Aids, in cella ci si ammala venti volte di più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2016 La Ricerca sui penitenziari di tutto il mondo è stata pubblicata dalla rivista "The Lancet". Aumentano i reclusi tossicodipendenti e la piaga dell’Aids dilaga all’interno delle galere con una incidenza 20 volte più alta rispetto alla comunità libera. A dirlo è un insieme di studi appena pubblicati sulla rivista "The Lancet" che descrive i penitenziari di mezzo mondo come vere e proprie bombe epidemiologiche. Luoghi in cui Aids, ma anche tubercolosi ed epatite, si propagano a spaventosa velocità. Basti pensare che, solo in Europa, la loro incidenza è 20 volte più alta tra chi è dietro le sbarre rispetto al resto della popolazione. Secondo i ricercatori sarebbero tre i motivi principali. Il primo: la vicinanza fisica dei detenuti, costretti a condividere spazi comuni: celle, mense, servizi igienici. Il secondo: il numero sempre più alto di reclusi che finiscono in carcere per reati legati a spaccio, possesso di droga e tossicodipendenza. Il terzo: l’inefficienza e spesso la completa assenza di programmi socio-sanitari dedicati a questa categoria a rischio. La stessa organizzazione mondiale della sanità ha rivelato che le prigioni sono i punti chiave di contatto per la trasmissione di Hiv. Il risultato delle indagini rivela che ci sono più alti tassi di Hiv nelle carceri rispetto alla società libera. In Italia la situazione rimane grave. In carcere una persona su tre è malata. Spesso senza saperlo. E se la notizia trapela, essere sieropositivo in carcere è come vivere un incubo dentro un altro incubo: l’Hiv non è una patologia come un’altra, ma è oppressa dallo stigma sociale e dalla mediocrità delle informazioni; se si aggiunge il carcere, il risultato è spaventoso. Secondo dei vecchi dati, mai aggiornati, il 28% dei detenuti è positivo all’epatite C, il 7% all’epatite B, il 3,5% all’Hiv, il 20% ha una tubercolosi latente e il 4% è positivo alla sifilide E se questi numeri sono già spaventosi, va aggiunta la scarsa consapevolezza: un terzo ignora di soffrire di una patologia, ritardando così l’assunzione di farmaci e rischiando di contribuire inconsapevolmente alla diffusione. Per coloro che vengono curati, sorgono altri problemi. Non di rado i detenuti cambiano la terapia perché vengono trasferiti in altre carceri: cambiare carcere, nella maggior parte dei casi, vuol dire cambiare terapia e di conseguenza la cura risulta inefficace. Ma accade anche che la terapia venga interrotta e ciò significa far aumentare la carica virale dell’Hiv. Il virus si riproduce velocemente e la non aderenza fa la differenza tra una patologia tenuta sotto controllo e una patologia che rischia di diventare incontrollabile. Rimane comunque il dato oggettivo - specificato anche dalla relazione del ministero della Salute - che l’assistenza infettivologica in molte realtà penitenziarie è ancora fornita in maniera occasionale e spesso solo su richiesta di visita specialistica da parte delle Unità Operative di assistenza penitenziaria. Le richieste di visita presso i centri ospedalieri, invece che in carcere, sono ancora troppo elevate rispetto a insufficienti risorse di personale per le traduzioni; questo determina di fatto una discontinuità nel percorso assistenziale di cura e trattamento. Poi c’è mancanza di prevenzione. In Spagna ad esempio, quando si entra in carcere, i detenuti ricevono un kit con prodotti per l’igiene, siringhe, preservativi, detergenti e altro di cui puoi avere bisogno. Il ministero della Salute ha rilevato il problema e a più riprese ha cercato di trovare risposte efficaci per risolverlo, per questo ha avviato una serie di bandi di gara in base alle linee di guida internazionali. L’ultimo suo rapporto sulla situazione dell’infezione da Hiv nelle carceri è a dir poco allarmante. Con il passaggio del 2008 dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario non sono da allora più disponibili dati inerenti i pazienti HIV detenuti su scala nazionale, fino ad allora resi disponibili dall’Amministrazione Penitenziaria. Ma il ministero della Salute fa sapere che secondo degli studi osservazionali indipendenti condotti dal 2005 al 2015 su campioni significativi di popolazione, la prevalenza appare in lieve riduzione dal 8% al 5% circa attuale, che rappresenta comunque un dato oltre 20 volte superiore a quello rilevato nella popolazione generale. Non sono stati condotti in Italia studi relativi all’incidenza di nuove infezioni e non è quindi noto il tasso di siero-conversione annuo in carcere, pur essendo stati riportati singoli casi di siero-conversione durante detenzioni ininterrotte (dato non pubblicato). Ugualmente è noto come pratiche "a rischio" quali rapporti sessuali non protetti, utilizzo di aghi usati e tatuaggi siano tuttora comuni all’interno delle prigioni. Il tasso di infezione tra le donne detenute (5% del totale) è risultato in diverse osservazioni superiore anche del 50% rispetto alla popolazione maschile. Secondo il ministero è quindi necessario disporre di dati epidemiologici ufficiali e certi in base ai quali individuare le criticità sanitarie intramoenia ed allocare gli opportuni interventi. Appare - spiega sempre la relazione ministeriale - non più differibile la creazione presso l’Istituto Superiore di Sanità di un Osservatorio Nazionale sulla Salute in Carcere, in grado di coordinare i già previsti "Osservatori regionali per la tutela della salute in carcere" fornendo dati epidemiologici aggiornati. Inoltre, secondo i dati dell’Ecdc (European Centre for Disease Prevention and Control), gli interventi di prevenzione sulla popolazione "a rischio", in particolar modo in alcuni sottogruppi, appaiono ancora insufficienti sia a causa di barriere politiche e legislative che dello stigma e della discriminazione. In considerazione del fatto che il 40-50% delle nuove infezioni da Hiv riguardano soggetti target ed i loro partners, continuano ad essere forti in tutto il mondo le raccomandazioni sugli interventi di prevenzione, quali utilizzo dei preservativi, PrEp, Pep, riduzione del danno, offerta del test e counseling, assistenza ed offerta terapeutica. L’offerta del test in Italia è ancora regolata dalla L. 135/1990, privilegiando il diritto di tutti i cittadini ad eseguire il test Hiv solo dopo aver espresso il proprio assenso (opt-in); peraltro, in studi prevalentemente condotti in Usa, è stata dimostrata la fattibilità e l’accettabilità in ambiente penitenziario della strategia dell’offerta del test Hiv opt-auto, ovvero senza richiedere l’assenso. Orlando: "la legge sulla prescrizione prima della pausa estiva e senza fiducia" di Giovanni Gagliardi e Liana Milella La Repubblica, 23 luglio 2016 Il ministro della Giustizia: "volevamo evitare di lasciare l’imputato senza un orizzonte temporale definito ma anche limitare il ricorso all’appello per poter beneficiare della prescrizione". "Si deve fare tutto il possibile per approvare la legge prima dell’estate, questo era il passaggio più delicato ed è stato superato". Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando è tornato sulla legge sulla prescrizione in discussione al Senato, auspicando che il testo possa essere approvato prima della pausa estiva, entro il 5 agosto. Ieri il Guardasigilli aveva commentato con soddisfazione il nodo che si è sciolto dopo mesi di impasse e tensioni tra Pd e Ap. La commissione Giustizia del Senato ha, infatti, dato ieri il via libera agli emendamenti - a prima firma dei senatori centristi Gabriele Albertini e Laura Bianconi ma riformulati sotto la ‘lentè del governo - che riscrivono i tempi della prescrizione prevedendo una sospensione di 18 mesi sia tra il primo grado di giudizio e l’appello sia tra il secondo grado e la Cassazione. Tre anni in più, di fatto, dati ai tempi del processo. "Ho espresso soddisfazione perché volevamo modificare l’istituto della prescrizione in modo tale da evitare di lasciare l’imputato senza un orizzonte temporale definito contemporaneamente consentirà di evitare che si prescrivano i reati di particolare allarme sociale perché i tempi che si mettono a disposizione del magistrato mi consentono di dirlo con certezza", ha ribadito il ministro a Liana Milella. Ieri aveva detto che d’ora in poi la prescrizione per la corruzione sarà difficilissima. "Anche oggi con l’innalzamento delle pene (ce ne sono stati due) è difficile che si realizzi la prescrizione per reati contro la pubblica amministrazione". Il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ha detto che sarebbe stato meglio sospendere definitivamente la prescrizione. E stamattina mi ha chiamato Cirino Pomicino dicendo che la prescrizione a diciotto anni è una follia. "Sono due affermazioni che hanno un punto di limite: quella di Davigo, in astratto, è una posizione giusta ma non tiene conto che in Italia i processi non funzionano come un orologio svizzero, con scadenze certe. Il ragionamento di Pomicino, invece, non tiene conto del miglioramento dei tempi che contiamo di realizzare. Noi crediamo che la prescrizione non si verificherà perché faremo in modo di snellire i processi. Questa legge limiterà la prescrizione perché sarà in grado di realizzare processi penali più brevi. Già oggi i reati contro la p.a. si prescrivono raramente e si si prescrivono solo in alcune Corti di appello e alcuni distretti (si tratta del 30% delle sentenze) che portano la media nazionale al 9%. Se faranno meglio potremo passare al 5%, una percentuale fisiologica in un Paese dove c’è l’obbligatorietà. La prescrizione si sospende per 18 mesi là dove c’è una condanna. Noi vogliamo evitare che in alcuni processi un imputato possa cavarsela perché l’appello allunga i tempi. Noi contiamo di non avere più prescrizioni clamorose come quelle che si sono avute su reati di carattere ambientale, sulla salute, sui lavoratori e nella pubblica amministrazione". Questa legge vedrà un sì prima della pausa estiva del Parlamento? "Io credo che si debba fare tutto il possibile, il passaggio più delicato era quello sulla prescrizione che è stato superato. Abbiamo fatto passi avanti e penso di poter essere ottimista per i prossimi passaggi. Su molte questioni con l’Ncd abbiamo superato scogli sui quali molti dicevano che non ci saremmo riusciti". La legge quindi passerà prima del 5 agosto. E con la fiducia? "Io mi auguro senza la fiducia. Ho cercato di raccogliere indicazioni anche dall’opposizione, ho accolto emendamenti dai 5 Stelle e anche da Forza Italia perché al di la di alcuni temi che sono stati molto divisivi questo è un disegno di legge con 40 articoli, che si occupa di questioni su cui possiamo essere tutti d’accordo. Due esempi: uno è l’aumento della pena per il voto di scambio politico-mafioso. Poi c’è l’aumento di pena per le rapine all’interno degli appartamenti: chi si mette contro queste misure si mette contro quello che vogliono la maggior parte degli italiani. Mi pare che sono più le cose che sono di buonsenso che quelle che dividono e questo mi fa dire che si possa arrivare in fondo". E per quanto riguarda il reato di tortura? "Sulla tortura c’è un vuoto normativo segnalato anche da Strasburgo, dobbiamo spiegare alle forze di polizia che non si tratta di una legge contro di loro, non è una legge punitiva nei loro confronti. Dobbiamo andare avanti con la norma e trovare il modo di garantire e tutelare la stragrande maggioranza dei lavoratori delle forze di polizia". La questione intercettazioni: è proprio necessario andare a mettere nella legge quante intercettazioni i magistrati possono mettere nei loro provvedimenti? "Sul voto sulle intercettazioni ho letto ricostruzioni diametralmente diverse e penso che qualcuno non la racconti giusta. L’ultima cosa che vogliamo è mettere delle censure e impedire agli italiani di sapere. Non vogliamo togliere il potere di intercettare ma vogliamo che nei fascicoli vadano cose funzionali al processo. Le intercettazioni non servono per fare della sociologia, ma per accertare dei reati. Poi se in quelle cose ci sono elementi che vanno a definire uno scenario o un contesto non sarò certo io o il mio governo e mettere un freno. Noi vogliamo dare uguali a tutto il Paese". Ieri è arrivato l’ok del Consiglio di Stato al decreto sui registri comunali per le unioni civili: quali tempi prevede per i decreti attuativi? "Avremmo tempo fino a dicembre ma entro la fine di luglio manderò la bozza dei decreti a Palazzo Chigi, esercitando la delega persino prima della scadenza ultima. Entro fine luglio ci saranno i miei decreti attuativi. I passaggi tecnici necessari sono: andare in Consiglio dei ministri e poi nelle commissioni parlamentari per i pareri. Ma credo che tutto questo potrà avvenire in tempi brevissimi. Io avevo tempo fino a dicembre, ne ho preso molto meno e spero ci siano tempi brevi anche per gli altri passaggi". Unioni civili, Orlando: "Entro luglio le bozze dei decreti a