di estremo, ma una via di mezzo con un po’ di sorveglianza". Turchia: rapporto di Amnesty "stupri, torture e sparizioni nelle carceri" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 26 luglio 2016 Il rapporto di Amnesty, basato su testimonianze di medici e avvocati, racconta le disumane condizioni di vita nei centri di detenzione formali e informali dove sono stati rinchiusi i sospetti golpisti: privati di cibo e acqua, pestati e violentati. "Neghiamo categoricamente le accuse. L’idea che la Turchia, paese che punta all’ingresso in Europa, non rispetti la legge è assurdo". Le parole con cui un anonimo funzionario turco risponde al rapporto pubblicato domenica da Amnesty International ha del surreale: tenta senza successo di nascondere sotto il tappeto il polverone delle purghe di massa in atto da giorni. Il rapporto esamina nei dettagli torture, pestaggi e stupri subiti dagli arrestati già nelle ore successive al tentato golpe. Numeri impressionanti: 13.165 detenuti, tra soldati, giudici, poliziotti e civili. Le immagini di alcuni arrestati circolavano fin da subito in rete: video di soldati picchiati costretti a denunciarsi di fronte alla telecamera, foto di uomini spogliati e legati. "La polizia ad Ankara e Istanbul costringe i detenuti in posizioni di stress fino a 48 ore, nega loro cibo, acqua e trattamenti medici, li umilia verbalmente e li minaccia - si legge nel rapporto fondato sulle testimonianze di medici e avvocati - Nei casi peggiori li sottopone a pestaggi e torture, tra cui lo stupro". "I racconti di abusi sono estremamente preoccupanti - commenta John Dalhuisen, direttore della sezione europea di Amnesty - soprattutto alla luce del numero di detenzioni. I cupi dettagli che abbiamo documentato sono solo uno spaccato delle violenze che starebbero avvenendo nei centri detentivi". Centri noti ma anche sconosciuti: gli arrestati sono stati sparpagliati in caserme e carceri ufficiali ma anche in luoghi informali, come centri sportivi e addirittura, nel caso di alcuni giudici, nei corridoi dei tribunali. Un’ondata di desaparecidos, visto che a familiari e avvocati (scelti dalla magistratura e non liberamente dagli accusati) viene impedito di incontrare i sospetti e di conoscere i reati di cui sono accusati. Primo passo, lamenta Amnesty, per processi lontani dall’essere equi. Non è questo l’obiettivo della campagna di epurazioni messa in piedi dal presidente Erdogan e fondata su liste di proscrizione pronte da tempo. Ma la pulizia si sta accompagnando a violenze che i raid dei sostenitori del partito di governo Akp e i pestaggi di soldati semplici facevano già temere. I luoghi peggiori, triste reminiscenza degli stadi cileni usati dagli uomini di Pinochet per torture e sparizioni, sono il centro sportivo Baskent di Ankara e i centri sportivi della polizia. Ma anche la sede della polizia di Ankara dovrebbe sarebbero rinchiusi tra le 650 e le 800 persone: moltissime hanno sul corpo i segni evidenti delle torture, ossa rotta e facce tumefatte. Alcuni non riescono nemmeno a camminare per le botte ricevute. Qui - come altrove - la polizia picchia i detenuti, li priva del cibo per tre giorni e di acqua per due, impedisce loro di farsi visitare dai medici. Ancora peggiori le condizioni per i vertici dell’esercito considerati gli ideatori del golpe: due avvocati di Ankara hanno raccontato di aver assistito allo stupro di alcuni generali da parte dei poliziotti, con i manganelli o le dita. Umiliazioni che - racconta un avvocato della corte di Caglayan a Istanbul - un detenuto ha tentato di gettarsi dal sesto piano. Amnesty conclude chiedendo alla Turchia di interrompere immediatamente tali pratiche e permettere l’immediato accesso nelle carceri, formali e informali, a team indipendenti: "Nonostante le terribili immagini pubblicate in tutto il paese - conclude Dalhuisen - il governo è rimasto in silenzio. La mancata condanna delle torture significa condonarle" Turchia: purga su purga Erdogan spazza via la società civile di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 26 luglio 2016 Quarantadue fra direttori e cronisti turchi hanno ricevuto un mandato di arresto fra domenica e lunedì. A tutti gli altri è arrivato un vademecum del governo con i dettagli del tentato golpe del 15 luglio e le sue conseguenze. Ma la caccia ai "terroristi" del Presidente