Si può provare pietà per come è morto il "mostro" Bernardo Provenzano? Il Mattino di Padova, 25 luglio 2016 È giusto provare pietà anche quando ci arriva la notizia che il capomafia Bernardo Provenzano è morto, a 83 anni, ancora sottoposto al regime duro del 41 bis? Alla pietà non ci pensa nemmeno il sindaco della città di Corleone, di cui era originario Provenzano, quando dichiara senza mezzi termini "Per Corleone la morte di Bernardo Provenzano è come la liberazione da un cancro, da una malapianta che affliggeva i cittadini". Mentre uno dei massimi dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si è affrettato ad assicurare che a Provenzano è sempre stata garantita tutta l’assistenza medica necessaria e ha poi dichiarato che "Il regime di 41 bis in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato detenuto - Parma e Milano - ha ricevuto cure puntuali ed efficaci". Quando si tratta di 41 bis, "pietà l’è morta" verrebbe da dire: non c’è infatti nessuna traccia di pietà nelle parole del sindaco del paese di Provenzano, pur credente e devoto, sembra, visto che la notizia di quella morte gli è arrivata in Portogallo, mentre faceva il Cammino di Santiago de Compostela, insieme con il parroco e altri religiosi. E come valutare le parole di quel dirigente del DAP che ritiene che si possa curare in modo efficace un uomo malato negandogli fino agli ultimi giorni di vita affetto, vicinanza, conforto della propria famiglia? L’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario prevede una carcerazione speciale con la finalità di evitare ai capi di organizzazioni criminali di mandare messaggi ai loro sottoposti ancora in libertà o di riceverne dall’esterno. Ma Provenzano non era ormai più quel mostro di cui tutti parlano per sentirsi in pace con la propria coscienza, era ormai un "paziente in stato clinico gravemente deteriorato e in progressivo peggioramento, allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana. Stato cognitivo gravemente ed irrimediabilmente compromesso" (relazione sanitaria Ospedale San Paolo di Milano). Ed è morto così, senza la minima umanità, ancora sottoposto a quel regime poco umano che è il 41 bis: ma uno Stato civile e democratico non dovrebbe avere il coraggio di trattare umanamente TUTTI, anche quelli che nella loro carriera criminale non si sono fermati di fronte a nulla e non hanno mostrato la minima pietà per nessuno? La testimonianza che segue riporta i commenti di alcuni ergastolani alla morte di Provenzano. Quello che resta però è l’amaro in bocca per una Giustizia che ha paura di mostrare un volto umano anche di fronte alla malattia e alla morte. La "fuga" di Bernardo Provenzano Nei cortili dei passeggi si fanno e si sentono i discorsi più diversi e spesso anche disperati. Si parla di politica. E di religione. Spesso di morte. E a volte dell’aldilà. Gli ergastolani senza scampo soprattutto si domandano sovente se un giorno aboliranno in Italia la Pena di Morte Viva. In carcere è difficile essere se stessi. Io ci provo. Vedo, ascolto e scrivo. Poi dico quello che penso e cerco di pensare quello che dico. La notizia della morte del famoso capomafia nell’ospedale milanese di San Paolo, dove era detenuto al carcere duro del regime del 41 bis, s’è sparsa subito fra le mura del carcere di Padova. E oggi, durante l’ora d’aria nel cortile, un gruppo di ergastolani ha commentato la sua scomparsa. Ho pensato di raccontare i loro commenti, così come li ho ascoltati, senza togliere e aggiungere nulla. Ergastolano uno: Quando ti accorgi che i tuoi governanti sono più vendicativi di te e in nome della sicurezza violano le loro stesse leggi, poi non provi nessun senso di colpa per i reati che hai commesso. Ormai da più di un anno diverse perizie avevano stabilito che Provenzano era poco più di un vegetale. E nonostante il parere favorevole di diverse procure, e anche della Direzione nazionale antimafia, lo hanno tenuto fino all’ultimo giorno recluso al regime duro del 41 bis. Ergastolano due: Anche il più coraggioso e incosciente degli ergastolani a volte pensa di legare un lenzuolo alle sbarre della sua cella e legarselo al collo perché l’aldilà è la nostra unica via di fuga dato che la morte per un ergastolano fa parte della speranza. Diciamoci la verità. Provenzano è stato fortunato. In fondo s’è fatto solo dieci anni di carcere. Io ne dovrò fare molti di più perché mi hanno arrestato quando avevo vent’anni. Il prossimo mese ne compio quarantacinque e purtroppo la vita media si sta alzando. Ergastolano uno: In tutti i casi se non usciremo da vivi, usciremo da morti. Lo so, la pena dell’ergastolo è una condanna irrazionale perché non dà nessuna spiegazione. In fondo non cerchiamo pietà o compassione, ma solo un fine pena. Ormai, non me la prendo però più di tanto, perché abbiamo il vantaggio che non possiamo perdere più nulla, dato che abbiamo già perso tutto quello che potevamo perdere. Ergastolano tre: Il caso di Provenzano ormai era diventato un caso politico e penso che con la sua morte alcuni uomini potenti tireranno un sospiro di sollievo perché s’è portato nell’aldilà i suoi segreti. Forse ci rimarranno male certi professionisti dell’antimafia, quelli che dicono di lottare contro la mafia per nascondere di essere culturalmente mafiosi, che non potranno cavalcare l’onda dell’emergenza criminalità organizzata. Ergastolano quattro: A volte le peggiori ingiustizie le fanno i "buoni" con la scusa di fare giustizia. Vedrai che qualche politico, in cerca di consenso elettorale, o qualche altro personaggio per fare carriera, s’inventerà lo stesso qualcosa e pure di mantenere il regime del carcere duro del 41 bis diranno che Provenzano continua dall’inferno a mandare "pizzini". E come al solito ci andremo di mezzo noi. Vi dico la verità, a me che Provenzano è morto non mi dispiace per nulla. Io non c’entro nulla con questa c. di mafia e se non si mettevano a fare la guerra allo Stato forse non prendevo l’ergastolo e non mi facevo dieci anni di quarantuno bis. Adesso per colpa della mafia e dell’antimafia sono dieci anni che mi trovo nelle sezioni di alta sicurezza. Ergastolano uno: Ragazzi lo sapete come la penso, l’universo mafioso è uno strano mondo che viene governato da pochi malvagi, da molti stupidi che permettono ai malvagi di governare e da moltissimi ignavi che si limitano a eseguire gli ordini. Purtroppo molti di noi sono stati degli sfortunati a essere nati al sud e anche degli sciocchi a non ribellarsi alla cultura politica e sociale mafiosa radicata nelle nostre terre. Finisco di ascoltare i miei compagni. Sono anni luce di distanza dalla cultura mafiosa. E Bernando Provenzano mi era anche antipatico. Ritornando in cella penso però che lo Stato facendolo morire in catene e in quel modo ha perso una bella occasione per sconfiggere la cultura mafiosa. Molti non saranno d’accordo con questa mia affermazione e mi scuso con tutte le vittime della mafia, ma non posso non dire come la penso, perché uno Stato non dovrebbe mai rinunciare alla sua umanità, anche in nome della sicurezza dei suoi cittadini, per dimostrare di essere migliore del male che combatte. Carmelo Musumeci, Carcere di Padova Scuole e carceri, piano italiano contro il rischio jihadista di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 25 luglio 2016 In discussione la legge per contrastare il fenomeno della radicalizzazione. Costituito un comitato nazionale ad hoc. Si punta sulla cultura. Matteo Renzi lo ha ribadito più volte, l’ultima nell’Assemblea nazionale del Pd dell’altro ieri: la battaglia contro il jihadismo non può risolversi solo nella pur necessaria attività di intelligence e di polizia. Per questo il "piano contro il terrorismo" a cui il presidente del Consiglio ha fatto riferimento, ha come uno dei suoi pilastri la prevenzione. Ma dando a questo termine il significato più ampio, che investa fortemente un campo ritenuto dall’Italia decisivo: quello dell’educazione. L’Italia ha portato questa sua visione complessiva in tutti i vertici europei, ne ha fatto un punto-chiave della strategia anti-jihadista. Ma questo non è più il tempo delle parole. Di fronte a un terrorismo che si articola a più livelli, che fa della campagna mediatica una delle trincee più avanzate di una Jihad globale, la battaglia culturale è decisiva. Nasce da questa convinzione un elemento-chiave del piano antiterrorismo: la legge sul contrasto alla radicalizzazione. Una legge a prima firma Andrea Manciulli e Stefano Dambruoso, in discussione alla Prima commissione della Camera, relatrice Barbara Pollastrini. L’obiettivo è quello di contrastare la radicalizzazione (islamista e non solo) in ogni campo e laddove può fare proseliti: le scuole, i luoghi di lavoro, le carceri. Un’azione che integrerebbe le misure di contrasto indicate nel decreto legge anti-terrorismo già approvato dal governo. "Si tratta - spiega all’Unità Andrea Manciulli, presidente della Delegazione parlamentare italiana alla Nato, curatore del rapporto Nato sul terrorismo jihadista - di un’azione che abbia un carattere preventivo, culturale, che sta a cuore anche alle forze dell’ordine. Un intervento che contrasti le varie forme di radicalizzazione sul nascere, prima che esse si evolvano nel fenomeno del terrorismo". Un piano ambizioso, strutturale, che ha visto impegnati in prima fila il premier Renzi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio per i servizi segreti Marco Minniti. Per contrastare la radicalizzazione c’è bisogno di intrecciare piani e competenze diversi, in un rapporto che non sia episodico, occasionale. Da qui la costituzione di un comitato nazionale per il contrasto alla radicalizzazione che, rimarca ancora Manciulli, "metta assieme i massimi esperti italiani del settore". Un comitato permanente che non faccia mancare idee e proposte a supporto dell’azione affidata agli organi dello Stato preposti alle attività di prevenzione, intelligenze e di polizia. "La legge sulla deradicalizzazione - sottolinea Dambruoso - è complementare al Decreto anti-terrorismo, più concentrato sulle misure di repressione del fenomeno jihadista, ed è stata sottoscritta da oltre 30 parlamentari di diversi schieramenti. Prevede investimenti nelle scuole e novità per le carceri, dove il rischio radicalizzazione è elevato, oltre alla creazione di un portale informativo tramite il quale individuare i soggetti pericolosi, così da poter predisporre iniziative di inclusione sociale mirate. Il testo è stato assegnato alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Confido che la legge entri in vigore prima della fine di questa legislatura". I drammatici avvenimenti di questi giorni impongono un’accelerazione. La legge sulla deradicalizzazione supporta e rafforza le misure del decreto anti-terrorismo varato un anno fa dal governo: "II decreto - annota in proposito l’ex magistrato, uno dei massimi esperti di terrorismo islamico in Italia - può essere migliorato, ma ha introdotto novità importanti. Sono state criminalizzate condotte che prima non costituivano reato, come auto-addestrarsi alle tecniche terroristiche collegandosi a Internet dal computer di casa propria, il che la dice lunga. Mentre chi progetta di partire per la Siria per unirsi all’Isis è passibile di arre sto ancora prima di mettere piede sull’aereo. Sono misure che comprimono i diritti fondamentali, ma necessarie". Una norma riguarda in particolare i "lupi solitari": "La reclusione da 5 a 10 anni - recita la legge anti-terrorismo viene prevista per colui che, pur essendosi addestrato da solo, ovvero avendo autonomamente acquisito le istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo", pone in essere comportamenti univocamente finalizzati al terrorismo internazionale". L’Italia non si sente certo immune dalla sfida terroristica, per questo è necessario rafforzare non solo le misure di sicurezza ma sviluppare uno sforzo a tutto campo. Lo richiedono gli eventi e le informazioni acquisite dai nostri 007. L’Italia "appare sempre più esposta" alla minaccia jihadista, anche se non sono emersi specifici riscontri su piani terroristici. A rilevarlo è la relazione annuale dell’intelligence inviata al Parlamento, nel marzo scorso, sottolineando come nella propaganda jihadista non siano mancati i riferimenti all’Italia come nemico per i suoi rapporti con Usa e Israele e per il suo impegno contro il terrorismo. La maggiore esposizione al rischio emerge anche in relazione al Giubileo e alla possibile attivazione di nuove generazioni di aspiranti mujaheddin che aderiscono alla campagna promossa dall’Isis. Sempre secondo la relazione in Italia "il fenomeno dei foreign fighters, inizialmente con numeri più contenuti rispetto alla media europea, è risultato in costante crescita, evidenziando, quale aspetto di particolare criticità, "auto-reclutamento" di elementi giovanissimi, al termine di processi di radicalizzazione spesso consumati in tempi molto rapidi e ad insaputa della stessa cerchia familiare". Per questo è urgente avviare la campagna di deradicalizzazione. Prevenire prima che sia troppo tardi. L’odissea giudiziaria di un operaio: "arrestato, assolto e rovinato dalle spese legali" di Alessandro Milan Libero, 25 luglio 2016 Accusato di pedofilia e picchiato dalla polizia solo a causa di un’omonimia, ora si ritrova con lo stipendio pignorato. Un banale scambio di persona, un errore al quale è stato posto rimedio quasi subito, con il risultato di avere rovinato la vita a un uomo. Può sembrare incredibile, ma la storia di Gavino Cherchi, operaio 48enne di Dervio (Lecco), è racchiusa in queste poche righe. Fino a tre anni fa Gavino era un uomo semplice, un operaio di quelli che si spaccano la schiena per mille euro o poco più, tutto casa, lavoro e famiglia. È bastata un’accusa infame per affossarlo: pedopornografia e violenza sessuale su minori, reati che solo a nominarli ti valgono la condanna sociale. Immaginate poi in un paesino di duemila anime. Solo che non era vero niente: i poliziotti della questura di Lecco cercavano sì Gavino Cherchi e sono andati a bussare alla sua porta. Ma il Gavino Cherchi accusato di quei reati era un altro, di due anni più anziano, residente in un paesino del sassarese, in Sardegna. Gli inquirenti hanno capito troppo tardi lo scambio di persone: intanto il Cherchi di Dervio era già stato fermato dalla polizia con tanto di blitz all’alba, interrogato, picchiato (denuncia lui), infamato agli occhi di un’intera comunità. Poi scagionato con una pacca sulle spalle. "Ci scusi, anche noi sbagliamo". Finita lì? Macché. Per dimostrare lo scambio di persona Gavino Cherchi ha dovuto incaricare un avvocato che ora gli chiede di saldare8mila euro di parcella. Lui i soldi non li ha e si è ritrovato con il pignoramento del quinto dello stipendio a partire da questo mese. "Era una mattina all’alba, non ricordo neppure se il 22 o il 23 novembre 2013". Comincia così, Gavino Cherchi, il suo racconto, ma non è una favola a lieto fine. Che succede quel giorno? "All’epoca vivevo con mio fratello. Si presentano a casa otto poliziotti della questura di Lecco. Entrano con le pistole in pugno, ma io ero già al lavoro, in azienda". E lì la raggiungono. "Già. Quindi tutti vedono il blitz a casa mia. Poi anche il mio titolare assiste alla scena del fermo. E sa com’è, il paesino è piccolo. Io ero incredulo, mi dicono in modo perentorio che devo seguirli in questura". Lì di cosa la accusano? "Cominciamo a dire cosa mi fanno". Cosa? "Mi hanno preso a legnate. Io, fino ai 45 anni, non avevo mai preso una sberla in vita mia. Le assicuro che l’impatto è devastante". I poliziotti l’hanno picchiata ancora prima di spiegarle perché era lì? "Mi dicevano: ammettilo, sei stato tu, confessa. E giù botte". Quanti erano? "All’inizio c’erano due poliziotti in stanza, poi è entrato uno, il più cattivo. Ero seduto su una sedia con le rotelle. Uno mi teneva le mani da dietro, gli altri mi giravano sulla sedia e giù pugni secchi: nello stomaco, nei fianchi, nei reni. E continuavano: "Ammetti, sei stato tu". Per quanto sono andati avanti? "Non ricordo, direi