Palazzo Chigi" Lei sull’Italicum che posizione ha: bisogna seguire la linea di Napolitano e modificarlo oppure bisogna lasciarlo così com’è? "Io penso che abbia ragione Renzi quando dice che se vanno fatte modifiche all’italicum vanno trovate le maggioranze per farle. Io sono favorevole a modifiche che tengano conto del fatto che il tripolarismo ormai è diventato un dato strutturale degli andamenti elettorali del nostro paese, ma se sulle modifiche non si trovano maggioranze teniamoci l’Italicum che è meglio del Consultellum che porterebbe a una instabilità. Mi auguro anche che si vada verso un superamento del doppio turno: io credo che un suggerimento potrebbe essere il sistema elettorale greco che corrisponde al nostro scenario politico attuale". E per quanto riguarda il referendum? Anche a questo caso, come sull’Italicum, è connessa la salute del governo Renzi. "Non è un problema di tenuta della maggioranza ma di salute del Paese: un Paese che deve aspettare tanto tempo per avere regole certe e nuove rischia di avere una democrazia svuotata da soggetti e poteri che possono decidere più rapidamente guardiamo cosa avviene nel mondo con le grandi concentrazioni economiche e finanziarie: se la democrazia non è in grado di darsi regole nuove il rischio è che i cittadini siano espropriati di diritti fondamentali". Reato di tortura. Appello dei Garanti dei detenuti Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2016 Ecco il testo dell’appello inviato questa mattina al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella da oltre 30 Garanti dei detenuti italiani con la richiesta di introduzione del reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano. "Incomprensibile e ingiustificabile è il rinvio in commissione del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura alla sua terza lettura parlamentare. Facciamo appello al Presidente della Repubblica affinché faccia valere la sua autorevolezza e le sue responsabilità istituzionali nei confronti della comunità internazionale che da decenni ci chiede l’adempimento di un preciso impegno assunto con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma già presente ai Costituenti, quando vi fecero riferimento nell’unico obbligo di punire previsto dalla nostra Carta fondamentale (art. 13, co. 4: "È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà"). L’ennesimo insabbiamento del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura equivarrebbe a un messaggio di impunità verso pratiche violente, offensivo nei confronti della grande maggioranza degli appartenenti alle forze di polizia che ben conoscono i fini e i limiti del loro agire. Di fronte alle inquietudini che stanno mettendo a dura prova il diritto internazionale dei diritti umani e i fondamenti delle democrazie liberali, la Repubblica Italiana non può permettersi di subire nuove condanne dalla Corte europea dei diritti umani e di essere sanzionata in sede internazionale per via delle inadempienze parlamentari. Quando una chiara assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche sarà stata presa, non sarà difficile individuare nel testo della Convenzione Onu o in quello recente approvato da Papa Francesco per lo Stato del Vaticano la soluzione più idonea alla formulazione del reato di tortura. Come Garanti delle persone private della libertà, conosciamo la sofferenza con cui le persone detenute affrontano condizioni di detenzione rese intollerabili dal caldo, dall’affollamento e dalla mancanza di risorse. Solo la fiducia nello Stato di diritto, nelle sue istituzioni e nel rispetto dei diritti fondamentali consentono di mantenere un filo di speranza e di garantire un governo pacifico delle nostre carceri. Questa fiducia non può essere disattesa dalle istituzioni repubblicane". Hanno sottoscritto i Garanti dei detenuti: Anastasia Stefano, Garante Regioni Umbria e Lazio Battistuta Maurizio, Garante del Comune di Udine Berti Franca, Garante Comune di Bolzano Cavalieri Roberto, Garante Comune di Parma Corleone Franco, Garante Regione Toscana De Giovanni Rosanna, Garante Comune di Fossano Dossoni Mario, Garante Comune di Sassari Gallo Monica, Garante Comune di Torino Laganà Elisabetta, Garante Comune di Bologna Marighelli Marcello, Garante Comune e Provincia di Ferrara Mellano Bruno, Garante Regione Piemonte Michelizza Armando, Garante Comune Ivrea Naldi Alessandra, Garante Comune di Milano Oppo Gianfranco, Garante Comune di Nuoro Petrini Davide, Garante Comune di Alessandria Ravagnani Luisa, Garante Comune di Brescia Roveredo Pino, Garante Regione Friuli V. G. Santoro Emilio Ass.ne "Altro Diritto", Garante Comune di San Gimignano Siviglia Agostino, Garante Comune di Reggio Calabria Solimano Marco, Garante Comune di Livorno Bellinello Giulia Elisa, Garante Comune di Rovigo Cellamaro Anna, Garante Comune di Asti Chiotti Bruna, Garante Comune di Saluzzo Flaibani Roswitha, Garante Comune di Vercelli Forestan Margherita, Garante Comune di Verona Jahier Vanna, Garante Provincia Di Pavia Magistrini Silvia, Garante Comune di Verbania Prandi Alessandro, Garante Comune di Alba Caronni Sonia, Garante Comune di Biella Toccafondi Ione, Garante Comune di Prato Tretola Mario, Garante Comune di Cuneo Per ulteriori adesioni scrivere a info@societadellaragione.it. La mancata legiferazione sul reato di tortura di Giunta Unione Camere Penali camerepenali.it, 23 luglio 2016 Si ferma per l’ennesima volta l’iter legislativo per l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura. Senza violenza potrebbe esserci "ansia psicologica" per le forze dell’ordine. L’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, denuncia l’ennesima battuta d’arresto del tortuosissimo iter di approvazione del disegno di legge sulla tortura. Il Senato ha sospeso sine die la discussione con una motivazione risibile, ricollegando tale decisione ai fatti di Nizza e al rischio di "disarmare" le forze dell’ordine di fronte alla minaccia jihadista. Di fatto, dunque, il Parlamento ha ceduto alle pressioni del Ministro dell’Interno il quale ha sostenuto che il lavoro delle forze di polizia "non può avere il freno derivante dall’ansia psicologica o dalla preoccupazione operativa in un contesto complesso nel quale dovrebbero venire a trovarsi". Parole che destano vive preoccupazione e suonano come un invito ad avere, in occasioni particolari, le mani libere, senza alcun freno normativo. Si continua a dimenticare, non solo l’art. 13 della Costituzione che vieta "ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà", ma non si rispettano neanche la Convenzione delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1984, entrata in vigore il 27 giugno 1987 a cui l’ Italia ha aderito, né la Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, del 26 novembre 1987 ed entrata in vigore il 1° febbraio 1989, sottoscritta dal nostro Paese. Da 30 anni l’Italia non rispetta l’obbligo di legiferare affinché venga istituito il delitto di tortura. Il dibattito politico si concretizza solo in inutili scaramucce tra forze politiche, molte delle quali strizzano l’occhio ad un’opinione pubblica che si vuole sempre più spaventata e ignorante. L’assurdo e grave ritardo, infatti, dovrebbe far insorgere gli stessi cittadini, potenziali vittime di tortura, come hanno purtroppo dimostrati fatti di cronaca anche recenti. L’Unione delle Camere Penali Italiane con il proprio Osservatorio Carcere, ancora una volta, chiede che il reato di tortura venga immediatamente introdotto nel codice penale, nel rispetto degli standard internazionali, garantendo la tutela dei cittadini di fronte a illegittime violenze. Gmg dietro le sbarre. Un progetto della Cei a favore dei ragazzi detenuti farodiroma.it, 23 luglio 2016 Anche i giovani carcerati di Torino, Milano e Catania parteciperanno alla Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia con Papa Francesco grazie a un progetto della Cei, "Una radio per non restare a casa", definito con il Ministero della Giustizia finalizzato a dare spazio, in occasione della GMG 2016, alle voci dei ragazzi presenti in questi carceri minorili. Partecipano i ragazzi che stanno facendo percorsi di recupero nelle carceri minorili Ferrante Aporti di Torino, Beccaria di Milano, I.P.M. di Catania. Giovani che non potranno andare a Cracovia ma che grazie alla radio saranno ugualmente presenti. Dal 25 al 29 luglio alle ore 19 su inBlu Radio, il network delle radio cattoliche italiane, questi ragazzi con le parole, l’uso della musica e di altri linguaggi racconteranno le loro storie, riflessioni, fatiche e attese. Coordinati da don Virgilio Balducci Ispettore Generale dei Cappellani, i cappellani don Domenico Ricca dell’ Istituto Ferrante Aporti di Torino, don Claudio Burgio del Beccaria di Milano e don Francesco Bontà dell’ I.P.M. di Catania, d’intesa con i Direttori degli Istituti che hanno prestato la loro collaborazione e individuato gli educatori che hanno interagito con il progetto. All’iniziativa hanno contribuito anche Primaradio di Torino e Radio Zammù di Catania. A Torino i ragazzi, avvicinandosi al mezzo radiofonico e sperimentando la loro voce, saranno loro a raccontare e raccontarsi. Si stanno interrogando su parole come speranza, misericordia e perdono, cosa dire agli ragazzi presenti a Cracovia e soprattutto al Papa. Da Catania, insieme ad alcuni pensieri sulla pace, i ragazzi leggeranno due lettere già vincitrici di un premio letterario locale: una rivolta al figlio appena nato, l’altra a un amico in libertà. Risponderanno alle domande: cosa è per te la felicità o cosa vorresti dire al Papa. Si esibiranno inoltre con alcune percussioni realizzate nel loro laboratorio musicale. Anche da Milano le storie difficili e drammatiche di alcuni giovani con i loro percorsi in carcere e in comunità. Leggeranno una lettera a Cupido sull’amore e si rivolgeranno ai loro coetanei a Cracovia, alternando interventi e canzoni scritte da loro con domande e speranze. Parma: Ilaria Cucchi su intercettazioni Assarag nel carcere "conversazioni inquietanti". La Repubblica, 23 luglio 2016 sorella di Stefano Cucchi scrive al presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo sul caso archiviato dalla Procura del detenuto che ha denunciato maltrattamenti e registrato di nascosto gli agenti. L’archiviazione dell’inchiesta sui presunti pestaggi nel carcere di Parma, denunciato dal detenuto Rachid Assarag, continua a far discutere. Dopo l’accorata lettera di sua moglie alle istituzioni, c’è stato anche l’intervento di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, che su Facebook si è rivolta al presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo. Cucchi fa riferimento alle intercettazioni del detenuto Assarag di alcune conversazioni avvenute con alcuni agenti di polizia penitenziaria, pubblicati in esclusiva su L’Espresso e su Repubblica. Ecco il testo del post di Ilaria Cucchi: "Caro presidente Dott. Pier Camillo Davigo, mi rivolgo ancora una volta a Lei perché in Lei vedo il presidente dell’associazione nazionale magistrati. Vedo una persona molto importante che rappresenta una funzione sacra ed indispensabile per una società che voglia essere civile e democratica. Oggi le parlo del caso di Rachid Assarag detenuto nelle carceri italiane. Rachid a Parma ha denunciato numerosi atti di abuso e violenza che ha riferito di aver subito dagli agenti di polizia penitenziaria. In realtà non solo a Parma ma parliamo di Parma. La particolarità della vicenda è data dal fatto che la denuncia non proviene, isolata ed improbabile, dalla parola di un detenuto contro quella di tutti i numerosi pubblici ufficiali che si sono rapportati con lui ma proprio dalle voci di quest’ultimi registrate di nascosto da Rachid. Sono conversazioni inquietanti dove vengono ammesse violenze, coperture ed abusi. Sono conversazioni già acquisite da numerosi giudici e la cui autenticità non è mai stata messa in dubbio. Orbene la PM titolare dell’inchiesta, ha definito queste agghiaccianti conversazioni registrate dal detenuto Rachid Assarag come "lezioni di vita carceraria" ed ha chiesto l’archiviazione dei procedimenti. È stata criticata per questo in toni molto civili dal Senatore Manconi. Vi è stata allora una presa di posizione dell’associazione nazionale magistrati di Parma che ha fatto un comunicato di solidarietà e sostegno alla PM in questione. Ieri, sempre a Parma, un giudice di Parma, ha archiviato il procedimento con le stesse esatte motivazioni sostenute dalla PM criticata. Si ascolti quelle registrazioni e si chieda cosa possiamo pensare tutti noi, cittadini onesti e rispettosi delle istituzioni, ascoltandole. Le ascolti bene. Glielo chiedo con assoluta umiltà". Avellino: notti senza acqua per i detenuti del carcere di Bellizzi, insorge la Cgil Fp orticalab.it, 23 luglio 2016, 23 luglio 2016 La Segreteria della Funzione Pubblica CGIL di Avellino ha richiesto invano al direttore del carcere le motivazioni che