Erdogan non si ferma alle redazioni di giornali e tivù: ieri 250 dipendenti della Turkish Airlines, la compagnia aerea di bandiera, sono stati licenziati per "vicinanza al movimento di Gulen". In meno di dieci giorni hanno perso il lavoro 2.745 magistrati, 7.899 poliziotti, 257 impiegati della Presidenza del Consiglio, 30 prefetti su 81, 614 gendarmi, 47 governatori provinciali, oltre 15mila insegnanti pubblici e 21mila privati, quasi 1.600 fra docenti e decani universitari, 1.500 dipendenti del ministero delle finanze, 500 del ministero della salute, 393 di quello della famiglia, 492 imam e docenti di religione. A questi si aggiungono gli oltre 6mila militari finiti in carcere, per cui Amnesty ha denunciato "prove credibili di stupri e torture nei luoghi di detenzione", le 24 radio e tivù chiuse, i 21mila e oltre passaporti ritirati, i 4mila arrestati a vario titolo fra cui Muhammet Sait Gulen, nipote del predicatore esiliato in Pennsylvania. Che cosa sta facendo vedere Erdogan ai suoi connazionali e al mondo intero? È una prova di forza preparata da tempo o la reazione a una reale minaccia al suo longevo potere? In molti sostengono la tesi dell’autogolpe, ma ci sono altri dettagli di quanto accaduto la sera del 15 luglio che vanno nella direzione opposta. Oltre ai militari destituiti da poco o che rischiavano di esserlo ad agosto, sono finiti in manette alcuni degli alti ranghi dell’offensiva contro il Pkk che da mesi sta insanguinando il Sud-Est della Turchia e su cui Erdogan ha impostato la rimonta elettorale. Fra questi il generale Adem Huduti, comandante delle truppe di Malatya, da dove partono le operazioni dirette a Diyarbakir e Sirnak, due delle città strategiche nello scontro con i ribelli curdi. Un altro pesce grosso in carcere è il generale Mehmet Disli, fratello del vicepresidente dell’Akp, il partito di Erdogan, insieme a svariati consiglieri militari vicinissimi al presidente. Il premier Binali Yildirim ha annunciato di aver emesso 300 mandati d’arresto per le guardie presidenziali e il conseguente scioglimento del primo apparato di sicurezza del Presidente. Segno evidente che Erdogan non si fida dei militari a lui più vicini. Perché, come scrive Kadri Gursel su Al Monitor, quello che è emerso è l’esistenza di un esercito nell’esercito: "Anche se non ci sono cifre definitive, non è azzardato affermare che circa un terzo dei vertici militari sia stato coinvolto nel golpe. Dei 124 generali e ammiragli incarcerati, 83 erano stati nominati dopo il 2013, ossia dopo gli arresti e le deposizioni dei militari coinvolti nel caso Ergenekon (una presunta cellula di ultranazionalisti kemalisti smantellata nel 2011, ndr). Quell’offensiva contro i kemalisti fu supportata politicamente da Erdogan, ma fu condotta dai gulenisti che ne approfittarono per occupare i posti rimasti vuoti. Non può essere una coincidenza se quasi tutti loro sono accusati di aver organizzato il golpe di 10 giorni fa". Ma Erdogan potrebbe avere nemici anche fra gli alleati della Nato, come osserva il giornalista Alberto Negri: "Il vice del comandante delle base Nato di Maslak ha preso parte al golpe ed è stato ucciso sul ponte del Bosforo. Il suo capo è stato arrestato. Il comandante della base di Incirlik, da dove è decollato l’aereo dei ribelli, è stato arrestato. Gli elicotteri Awacs della Nato pattugliano i cieli, quindi potevano vedere sui radar quanto accadeva. O alla Nato mentono, oppure sono guidati da un manipolo di ufficiali inutili". Intanto si punta il dito con sempre maggiore decisione verso gli Usa e la CIA. Yeni Safak, giornale pro-Erdogan, ha schiaffato in prima pagina il generale statunitense John F. Campbell, ex comandante delle truppe Nato in Afghanistan, accusandolo di essere il manovratore del golpe. Campbell - secondo la ricostruzione - avrebbe agito per conto della CIA, sborsando 2 miliardi di dollari ai militari coinvolti. Accuse che Barack Obama ha respinto, ma che rischiano di aumentare un diffuso anti-americanismo. Un’ulteriore miccia in un clima già teso che la società laica e i partiti di opposizione hanno sfidato domenica scorsa. Centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza Taksim contro il tentato golpe ma anche contro lo stato d’emergenza e la repressione. A capo del corteo, a cui ha partecipato anche una delegazione dell’Akp, c’era Kemal