diversi minuti. Poi cominciano a parlare di una carta di credito, mi parlano di siti pedopornografici. Io non sapevo neanche cosa volesse dire pedopornografia. Ho una figlia avuta a 17 anni, sono già nonno, sono stato cresciuto con dei valori, pensi che non ho mai visto neanche un film porno". Non è che i pedofili non siano papà e nonni. "Sì, me ne rendo conto. Sta di fatto che sono caduto dalle nuvole, erano contestazioni assurde". Cercavano Gavino Cherchi. "Con accuse terribili: pedopornografia e violenza su una minorenne. Non avevo parole, ero terrorizzato. Il mio atteggiamento sembrava quasi colpevole perché ero basito, interdetto, non sapevo cosa dire". Prosegua. "Mi hanno preso le impronte digitali, mi hanno fatto le foto segnaletiche e dopo alcune ore mi hanno rispedito a casa". Con accuse così gravi, perché non l’hanno trasferita in carcere? "Vuole la verità? Secondo me hanno capito quasi subito che avevano fatto un errore. Mi hanno menato, hanno controllato i miei precedenti, hanno visto che ero pulito, hanno capito l’errore". Quanto è rimasto indagato? "Tre o quattro mesi. Ma nel frattempo ho dovuto cercarmi un avvocato. Sono andato da lui. Sa quanto ci ha messo a capire che era stato preso un abbaglio? Cinque minuti". Cinque minuti? "Ma certo. Cercavano un Gavino Cherchi che era domiciliato a Lecco, ma aveva la residenza in un paesino del sassarese. Ma bastava verificare la data di nascita". Ma è incredibile. "L’avvocato all’inizio era sospettoso: "Sei stato tu? Qui si parla di 9mila euro di spese con una carta di credito". Poi controlla le date: il Gavino Cherchi che cercavano è nato nel febbraio 1971. "Quando sei nato?", mi chiede. Io sono nato il 20 gennaio 1968. E l’avvocato mi fa: "Cazzo, hanno sbagliato persona". In cinque minuti. "Già. Siamo andati alla polizia e il comandante ci dice: "Purtroppo anche noi sbagliamo". In ogni caso qualcuno li avrà mandati da me". Chi? "Penso il magistrato che indagava". Lei l’ha incontrato? "Mai. Il mio avvocato mi ha detto che l’ha contattato e quello si è messo a ridere: "Chiudiamo la pratica". Una brutta odissea. "Mi hanno rovinato la vita. Sono caduto in depressione, prendo psicofarmaci, sono ingrassato 25 chili in tre anni. Per fortuna mia moglie mi ha creduto. Ma in paese, sa...". La gente mormora. "Quando ti arrivano i poliziotti a casa all’alba, la gente cosa vuole che pensi? Mi hanno trattato come fossi Totò Riina. Pensavano tutti "chissà cosa avrà combinato, il Gavino". Qualcuno parlava di droga". Al bar del paese cosa dicevano? "Mi chiedevano "Gavino, che cazzo è successo?". Io mi rifiutavo di rispondere, poi ho iniziato a raccontare qualcosa. Ma l’accusa era di quelle infamanti, mi faceva stare male parlarne. Mi hanno distrutto". Al lavoro come è andata? "Grazie a Dio, ho un principale che mi vuole bene come se fossi suo figlio, quando avevo bisogno economicamente mi ha aiutato. Fosse stata un’altra ditta, avrei perso il lavoro". La sua vicenda giudiziaria è finita? "Tutt’altro. A quel punto è cominciata quella con l’avvocato". Cioè? "Mi ha fatto arrivare una parcella da ottomila euro". Per cosa? "Per fare due più due, scoprire l’errore e dirlo alla polizia. Ci ha messo cinque minuti, più un colloquio con la polizia". Lei deve pagare l’avvocato. "Non ho i soldi. L’avvocato ha fatto ricorso al giudice di pace e mi hanno boccato lo stipendio". Le hanno pignorato lo stipendio? "Esatto. Questo mese mi è stato bloccato del tutto. Mi è stato bloccato anche il tfr. Se volessi dimettermi, non avrei diritto neanche alla liquidazione. Dal mese prossimo, invece, mi verrà pignorato il quinto dello stipendio". Quanto guadagna lei? "Circa 1.350 euro. La mia seconda moglie, Angela Antoniette, americana di Orlando, è gravemente malata. Ha già superato due tumori e ora ne ha un terzo". Gavino, lei cosa pensa dello Stato? "Viviamo in un Paese strano, ma io ho sempre creduto nella giustizia, nello Stato. Questa cosa però mi ha distrutto. Si immedesimi un solo minuto In me, vorrei che tutti capissero cosa ho provato. C’è poi una cosa che mi fa soffrire terribilmente". Quale? "Il fatto che mio papà sia morto un anno fa di crepacuore senza poter leggere sui giornali la mia storia da innocente al 100%. Papà abitava vicino a me e mio fratello, ha visto l’irruzione dei poliziotti quella maledetta mattina in cui è iniziato tutto". Ma pensa che sospettasse di lei? "Quello mai, neanche per un secondo. Sapeva che figlio ero. Ma è morto per questo, ne sono certo". Qualcuno la guarda ancora male? "Sono convinto di sì. Anche se è saltata fuori la verità, molti pensano che ho combinato qualche cosa. Mi è rimasto il marchio addosso". E ora? "Voglio fare causa allo Stato. Per le percosse, per i tre anni in cui sono stato male. Mi hanno devastato la vita, sono vittima di un errore di Stato". Il vero Gavino Cherchi, il criminale, che fine ha fatto? "Mi hanno detto che è stato arrestato un anno e mezzo fa. Dovrebbe essere in carcere a Lecco, ma non ne voglio sapere nulla". Sovraffollamento: risarcimento del danno anche per i condannati all’ergastolo penalecontemporaneo.it, 25 luglio 2016 Sovraffollamento carcerario: per la Corte cost. anche i condannati all’ergastolo hanno titolo al risarcimento del danno ex art. 35 ter, co. 2 ord. penit. Corte cost., 21 luglio 2016, n. 204, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi. Per leggere la sentenza, cliccare qui: http://www.giurcost.org/decisioni/2016/0204s-16.html Con la sentenza n. 204 del 21 luglio 2016, la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 ter ord. penit. nella parte in cui "non prevede, nel caso di condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2", sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Cedu, ha affermato che: "sarebbe... fuori da ogni logica di sistema, oltre che... in contrasto con i principi costituzionali, immaginare che durante la detenzione il magistrato di sorveglianza debba negare alla persona condannata all’ergastolo il ristoro economico, dovuto per una pena espiata in condizioni disumane, per la sola ragione che non vi è alcuna riduzione di pena da operare". (G.L. Gatta) Revoca delle misure cautelari comunicata per tutti i delitti con violenza alla persona di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale -Sentenza 12 maggio 2016 n. 19704. L’obbligo di comunicazione dell’istanza di revoca o di sostituzione delle misure cautelari coercitive applicate nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, previsto dall’articolo 299, commi 3 e 4 bis, del Cpp, è da intendersi esteso a tutte le fattispecie delittuose, consumate o tentate, che in concreto si siano manifestate con atti di violenza in danno della persona offesa. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 19704 del 2016. I giudici inoltre affermano che tale obbligo è da assolvere provvedendo alla notificazione dell’istanza alla persona offesa (i cui dati identificativi completi emergano dal fascicolo processuale) attraverso le forme ordinarie di notifica di cui agli articoli 154 e segg. del Cpp, tenendo conto in proposito dell’eventuale nomina di un difensore di fiducia (nel qual caso la persona offesa si considera domiciliata presso il difensore ex articolo 33 delle disposizioni di attuazione del Cpp), ovvero dell’espressa dichiarazione o elezione di domicilio (nel qual caso la notifica verrà ivi eseguita in deroga a quanto previsto dall’articolo 33 citato) (la Corte, nel ricostruire l’ambito dell’obbligo di avviso, ha espressamente escluso la fondatezza di una tesi "riduttiva" che volesse escluderne la sussistenza nell’ ipotesi in cui la persona offesa avesse manifestato disinteresse verso il processo, omettendo di nominare un difensore o di eleggere domicilio: nel senso, cioè, che l’inciso "salvo che in quest’ultimo caso non abbia provveduto ad eleggere o dichiarare domicilio", contenuto nell’articolo 299, comma 4 bis, del Cpp, deve intendersi quale eccezione alla regola secondo cui la persona offesa che ha nominato il difensore è presso di lui domiciliata, mentre non può ricavarsi dall’omessa indicazione del domicilio o dalla mancata nomina del difensore la "decadenza" della persona offesa dal diritto a ricevere la notifica dell’istanza e prendere parte alla vicenda cautelare). L’operatività del diritto di informazione della persona offesa - In termini, circa l’ambito di operatività del diritto di informazione della persona offesa, Sezione I, 21 dicembre 2015, M., secondo cui nella nozione di "delitti commessi con violenza alla persona", utilizzata dal legislatore per individuare l’ambito di applicabilità dell’obbligo di notifica alla persona offesa, in caso di revoca o sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere, devono ricomprendersi anche i reati caratterizzati da azioni violente "occasionali", giacché né la lettera della norma, né la ratio della stessa (ispirata all’esigenza di rendere partecipe la vittima dell’evoluzione dello status cautelare dell’indagato, permettendogli la presentazione di memorie ai sensi dell’articolo 121 del Cpp), legittimano una interpretazione riduttiva, secondo cui tra i delitti commessi con "violenza alla persona" debbano farsi rientrare solo quelli in cui la condotta violenta si sia caratterizzata per l’esistenza di un pregresso rapporto relazionale tra autore e vittima. In tema, con riferimenti sempre alla nozione di delitto commesso con "violenza alla persona", cfr. anche Sezioni unite, 29 gennaio 2016, persona offesa F. in proc. C., laddove si è affermato che la disposizione dell’articolo 408, comma 3 bis, del Cpp, che stabilisce l’obbligo di dare avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione con riferimento ai delitti commessi con "violenza alla persona", è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti, previsti rispettivamente dagli articoli 612 bis e 572 del Cp, perché l’espressione "violenza alla persona" deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario. La Cassazione stringe sul riciclaggio di Antonio Iorio Italia Oggi, 25 luglio 2016 Per perseguire l’illecito può bastare un solo frammento della condotta in Italia. Reati tributari sempre più a rischio di generare il delitto di riciclaggio in Italia: secondo un orientamento della Suprema Corte ormai consolidato, per far scattare la giurisdizione italiana nei reati di riciclaggio, in relazione a reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta. A nulla rileva che quanto svolto nel nostro Stato sia privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, essendo sufficiente il collegamento tra la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero. Da qui la perseguibilità in Italia, ad esempio, di investimenti in banche estere di somme provenienti da violazioni fiscali commesse in Italia. Con l’entrata in vigore del reato di auto-riciclaggio e le maggiori possibilità da parte dell’amministrazione finanziaria italiana di acquisizione di informazioni presso Stati esteri fino a qualche anno fa coperte invece, dal massimo riserbo, il trasferimento e/o investimento all’estero di somme provenienti da delitto (nella specie di tipo tributario, societario e fallimentare) rischia di far scattare una delle condotte di riciclaggio. In tale contesto appaiono molto significative alcune recenti pronunce di legittimità che forniscono un’idea precisa dei rischi. I confini del riciclaggio - Scatta il riciclaggio (articolo 648-bis del Codice penale) nei confronti di colui il quale, fuori dei casi di concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Se detti beni e denari sono impiegati in attività economiche si commette il reato di analoga gravità previsto dall’articolo 648-ter. L’ipotesi più verosimile e potenzialmente più frequente pertanto è quella del contribuente che, dopo aver evaso commettendo un delitto previsto dal decreto legislativo 74/2000 (fatture false, sottrazione fraudolenta, dichiarazione infedele, omesso versamento, ecc) trasferisce o investe attraverso altre persone consapevoli della provenienza di tali importi. Le indicazioni dei giudici - A questo proposito la giurisprudenza è stata sinora molto rigorosa. Così, è stato rilevato che integra il reato di riciclaggio il compimento di operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro attraverso un qualsiasi espediente che consista nell’aggirare la libera e normale esecuzione dell’attività posta in essere (Cass. 1422/2012). E ancora integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, e anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario a un altro diversamente intestato, e acceso presso un differente istituto di credito (Cass. 546/2011). Ciò pur in presenza di una completa tracciabilità dei flussi finanziari, atteso che, stante la natura fungibile del bene, per il solo fatto dell’avvenuto deposito, il denaro viene automaticamente sostituito (Cass. 47375/2009). Non è necessario infatti che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni, essendo sufficiente che essa sia anche solo ostacolata (Cass. 1422/2012 e 3397/2012). È stato invece escluso il reato in capo all’imprenditore che reimpiega in azienda le somme frutto di evasione fiscale (Cass. 9392/2015). Il riciclaggio (a differenza dell’autoriciclaggio) richiede necessariamente il coinvolgimento di soggetti terzi estranei al delitto principale (da cui provengono i denari): la difficoltà da parte dell’accusa, spesso, risiede proprio nel provare la consapevolezza del terzo della provenienza delittuosa di tali beni/utilità. Anche sotto questo profilo la giurisprudenza si è pronunciata in modo molto rigoroso ritenendo sufficiente addirittura il cosiddetto dolo eventuale che si configura in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza delittuosa del denaro desumibile dalle circostanze di fatto dell’azione. Reati contro la persona: le caratteristiche degli atti persecutori Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2016 Reati contro la persona - Atti persecutori - Stalking - Integrazione - Elemento oggettivo. In tema di atti persecutori va osservato che anche la condotta di bivaccare nel sottoscala dell’edificio ove abitano i genitori integra una condotta di per sé minacciosa nei confronti dei genitori e ciò anche se si considera che tale presenza era diretta a ottenere denaro e altre utilità economiche. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 21 luglio 2016 n. 29705. Reati contro la persona - Atti persecutori - Stalking - Reato abituale - Integrazione - Condotta - Reiterazione - Insufficienza della singola condotta - Elemento della reiterazione - Compimento di due sole condotte. Il delitto di cui all’articolo 612 bis c.p. è produttivo di un evento di "danno", consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di "pericolo", consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 23 maggio 2016 n. 21408. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Atti persecutori - Elemento oggettivo. Il delitto di atti persecutori, cosiddetto "stalking" (articolo 612 bis cod. pen.) è un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea a integrarlo. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 4 maggio 2016 n. 18556. Reati contro la persona - Atti persecutori - Stalking - Perseguibilità a querela - Irrevocabilità della querela - Condizioni. È irrevocabile la querela presentata per il reato di atti persecutori quando la condotta sia stata realizzata con minacce gravi. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 20 gennaio 2016 n. 2299. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Stalking - Delitto di atti persecutori - Reato abituale. Il delitto di atti persecutori, in quanto reato necessariamente abituale, non è configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia, neppure unificando o ricollegando la stessa a episodi pregressi oggetto di altro procedimento penale attivato nella medesima sede giudiziaria, atteso il divieto di bis in idem. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 24 settembre 2014 n. 48391. Reati contro la persona - Atti persecutori - Compimento di parte della condotta in epoca antecedente all’entrata in vigore della norma incriminatrice - Configurabilità del reato - Limiti. È configurabile il delitto di atti persecutori (cosiddetto reato di "stalking") nella ipotesi in cui, pur essendo la condotta persecutoria iniziata in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti la commissione reiterata, anche dopo l’entrata in vigore del Dl 23 febbraio 2009 n. 11, convertito dalla legge 23 aprile 2009 n. 38, di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo "status" di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 8 maggio 2014 n. 18999. Reati contro la persona - Delitto di atti persecutori - Giudizio immediato - Requisiti del decreto che dispone il giudizio - Determinatezza dell’imputazione. Ai fini della rituale contestazione del delitto di "stalking" - che ha natura di reato abituale - non si richiede che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e gli effetti derivatine alla persona offesa. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 15 febbraio 2013 n. 7544. Ivrea: detenuto per furto si toglie la vita con una bomboletta di gas quotidianocanavese.it, 25 luglio 2016 A darne notizia è l’Osapp, il sindaco autonomo della polizia penitenziaria, per voce del segretario generale Leo Beneduci. A nulla sono valsi i soccorsi del personale di polizia penitenziaria presente e del personale medico. A nulla sono valsi, nella giornata di ieri, presso la casa circondariale di Ivrea, i tentativi prima del personale di polizia penitenziaria presente, poi del personale medico, ad evitare il ventitreesimo suicidio di un detenuto nelle carceri italiane nel corso del 2016. Verso le 14,30 circa di ieri A.L., un italiano di 50 anni ristretto per l’espiazione di un residuo pena per furto e altri reati, detenuto al secondo piano del carcere eporediese, ha posto fine alla sua vita inalando gas da una bomboletta racchiusa in un sacchetto intorno alla propria testa. A darne notizia è l’Osapp per voce del segretario generale Leo Beneduci. Secondo il sindacalista, "Malgrado la popolazione detenuta ristretta nelle carceri italiane sia diminuita dal 2014 a oggi di oltre 15 mila unità, sono ancora troppi i casi di suicidio a cui il personale di polizia penitenziaria non riesce a porre rimedio in ragione di una costante e quanto mai grave e inaccettabile carenza di organico di ben oltre il 25% e pur considerando che, proprio grazie agli interventi del personale del corpo, solo un tentato suicidio su 20 ha esito infausto". Palermo: pm preso a pugni dopo la sentenza, l’Anm Protesta "più sicurezza nei tribunali" Corriere della Sera, 25 luglio 2016 Nemmeno il tempo di pronunciare il verdetto che nell’aula della Corte d’assise di Palermo si è scatenata la bagarre. Ad avere la peggio è stato il pubblico ministero Maurizio Bonaccorso, che aveva rappresentato l’accusa nel processo a due presunti assassini, chiedendo per entrambi l’ergastolo. I due imputati, Pietro Mazzara e Maurizio Pirrotta, alla fine sono stati condannati dalla corte rispettivamente a 30 e 27 anni per un omicidio compiuto per contrasti tra spacciatori di droga. Quelli che non hanno preso bene la decisione, però, sono stati i familiari dei condannati, che hanno colpito il pm al viso con un pugno. La Corte e i legali di parte civile sono stati costretti a restare barricati in camera di consiglio fino all’arrivo dei carabinieri. I militari hanno riportato l’ordine e scortato a casa i parenti della vittima, Antonino Zito, assassinato nel 2012. L’aggressione riporta d’attualità il tema della sicurezza nei palazzi di giustizia. Per il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini aggressioni come quelle di Palermo "ci indignano e non dovrebbero fare mai ingresso nelle aule di giustizia". A Bonaccorso sono arrivati molti attestati di solidarietà. L’Associazione nazionale magistrati in una nota "manifesta forte preoccupazione per le inadeguate e insufficienti misure di sicurezza presenti negli uffici giudiziari del Paese e invita le autorità competenti a intervenire con urgenza per assicurare idonei presidi nei palazzi di giustizia". Sulla stessa lunghezza d’onda il comunicato della Giunta distrettuale e di Magistratura indipendente, la corrente di centrodestra della magistratura, che "condanna con indignazione e fermezza l’inaudito atto di violenza perpetrato contro l’autorità giudiziaria e auspica che anche le istituzioni facciano la loro parte". "Si ripropone - scrive Magistratura indipendente - per l’ennesima volta, anche dopo la terribile sparatoria avvenuta al tribunale di Milano un anno fa, il problema di garantire la sicurezza dei palazzi di giustizia". Messina: "Giustizia giusta", la radicale Rita Bernardini visita il carcere di Gazzi di Simona Strani normanno.com, 25 luglio 2016 Questa mattina, l’ex deputato del Partito Radicale Rita Bernardini ha svolto una visita ispettiva al carcere di Gazzi. Un sopralluogo che fa parte del programma della campagna "Giustizia Giusta", che vuole concentrare l’attenzione del popolo italiano e sensibilizzarlo sulla questione dei diritti umani e civili all’interno dei penitenziari. Prima di iniziare l’ispezione, il rappresentante dei Radicali ha incontrato i giornalisti per spiegare l’importanza della campagna e i passi avanti fatti finora. Non è la prima volta che Rita Bernardini visita l’istituto detentivo di Messina. "Siamo stati qui, intanto, per la sentenza Torreggianì quella che ha condannato lo Stato italiano per la violazione dei diritti umani, e anche dopo - ha spiegato Bernardini -. Le cose sono sicuramente migliorate, ma il problema di fondo, di un carcere illegale che non rispetta i diritti umani fondamentali, ancora persisteva, almeno fino a poco tempo fa. Non credo che le cose siano cambiate molto. Siamo qui appunto per verificare." "L’ultima volta che l’ho visitato era il febbraio 2013 il carcere di Messina era annoverabile sicuramente tra gli istituti peggiori - continua l’ex deputato radicale - Addirittura c’erano i letti a castello a sette piani. Ne feci anche oggetto di un mio intervento al Parlamento. All’epoca, costringevano una persona disabile, in carrozzella, a strisciare per terra per poter andare in bagno. La cosa positiva è che questa zona, detta Sosta, sembra non ci sia più, che sia stata ristrutturata. In questo posto, una volta, se qualcuno dei detenuti stava male, le infermiere che arrivavano dovevano fare loro le iniezioni attraverso le sbarre. Sempre lì, cercavano di ripararsi dall’ingresso dei topi bloccando le fessure con dei cartoni. Ed era tale il sovraffollamento che un padre e un figlio dormivano nella stessa brandina. In pratica, condizioni più che degradanti. Mi piacerebbe sapere quanti hanno avuto il risarcimento danni." Purtroppo, il risarcimento non lo danno a tutti, neppure a chi ha dovuto subire queste condizioni "inumane" ingiustamente. Come Roberto Trifiletti, vittima di malagiustizia (5 anni di carcere con l’accusa di omicidio, assolto dopo 10 anni dal primo arresto), che accompagna i rappresentanti Pr e sostiene la loro campagna. "Non riesco a trovare lavoro, ho tre figli a carico e una moglie invalida al 100% - ha dichiarato Trifiletti - ed io con chi posso prendermela, con la Magistratura? No, con il popolo italiano: è a nome del popolo italiano che sono stato condannato, sia la prima che la seconda volta, per qualcosa che non ho mai fatto." È proprio questa la tragedia: oltre ai detenuti, a dover scontare la pena sono anche le loro famiglie, le cosiddette "vittime collaterali" della giustizia. Alcune riescono a stare accanto ai loro cari in prigione; altre, invece, non ce la fanno e lasciano i carcerati da soli, a dover affrontare l’ignobile vita "in gabbia". Molti, addirittura, percorrono centinaia di chilometri per poter incontrare i parenti in carcere. Come una signora di Palermo, che ha fatto la fila tutta la mattina, davanti all’ingresso laterale dell’istituto, solo per informarsi se oggi avrebbe potuto vedere il marito. "Inizialmente - ha continuato Trifiletti - mi avevano messo in isolamento per convincermi a collaborare. Ho vissuto delle cose orribili e, sicuramente, i soldi non mi ridaranno quegli anni; lo faccio solo per la mia famiglia. Sono convinto che la giustizia non funzioni, in Italia, e soprattutto a Messina, e che in carcere ci siano altre persone detenute ingiustamente." Infine, prima di essere accompagnata all’interno della Casa Circondariale di Gazzi, Rita Bernardini ha rivolto un’ultima considerazione alla magistratura. "È vero che c’è carenza di personale. Ma è anche vero che è difficile trovare un magistrato di sorveglianza. Io ne ho trovati pochissimi in Italia che svolgono il loro dovere: per esempio quello richiamato dall’ordinamento penitenziario che li obbligherebbe a fare quello che sto facendo io, visitare frequentemente le celle di detenzione. Non ci vanno mai. Ed io dico che, se avessero fatto il loro dovere, non saremmo arrivati all’umiliazione della sentenza ‘Torreggianì, ossia della condanna di un Paese per la violazione dell’articolo 3, cioè ‘trattamenti inumani e degradantì. Avrebbero potuto prevenirlo e, invece, hanno fatto finta di niente. Se i magistrati incontrano i detenuti, lo fanno solo in videoconferenza." Cosenza: il Cosp denuncia "carcere in grave difficoltà per carenza di personale" lametino.it, 25 luglio 2016 Pubblichiamo la nota di Mimmo Mastrulli della segreteria nazionale Cosp sulla situazione d’emergenza nelle carceri della Calabria. "Quello che tutti i giorni viene sopportato dagli agenti di Polizia Penitenziaria della Calabria - afferma - come della Sicilia, della Toscana ma anche di altre regioni italiane, quale la Puglia, il Lazio, il Piemonte e la Lombardia etc. appare essere al di là di ogni immaginazione convincimento: turni di 16/18 che si assommano ad ulteriori ore di lavoro ininterrotto, impossibilità di programmare la propria vita in quanto spesso richiamati in servizio per mancanza di personale, vigilanza a vista dei detenuti, posti di lavoro fatiscenti e lontani dagli standard previsti dalla legge per la sicurezza dei lavoratori, mancati controlli sanitari sull’idoneità fisica come previsto dalle norme, da ultimo in questo periodo, impossibilità di organizzare un qualsiasi piano ferie che sia degno di questo nome salvo che il personale rimanente non si attivi attraverso doppi e tripli turni di lavoro. Tutto questo accanto alla mancanza del rinnovo del contratto di lavoro ormai fermo dal 2009 con gravi e ripetitive colpe della Parte Politica ma anche di quella Sindacale silente e complice di un dissesto contrattuale che si ripercuote in termini economici a danno dei dipendenti del Comparto Sicurezza come di quello Pubblico e Ministeri pari a 600/700 euro mensili. L’ordinaria follia che tutti i giorni si verifica negli istituti di pena della Calabria, della Sicilia e del resto d’Italia è ulteriormente acuita dalla mancata presenza di circa 10.000 (diecimila) agenti che svolgono la loro attività presso il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, presso i Prap e presso gli Uepe, presso le scorte a Politici, Dirigenti e Magistrati, presso Palazzi di Giustizia e Dipartimenti esterni. Se la ex pianta organica prevedeva poco più di 46.000 mila agenti, alla già pesante carenza che fa registrare un totale di 8.000/9.000 unità, si aggiunge quindi la beffa di oltre 10.000 colleghi sottratti agli istituti penitenziari e i loro compiti per cui verrebbero sbilanciati sulla povera restante Polizia Penitenziaria lasciata nella trincea detentiva delle oltre 200 "prigioni" come reali "prigionieri in divisa" a combattere il "crimine" sempre più autorevole, potente, prepotente e recrudescenze per il numero delle aggressioni, i ferimenti, gli insulti e non solo, Il saldo è misero: meno 25.500 poliziotte e poliziotti. Tutto ciò è intollerabile: da una parte agenti che con strenuo senso del dovere fanno di tutto per tenere in piedi un sistema al collasso, dall’altra un’amministrazione molto sensibile a parole,solo a parole, poco o quasi niente nei fatti. Il numero degli agenti negli istituti deve essere quello previsto dagli organici. Non è più tollerabile un sistema che chiede a pochi di fare il lavoro di molti. Serve un’inversione di rotta che consenta agli agenti di Polizia Penitenziaria di svolgere il proprio lavoro, oltre che con dedizione, anche con maggiore serenità. La situazione che oggi il Cosp denuncia in Calabria nella sede di Cosenza, ma ieri in Sicilia negli istituti Penitenziari di Messina, Gela, Giarre, Catania etc. è solo la punta di diamante della disastrosa economia umana che si è ereditata nell’abbandono delle assunzioni, dello scorrimento delle graduatorie 375 + 170 + 260 e degli ingessati concorsi che ancora oggi latitanti nelle decisioni dipartimentali, si assiste inermi. Il Coordinamento sindacale penitenziario rivolge accorato appello al Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi, ma anche all’Esecutivo Politico del Governo, Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al Ministro della Pubblica Amministrazione Marianna Madia e al Ministro dell’Interno Angelino Alfano affinché la Sicurezza Nazionale Penitenziaria del Paese non sia solo di per se uno spot pubblicistico politico momentaneo ma una vera risorsa da salvaguardare. Ci dichiariamo disponibili a qualsiasi incontro e confronto purché sul Tavolo del confronto ci si adagino fatti e non solo chiacchiere politichesi portate avanti da politicanti. Utilizziamo le risorse della CRI Militare Italiana della Difesa nelle priorità della Polizia penitenziaria per dare continuità alle specificità settoriali di Uomini e Donne che allo Stato e per lo Stato hanno dato e continuano a dare grande supporto specialistico, umano e professionale che non va assolutamente bistrattato. Intanto a Cosenza Carcere il personale è allo stremo delle forze ma nonostante ciò, si lasciano Poliziotti nei Compiti amministrativi Contabili di Ragioneria e personale ancora negli Uffici ad effettuare anche lavoro straordinario quello stesso budget che dovrebbe utilizzare il servizio operativo detentivo e delle traduzioni. Intanto il Sindacato Cosp con una nota urgente alle Autorità regionali della Calabria e del Dipartimento Roma ha chiesto una urgente verifica e ispezione sul luogo Cosentino, eventualmente - concludono - ascoltando direttamente dalla viva voce dei Poliziotti della trincea le criticità vissute sulla propria pelle e sulle proprie famiglie". Roma: Sappe; incendio nel carcere minorile di Casal del Marmo, bruciati due materassi romatoday.it, 25 luglio 2016 Si è sfiorata la tragedia martedì scorso nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma. La denuncia è del Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece: "Martedì 19 luglio, di sera nell’Istituto penale per Minorenni "Casal del Marmo" di Roma un detenuto minorenne ha dato fuoco a due materassi della propria camera detentiva. Nella sezione si è sviluppata una intensa coltre di fumo e solo grazie al tempestivo intervento degli agenti di Polizia Penitenziaria tutti i detenuti sono stati tratti in salvo e le fiamme sono state estinte. Il fumo tossico sprigionato dalle masserizie ha infatti messo a rischio l’incolumità di tutti i detenuti i quali sono stati temporaneamente evacuati in altri spazi dell’edificio. Durante l’opera di spegnimento delle fiamme un agente della penitenziaria si è infortunato ed è dovuto ricorrere alle cure ospedaliere. La situazione, grazie alla professionalità intervento è tornata sotto controllo, i danni alla struttura sono stati contenuti e tutti i ragazzi sono tonati nelle rispettive stanze di assegnazione. Il responsabile sarà denunciato all’Autorità Giudiziaria". Capece rivolge "solidarietà e vicinanza al Personale di Polizia Penitenziaria di Casal del Marmo, in particolare all’Agente ferito attualmente ricoverato in ospedale, che ancora una volta ha risolto in maniera professionale ed impeccabile un grave evento critico" e giudica la condotta dei detenuti che hanno provocato l’incendio "irresponsabile e gravissima. Nel 2015 abbiamo contato nelle carceri italiane 7.029 atti di autolesionismo, 956 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 4.688 colluttazioni, 921 ferimenti". "Le carceri, dunque, sono ad alta tensione anche nel Lazio: ma lo sono per gli Agenti di Polizia Penitenziaria, sempre più al centro di gravi eventi critici come quello di Casal del Marmo", conclude il leader nazionale del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria. "Alla teoria di chi parla di carceri conoscendoli poco, ossia dalla parte della Polizia Penitenziaria, vogliamo rispondere con la concretezza dei fatti. Che parte da un dato incontrovertibile: la Polizia Penitenziaria continua a tenere botta, nonostante le quotidiane aggressioni. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento. E nonostante la Polizia Penitenziaria sia carente di 8mila Agenti in organico, necessari anche per adeguare e potenziare i Reparti di Polizia delle carceri laziali e di Roma in particolare, la Legge di stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di 800 nuovi Agenti, a partire dall’assunzione degli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a frequentare i corsi di formazione. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane e del Lazio, per adulti e minori. Come dimostra l’incendio sventato martedì sera a Casal del Marmo", conclude. "Si tratta in meno di una settimana del secondo incendio di un materasso - denuncia il segretario Generale aggiunto della Fns Cisl Massimo Costantino. La Fns Cisl Lazio esprime solidarietà al collega. Personale di polizia penitenziaria che espleta servizi in situazioni difficoltose, considerata la carenza di personale". Cagliari: "Benessere... dentro e fuori" nuovo incontro nella sezione femminile di Uta Ristretti Orizzonti Nuovo appuntamento con "Benessere…. dentro e fuori" l’iniziativa che l’associazione "Socialismo Diritti Riforme" dedica alle detenute della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Organizzato con la collaborazione dell’Area Educativa dell’Istituto, il progetto, che è stato concordato con il Direttore del Penitenziario Gianfranco Pala, intende favorire una riflessione sulle criticità della convivenza nella sezione destinata alle donne all’interno del Villaggio Penitenziario, ubicato nell’area industriale di Cagliari, a circa 23 chilometri dal capoluogo. Giovedì 28 luglio, a partire dalle ore 10, le donne private della libertà incontreranno Maria Franca Marceddu, medico estetico, Maria Antonietta Mura, psicologa, e Rina Salis Toxiri, esperta in motivazione personale. Presenti Alessandra Uscidda, responsabile della sicurezza dell’Istituto, e Maria Grazia Caligaris, presidente di SDR. Nel corso dell’incontro le detenute riceveranno informazioni sulla cura della persona e sui trattamenti estetici. Riceveranno inoltre dei prodotti di bellezza messi a disposizione dal Centro Medico Estetico "Dalle ceneri della Fenice" di Cagliari. "La cura della persona - sottolinea Caligaris - è un aspetto non trascurabile specialmente nella convivenza forzata in spazi ristretti. Non è facile infatti condividere quotidianamente la stessa camera con una o più persone senza avere avuto la possibilità di incontrarle e conoscerle precedentemente, senza poter scegliere. Non meno importanti sono la capacità di adattamento alle abitudini individuali delle altre e il rispetto delle personali esigenze. Occorre inoltre considerare la difficoltà a gestire la propria identità personale senza subire prevaricazioni e contenere l’aggressività. Il mondo femminile della detenzione, che esprime anche in Sardegna il 4 - 5 % dell’intero universo dei reclusi, è particolarmente problematico. Richiede agli operatori della Sicurezza, agli educatori nonché ai Sanitari una disponibilità totale frutto di studio dei profili psicologici di ciascuna". "L’iniziativa, che è stata preceduta anche da incontri collettivi, sarà riproposta successivamente. L’intento è quello di contribuire a favorire relazioni più serene e costruttive tra i diversi attori dell’esperienza detentiva rispettando i ruoli ma valorizzando la storia personale e l’esperienza di figlie, madri, mogli, compagne. Un percorso - conclude la presidente di Sdr - ricco di riflessioni per la crescita di ciascuna". Catanzaro: nel carcere "Ugo Caridi" una sala per i colloqui con i bambini cn24tv.it, 25 luglio 2016 Si è svolta presso la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro l’inaugurazione della "Sala Soggiorno" per i colloqui con i bambini. Il progetto per l’accoglienza dei bambini ed i colloqui con il genitore in carcere, è stato promosso e realizzato dall’associazione Consolidal, Sezione di Catanzaro, presieduta dall’architetto Teresa Gualtieri, in piena sintonia e collaborazione con la direttrice della Casa Circondariale, dr.ssa Angela Paravati, che ha dimostrato grande disponibilità per l’attuazione dell’iniziativa. L’obiettivo primario che la Consolidal intende realizzare con questa iniziativa è quello di favorire e facilitare i rapporti tra genitori e minori creando le condizioni per un rapporto sereno in un contesto che, in qualche modo, cerca di riprodurre un ambiente familiare, agevolando l’estrinsecarsi della genitorialità, mirando alla umanizzazione della pena nel pieno rispetto della dignità umana. In tale spirito la Consolidal di Catanzaro ha proposto il progetto, anche nella convinzione, come verificato in numerose esperienze, che trascorrere il tempo dell’incontro con i parenti in serenità e recuperare il proprio ruolo di padre, produce un significativo miglioramento delle relazioni affettive e familiari e quindi abbassa il rischio di recidiva. La sala soggiorno vuole costituire uno spazio strutturato e attrezzato in modo confortevole, consono alle esigenze dei bambini, per offrire una atmosfera familiare e distesa. l rapporto con il genitore rappresenta non solo un bisogno/diritto indispensabile per una armoniosa crescita del minore, ma anche un momento fondamentale del percorso risocializzativo dei detenuti. L’iniziativa rappresenta un segno tangibile degli effetti positivi che la collaborazione sinergica tra pubblico e privato può determinare a beneficio della collettività. In tal senso si espresso il Vice presidente della Regione prof. Antonio Viscomi intervenuto all’incontro: "incoraggiante la solidarietà privata che sostiene un soggetto pubblico nel mantenere condizioni di umanità, a vantaggio dei più piccoli e per la loro crescita sana. Qui c’è una comunità di persone e come comunità deve essere considerata e aiutata nella sua funzione di rieducazione". Questo concetto è stato ripreso dall’Assessore regionale alle politiche sociali, dr.ssa Federica Roccisano che ha sottolineato che queste iniziative "costituiscono la teoria del caos al contrario, poiché creiamo qualcosa di positivo grazie alla sensibilità delle persone e a vantaggio delle stesse". La direttrice Angela Paravati si è soffermata sul concetto del carattere rieducativo della pena che non va intesa come una vendetta della società ma come un percorso di insegnamento, di inclusione che tende a fornire una valida alternativa al termine della detenzione. La presidente della Consolidal catanzarese, arch. Teresa Gualtieri ha illustrato le finalità dell’associazione tesa a promuovere la solidarietà, che deve essere fatta assieme, in modo da far capire che non si è soli e poter sperare in un futuro; ha ribadito che la società civile e le istituzioni devono unirsi per offrire un contributo e favorire le possibilità di recupero. L’iniziativa ha visto il coinvolgimento di alcuni detenuti che con maestria hanno affrescato le pareti della sala rendendola vivace e accogliente. Alla cerimonia sono intervenuti oltre al Vice presidente della Regione, Prof. Antonio Viscomi, l’assessore regionale alle politiche sociali, dott.ssa Federica Roccisano, la presidente della Sezione di Catanzaro della Consolidal, arch. Teresa Gualtieri e il pedagogista prof. Nicola Siciliani De Cumis. La cerimonia di inaugurazione è stata avviata dalla direttrice della casa circondariale, dott.ssa Angela Paravati. Presenti diversi soci e componenti del direttivo e tutto lo stato maggiore della Consolidal: il presidente nazionale avv. Rosario Chiriano, il vicepresidente nazionale, avv. Antonio Nania, e il segretario nazionale, avv. Luigi Bulotta. Hanno assistito all’evento numeroso detenuti e loro familiari e diversi bambini, figli dei detenuti. Livorno: Elbabook Festival, la parola ai detenuti di Ida Bozzi Corriere della Sera, 25 luglio 2016 Da martedì 26 a venerdì 29 luglio a Rio nell’Elba (Livorno) si svolge la manifestazione dedicata all’editoria indipendente. I temi: la bibliodiversità e le realtà sociali del libro. Non capita spesso di incontrare tra gli ospiti di una rassegna estiva i detenuti di un carcere. Nello spirito di inclusione e integrazione dell’Elbabook Festival, invece, una delle serate sarà dedicata proprio a loro: la seconda edizione della kermesse dell’editoria indipendente, che si svolge da domani a venerdì 29 luglio a Rio nell’Elba (Livorno), riflette sui temi della bibliodiversità e sulle riserve culturali (come le biblioteche) da preservare, oltre che sulle realtà sociali in cui il libro è uno strumento per emanciparsi o rimettersi in gioco. Ogni giorno, la manifestazione diretta da Marco Belli (la direzione organizzativa è di Roberta Bergamaschi, Giorgio Rizzoni e Andrea Lunghi) proporrà incontri con gli editori, degustazioni, laboratori, dibattiti e spettacoli. Domani, dopo l’inaugurazione del bookshop dei 24 editori presenti, il primo evento sarà l’assegnazione del premio "Lorenzo Claris Appiani" per la traduzione, per testi tradotti dall’arabo all’italiano (ore 19.30), seguito dall’incontro Biblioteche, granai contro l’inverno dello spirito, con Andrea Kerbaker, Giuseppe Marcenaro e Matteo Codignola (ore 22). Mercoledì 27 si aprirà il dibattito su Libro, scuola, nuove cittadinanzedi cui parleranno gli autori Tahar Lamri e Mihai Butcovan, e alle 22 prenderanno la parola i detenuti del carcere di Porto Azzurro, con i racconti delle loro esperienze dietro le sbarre; al termine, il docu-film Asmarina, sulla comunità eritrea in Italia, di Alan Maglio e Medhin Paolos. Da citare anche il 28 un dibattito su Diritto d’autore e nuove configurazioni dell’editoria indipendente. Avellino: Concorso Internazionale di poesia, premiati i detenuti di Sant’Angelo ilciriaco.it, 25 luglio 2016 Si sta svolgendo in questi giorni la XX edizione del Concorso Internazionale di poesia promosso dal Centro Studi Storici "Il Saggio" di Eboli (Sa), un premio letterario tra i più importanti a livello internazionale. La manifestazione ha inteso promuovere l’importanza del processo creativo nell’edificazione di una crescita interiore e culturale che coniughi il sapere della mano a quello della mente. La sezione dedicata agli autori campani si è conclusa con la premiazione dei vincitori, al termine di una sobria cerimonia che si è svolta il 20 luglio 2016 nell’elegante chiostro di San Francesco in Eboli. Quest’anno tra i premiati si annoverano i nomi di alcuni detenuti della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Av), i quali hanno partecipato al laboratorio testuale ideato e coordinato dalla prof.ssa Carmela Figundio, foriero delle poesie che hanno portato tutti e sette i partecipanti alla finale, conquistando tutti significativi riconoscimenti; questi i nomi: R. Goodman, A. Salvati, S. Romanino, C. Fortezza, V. Russo, D. Bentino, A. Dell’Annunziata. L’iniziativa, fortemente sostenuta dal direttore della C.R. di Sant’Angelo dei Lombardi, dott. Massimiliano Forgione e dal preside dell’IISS "Francesco de Sanctis", prof. Giovanni Ferrante, si colloca in un disegno che contempla l’importanza di un ampliamento delle opportunità trattamentali dei ristretti. Al Concorso hanno aderito anche altre strutture penitenziarie, quali la C.R di Eboli (SA) e la C.C. di Airola (BN), oltre a 900 aspiranti poeti internazionali. Al ritiro dei premi, erano presenti, la docente dell’ITC "F. de Sanctis", prof.ssa Carmela Figundio e, in rappresentanza del l’Amministrazione penitenziaria, il Capo Area Trattamentale della C.R. di Sant’Angelo dei Lombardi, dott. Enrico Farina che ha sottolineato l’importanza di tali iniziative culturali nel processo di integrazione e di recupero sociale dei detenuti. Ringraziamenti particolari vanno al Cav. prof. Giuseppe Barra promotore e responsabile della manifestazione, al Dirigente Scolastico prof. Giovanni Ferrante sempre sensibile alle dinamiche culturali del territorio, al Direttore C. R. dott. Massimiliano Forgione sempre pronto e disponibile, al dott. Enrico Farina per la sua preziosa collaborazione e alla Polizia Penitenziaria che ha garantito una gestione sempre attenta alle esigenze di ordine e sicurezza, senza mai tralasciare l’attenzione ed il supporto nelle attività rieducative dei ristretti. La poesia rende magicamente liberi, plaude dall’animo e dice a gran voce che "..v’è spazio per una seconda, immensa vita senza tempo". Ravenna: il Soul nel carcere, due concerti dedicati ai detenuti ravennatoday.it, 25 luglio 2016 Spiagge soul organizza due concerti per detenuti, il primo è il 25 luglio. Quest’anno, per la prima volta, il festival Spiagge Soul include due tappe molto speciali, che proveranno a unire passione per la musica e attenzione per il sociale: sono i concerti nella casa circondariale di Ravenna, previsti il 25 luglio e il 2 agosto. Si parte con la performance del chitarrista Paul Venturiche insieme ai Poor Boys, il duo composto da Ste Barigazzi e Enrico Zanni, porterà le note e i ritmi del blues nel cortile del carcere di Ravenna. Il 2 agosto, invece, il bis con le percussioni dell’artista maliano Sidiki Camara. Non solo musica, però. In entrambi i concerti, la parte musicale sarà intervallata dai racconti degli artisti, in uno scambio culturale e, quindi, anche umano, con chi ogni giorno deve fare i conti con la vita all’interno di una struttura penitenziaria. L’evento nasce dalla convinzione che le note non raccontino solo un genere musicale, ma anche la biografia di chi nella musica ha trovato non solo un lavoro ma, spesso, anche il senso della propria vita. È questo lo spirito che il festival della "musica dell’anima" intende portare dentro le mura del carcere ravennate. Risultato di un più ampio progetto di educazione musicale che l’Associazione culturale "Blues Eye" ha portato avanti questa primavera dentro la casa circondariale, con un corso di chitarra rivolto a sei detenuti che si è concluso con un saggio-concerto il 21 giugno, in occasione della Festa europea della musica. "Come associazione culturale - spiega Francesco Plazzi, direttore artistico di Spiagge Soul - lavoriamo per far conoscere la musica in ogni suo aspetto: è importante la parte ludica, ma anche quella formativa, che nutre la nostra capacità di relazione con il mondo. Per questo, ci è sembrato importante poter portare una cosa bella come la musica in un luogo dove si trovano persone che fanno i conti ogni giorno con l’assenza di libertà. Questo è un progetto a cui teniamo molto - prosegue Plazzi - e che contiamo di far diventare un appuntamento fisso di Spiagge Soul, da curare e far crescere, così come abbiamo fatto con i laboratori musicali nelle scuole ravennati". L’associazione "Blues Eye" porta avanti da anni un lavoro di promozione culturale in ambito musicale, attraverso iniziative di carattere pedagogico. Tra queste, il corso di musica rivolto a studenti delle scuole elementari e medie inferiori del ravennate, giunto alla sua seconda edizione. Un esempio felice di come questa forma d’arte si presti in maniera efficace nei percorsi di integrazione scolastica e dialogo interculturale. I ragazzi delle scuole, provenienti da diverse etnie, hanno potuto non solo apprendere i rudimenti di uno strumento musicale, ma anche confrontarsi tra di loro e con gruppi di musicisti professionisti: la musica è stato il punto di partenza di una discussione più ampia, che ha toccato aspetti personali delle loro vite, raccogliendo una