hanno indotto la stessa direzione a sospendere il servizio idrico notturno nelle sezioni detentive creando non pochi disagi al personale ed ai detenuti. Da oltre una settimana, durante le ore notturne, gli agenti ed i residenti nell’istituto sono costretti ad affrontare il disservizio con misure artigianali. Il segretario provinciale Licia Morsa congiuntamente al Coordinatore Aziendale Orlando Scocca, hanno presentato ricorso al Servizio di Vigilanza sull’Igiene e la Sicurezza dell’Amministrazione della Giustizia di Napoli affinché intervenga per fare chiarezza e porre fine ad una situazione di emergenza tale da imbarazzare l’intera provincia. È impensabile sottacere in una circostanza come questa. Con tutti i problemi che attanagliano la casa circondariale di Avellino (dalla organizzazione del lavoro alla struttura fatiscente), ora l’interruzione del servizio idrico grida davvero vendetta. Questa organizzazione sindacale andrà fino in fondo alla questione per restituire almeno uno dei servizi essenziali come l’acqua a quei lavoratori che da anni con senso di responsabilità si accollano malfunzionamenti non imputabili a loro. Sassari: detenuti digitalizzano 60 mila documenti archivi carceri cagliaripad.it, 23 luglio 2016 Un risultato frutto del progetto "Isola Digitale 2.0" che dal luglio dello scorso anno, grazie alle risorse della Regione e della Fondazione di Sardegna, ha coinvolto i detenuti dell’istituto di pena sassarese. Ventuno detenuti del carcere di Bancali hanno digitalizzato, in pochi mesi, 60 mila documenti conservati nell’archivio della casa circondariale di Bachiddu e nell’archivio del dismesso carcere di San Sebastiano, a Sassari. Un risultato frutto del progetto "Isola Digitale 2.0" che dal luglio dello scorso anno, grazie alle risorse della Regione e della Fondazione di Sardegna, ha coinvolto i detenuti dell’istituto di pena sassarese, promuovendo il reinserimento sociale di un gruppo di lavoro selezionato dall’area trattamentale. I primi quattro detenuti hanno lavorato al riordino alla digitalizzazione ottica dell’Archivio della casa circondariale di Bachiddu. Altri 16, invece, hanno digitalizzato una parte dell’archivio del dismesso carcere di San Sebastiano e un ventunesimo sta svolgendo attività di riordino di un archivio della cooperativa in modalità di telelavoro. Grazie a un permesso speciale uno dei detenuti, Fabio Sechi di Sassari, ha potuto raccontare la propria eccezionale esperienza nei panni di archivista. "Prima non sapevo nemmeno inviare un sms, ora sono autonomo nell’utilizzo del computer. Ogni istante passato in cella accresce il desiderio di sentirsi utili, e quest’opportunità ci ha dato speranza. Mi si sono aperte tante porte per quando uscirò". La fase di formazione ha permesso a tutti di conseguire la patente europea di computer e, inoltre, l’apprendimento delle tecniche di archiviazione grazie alle lezioni di Angelo Ammirati. "L’impegno dell’Istituzione carceraria - ha detto il vicepresidente della Fondazione Giorgio Oggianu - è stato determinante per la buona riuscita del piano di lavoro e per il raggiungimento di obiettivi così importanti". Dal progetto nasce anche un libro realizzato dai detenuti, che riporta i vissuti personali dei protagonisti, le loro sensazioni, le relazioni sulle attività svolte e le tempistiche di intervento. Su richiesta il testo può essere scaricato in versione pdf dal sito digitabile.org. Modena: detenuto tira olio bollente durante una rissa Gazzetta di Modena, 23 luglio 2016 Il sindacato Sappe denuncia due nuovi episodi di violenza: "Pronti a chiedere il trasferimento da Modena 130 agenti". Torna a esplodere il forte malumore tra la polizia penitenziaria in servizio a Sant’Anna e vengono segnalati nuovi casi di violenza tra detenuti, secondo un sindacato degli agenti. Il malumore sta poi spingendo ben 130 agenti a chiedere un trasferimento, denuncia il sindacato. Una rissa è scoppiata ieri mattina nel carcere modenese Sant’Anna, coinvolti detenuti italiani e marocchini, secondo quanto riferisce il sindacato Sappe. "Un marocchino - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale - ha riportato la frattura del setto nasale, mentre un italiano ustioni su varie parti del corpo, a causa del lancio di olio bollente". "Solo grazie all’intervento della polizia penitenziaria è stato scongiurato il peggio", commentano. Sempre a Modena - fa sapere il Sappe - "un detenuto proveniente dal carcere di Parma, già più volte denunciato per aggressioni contro la polizia penitenziaria e sottoposto a regime restrittivo in carcere, può circolare liberamente e viene trattato con riguardo, visto che dalla cucina, due volte al giorno, gli devono preparare il caffè, perché non gradisce quello che viene distribuito la mattina a tutti gli altri reclusi". "Chissà cosa dovrà succedere ancora - dicono i sindacalisti del Sappe - prima che i vertici regionale e nazionale assumano provvedimenti adeguati. Intanto, circa 130 appartenenti al Corpo, in servizio al reparto di Modena, stanno per presentare istanza di assegnazione in altre strutture". Solo una settimana fa sempre il Sappe aveva denunciato un altro episodio grave avvenuto dentro a Sant’Anna: un detenuto italiano, dopo aver conferito con l’educatore e con il direttore, è rientrato nella sua stanza e distrutto il tavolo, gettando i pezzi nel corridoio della sezione. Sentito dal responsabile della sorveglianza generale avrebbe affermato di avere problemi con la direzione. Lo stesso detenuto, la sera prima, aveva rotto due sgabelli all’interno della sua cella, motivo per cui gli era stato fatto rapporto disciplinare. Il Sappe chiedeva che dipartimento inviasse ispettori ministeriali "per verificare le reali condizioni di queste strutture, dove il personale di polizia penitenziaria non riesce più a lavorare serenamente". La violenza tra di noi, l’Europa fragile di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 23 luglio 2016 Dopo i recenti attentati, compreso quello di ieri in Germania, è importante avere la consapevolezza, vigile ma non isterica, che può accadere anche da noi. Ed essere tutti più presenti. Chiunque può superare una crisi è il quotidiano che ti logora", scriveva un secolo fa Anton Cechov. Ed è lì che il ripetersi e poi il ripetersi e poi il ripetersi ancora di attentati infetta le nostre vite iniettando insicurezza, affanno, paura. E più le armi sono diverse, il coltello, la pistola, il kalashnikov, il camion lanciato a