Kilicdaroglu, leader del principale partito di opposizione Chp, che ieri è stato ricevuto da Erdogan insieme al nazionalista Devlet Bahceli (escluso invece il leader dell’Hdp Selahattin Demirtas, accusato di sostenere il Pkk). Un incontro che potrebbe forse aprire la strada per un’unità nazionale, quanto mai lontana nella Turchia del post 15 luglio. Stati Uniti: Michael Jordan sulle tensioni razziali "non posso più rimanere in silenzio" di Anna Lombardi La Repubblica, 26 luglio 2016 L’ex campione del basket Nba, ora proprietario degli Charlotte Hornets, interviene sul dramma dei neri uccisi dalla polizia e degli attacchi contro gli agenti: "Conosco il loro dolore, questo Paese è migliore di così". "Non posso più tacere". Nell’America sempre più scossa dalle tensioni razziali e da una campagna elettorale che non trova pace neanche all’interno degli stessi partiti, nemmeno Michael Jordan - il campione di basket che il canale sportivo Espn ha definito "il più grande atleta della storia americana" - vuol restare a guardare. Così il sei volte campione Nba ha rotto quel proverbiale silenzio su questioni sociali e politiche che in passato tante critiche gli aveva procurato: e con una lettera aperta pubblicata sul sito theundefetead.com, specializzato nell’affrontare argomenti che riguardano razza e sport, ha spiegato perché "la situazione in America è diventata intollerabile". Unendosi alla protesta di altre stelle dell’Nba come Carmelo Anthony, LeBron James, Chris Paul e Dwayne Wade che già più volte hanno condannato le violenze dei poliziotti bianchi verso afroamericani disarmati, Jordan ha dunque fatto sapere di essere "profondamente triste e frustrato per la retorica che ci sta dividendo e le tensioni razziali che sembrano peggiorare. So che questo Paese è meglio di così, e non posso più stare in silenzio". Cinquantatre anni, proprietario della squadra di pallacanestro degli Charlotte Hornets, nella lettera Jordan ha ricordato la morte violenta di suo padre James, nel 1993, ucciso mentre riposava in autostrada da due ladri che volevano rubargli la Lexus rossa regalatagli dal figlio: "Come americano orgoglioso di esserlo, padre che ha perso il proprio papà in un atto insensato di violenza, e come nero, sono stato profondamente colpito dalle morti di afroamericani per mano di agenti di polizia e ho provato rabbia per il codardo atto di odio compiuto da chi ha preso di mira e ucciso poliziotti. Sono in lutto insieme alle famiglie di chi ha perso i propri cari, e conosco il loro dolore". Proprio per questo, scrive, ha deciso di far seguire alle parole un atto di generoso impegno: due donazione di 1 milione di dollari ciascuna a due associazioni cui è profondamente legato: l’Institute for Community-Police Relations, che si occupa di far dialogare polizia e comunità afroamericane e l’altra al fondo di difesa legale del Naacp, Legal Defense Fund, una delle più importanti organizzazioni che si occupa di dare difesa legale gratuita ai neri. "So bene che non bastano le donazioni a risolvere il problema: ma spero che aiutino due associazioni che stanno facendo un lavoro straordinario". Tornare a insegnare il rispetto reciproco è fondamentale, spiega Jordan: "Sono stato cresciuto da genitori che mi hanno insegnato ad amare e rispettare le persone a prescindere dalla razza e dal livello sociale. Dobbiamo trovare soluzioni che assicurino che le persone di colore ricevano giusto ed equo trattamento E (con la maiuscola) allo stesso tempo siano protetti e rispettati gli agenti che mettono la loro vita in gioco ogni giorno per proteggerci". La donazione di Jordan ha subito ottenuto l’emozionato ringraziamento pubblico di Sherrilyn Ifill, presidentessa del Naacp, Legal Defense Fund: "Siamo onorati del sostegno di Jordan ai nostril sforzi. Un atto di leadership, che arriva da parte di una personalità che ha deciso di utilizzare il suo status leggendario per far capire l’importanza di prendere posizione e agire in questi tempi difficili per l’America". Così la stella del grande difensore sul campo di basket torna a splendere: difensore dei diritti di tutti i cittadini. Israele: Bilal Kayed resta in carcere senza processo, un esempio del "modello israeliano" di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 luglio 2016 Territori Occupati. Il militante del Fronte popolare aveva