risposta entusiasta e partecipata. Spiagge Soul è il festival di musica soul, giunto all’ottava edizione, che dal 18 luglio al 1°agosto, con due anteprime il 14 e il 15 luglio, invade con diciassette giorni di grande musica spiagge, piazze, strade e stabilimenti balneari di Ravenna, Marina di Ravenna e dei lidi ravennati. Nel 2015 più di 20mila persone hanno assistito ai tanti eventi in calendario, tutti rigorosamente a ingresso gratuito. La banalità del terrore di Ilvo Diamanti La Repubblica, 25 luglio 2016 L’impressionante sequenza di attentati, nel medio ed estremo Oriente e nella nostra Europa scandisce le nostre giornate. E genera insicurezza. Viviamo tempi feroci. Segnati dal sangue. Scanditi da eventi drammatici, che si susseguono. Senza soluzione di continuità. Ogni giorno, ogni volta che apriamo il sito di un quotidiano online, oppure guardiamo i notiziari in TV, cerchiamo subito la notizia del nuovo, ennesimo massacro. E, purtroppo la nostra attesa non viene mai delusa. Negli ultimi giorni: almeno 20 morti a Bagdad, vittime di un uomo che si è fatto esplodere presso un centro commerciale. Mentre a Kabul, in un attentato compiuto durante un grande corteo, sono morte 80 persone - e più di duecento sono rimaste ferite. Da qualche giorno, peraltro, questi massacri lontani ci appaiono meno lontani. Perché, si sa, quel che avviene laggiù, nell’Oriente medio ed estremo, ci sorprende e ci spaventa di meno. In fondo, è lontano dagli occhi, anche se i media annullano tempi e distanze. Ma, soprattutto, laggiù ci sembra - più - normale. In fondo, pensiamo, nell’Oriente medio ed estremo, guerre, attentati, massacri: sono sempre avvenuti. Ma oggi questi avvenimenti non avvengono solo laggiù. Oltre i confini del - nostro - mondo. Capitano anche qui, vicino a noi. Nel "nostro" mondo. Da qualche tempo, con frequenza, con crescente regolarità. Dunque: regolarmente. Nei giorni scorsi: in Germania, a Monaco, un ragazzo di 18 anni nato e cresciuto in Baviera, ma di origine iraniana, ha ucciso, a colpi di pistola, dieci persone e ne ha ferite 27, alcune in modo molto grave. Perlopiù giovani e giovanissimi. Anche perché aveva cercato i suoi bersagli nell’area, affollata, fra un ristorante McDonald’s e un centro commerciale a nord della città. Pochi giorni prima, in un treno, ancora in Baviera, un ragazzo afgano aveva ferito quattro persone a colpi di accetta. Ma la scena consueta e, a noi prossima, di queste storie di ordinaria e sanguinaria violenza è la Francia. A partire dall’8 gennaio 2015, con l’irruzione di alcuni giovani armati nella sede di Charlie Hebdo. Dove morirono 12 persone. Autori, redattori. Due giorni dopo, sempre a Parigi, in un market kosher, altre 4 vittime. Poi, il 13 novembre dello stesso anno, in alcuni attacchi suicidi coordinati - allo Stadio, nella sala concerti del Bataclan e nelle strade intorno a Place de la Republique - vennero massacrate altre 130 persone. Da allora gli attentati non sono mai cessati. Come le vittime. Nella vicina Bruxelles, base di partenza di parte degli attentatori e delle armi diretti a Parigi. Dove lo scorso marzo, fra l’aeroporto e una stazione della metro, vi sono state oltre 30 vittime Di recente, infine, gli attacchi sono ripresi. Ancora in Francia. In occasione degli europei, quando, nella periferia parigina, Larossi Abballa ha assassinato due poliziotti, marito e moglie, a colpi di coltello. Nei giorni scorsi, però, l’azione omicida si è intensificata. A Nizza. Dove il 14 luglio, durante i festeggiamenti nell’anniversario della presa della Bastiglia, lungo la Promenade des Anglais, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, alla guida di un camion, ha provocato la morte di 84 persone e il ferimento di altre centinaia. Propongo questa cronaca funebre e dolorosa, nonostante riprenda fatti e avvenimenti, purtroppo, noti. Ma serve, anzitutto, a me. Per tener viva la memoria della morte (mi scuso del gioco di parole un pò macabro) che oggi scandisce le nostre giornate. E compone le immagini della nostra "vita" quotidiana. Che non sa più prescindere da questa violenza. L’Osservatorio Europeo sulla (In)Sicurezza, di Demos, Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, nell’indagine dello scorso febbraio, dunque, prima della recente, violenta ondata di eventi sanguinosi, individuava la prima causa delle nostre inquietudini nelle paure globali. Malattie, fattori climatici e ambientali. Ma soprattutto il terrorismo. La preoccupazione sollevata dagli atti terroristici, infatti, coinvolgeva quasi il 44% degli italiani. Il livello più elevato degli ultimi anni. E quasi 15 punti in più rispetto al 2010. Rispetto allo scorso febbraio, però, penso che la misura di questo sentimento sia cresciuta ancora. Sensibilmente. Tanta insicurezza, alimentata da tanti avvenimenti drammatici, che si ripetono sempre più frequenti, rischia di erodere, fin quasi a dissolvere, il senso drammatico di quel che sta capitando. Di routinizzare l’orrore e il terrore. D’altronde, il dibattito sui nostri media riflette la nostra tentazione di "normalizzare" questi eventi drammatici. Di dar loro una spiegazione che ci permetta di "comprenderli". Di assecondare oppure contraddire le interpretazioni correnti. Le chiavi di lettura privilegiate. Che si tratti, dovunque, di attentati guidati dall’IS. Lo Stato Islamico, senza territorio, alla ricerca di un territorio. Che, per questo, può agire dovunque, in ogni territorio. Fino a casa nostra. Oppure, al contrario, che l’IS non c’entri. E divenga un alibi. Lo sfondo ideologico per l’azione di un terrorismo-fai-da-te. Esercitato da piccoli uomini perduti nelle periferie della nostra società, in cerca di un momento e di un luogo che dia loro centralità. Terroristi organizzati oppure improvvisati. Tutti islamici - radicali o radicalizzati. Nativi o convertiti. Oppure no. Islamici e terroristi per caso. Giovani e meno giovani. Disadattati. In cerca di adattamento, protagonismo, identità. Mi rendo conto di scrivere e dire cose banali. Ma la "banalità del male", come ha insegnato Hannah Harendt, ricostruendo una vicenda radicata nelle tenebre della nostra storia recente, incombe sempre. Su di noi. Che seguiamo i notiziari sui media - tradizionali e nuovi. E ci chiediamo, ogni volta, cosa sarà successo di nuovo. Di tragico. Quale attentato e dove. Lontano o dietro casa nostra. Con quante vittime. E quali protagonisti. Musulmani oppure no. Islamici oppure no. Gli attentati e i massacri dati per scontati. Argomenti riprodotti dai talk, che, per citare Edmondo Berselli, richiedono "shock continui". E ancora: la banalità delle opposte spiegazioni. Parallele. Favoriscono l’abitudine al terrore e alla morte. La narcosi della coscienza. Non dobbiamo rassegnarci. Tre Comuni su quattro senza migranti. ma più di mille sono già in emergenza di Raphaël Zanotti La Stampa, 25 luglio 2016 In un mondo ideale gli uomini sono numeri primi, divisibili solo per uno o per se stessi. Ognuno con la propria storia, le proprie esperienze, le proprie speranze. Da anni, invece, l’emergenza profughi ci costringe ad aritmetiche diverse: quanti pasti, quanti richiedenti asilo, quante strutture. Non è un calcolo facile e spesso s’intreccia con le istanze della politica che esasperano certi numeri o li minimizzano. La Stampa, per la prima volta, è in grado di fornire tutti i dati e mostrare quali sono i Comuni che accolgono più richiedenti asilo e rifugiati e quali meno, quali territori sono in difficoltà e quali non sono toccati dal problema. Un progetto nato dopo che, nei giorni scorsi, molti sindaci hanno lanciato un grido d’allarme, schiacciati sotto il peso di una questione complessa e più grande di loro. "Sono troppi, non ce la facciamo più" hanno protestato. Nell’occhio del ciclone è finito quel sistema dell’emergenza che permette ai prefetti di imporre alle amministrazioni comunali di farsi carico di un certo numero di richiedenti asilo. Alle proteste il ministro Angelino Alfano ha risposto approntando un piano che preveda una distribuzione più equa delle "quote": due o tre persone ogni mille abitanti è l’obiettivo. Ma è fattibile? E come impatterà sul Paese? Per scoprirlo siamo andati a controllare la situazione di oggi. I dati sono la fotografia del 20 luglio scorso. Legge sulla cannabis, l’ostacolo dei 2 mila emendamenti di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 25 luglio 2016 Oggi parte l’iter a Montecitorio. Contraria la ministra Lorenzin e Ncd spacca la maggioranza. Il disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis arriva oggi a Montecitorio. Un iter faticoso, con l’approdo direttamente in Aula dalle commissioni congiunte Giustizia e Affari sociali, per superare l’ostacolo dei 1.600 emendamenti. Un ddl con padri di diverse fedi politiche, visto che ha 225 deputati firmatari di tutti i gruppi, esclusi Ncd e Lega Nord. Il voto non ci sarà probabilmente prima di settembre, ma l’ostacolo più duro resta Palazzo Madama, dove sarà un’impresa trovare una maggioranza. L’antipasto degli scontri c’è già stato ieri, con i duri attacchi lanciati da Ncd contro il promotore del ddl, il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova. L’obiettivo dei promotori è sottrarre alla criminalità un mercato che si stima tra i 15 e i 30 miliardi di euro all’anno. Se passasse il testo, verrebbero meno i divieti posti dalla legge Iervolino-Vassalli del 1990: sarà possibile coltivare per uso personale fino a cinque piante (sono previsti anche i cannabis social club); i maggiorenni potranno detenere fino a 15 grammi in casa (5 all’esterno); sarà possibile la vendita di cannabis, con autorizzazioni rilasciate dall’agenzia dei Monopoli; resta vietato l’uso in pubblico; norme più semplici. Norme contestate da Ncd. Maurizio Lupi attacca Della Vedova: "Concentrati sugli Esteri e lascia al Parlamento questi temi". Controreplica: "Attacco ipocrita, Lupi non usi il governo per la sua battaglia proibizionista". Contraria anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin: "Si è fatto passare un messaggio per cui è normale drogarsi. Noi diciamo no e lottiamo contro le dipendenze: alcol, droga e gioco". Ribatte Della Vedova: "Intende proibire birra e sigarette?". Tra i favorevoli, i 5 Stelle e Sel. In Forza Italia una manciata di firmatari, come in Scelta Civica. Il vero nodo è il Pd. I firmatari dem sono 89, ma non figurano personalità di rilievo. I sostenitori della legalizzazione citano l’ultima relazione della Direzione antimafia. I contrari, frasi di Paolo Borsellino e di Nicola Gratteri. Della Vedova spiega di avere incontrato Bill Blair, parlamentare liberale ed ex capo della polizia di Toronto, "che ha scritto il testo di legalizzazione che il Canada sta per adottare". Favorevole anche Bill Gates, che ha raccontato a Della Vedova della nuova app che consente la tracciabilità della droga nei Paesi dove viene legalizzata. In aula gli emendamenti potrebbero arrivare a 2 mila. Fuori da Montecitorio ci saranno i radicali italiani che raccolgono le firme di una proposta di legge di iniziativa popolare insieme all’associazione Luca Coscioni. Perché, come spiega Riccardo Magi, "sosteniamo il legislatore, ma sappiamo che la controffensiva proibizionista è già partita: meglio non abbassare la guardia e rilanciare, dando voce ai cittadini". Il dibattito sulla cannabis e l’importanza della legge di Paolo Mieli Corriere della Sera, 25 luglio 2016 Se approvata, sarebbe una nuova conquista sul fronte dei diritti, dopo il sì alle unioni civili Consentirebbe di regolare un mercato nascosto e sempre più florido. Per la prima volta dopo un tempo infinito, la discussione su questi temi si è svolta in termini pacati. Un mese fa l’esponente democratico Roberto Giachetti è stato sconfitto alle elezioni per la conquista del Campidoglio. Adesso potrebbe essere risarcito con la titolarità di qualcosa probabilmente più importante, comunque destinata a restare nella storia del nostro Paese. Oggi infatti la Camera inizia la discussione sul disegno di legge per la legalizzazione della cannabis promosso dal sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova (oltreché da Giachetti, entrambi "nati" nel Partito radicale), firmato da 221 deputati e 73 senatori appartenenti a tutti gli schieramenti politici (anche se il voto non ci sarà prima di settembre). Legalizzazione, non liberalizzazione, si badi, e questo è un dato di importanza fondamentale. La legalizzazione è già stata in varie forme sperimentata in Olanda, Spagna, Portogallo, Germania, Svizzera, Repubblica Ceca e Regno Unito. Se la legge passasse, ad un maggiorenne sarebbe lecito tenere in casa quindici grammi di marijuana. Fuori casa, di grammi potrebbe portarne in tasca cinque. La stessa persona potrebbe coltivarne sul terrazzo o in giardino qualche piantina, al massimo cinque. Ma, sul modello spagnolo, si potrebbe collegare, in "club della marijuana", ad altre persone, non più di cinquanta, alle quali sarebbe concesso di disporre di una piccola piantagione. Senza fini di lucro, ovviamente. Il cosiddetto "cannabis social club", ha dichiarato il relatore della legge in Commissione giustizia Daniele Farina ad Alessandra Arachi su questo giornale, è il tentativo di generare un "monopolio attenuato" e consentire a pazienti che ricorrono alla sostanza a scopo terapeutico, di associarsi tra loro. Verrebbero inoltre creati punti vendita (come le tabaccherie) vigilati dal ministero della Salute e sarebbe previsto il divieto di "consumarla" all’aperto, di fare pubblicità e, come per l’alcol, verrebbero previste sanzioni per chi si mette alla guida di un’auto dopo avene fatto uso. La legge disporrebbe dell’avallo di un importante magistrato, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, sensibile alla possibilità di stroncare con la legalizzazione un mercato clandestino che si aggira sui venti, trenta miliardi di euro. Ma il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, in lotta su un fronte molto speciale con la ‘ndrangheta e il narcotraffico, si dice tuttora contrario a un tal genere di legge. La guerra alla marijuana risale alla campagna degli anni Trenta che i giornali della catena americana di William Randolph Hearst fecero contro la canapa indiana e che raggiunse l’acme nel 1937 con il varo dell’iper proibizionista "Marijuana Tax Act". Il direttore del Federal Bureau of Narcotics, Harry Jacob Anslinger all’epoca accusò la sostanza di essere ispiratrice di "musica satanica", di avere "effetti malefici" sulle "razze degenerate" e di essere "la droga che più ha causato violenza nella storia dell’uomo". Nel secondo dopoguerra il proibizionismo continuò ad imperare nonostante la generazione beat facesse ampio uso di quelle droghe light alle quali attribuiva un fondamentale stimolo alla creatività artistica. Finché, negli anni Sessanta, fu un grande dell’economia, Milton Friedman, a sdoganarle facendo notare come il proibizionismo producesse su tutti i fronti effetti contrari a quelli per i quali era stato adottato. Fu poi la volta dello scrittore Mario Vargas Llosa. Entrambi premi Nobel, a cui si aggiunsero Vernon Smith, Thomas Schelling, Eric Maskin, Oliver Williamson (economisti) e un numero sterminato di medici che ne difesero le potenzialità terapeutiche. In Italia antesignano della battaglia per la legalizzazione della marijuana fu Marco Pannella. Scesero poi in campo a favore della legalizzazione, il settimanale The Economist, la rivista The Lancet che pubblicò un fondamentale studio di David Nutt, la London School of Economics. Ma l’America di Ronald Reagan e l’Italia di Bettino Craxi sono stati refrattari, negli anni Ottanta, a socchiudere le porte alla marijuana. Probabilmente più per motivi psicologici che d’ordine medico, economico o inerenti alla diffusione della criminalità. Le cose sono cambiate in tempi più recenti e si è creato il fronte trasversale a favore della legalizzazione di cui si è detto all’inizio. Se approvata, la legge italiana sarebbe, dopo quella sulle unioni civili, una conquista sul fronte dei diritti. E consentirebbe di dare una regola di