tutta velocità a travolgere coppiette di pensionati e famigliole coi figlioletti sui passeggini, più monta l’inquietudine. La profanazione della nostra quotidianità. Ecco ciò che stiamo vivendo, noi europei. Come non ci fosse più uno spazio sicuro. Al riparo dall’impazzimento di un mondo che non riusciamo più a riconoscere. Perfino il dubbio che forse, vai a sapere, chissà, la strage di ieri a Monaco potesse non essere messa in conto al terrorismo islamico, un dubbio rimasto appeso a lungo, non è sembrato affatto rassicurante. Anzi, sembrava avere aggiunto insicurezza ad insicurezza: chiunque sia stato, siamo sotto attacco… qui. A casa nostra. Il punto è che, proprio come scriveva Cechov, è meno duro assorbire nel tempo un trauma spaventoso ma in qualche modo raro (un terremoto, lo schianto di un aereo contro la montagna, perfino l’apocalisse irripetibile delle Torri Gemelle) che non lo sgocciolio quotidiano di eventi che ci tolgono il fiato e finiscono per ricordarci la nostra fragilità. Torna in mente il famosissimo sermone del pastore Martin Niemöller poi attribuito anche a Bertold Brecht: "Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare". Cosa c’entra? C’entra. Perché la prima via di fuga è quella: tocca agli altri. Anche chi fino a non molto tempo fa si illudeva di essere al riparo dai proiettili e dalle bombe, al contrario, sa oggi che la guerra che ci è stata dichiarata dal fanatismo terroristico dell’Isis e delle bande satelliti, come ci ricordano gli ultimi mesi, riguarda tutti. Ma proprio tutti. Le ragazze al tavolino di un caffè e gli spettatori di un concerto rock, come nel novembre scorso a Parigi. Le comitive in gita per vedere Santa Sofia, come quella dei turisti tedeschi ammazzati a gennaio da un terrorista suicida in piazza Sultanahmet a Istanbul, vicino alla Moschea Blu. I trentacinque viaggiatori falciati a raffiche di mitra a metà marzo all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metro di Maalbeek a Bruxelles. Con gli Europei di calcio, l’ondata di simpatia verso l’Islanda, la sorprendente vittoria del Portogallo senza Ronaldo in lacrime in panchina, le folle di tifosi davanti ai mega-schermi, pareva che tirasse un’aria nuova. Al punto che quando il governo francese comunicò che vari attentati (c’è chi scrisse sedici) erano stati sventati negli stadi, nei dintorni o comunque nelle città dove si erano giocate le partite, la notizia fu vissuta quasi come una interferenza fastidiosa nella recuperata serenità quotidiana. "Non mi ci far pensare". Un’illusione. Spezzata la sera del 14 luglio quando il camion bianco guidato da quel tunisino sciupafemmine che ballava la salsa e beveva liquori e si faceva i selfie depilato come un bullo palestrato, è piombato sulla folla della Promenade des Anglais facendo mattanza di chi stava riassaporando la normalità di una serata estiva con i fuochi artificiali. Stupore dei conoscenti, dei vicini, della famiglia: "Ma come, lui? Mohammed Bouhlel? Un fanatico islamista lui?". Neanche il tempo di capire cosa fosse davvero successo sul lungomare nizzardo ed ecco, a distanza di una manciata di ore, il giovanissimo profugo afghano o forse pachistano che irrompe con un’ascia su un treno regionale tra Ochsenfurt e Würzburg, in Baviera, e si avventa sui pendolari ferendone gravemente cinque al grido di "Allah Akbar!" prima di essere abbattuto dalla polizia ed essere incensato da Amaq News, la sedicente agenzia di stampa del Califfato. Per questo l’attentato di ieri sera a Monaco di Baviera, prima davanti a McDonald, poi al centro commerciale "Olympia" nel quartiere Moosach, a due ore di macchina dai nostri confini, con i suoi morti ha colpito l’Europa intera come una frustata in faccia. Perché ci dice, quale che sia la rivendicazione in arrivo, che questa violenza è ormai parte della nostra vita quotidiana. Può colpirci in trattoria, in spiaggia, al supermercato, alla stazione dei treni… In ogni momento. E non c’è polizia al mondo, piaccia o non piaccia a chi è pronto elettoralmente a cavalcare le paure, in grado di metterci al sicuro dai gesti improvvisi di giovani gonfi di odio ma fino a quel momento "normali", tranquilli, apparentemente inoffensivi. Cosa fare? Se ne è parlato moltissimo, in questi giorni. Più vigilanza, più poliziotti nei quartieri, più attenzione ai siti internet che arruolano i disperati e offrono un infame "riscatto" ai criminali, più telecamere, più sermoni in italiano nelle moschee, più controlli sui barconi eccetera eccetera. Tutto vero. Tutto giusto. Ma più ancora è importante avere la consapevolezza, vigile ma non isterica, che può accadere anche da noi. Ed essere, tutti noi, più presenti. Fare finta che possa capitare solo agli altri o peggio ancora sfiorare il cornetto di corallo in tasca, antica tentazione nostrana, non è solo inutile. È autolesionista. Attentati, allarmi, panico: le polizie d’Europa prigioniere del caos di Gianluca Di Feo La Repubblica, 23 luglio 2016 Gli agenti tedeschi sono stati incapaci di fronteggiare l’emergenza. Intelligence continentali sotto scacco. Non serve il terrorismo per gettare nel panico un continente che da anni si trova a convivere con una catena inesauribile di attentati. Ormai la paura è dentro di noi, testimoniando come la campagna di morte globale lanciata dal Califfo di Mosul sia entrata in profondità nella nostra quotidianità. Il verbo jihadista si è diffuso ovunque, amalgamando fondamentalismo e rancore per costruire gruppi organizzati come quelli che hanno colpito a Parigi e a Bruxelles, oppure indirizzando l’instabilità o la fragilità psichica di singoli verso i propri obiettivi, come è accaduto sulla promenade di Nizza e sul treno di Wurzburg. Ci siamo rassegnati alla minaccia che può colpire ovunque e chiunque, dallo stadio di calcio al supermarket, dall’aeroporto alla fermata della metropolitana, dallo spettacolo della festa al concerto, dal museo alla spiaggia. Una paura antica, che è esplosa con i vagoni di Madrid nel 2003, è proseguita due anni dopo con le bombe di Londra e si è intensificata con un ritmo esponenziale dopo la creazione dello Stato islamico. Neppure i soldati in assetto di guerra schierati nelle città riescono a trasmettere sicurezza. E ieri a Monaco questo sentimento che ci accompagna sempre si è trasformato in un panico mai visto prima in Europa. Il passaggio dal terrorismo al caos parla il dialetto bavarese e ha la sagoma di un uomo in nero. Una persona armata di pistola. Poco