scontato 14 anni di carcere. Il giorno della liberazione è stato condannato a sei mesi di "detenzione amministrativa", senza processo e accuse precise. La tenda per Bilal Kayed è stata eretta in Piazza della Mangiatoia di Betlemme, a poche decine di metri dalla Chiesa della Natività, tra gli sguardi curiosi dei turisti. Al suo interno ci sono i rappresentanti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e di altre forze politiche palestinesi, il coordinatore dei Comitati popolari Munther Amera, una ex detenuta Ahlam Wahsh, amici e familiari di prigionieri politici e decine di ragazzini. Non sorprende che tante persone, di generazioni diverse, siano confluite alla tenda per Bilal Kayed. La vicenda di questo detenuto, in sciopero della fame da 42 giorni, ha colpito tutti i palestinesi. Originario di Asira a-Shamaliya (Nablus), arrestato nel 2002 perché presunto membro delle Brigate Abu Ali Mustafa (l’ala militare del Fplp), Kayed ha scontato interamente la sua condanna a 14 anni e mezzo di carcere, l’ultimo dei quali passato spesso in isolamento. A giugno è arrivato il giorno del rilascio ma Kayed non è riuscito ad assaporare la libertà. I giudici militari israeliani hanno prontamente emesso nei suoi confronti un ordine di sei mesi di "detenzione amministrativa", senza processo e accuse precise. E Kayed è tornato in cella dove ha cominciato uno sciopero della fame in segno di protesta. In suo sostegno da qualche giorno digiunano altri 48 prigionieri palestinesi. La detenzione amministrativa è una sorta di "custodia cautelare" di lungo periodo, rinnovabile di sei mesi in sei mesi, che risale al periodo del Mandato Britannico sulla Palestina e che Israele ha assorbito nel suo codice. È quasi superfluo ricordare che viene applicata quasi esclusivamente nei confronti dei palestinesi anche se di recente ha riguardato alcuni coloni israeliani coinvolti nelle indagini sul rogo di Duma in cui un anno fa morirono il piccolo Ali Dawabsha e i suoi genitori. Il 10% dei circa 7.000 palestinesi in carcere in Israele sono "amministrativi". Alcuni di essi si sono visti rinnovare più volte l’ordine di detenzione. "Chiediamo all’Europa, alle Nazioni Unite, ai governi e ai popoli del mondo intero di intervenire su Israele per mettere fine alla pratica illegale della detenzione amministrativa", esortava ieri uno dei tanti intervenuti all’iniziativa a sostegno di Bilal Kayed e anche di altri prigionieri in sciopero della fame da settimane come i fratelli Muhammad e Mahmoud Balboul, Malik al Qadi e Ayyad al Hireimi. I palestinesi non hanno ancora compreso che quei governi, le istituzioni europee ed occidentali alle quali si rivolgono chiedendo di far rispettare i diritti fondamentali dell’uomo nei Territori occupati, guardano sempre di più al "modello israeliano" dopo gli attentati sanguinosi di queste ultime settimane attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico. "L’Europa deve scegliere tra la libertà e la sicurezza", ci diceva la settimana scorsa a Tel Aviv Haim Tomer, un ex capo divisione del Mossad spiegandoci come va risolto il "problema terrorismo": arresti arbitrari e interrogatori di centinaia e centinaia di persone fino ad individuare "potenziali terroristi". Poco importa se gli arrestati, in buona parte, sono estranei a tutto. "Gli arresti comunque valgono come deterrenza", ci diceva Tomer. È quello che avviene nei Territori palestinesi occupati da 49 anni. Ai governi e a tante delle forze politiche della democratica Europa piace sempre di più, molti lo invocano come "l’unica risposta possibile al terrorismo". Nessun governo occidentale muoverà un passo per Bilal Kayed, una prova dell’efficacia di un modello di negazione di diritti sempre più ammirato ed evocato. Russia: rivolta dei detenuti in un carcere della siberia, domata dopo 6 ore Ansa, 26 luglio 2016 Più di 240 carcerati sono insorti in una casa circondariale della Repubblica di Khakassia, in Siberia. La polizia penitenziaria ha ripreso il pieno controllo della struttura alle 5.30 del mattino, dopo sei ore di scontri. Secondo newsru.com, che cita il capo del servizio penitenziario regionale per la Khakassia, i disordini sono scaturiti da detenuti di fede musulmana che chiedevano il diritto di pregare anche al di fuori dell’orario previsto dal regolamento, nonché condizioni di reclusione migliori.