legge ad un mercato nascosto peraltro sempre più florido. Quel che colpisce, almeno fino a questo momento, è che, per la prima volta dopo un tempo infinito, la discussione su questi temi si sia svolta in termini più che pacati e le tesi contrapposte si siano confrontate a suon di argomenti e non di invettive. Ancor più straordinario è che si sia fin qui evitata ogni forma di strumentalizzazione politica di questo dibattito. Quella politicizzazione di cui si lamentava Goffredo Parise in una lettera - conservata nel libro Se mi vede Cecchi, sono fritto (Adelphi) - a Carlo Emilio Gadda del 24 agosto 1963: "Tutto si politicizza in Italia, tutto si storicizza, in questo paese non storico, non politico, ma tronfio all’inverosimile. In ognuno dei nostrani alberga il megalomane, l’uomo-idea o l’uomo centro, intellettuale transfert, sul piano della pseudo cultura, del gallo, del cazzone… Di scempi, di scemi, prole e prole e prole di cretini e di somari, cioè del connubio di infinite realtà volgari, di ambizioni smisurate, di cazzoritteria impotente". Stavolta (almeno fino ad oggi) no. E forse la battaglia sulla legalizzazione della canapa indiana non si politicizzerà nella maniera descritta da Parise, eccezion fatta per qualche eccesso marginale che, però, sarebbe eccessivamente ottimista non mettere nel conto. Andasse avanti come è andata fino ad ora, il Paese otterrebbe due successi assieme alla legge sulle droghe leggere: un dibattito in punta di argomenti e un fronte trasversale che, pure in una fase assai travagliata della nostra vita parlamentare, riesce a costruire qualcosa anziché dar prova della propria energia muscolare mandando in frantumi ciò che è stato fatto da altri. E non è detto che questi due risultati siano di importanza minore del primo. Legalizzazione cannabis, così può indebolire mafie e terrorismo di Roberto Saviano La Repubblica, 25 luglio 2016 Le parole d’ordine siano: "Non voglio drogarmi, odio il consumo, per questo sono a favore" del disegno di legge che arriva finalmente in Parlamento. Parlare di legalizzazione delle droghe leggere (lo faccio da anni) non è affatto semplice. E sapete perché? Perché legalizzare viene percepito come "fate pure", anzi "fatevi pure". Anche adesso che in Parlamento finalmente comincia la discussione sul disegno di legge, la confusione tra legalizzazione e incentivo a fare uso di droghe è il grande equivoco su cui discutere. Legalizzazione è esattamente il contrario della promozione al consumo. Legalizzare significa portare alla luce ciò che fino ad ora è stato avvolto dall’oscurità più cupa del mercato nero. Legalizzare le droghe leggere farà estinguere le mafie? Nemmeno a parlarne. Legalizzare le droghe leggere farà scomparire completamente il mercato illegale? Ovviamente no. E allora perché legalizzare? Perché legalizzarle indebolirà le mafie sottraendo loro capitali e allo stesso tempo ridimensionerà il mercato illegale. Chi vorrà fumare uno spinello preferirà di certo sostanze controllate che si possono acquistare regolarmente, senza incorrere in sanzioni, e non andrà a cercare un pusher giù in strada, non chiamerà lo spacciatore che si "leva" il fumo in casa, inventando parole in codice al telefono per capire se è un momento buono per andare a prenderlo o no. Eppure è così difficile fare breccia nei ragionamenti di chi è contrario senza appello. Di chi non vuole sentire ragioni perché - dice - "non si può scendere a patti con le mafie", "non si può accettare il male minore", "si devono debellare le droghe, non renderle legali". Chi potrebbe dirsi contrario, teoricamente, a questi principi? Il genitore che teme per i propri figli? Il fratello che ha scoperto che il piccolo di casa fuma spinelli di nascosto? Non scherziamo: a nessuno verrebbe in mente di mettere in discussione questi principi generali. Ma dobbiamo fare i conti con il mondo reale. E il mondo reale è quello in cui chi fuma due pacchetti di sigarette al giorno (ma anche uno) rischia di ammalarsi di cancro. Il mondo reale è quello in cui quando bevi tre cocktail sei pericoloso per te stesso e per chi trovi sulla tua strada se poi ti metti al volante. In Italia le vittime del tabacco sono stimate sulle 80mila all’anno. Le vittime dell’alcol 40mila. E invece non c’è una sola vittima causata da droghe leggere. Nemmeno una. Non convincerò gli scettici dicendo che applicando alla cannabis la stessa imposta del tabacco lo Stato incasserebbe in tasse tra i 6 e gli 8 miliardi di euro. Ma forse potrei richiamarli alla responsabilità ricordando che le droghe leggere sono merce di scambio tra organizzazioni criminali e organizzazioni terroristiche. Sapete come è stato finanziato l’attentato in Spagna del 2004? Con l’hashish che i gruppi vicini ad Al Qaeda hanno venduto anche alla camorra napoletana. Lazarat, in Albania, la capitale mondiale della marijuana, è finita sotto il controllo di gruppi criminali che sostengono Daesh. L’Is controlla ormai una produzione da oltre 5 miliardi di dollari. Sì, l’erba e l’hashish sono diventati gli strumenti primi di finanziamento delle organizzazioni fondamentaliste. E legalizzare sarebbe adesso un modo per sottrarre alle organizzazioni criminali tra gli 8 e gli 11 miliardi di euro l’anno. Dove voglio arrivare? Esattamente qui: se il mondo che viviamo non ci piace, abbiamo davanti a noi due possibilità. La prima è pensare al mondo ideale che vorremmo e quindi percepire come compromissorie tutte le misure intermedie, quelle che intervengono riformando gradualmente, e che siccome non riescono a risolvere il problema immediatamente e nella sua totalità vengono avvertite come inutili. L’idealità sarà salva: ma la realtà va in rovina sempre più, allontanandosi dunque irrimediabilmente da quel mondo tanto ideale quanto irraggiungibile. La seconda possibilità che abbiamo è quella di provare a "riformare" la realtà che viviamo: procedendo per tentativi, ragionando, misurandosi con la complessità dei problemi reali. Esempio. Le mafie esistono, fanno affari con il traffico di droga, ma anche con edilizia, appalti, servizi, gioco d’azzardo, ovunque c’è una falla nel sistema, o meglio, ovunque c’è una "domanda" a cui fare corrispondere un’"offerta". Ma di tutti questi ambiti il più redditizio resta il mercato degli stupefacenti. Perché è il più rischioso: ma è anche quello che procura i capitali per poter poi occuparsi di tutto il resto. Dove credete infatti che le organizzazioni trovino la liquidità per corrompere amministratori pubblici e politici? Dove credete che trovino le risorse per poter creare dal nulla aziende competitive sul mercato, che anzi con il mercato a volte non devono nemmeno confrontarsi perché guadagnano altrove e lì ripuliscono solo? La risposta a tutte queste domande non può essere il solito mantra: "Anche Paolo Borsellino era contro la legalizzazione". E non solo perché Borsellino diceva innanzitutto una cosa diversa: "Non bisogna stabilire una equazione assoluta tra mafia e traffico di stupefacenti, la mafia esisteva ancora prima e probabilmente, se mai dovesse scomparire il traffico di stupefacenti, la mafia esisterà anche dopo. È da dilettanti di criminologia pensare che legalizzando il traffico di droga, sparirebbe del tutto il traffico clandestino". Giustissimo: infatti la mafia non scomparirà. Ma dovrà leccarsi le ferite: perché uno Stato che legalizza le droghe leggere è uno Stato forte che non ha paura di combattere. Guardiamo poi i dati. Il Portogallo nel 2001 depenalizza la cannabis e lì in 15 anni diminuisce il consumo. L’Uruguay nel 2013 e il Colorado nel 2014 ne legalizzano il commercio a scopo ricreativo: e anche lì il consumo diminuisce invece di aumentare. Ma non basta. Chi continua a opporsi alla legalizzazione ragiona più o meno così: se le droghe leggere venissero legalizzate si incrementerebbe il mercato di droghe più pericolose che lo Stato non potrebbe affatto legalizzare (droghe chimiche, cocaina, eroina). Ma perché mai? Se le droghe leggere divenissero legali, chi ne faceva uso prima potrebbe continuare a farlo senza rischiare sanzioni. Il mercato delle droghe, come ogni altro mercato, è fatto di domanda e offerta. E oggi le organizzazioni criminali rispondono perfettamente alla domanda di droghe diverse da quelle leggere, essendo un ambito nel quale le mafie hanno maniacale attenzione. È evidente come su questo fronte non cambierebbe nulla e chi oggi fa uso di droghe leggere non inizierebbe certo a fare uso di cocaina, eroina o metanfetamina solo perché quelle leggere sono diventate legali. Sembra una barzelletta: Tizio fino a ieri fumava solo spinelli, ma da quando lo spinello è legale, per il gusto di trasgredire, ha deciso di sniffare cocaina. A me sembra un ragionamento assolutamente privo di buon senso. E a voi? Ecco perché il fatto che il Parlamento oggi discuta una legge moderna sulla legalizzazione è già un atto rivoluzionario. Certo la speranza è che non diventi, come è successo con il ddl Cirinnà sulle unioni civili, bersaglio della politica più retrograda. Non permettiamo che la discussione si concentri unicamente sulla coltivazione della canapa a uso terapeutico ma pretendiamo invece responsabilità: è della legalizzazione della cannabis a uso ricreativo che si deve discutere, unico strumento che abbiamo per arginare lo strapotere delle organizzazioni criminali e per far diminuire il consumo. La repressione ha fallito. È tempo che Parlamento e politici italiani prendano posizione a favore di questa legge e lo facciano con fermezza. Basta con le questioni di principio: è con i dati alla mano che bisogna lavorare per indebolire le mafie. I 1.300 emendamenti presentati da Area popolare e il silenzio, su questo, del presidente del consiglio dimostrano, ancora una volta, come la politica non riesca a liberarsi da quella zavorra che ha un nome preciso: e si chiama ricerca del consenso. Nel senso più semplicistico di voti - e potere. Invece le nuove energie sociali e lo sviluppo si sprigionano proprio dal coraggio in tema di diritti, come accaduto per la legge sulle unioni civili: sbilenca, ma almeno esistente. Per questo il mio appello è rivolto soprattutto a chi non ha mai pensato minimamente di fare uso di droghe leggere né di volerne un uso di massa. Le parole d’ordine, insomma, sono "non voglio drogarmi, odio il consumo. E per questo legalizzo". Un errore legalizzare la cannabis. Provoca danni sociali per miliardi di Antonio Maria Costa La Stampa, 25 luglio 2016 Sì all’uso terapeutico e no al libero mercato, ma senza criminalizzare i consumatori. Da oltre un secolo vari accordi internazionali sanciscono l’uso della droga solo a scopo terapeutico: l’uso ricreativo è interdetto. Il risultato di tale politica è discusso. Dal punto di vista della salute, i benefici sono innegabili. La droga è consumata dal 5 percento della popolazione mondiale, assai meno di tabacco (30%) e alcol (25%). I decessi per droga ammontano a 500 mila l’anno, contro l’ecatombe causata da tabacco (6 milioni) e alcol (3 milioni). Al contempo, l’interdizione della droga ha dato luogo a uno spaventoso narco-traffico, per un giro d’affari annuo di 300 miliardi di dollari. Intere regioni in Asia e America Latina, dove la droga è coltivata, sono in mano ai fuori-legge. La riforma della politica sulla droga mira a preservare i benefici e rimediare ai danni (tralascio coloro che, per ideologia, rifiutano ogni controllo pubblico sui consumi privati, anche se dannosi all’individuo e alla comunità). Per mostrare il delicato equilibrio tra costi e benefici dell’attuale politica, esaminiamo la droga più comune al mondo: la cannabis, consumata come erba (marijuana), resina (hashish) e olio (hash) da oltre 180 milioni di persone, almeno una volta l’anno. Nel mondo, e in Italia, la riforma è motivata da due obiettivi. Primo, creare sistemi di offerta (privati negli Usa, pubblici in Europa e Sudamerica) alternativi alla mafia appunto per ridurre narcotraffico e violenza. Un proposito nobile, sulla carta. In Italia, per esempio, a favore della riforma si esprime la direzione nazionale antimafia che riconosce il "fallimento dell’azione repressiva" del piccolo spaccio, senza evidenziare l’ipocrisia di un mondo dove le banche riciclano impunemente i miliardi delle narcomafie. In altre parole, si perde la lotta alla droga perché non la si combatte: di qui la rassegnazione che porta alla legalizzazione. Anche il secondo obiettivo fa discutere. Definendo la cannabis droga leggera, la riforma privilegia il controllo dell’offerta senza corrispondente riduzione della domanda (e relativa protezione della salute). È vero che la cannabis raramente porta alla morte: infatti, l’impatto non è sul fisico, ma sul cervello. In altre parole, eroina e cocaina danneggiano l’hardware dell’organismo, mentre cannabis e amfetamine distruggono il software: la psiche. Il recente rapporto dell’ente Onu per la sanità (Oms), who.cannabis.report, dettaglia il danno da cannabis in relazione all’età del consumatore, la frequenza dell’uso e la potenza della dose. Partiamo dal consumatore, e dalla sua età. Nel corpo umano, le aree del cervello che gestiscono i processi fisio-psichici sono stimolate da recettori sensoriali (Cb1) che assorbono piccole quantità di energia, la convertono in impulso elettrico e regolano funzioni essenziali quali attenzione, memoria, motivazione, coordinamento e cognizione. Frenando il funzionamento di questi recettori, la cannabis danneggia la mente. Questo succede soprattutto nell’età dello sviluppo cerebrale, che è completo a 29 anni per gli uomini e 25 per le donne. Il risultato: mentre nella popolazione il rischio di danno psichico dovuto alla canna è mediamente del 10%, nei giovani la probabilità sale al 20% per l’uso saltuario, e 20-50% per uso abituale. Secondo: la frequenza del consumo. In aumento, grazie alla crescente banalizzazione della droga. I mezzi di info-trattenimento (media, musica e cinema) glorificano la droga, fino a deriderne il rischio. Le conseguenze? Nell’ultimo decennio, la percentuale di giovani europei e americani che ritengono la cannabis dannosa alla salute è scesa dall’80 al 40%. La minore consapevolezza del danno, aumenta la voglia di sperimentarlo, e viceversa. In Svezia, dove il 78% degli studenti considera la cannabis pericolosa, il consumo giovanile è limitato al 16%. In Italia e Spagna, dove l’apprezzamento del rischio tra i giovani è basso (36%), il consumo è più alto (28%). A livello europeo, 3 milioni di persone fanno uso quotidiano di cannabis, e 10% di loro (circa 300 mila) necessitano di cure ospedaliere. Negli Usa il capitalismo della canna è scatenato. Negli Stati dove l’uso ricreativo è legale, la lobby pro-droga fa milioni vendendo l’erba e ingegnosi derivati: marmellate, biscotti e bevande. Libero accesso a prezzi bassi (il valore è sceso da 60 a 30 dollari per la dose da 3,5 gr) ha drogato il mercato: in Colorado l’uso tra i giovani è salito dal 27% al 31% (contro il 6-8% della media nazionale), la richiesta di assistenza al Pronto soccorso è aumentata del 31%, i ricoveri in ospedale del 38%. In crescita anche i morti su strada. Malgrado le buone intenzioni del legislatore, il mercato illecito prospera (40% del consumo), mentre gli introiti fiscali languiscono all’1% (110 milioni di dollari, su un bilancio di 11 miliardi). Terzo, il danno al consumatore: molto dipende dalla potenza della droga. Un tempo la marijuana conteneva 2-4% di tetra-hydro-cannabinolo (Thc), il principio attivo che causa il danno psico-fisico. Oggi, grazie a manipolazioni genetiche e nuove tecniche di coltivazione, il Thc arriva a dieci volte tanto. Cere e oli vegetali possono contenerne fino a 80-90%: autentici veleni che accrescono la probabilità di danno psichico e, quando capita, lo rendono più severo. In conclusione, in un’epoca dove la società cerca di limitare il danno causato da comportamenti anti-sociali, la riforma della politica della droga trascura il danno derivante dalla cannabis. Certo, non tutti coloro che fumano marijuana perdono la testa, come non tutti i tabagisti muoiono di cancro, né