prima della sei di sera è entrata in un McDonald e ha cominciato a sparare. Ha mirato alla testa dei bambini. Ha finito tutti i colpi. Poi ha inserito un altro caricatore e continuando a fare fuoco è salito sul tetto di un centro commerciale, senza nascondersi. Una donna musulmana sostiene di averlo sentito inneggiare ad Allah, come i kamikaze dell’Isis. Una telecamera l’ha ripreso mentre con l’accento della Germania meridionale risponde all’insulto di cittadino dicendo di "essere tedesco, nato in un quartiere povero" e di "essere stato in cura". Un dialogo folle, concluso con invettive antiturche dello stesso attentatore che poco prima avrebbe urlato il nome del Profeta. Ma l’intera Baviera è piombata in un incubo surreale, con un unico, drammatico punto fermo: le decine di vittime tra morti e feriti. Tutto il resto è stata una colossale confusione, con un’ondata di paura che dalla periferia del quartiere olimpico si è trasmessa al centro storico e all’intero stato. "Ci hanno detto che stavano sparando delle raffiche, avendo in mente quello che è accaduto in Europa, abbiamo preso qualunque misura", si è giustificato il portavoce della polizia regionale, sottolineando come persino chi doveva reagire alla minaccia si sia mosso sotto la pressione psicologica che ormai dilaga in tutta Europa. Mai come questi giorni l’intelligence internazionale è sotto scacco. Perché le indagini sulla strage di Nizza hanno svelato che il piano del massacro veniva preparato da mesi, senza che le autorità francesi ne sapessero nulla. E persino il ragazzino immigrato che lunedì si è lanciato sui viaggiatori di un treno bavarese con un’accetta è riuscito a mandare prima il suo video alle centrali del Califfato. Insomma, ci sono reti jihadiste attive ovun- que che riescono a trasformare la pazzia in terrorismo. E la reazione delle autorità bavaresi invece di isolare il pericolo ha allargato le dimensioni del panico, trasmettendo allarmi crescenti e infondati, invitando una metropoli e una regione a barricarsi in casa. È stata una pessima prova. Gli esperti hanno spesso sottolineato come il sistema tedesco sia inadatto a fronteggiare gli attacchi. Il coordinamento tra corpi specializzati federali e polizie dei land è difettoso. Ieri mentre il pistolero si aggirava sul tetto del centro commerciale, gli elicotteri lo hanno sorvolato senza intervenire, perché impegnati "in un’esercitazione di routine". "Paura è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare", ha scritto Zygmunt Bauman. E ieri la Germania ha dimostrato la concretezza della sua analisi, di quella "paura liquida " che è dentro tutti noi. E che rischia di cancellare la nostra civiltà. Le nuove armi del terrorismo jihadista di Ignacio Ramonet Il Manifesto, 23 luglio 2016 Dopo Nizza. Questa nuova forma di terrore totale si manifesta come castigo o rappresaglia contro un "comportamento generale", senza altri dettagli, dei paesi occidentali. Aveva preparato tutto nei dettagli. Chiuso il conto in banca. Venduto l’automobile. Evitato qualunque contatto con l’organizzazione. Niente riunioni sospette. Niente preghiere. Si era procurato l’arma fatale senza che nessuno potesse sospettare l’uso che intendeva farne. L’aveva messa in un luogo sicuro. Aveva aspettato e aspettato. Giunta la data stabilita, ha fatto una prova. È passato e ripassato lungo il futuro itinerario di sangue. Ha studiato gli ostacoli. Ha immaginato il modo di superarli. Arrivato il momento, ha messo in moto il camion della morte. L’inaudita bestialità dell’attentato di Nizza del 14 luglio si aggiunge ad altri recenti massacri jihadisti, in particolare a Orlando (49morti) e Istanbul (43 morti), e obbliga a interrogarsi ancora una volta su questa forma di violenza politica chiamata terrorismo. In questo caso, per la verità, si dovrebbe parlare di "iper-terrorismo", per indicare il fatto che non è come prima. È stata valicata una soglia impensabile, inconcepibile. L’aggressione è di una dimensione tale da non assomigliare a niente di già noto. Al punto che non si sa come chiamarla. Attentato? Attacco? Atto di guerra? È come se i confini della violenza fossero stati cancellati. E non si potrà tornare indietro. Tutti sanno che questi crimini inaugurali si riprodurranno. Certo in altri luoghi, e in circostante diverse, ma si ripeteranno. La storia dei conflitti insegna che, quando fa la sua comparsa una nuova arma, questa sarà usata, per quanto mostruosi siano i suoi effetti. Qualcun altro, di nuovo, da qualche parte, lancerà a folle velocità un camion di 19 tonnellate contro una massa di persone innocenti. Soprattutto perché questo muovo terrorismo ha, fra i propri obiettivi, quello di colpire le menti, di sconvolgere le coscienze. È un terrorismo brutale e globale. Globale nell’organizzazione, ma anche nel percorso e negli obiettivi. Non rivendica nulla di preciso. Né l’indipendenza di un territorio, né concrete concessioni politiche, né l’instaurazione di un tipo particolare di regime. Questa nuova forma di terrore totale si manifesta come una sorta di castigo o rappresaglia contro un "comportamento generale", senza altri dettagli, dei paesi occidentali. Anche il termine "terrorismo" è impreciso. Per due secoli è stato utilizzato per indicare, distintamente, le persone che facevano ricorso, con o senza ragione, alla violenza per cercare di cambiare l’ordine politico. L’esperienza storica mostra che, in certi casi, questa violenza è stata necessaria. "Sic semper tirannis", gridò Bruto mentre pugnalava Giulio Cesare che aveva abbattuto la Repubblica. "Ogni azione è legittima nella lotta contro i tiranni", affermò nel 1792 il rivoluzionario francese Gracchus Babeuf. Su questo irriducibile fenomeno politico, che provoca al tempo stesso spavento e collera, incomprensione e repulsione, emozione e attrazione, sono stati scritti migliaia di testi. E anche almeno due opere magistrali: il romanzo I demoni (1872) di Fëdor Dostoevskij e l’opera teatrale I giusti (1949) di Albert Camus. Tuttavia, adesso che l’islamismo jihadista sta globalizzando il terrore a livelli mai visti prima, il progetto di "uccidere per un’idea o una causa" appare sempre più aberrante. E si impone quel rifiuto definitivo espresso magistralmente da Juan Goytisolo con la frase: "Uccidere un innocente non è difendere una causa, è uccidere un innocente". Naturalmente, sappiamo che molti di quelli che, a un certo punto della loro vita, difesero il terrorismo come "legittima arma degli