tutti gli autisti incoscienti periscono in incidenti. Eppure, in tutti questi casi la salute pubblica è a rischio. Di conseguenza, contro il tabacco si prendono misure sempre più restrittive e contro la guida scellerata c’è il codice della strada sempre più severo. Invece per la canna c’è in prospettiva il libero uso ricreativo. Un consiglio esperto: invece di promuovere nuove forme di controllo dell’offerta legalizzando la droga, è più efficace prevenire la domanda, intensificare le terapie di recupero, e ridurre i costi sociali conseguenti all’uso. Soprattutto, il tossicodipendente va assistito in ospedale, non cacciato in galera, per poi concludere che "l’azione repressiva ha fallito". Lo schiavismo moderno e la paura che ci blocca di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 25 luglio 2016 Se noi vedessimo una donna, o un bambino, o un qualunque soggetto debole, trascinato con un guinzaglio al collo da un uomo prepotente non faremmo in modo di fermarlo? Avanza su Via Nazionale un omone corpulento, enorme. Ai polsi, attorno al collo, sulle dita di entrambe le mani sembra una semovente miniera d’oro massiccio: anelli, orologio, braccialetti, catenine e catenone. Guarda le vetrine distrattamente, camminando con affaticata lentezza, per non sfidare troppo la canicola romana. Dietro di lui un’ombra nera. Non possiamo sapere nulla del bipede infagottato in una tunica nera che avvolge tutto il corpo, la testa, il volto, gli occhi nascosti da un paio di occhiali da sole, ai piedi scarpe nere piatte, che possiamo solo intravvedere tra le pieghe del sudario che arrivano fino all’asfalto. Una donna, ecco. Totalmente cancellata come essere umano. Una figura invisibile che cammina a piccoli passi per star dietro all’omone che è il suo padrone, e che ostenta la sua arrogante indifferenza verso la non-persona che lo segue come una schiava che nel nome del Corano deve solo obbedire, compiacere il suo tiranno. Magari è solo una bambina, chi lo sa. Non possiamo vedere nulla di lei, trattata e nascosta come un nulla. È la prima volta che ho visto una scena simile a Roma. L’avevo vista a Londra e a Vienna. Qui fa un pò più impressione, forse è l’effetto sorpresa. Mi domando però se dobbiamo farci l’abitudine, a questo triste spettacolo dello schiavismo moderno. Mi domando se il senso di repulsione che questa scena mi suscita sia il frutto di un pregiudizio "etnocentrico" o se non sia una forma di sano imbarazzo puramente umano. E se non ci si debba ribellare, nelle coscienze almeno, a questo sfoggio di umiliazione delle donne, a questa nullificazione di esseri umani che, sole e calpestate, non possono cambiare il loro destino. È un costume che va rispettato, per convivere pacificamente con l’Islam? A me sembra di no. Se noi vedessimo una donna, o un bambino, o un qualunque soggetto debole, trascinato con un guinzaglio al collo da un uomo prepotente non faremmo in modo di fermarlo? Non vorremmo veder finito quello spettacolo osceno e mortificante? Ci appelleremmo alla pluralità dei costumi, alla varietà vitale delle culture, alla diversità dei modelli sociali, al rispetto che si deve ad ogni fede? Quell’essere minuto senza corpo, senza volto, senza sguardo, senza sesso e genere sembra piuttosto la vittima designata della nostra ignavia e del nostro conformismo. Se potesse ribellarsi. Se noi le dessimo una mano a ribellarsi. Ma non vogliamo farlo, nascosti anche noi, sotto le nostre paure. I populisti vanno presi sul serio di Antonio Polito Corriere della Sera, 25 luglio 2016 Le élite liberali dell’Occidente (compresi noi che scriviamo sui giornali), hanno l’aria un pò rassegnata di chi dice "adda passà ‘a nuttata". Di fronte alla virulenza della rivolta in corso contro di loro, dalla Cleveland di Trump alla Folkestone della Brexit alla Nizza delle Le Pen, appaiono incapaci di riconoscere la forza e la verità del messaggio dell’avversario. Dicono che sfrutta le paure della gente; che queste paure sono esagerate; e che tutta questa rabbia popolare non sarebbe altro che un errore di percezione, come quando a causa dell’umidità ci sembra che faccia più caldo di quanto non sia in realtà. Al massimo riconoscono ai populisti di fare le domande giuste, ma con le risposte sbagliate. Non prendono insomma sul serio i loro nemici. Questo potrebbe portarli alla sconfitta. Non c’è un verso predefinito della storia, una freccia che va dal passato al progresso. Il filosofo Biagio de Giovanni ci ha ricordato che già la prima globalizzazione ebbe una grave crisi, agli inizi del ‘900, e finì con la distruzione dell’ordine liberale del vecchio mondo, attraverso due guerre. Non dico che la storia si ripeta (anche se in questo momento è in vigore lo stato di emergenza in due grandi Paesi europei, Francia e Turchia). Ma è francamente puerile sostenere che le paure della gente sono irrazionali. Diceva un altro filosofo: ciò che è reale è razionale. Guardiamo alle cause di questo clima di rivolta: le migrazioni e l’insicurezza che ne deriva, per esempio. Voi pensate che sia davvero irrazionale, per un giovane disoccupato povero francese, temere la concorrenza per il lavoro di un giovane immigrato povero maghrebino? O per una famiglia che aspira a una casa popolare di Torino? O per una mamma che iscrive il figlio nella graduatoria di un asilo nido a Roma? Che risposte hanno dato le élite liberali, sinistra e destra tradizionali, a queste paure, tranne ripetere che sono esagerate? E chi può essere sicuro che le ricette per la sicurezza di Marine Le Pen siano destinate ad esiti peggiori di quelle seguite dal governo Valls, dopo Charlie Hebdo, il Bataclan, e il 14 luglio di Nizza? Oppure prendiamo la crisi economica. Donald Trump di sicuro mente nel descrivere uno stato prefallimentare dell’America (ma spesso i nostri governanti, per esempio qui in Italia, esagerano nel senso opposto). Eppure emigrazione delle produzioni, automazione e robotizzazione del lavoro, concorrenza del Made in China, sono fenomeni possenti e di lunga durata, che cambiano davvero la vita della gente e che, nel microcosmo di una famiglia, possono essere vissuti come una catastrofe. Incapaci di simpatizzare con questo stato d’animo, o anche solo di spiegarselo, le forze politiche e intellettuali tradizionali preferiscono rifugiarsi nel mantra dell’ineguaglianza, generosamente fornito loro dal revival dell’antica koinè marxista. Il popolo sarebbe infuriato per la crescente ineguaglianza, per il trionfo del privilegio. E così, chissà perché, si rifugia sotto l’ala protettiva di un miliardario in America, oppure segue un aristocratico di Eton in Gran Bretagna. Il McKinsey Global Institute ha di recente pubblicato una ricerca dal titolo "Più poveri dei genitori", ripresa in un articolo di Martin Wolf sul Financial Times, che forse individua meglio l’origine dello smarrimento globale dei ceti medi. Seimila intervistati francesi, inglesi e americani hanno risposto di provare più angoscia nel confronto con il loro passato, con il passato di famiglie come le loro, che nel confronto con chi oggi sta meglio. Ciò che crea un senso di ingiustizia, perché interrompe la staffetta generazionale del benessere, è la lunga e profonda stagnazione dei redditi in termini reali. Tra il 65% e il 70% delle famiglie nelle 25 economie più ricche del mondo hanno avvertito una caduta del reddito nel periodo tra il 2005 e il 2014. L’Italia ha il record, l’arretramento riguarda quasi il 100% delle famiglie. Prendersela con la diseguaglianza è facile per chi governa, perché può darne la colpa al sistema. Ma scambieremmo tutti volentieri dieci anni di crescita sostenuta dei nostri redditi con un pò di diseguaglianza in più. Che cosa fanno invece le élite liberali dell’Occidente per combattere la vera causa della rivolta popolare, e cioè la stagnazione economica? Rispondiamo prima a questo, e poi possiamo ricominciare con le prese in giro della pittoresca America di Trump, delle sue mogli, delle sue figlie e dei suoi seguaci. Le élite politiche hanno bisogno di un linguaggio e di una strategia per curare le ferite dei loro elettorati. E ne hanno bisogno subito perché, per quanto possano irriderli, i loro avversari stanno vincendo. Prima capiscono che, come cent’anni fa, è finita la Belle Epoque, e più speranze avranno di non essere sopraffatti, insieme con l’ordine liberale che hanno costruito in settant’anni di pace. Francia nella tempesta, così il modello sociale rischia di sgretolarsi di Massimo Nava Corriere della Sera, 25 luglio 2016 La gente ha capito che la minaccia è ogni giorno dietro l’angolo: c’è il bisogno di recuperare la fiducia nello Stato al quale si sono sempre affidati, ma ora non è più così. Un ministro nella tempesta, scrivono i giornali francesi. Così viene percepito il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, dopo la strage di Nizza, in uno psicodramma in cui apparati dello Stato e politici locali e nazionali si rimpallano responsabilità per falle evidenti nel dispositivo di sicurezza, l’insufficiente prevenzione, silenzi e qualche grossolano errore di valutazione. Cazeneuve è il bersaglio più facile, e sarà probabilmente il capro espiatorio da offrire ai francesi in cerca di un appiglio, di un segnale, di un reperto etico o simbolico che faccia recuperare quella voglia di unità e normalità invocata a parole dall’establishment. Purtroppo non basterà. La carneficina di Nizza significa un "prima e un dopo" nella sensibilità collettiva di fronte al terrorismo e alle cause interne ed esterne che lo alimentano. I pur gravissimi fatti degli ultimi anni, dalla strage di Tolosa al Bataclan, avevano inferto ferite profonde nella società francese, rimesso in circolo virus culturali e ideologici attorno al modello di integrazione e alle problematiche dell’immigrazione, ma al tempo stesso la Francia aveva dato una grande dimostrazione di unità e fermezza ad ogni livello, offrendo persino a un presidente debole e denigrato come Hollande un sussulto di credibilità e consenso. L’organizzazione degli europei di calcio, voluti contro tutto, erano stati una prova di fermezza, di efficienza (nonostante il giorno di follia degli hoolingans), di riconquistata spensieratezza popolare. È stato bello vedere francesi di ogni colore e fede cantare la Marsigliese. La vittoria sarebbe stata il suggello di una lunga festa dopo il buio inverno della paura, ma anche la beffarda sconfitta era stata incassata senza traumi. Oggi non è più così. A Nizza abbiamo assistito a fischi e sputi all’indirizzo delle massime cariche istituzionali e avvertito feroci polemiche fra eletti locali e responsabili nazionali. Partiti e leader non hanno atteso nemmeno i funerali per soffiare sul fuoco e vendere misure á la carte contro la minaccia terroristica. Lo spirito del tempo consiglia maggiori controlli, rafforzamento dell’apparato repressivo, occhi più vigili nelle periferie turbolente, mentre arretra e si zittisce la Francia che ha a cuore lo Stato di diritto e quei valori che i terroristi hanno calpestato. Persino il compassato Alain Juppé ha fatto intendere che avrebbe fatto meglio e che farà senz’altro meglio se l’anno prossimo arriverà all’Eliseo. Già, l’Eliseo: anche la madre di tutte le battaglie elettorali contribuisce ad avvelenare il clima e a disunire. Qualcuno si è spinto persino ad accusare Hollande di non fare abbastanza per ingraziarsi l’elettorato musulmano. Per il Front Nazional, che già da anni miete consensi nel Midi, la strage di Nizza è anche l’occasione di scendere in campo senza remore, lanciando la macchina della propaganda in "difesa della Repubblica". In questo clima, il primo ministro Valls ha detto "che dobbiamo aspettarci altri morti", mentre Cazeneuve citava la famosa strofa della Marsigliese "alle armi, cittadini!". Messaggi che hanno trasmesso un senso di impotenza, più che di realismo. I francesi hanno perfettamente capito che la minaccia è ogni giorno dietro l’angolo. Anche per questo, il Paese e la sua capitale sembrano più tristi e incupiti. C’è la consapevolezza che la Francia è il Paese più esposto, perché qui è più alta l’offerta di manodopera e propaganda, di folli alibi religiosi e sociali. Al di là delle falle e delle polemiche sulla sicurezza, i francesi hanno toccano con mano i limiti di un modello sociale che ha ispirato la cultura e l’educazione di generazioni e la crisi dello Stato in cui hanno sempre creduto, di cui sono stati sempre orgogliosi, a cui si sono sempre affidati. Uno Stato che ha tagliato assistenza e servizi, che ha perso nel tempo efficienza proverbiale, che non protegge dalle minacce quotidiane, si chiamino criminalità, violenza, terrorismo. Per i francesi, lo Stato protettore è sempre stato piacevolmente onnipresente, persino al di sopra di altri valori. Se si sgretola questa certezza, si sentono smarriti. Per questo, nella tempesta, non c’è solo un ministro, ma un Paese in una crisi di nervi. In Turchia c’è ancora un’opposizione: "No a stato d’emergenza" di Mariano Giustino Il Manifesto, 25 luglio 2016 Hdp e repubblicani protestano contro la misura imposta dal presidente Erdogan. Fermo di polizia estendibile fino a 30 giorni. Arrestato il nipote dell’imam Gülen, chiuse migliaia di scuole, università, ospedali e sindacati. Erdogan si sente ancora insicuro. E teme che un ritorno veloce alla normalità possa vanificare il vantaggio politico conseguito nei confronti delle opposizioni. Gioca quindi la carta della sicurezza generale per consolidare il proprio potere. Ma questa è una rischiosissima partita che potrebbe rivolgersi contro di lui. Il leader del Partito Repubblicano del Popolo propone una commissione parlamentare che monitori lo stato d’emergenza e propone che di questa commissione facciano parte anche tutti i ministri del precedente governo. Bisogna, sostiene, impedire la caccia alle streghe. Anche il partito di sinistra filocurdo Hhp, il Partito Democratico dei Popoli, si è opposto allo stato di emergenza e alla sospensione dell’articolo 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo decisa nell’ultima riunione di Gabinetto. Il suo leader, Selahattin Demirtas, ha denunciato ieri in piazza a Istanbul, di fronte a migliaia di sostenitori, il fatto che il tentativo di colpo di Stato è diventato un pretesto per il governo per eliminare tutta l’opposizione e limitare i diritti democratici e le libertà. "Facciamo appello a tutte le istituzioni e alle organizzazioni politiche e sociali del paese di essere solidali per la sicurezza e la libertà dei nostri popoli, per il futuro democratico della nostra società. La via d’uscita dal colpo di Stato sono la democrazia e la libertà e l’affermazione dello Stato di diritto". Con queste parole d’ordine l’Hdp ha tenuto ieri a Istanbul la sua prima manifestazione dopo il golpe. E oggi è la volta del Partito Repubblicano del Popolo, Chp, che manifesterà nella storica piazza Taksim a Istanbul contro il golpe e per il ritorno immediato allo Stato di diritto. Quando il Chp ha annunciato di volere organizzare una manifestazione pubblica a Istanbul il 24 luglio, in maniera analoga a quelle tenute dai sostenitori dell’Akp, il governo non solo ha dato la sua autorizzazione, ma ha anche annunciato l’invio di una propria delegazione; consentirà l’utilizzo gratuito del trasporto pubblico per incoraggiare la partecipazione della popolazione. Se d’ora in poi l’orientamento sarà questo tra le forze politiche turche, troverebbe conferma l’antica saggezza del proverbio per cui in ogni male c’è comunque qualcosa di buono. Questo potrebbe aprire la strada della riconciliazione per il rafforzamento del sistema democratico parlamentare della Turchia invece che la centralizzazione del potere nelle mani di una sola persona e con pochi pesi e contrappesi. Ma le dichiarazioni di Erdogan rilasciate ieri all’emittente televisiva France 24 non fanno presagire nulla di buono. "I golpisti hanno avuto istruzioni dalla Pennsylvania e hanno iniziato a confessare". L’allusione è al predicatore islamico Fethullah Gülen, in esilio volontario negli Usa, un tempo alleato dell’Akp e ora acerrimo nemico, ritenuti dal presidente turco ispiratore e responsabile del golpe. "Libereremo le nostre istituzioni da questo cancro. Non c’è nessun ostacolo al rinnovo dello stato di emergenza; ora è di tre mesi, ma potrebbe esserci un suo prolungamento di altri tre. La popolazione non dovrebbe temere nulla, lo scopo dello stato di emergenza è di riportare le istituzioni democratiche a funzionare genuinamente. Le nostre istituzioni funzioneranno meglio d’ora in poi". Queste affermazioni destano molta preoccupazione nell’opinione pubblica turca che teme che la misura dello stato di emergenza, fortemente restrittiva delle libertà, possa durare a lungo, come accaduto in passato. Erdogan con queste dichiarazioni fa intendere che potrebbe avere bisogno di molto più tempo per ripulire le istituzioni dello Stato dalla presenza gülenista e per regolare i conti con tutta l’opposizione che intende avversare il suo progetto di riforma della Costituzione in senso presidenziale senza i necessari bilanciamenti. A tal proposito l’annuncio fatto ieri in merito ai tempi del fermo di polizia fanno pensare che il pugno di ferro contro oppositori e voci critiche si possa ulteriormente intensificare: ieri con un decreto legge il governo lo ha esteso fino a 30 giorni. Ovvero un mese prima che un arrestato possa di mettere piede in un’aula di tribunale. Chissà quale potrebbe essere il destino di un sospettato, scomparso per 30 giorni in una prigione di Stato. Con lo stesso decreto l’esecutivo ha anche ordinato la chiusura di 1.043 scuole private, 1.299 associazioni e fondazioni, 15 università private, 35 ospedali e 19 sindacati (tutti accusati di legami con l’imam Gülen di cui ieri è stato arrestato il nipote Muhammet Sait Gülen, sospettato di partecipazione al tentato golpe). I due vice primi ministri Numan Kurtulmus e Mehmet Simsek sostengono cose un pò diverse da quelle del presidente. Dicono che lo stato d’emergenza durerà tre mesi e che la sospensione dell’articolo 15 della Convenzione dei diritti dell’uomo durerà al massimo 45 giorni. La divergenza emerge anche per quanto riguarda il coinvolgimento delle opposizioni nel processo di riforma costituzionale. Anche i toni dello stesso primo ministro Binali Yildirim per quanto riguarda la possibilità di introdurre la pena di morte sono molto diversi da quelli usati da Erdogan che ritiene che questa misura possa essere sottoposta all’ordine del giorno in Parlamento. E ancora, è stato nominato quale mediatore tra il governo e l’opposizione l’ex presidente Abdullah Gül che era uscito di scena perché distante dalla politica autoritaria di Erdogan. La durata delle misure previste dallo stato di emergenza per l’eliminazione della minaccia golpista rappresenta un serio banco di prova della capacità del governo Akp di limitare il pugno di ferro del presidente Erdogan nella sua azione repressiva e di far rientrare il paese nella normalità democratica. I prossimi tre mesi saranno una prova per tutto questo. Ad Ankara tra i nemici di Erdogan "Le prossime vittime saremo noi" di giordano stabile La Stampa, 25 luglio 2016 Gli oppositori di sinistra si nascondono: prepariamo l’autodifesa. Amnesty: detenuti torturati. In piazza Taksim i laici con il presidente. "L’unica cosa che so è che adesso è là dentro. Ma è una settimana che non posso parlargli. Non ha fatto niente". Mehmet era un aspirante ufficiale che stava per ottenere la prima stella da sottotenente. L’unica colpa, spiega la madre Fatma, è aver frequentato lo stesso corso di molti gulenisti. Da allora Fatma, fazzoletto in testa e lungo pastrano grigio nonostante il caldo, passa le giornate nei giardini accanto al palazzo di giustizia di Ankara, l’Adalet Sarayi. Ha visto le foto dei soldati a torso nudo, con le mani legate dietro lo schiena: "Ci ho visto mio figlio", sospira. I parenti degli arrestati non parlano volentieri. Temono ripercussioni. Fatih aspetta notizie del nipote, diciottenne. Un soldato semplice. La sua posizione è peggiore, perché è uno di quelli portati dagli ufficiali golpisti a bloccare le strade attorno al comando centrale della polizia. "Gli hanno detto che era una semplice esercitazione - spiega -. Non sembrava nulla di strano perché l’addestramento prevede due settimane di uscite notturne". Fatih, 68 anni, occhi celesti come la polo che indossa, è stato militare anche lui. "Quando i ragazzi erano in strada - continua - gli hanno detto che in realtà era un’operazione anti-terrorismo. Qualcuno ha esitato. Gli ufficiali li hanno minacciati: o andate avanti o vi spariamo. Hanno solo obbedito agli ordini, non sono terroristi". Davanti all’Adalet Sarayi, ora tutto transennato, l’attesa si prolunga all’infinito. I quattro giorni di detenzione previsti dal codice prima di essere incriminati o rilasciati, sono di diventati otto con lo stato di emergenza, poi un mese. Il vice primo ministro Nurettin Canikli ha detto che gli arresti fatti finora sono "la punta dell’iceberg", altri ne seguiranno. E presto ci sarà un maxi-processo, "nel distretto di Sincan ad Ankara", ha annunciato il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, che ha garantito il "rispetto delle regole democratiche". Rassicurazioni che non convincono John Dalhuisen, direttore per l’Europa di Amnesty International: "Abbiamo informazioni credibili di pestaggi e stupri. È assolutamente fondamentale che le autorità turche consentano agli osservatori internazionali di incontrare tutti i detenuti". Fra gli arrestati di ieri c’è anche primo rettore donna con il velo, Aysegul Sarac, per presunti legami con la "rete terrorista" di Gulen. "È un contro-golpe che viene da lontano - denuncia Lami Ozgen, co-presidente del Kesk, il sindacato del pubblico impiego. Già a gennaio il governo aveva emanato una circolare per tutti gli uffici pubblici. Intimava di classificare i dipendenti in categorie "sospette". Gulenisti, appartenenti alle minoranze curde e alevi, gli iscritti ai partiti di sinistra, i kemalisti. Tutti. Così in due giorni hanno licenziato 16 mila insegnanti". Ozgen non crede alle teorie complottiste del "finto golpe". Guarda avanti ed è preoccupato. Molto. "Lo stato di emergenza già permette i licenziamenti di massa. Erdogan voleva arrivarci con una legge. Non gliela abbiamo fatta passare. Ma ora sarà impossibile mobilitare i lavoratori". Per qualcuno il clima è già quello. Tamir è un militante dell’organizzazione della sinistra radicale Kaldiraç. Da venerdì se ne sta nascosto in una "safe house" perché "i primi che arrestano siamo noi". Nel localino sulla Selanik Caddesi, mimetizzato fra gli studenti, si sente abbastanza sicuro. Neanche lui crede al "finto golpe" ma è convinto che i golpisti di Gulen avessero il consenso degli Stati Uniti. Più ancora della polizia teme le "bande dell’Akp" che fanno le ronde nel suo quartiere alevita, Tuzluçayir. "Non ci difenderà nessuno, né in Turchia, né in Europa. Ma stiamo organizzando i comitati di autodifesa". Roba da guerra civile. "Siamo all’inizio, tutta la Turchia ormai è come il Kurdistan". Uno scenario che non convince Coskun Musluk, ricercatore in Scienze politiche alla Middle East Technical University, di idee politiche opposte ma altrettanto in ansia, anche perché si è già fatto un anno di galera senza processo con vaghe accuse di "cospirazione". Kemalista convinto, Musluk non crede che il presidente Recep Tayyip Erdogan punti apertamente a una dittatura: "Ha sempre voluto una islamizzazione morbida. Cercherà di restare nella Nato e nell’accordo di unione doganale con la Ue. Non diventeremo un Iran sunnita. Il suo obiettivo è un altro: il potere a un uomo solo. Prima ha distrutto i kemalisti, ora i gulenisti. Ma ha un problema, l’esercito. Come lo ricostruirà? Non è ancora finita". Ieri intanto proprio ciò che resta dei laici kemalisti (il partito Chp) è sceso a Istanbul, in piazza Taksim, per una manifestazione contro il colpo di Stato, autorizzata (e ben vista) dall’avversario Erdogan. Libia ignorata ma è sempre un buco nero di Angelantonio Rosato Il Mattino, 25 luglio 2016 La Libia - ce n’eravamo dimenticati, distratti come siamo dagli attentati in Europa e dalla crisi turca - ma è sempre lì: instabile e irrisolta. Intanto gli sbarchi sulle coste italiane continuano ed i morti pure. Ieri mattina a Messina sono sbarcate 375 persone, tra cui sei bambini e un neonato. Sempre ieri, a Cagliari è attraccata una nave mercantile norvegese con a bordo i 931 migranti soccorsi giovedì e venerdì al largo della Libia. A Vibo Valentia, la nave militare irlandese "James Joyce" ha sbarcato 622 profughi. La polizia e la guardia di finanza hanno fermato due presunti scafisti, forse un somalo ed un nigeriano, che avrebbero pilotato, dalla costa libica fino alle acque territoriali italiane, un barcone con 400 migranti a bordo. Sono stati rinvenuti nel vano motore i cadaveri di 15 uomini e di un ragazzino, morti per asfissia ed per le gravi ustione causate dalla perdita di carburante. Nel frattempo, i corpi di 41 migranti, annegati mentre cercavano di raggiungere l’Italia, sono stati rinvenuti su una spiaggia di Sabratha, sulla costa occidentale libica. E proprio in questa regione un nuovo tipo di terrore sta crescendo nell’oscurità e nell’indifferenza sia del Governo di unità nazionale che dell’Europa. Secondo fonti libiche, nell’area di Wirshiffana, poco a sud-ovest di Tripoli, orrendi crimini vengono compiuti quotidianamente. Le autorità locali, come pure la comunità internazionale, concentrano la loro attenzione sull’Isis, ma intanto nel Wirshiffana gangster e criminalità organizzata sono lasciati liberi di commettere omicidi e rapimenti. Secondo i residenti della regione occidentale, l’Isis e le bande del Wirshiffana sono due facce della stessa medaglia. Anzi, come ha affermato un abitante della città di Kabou (montagne di Nafousa): "Daesh è meglio delle bande del Wirshiffana". Ormai nella regione i rapimenti a scopo di riscatto sono un fiorente business. E non solo da quelle parti: Tripoli sta diventando assai velocemente la capitale dei rapimenti. Secondo un recente rapporto della polizia locale, oltre una dozzina di rapimenti sono stati compiuti in una sola notte. In due casi i sequestratori hanno ucciso i rapiti. Tra le vittime, una ragazza di 14 anni. Le persone sono prelevate nelle strade, dalle loro auto, addirittura in casa. Molti vengono torturati Nella maggior parte dei casi i rapitori sono semplici criminali, con nessuna affiliazione al jihad. Se la criminalità organizzata sta divenendo un problema serio in Libia, sul fronte della lotta al terrorismo le cose non vanno meglio. Proprio ieri il ministro della difesa del governo di unità nazionale libico, il colonnello Mahdi Al-Barghathi, ha rinnovato la richiesta di aiuto alla comunità internazionale, in particolare alla Francia, al fine di combattere l’ISIS. Questo perché venerdì scorso, nell’ovest del Paese, ci sono state manifestazioni di protesta contro presunte interferenze dei Servizi di Parigi negli affari interni libici. Il ministro della Difesa, pur riconoscendo il diritto dei cittadini libici a manifestare, ha sottolineato che il governo di unità nazionale non ha autorizzato la presenza di agenti dei servizi stranieri sul suolo patrio. Poi lo stesso Barghathi, riferendosi agli scontri avvenuti nella città di Bengasi, nell’est del Paese, ha affermato che gli insorti locali sono terroristi legati ad Al-Qaeda. Le forze speciali occidentali - ha continuato il ministro della Difesa libico - stanno "lavorando" per neutralizzarli. Tuttavia, ha concluso Barghathi al chiaro scopo di rassicurare l’opinione pubblica interna, nessun altro tipo di interferenza, nessun neo-colonialismo sarà tollerato in Libia. Parole nette ed inequivocabili quelle del Ministro della difesa libico. Ma, come diceva la canzone: parole, parole, parole soltanto parole. Intanto, la Libia continua ad affondare insieme ai migranti nel Mediterraneo, a pochi chilometri dalle nostre coste. Libia: proteste a Tripoli e nell’ovest del paese contro le truppe occidentali Il Manifesto, 25 luglio 2016 Manifestazioni per due giorni di fila a Tripoli e nell’ovest del paese dopo l’abbattimento di un jet militare francese a Bengasi. A est le violenze continuano: 14 persone torturate e giustiziate. La barbarie non dà tregua alla Libia. Nelle ultime ore si sono affollate dichiarazioni di sdegno per l’esecuzione di 14 persone a Bengasi: i loro corpi sono stati trovati in una discarica di rifiuti domestici. Non sono stati ancora identificati, per ora si sa solo che portano i segni evidenti delle torture. È stata immediatamente aperta un’inchiesta. "Scioccato e costernato per l’esecuzione sommaria di un gruppo di persone a Bengasi. È un crimine di guerra, chiedo indagini immediate", ha commentato l’inviato delle Nazioni Unite in Libia Martin Kobler. Mentre infuriano i raid aerei del generale Haftar su Derna (tanto che Kobler ha chiesto corridoi umanitari) e si combatte a Sirte, sempre a Bengasi nei giorni scorsi il ministro della Difesa del governo di unità nazionale di Sarraj, il colonnello El Barghathi, è scampato ad un attentato. Ma la notizia destinata ad accendere le tensioni è l’uccisione di tre militari francesi "in missione in Libia", secondo il ministro della Difesa di Parigi. Una missione "segreta" anche al malcerto esecutivo di unità nazionale di Sarraj che ha espresso "il proprio profondo malcontento" per la presenza di agenti segreti "a sua insaputa", in un comunicato che fa implicito riferimento all’abbattimento di un elicottero da parte di milizie islamiche attive a Bengasi, in cui sono morti i tre militari francesi. Proprio la presenza occulta francese ha portato in piazza per due giorni di fila, giovedì e venerdì, manifestanti in numerose città dell’ovest libico, da Zuwara a Misurata, da Sabratha a Sabha: sono state bruciate bandiere francesi, in un clima di rabbia per il ruolo attivo che a Bengasi avrebbero gli uomini al comando del presidente Hollande. Una rabbia che si è indirizzata verso il più generale interventismo occidentale e verso il governo di unità nazionale: a Tripoli centinaia di manifestanti si sono diretti verso il quartier generale della Marina, la base di Abu Sittah dove fino a dieci giorni fa si trovava il primo ministro, e sono entrati prima di essere ricacciati indietro dalle guardie governative. Alle proteste di piazza si aggiungono gli appelli delle milizie armate: mobilitazione contro tutte le truppe straniere su territorio libico è la richiesta del Consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi, composizione islamista rivale dell’esercito (ora governativo) guidato dal generale Haftar. Perché, sebbene i governi occidentali presenti in Libia parlino di presenza minima di truppe, è da tempo che circolano voci sulla partecipazione attiva delle unità straniere (francesi, britanniche e statunitensi, ma ora si parla anche di russi) in azioni militari contro lo Stato Islamico a nord est. Ieri a ribadirlo è stato il comandante dell’aviazione libica Saqr Geroushi, secondo il quale però le truppe straniere sono nel paese per condurre un mero monitoraggio dello Stato Islamico. Una dichiarazione che si scontra con quelle dello stesso Sarraj che in passato ha più volte denunciato il coinvolgimento straniero definendolo una violazione della sovranità libica. Tunisia: Festa della Repubblica, grazia per 1.605 detenuti Ansa, 25 luglio 2016 Grazia in arrivo per 1605 detenuti nelle carceri tunisine. In occasione della Festa della Repubblica tunisina che il 25 luglio celebra il 59mo anno della sua proclamazione, il presidente della Repubblica Béji Caid Essebsi ha firmato la grazia per 1605 detenuti, 876 dei quali verranno rimessi in libertà mentre i restanti potranno beneficiare di sconti di pena. La decisione è stata presa dopo un incontro con il ministro della Giustizia, Omar Mansour. Il provvedimento rientra nella politica che punta a risolvere il sovraffollamento delle carceri e garantire un miglior trattamento ai detenuti. La grazia non riguarda i reati come terrorismo, traffico d’armi, spaccio di droga e omicidio.