oppressi", sono poi diventati rispettati uomini e donne di Stato. Per esempio i dirigenti nati dalla Resistenza francese (De Gaulle, Chaban-Delmas), che le autorità tedesche di occupazione definivano "terroristi"; Menachem Begin, ex capo dell’Irgun, diventato primo ministro di Israele; Abdelaziz Bouteflika, già responsabile del Fln algerino, in seguito presidente dell’Algeria; Nelson Mandela, capo dell’African National Congress (Anc), presidente del Sudafrica e premio Nobel per la pace; Dilma Rousseff, presidente del Brasile; Salvador Sánchez Cerén, attuale presidente del Salvador ecc. Come principio di azione e metodo di lotta, il terrorismo è stato rivendicato, a seconda delle circostanze, da quasi tutte le famiglie politiche, Il primo teorico che propose, nel 1848, una "dottrina del terrorismo" non fu un islamista alienato ma il repubblicano tedesco Karl Heinzen con il saggio Der Mord (L’omicidio), nel quale sosteneva che tutte le azioni sono buone, compreso l’attentato suicida, per affrettare l’avvento della democrazia. Antimonarchico radicale, Heinzen scrisse: "Se devi far saltare la metà di un continente e provocare un bagno di sangue per distruggere il partito dei barbari, non farti scrupoli. Chi non sacrifica gioiosamente la propria vita per provare la soddisfazione di sterminare un milione di barbari non è un vero repubblicano". L’attuale "offensiva jihadista" e la propaganda antiterrorista che la accompagna possono far credere che il terrorismo sia un’esclusiva islamista: con tutta evidenza, è sbagliato. Fino a tempi recenti, altri terroristi erano in azione in molte aree del mondo non musulmano: l’Ira e gli unionisti nell’Irlanda del Nord; l’Eta in Spagna; le Farc e i paramilitari in Colombia; le Tigri tamil nello Sri Lanka; il Fronte Moro nelle Filippine ecc. Quello che è certo, è che l’allucinante brutalità dell’attuale terrorismo islamista (tanto quello di Al Qaeda quanto quello di Daesh, il sedicente Stato islamico) sembra aver indotto quasi tutte le altre organizzazioni armate del mondo - a eccezione del Pkk kurdo - a firmare in fretta accordi di cessate il fuoco e deposizione delle armi. Come se, davanti all’intensità della commozione popolare, non volessero vedersi in alcun modo accostate alle atrocità jihadiste. Ricordiamo poi che, fino a pochissimo tempo fa, una potenza democratica come gli Stati uniti non riteneva per forza immorale l’appoggio a certi gruppi terroristi. Attraverso la Central Intelligence Agency (Cia), Washington preparava attentati in luoghi pubblici, sequestri di oppositori, dirottamento di aerei, sabotaggi, omicidi. Contro Cuba, Washington lo ha fatto per oltre 50 anni. Ricordiamo ad esempio la testimonianza di Philip Agee, ex agente della Cia: "Nel marzo 1960 ero in addestramento in una base segreta della Virginia, quando Eisenhower approvò il progetto che avrebbe dovuto portare all’invasione di Cuba da Playa Girón. Stavamo imparando i trucchi del mestiere di spia, comprese le intercettazioni telefoniche, i microfoni nascosti, le arti marziali, l’uso di armi ed esplosivi, i sabotaggi. In quello stesso mese la Cia, cercando di privare Cuba degli armamenti in previsione nell’imminente invasione da parte dei cubani in esilio, fece saltare in aria la nave francese "La Coubre", mentre stava scaricando nel porto dell’Avana un carico di armi dal Belgio. Nell’esplosione morirono oltre cento persone. Nell’aprile dell’anno successivo, un’altra operazione di sabotaggio a opera della Cia con bombe incendiarie distrusse i magazzini El Encanto, i più grandi della capitale, facendo decine di vittime. Nel 1976, la Cia pianificò, con l’aiuto dell’agente Luis Posada Carriles, un altro attentato contro un aereo della Cubana de Aviación: morirono le 73 persone che erano a bordo. Dal 1959, il terrorismo degli Stati uniti contro Cuba è costato 3.500 vite e ha reso invalide altre 2.000 persone. Chi non conosce questa storia può percorrerla nella classica cronologia di Jane Franklin, The Cuban Revolution and the United States". In Nicaragua, negli anni 1980, Washington agì con analoga brutalità contro i sandinisti. E in Afghanistan contro i sovietici. Là, con l’appoggio di due Stati molto poco democratici, Arabia saudita e Pakistan, gli Stati uniti promossero, nel decennio 1980, la creazione di brigate islamiste reclutate nel mondo arabo-musulmano e formate da quelli che i media dominanti chiamavano all’epoca freedom fighters, combattenti per la libertà. In quel contesto, come sappiamo, la Cia incontrò e formò un certo Osama bin Laden, che avrebbe poi fondato Al Qaeda. Gli errori disastrosi e i crimini perpetrati dalle potenze che invasero l’Iraq nel 2003 sono le cause principali del terrorismo jihadista attuale. Aggiungiamo le conseguenze degli assurdi interventi in Libia (2011) e in Siria (2014). Alcune capitali occidentali continuano a pensare che una massiccia potenza militare sia sufficiente a sconfiggere il terrorismo. Ma nella storia militare abbondano gli esempi di grandi potenze incapaci di battere avversari più deboli. Basti ricordare le disfatte statunitensi in Vietnam nel 1975, o in Somalia nel 1994. In effetti, in un conflitto asimmetrico, chi può di più non necessariamente vince: "Per circa 30 anni, il potere britannico si è rivelato incapace di avere la meglio su un esercito piccolo come quello dell’Ira", ricorda lo storico Eric Hobsbawn; "Certo quest’ultimo non vinse, ma nemmeno fu sconfitto". Come la maggioranza delle forze armate, quelle delle grandi potenze occidentali sono state concepite per lottare contro altri Stati e non per affrontare un "nemico invisibile e imprevedibile". Ma nel secolo XXI, le guerre fra Stati stanno diventando anacronistiche. La travolgente vittoria degli Stati uniti in Iraq agli inizi del 2000 non è un buon riferimento. Anzi, l’esempio può rivelarsi ingannevole. "La nostra offensiva fu vittoriosa", spiega l’ex generale statunitense dei marines Anthony Zinni, "perché avemmo la fortuna di incontrare l’unico cattivone al mondo abbastanza stupido da accettare di confrontarsi con gli Stati uniti in una guerra asimmetrica". I conflitti di nuovo genere, nei quali il forte si scontra con il debole o con il folle, sono più facili da iniziare che da concludere. E il massiccio ricorso a mezzi militari pesanti non necessariamente consente di raggiungere gli obiettivi che si perseguono. La guerra contro il terrorismo autorizza anche, in materia di governance e politica interna, l’impiego di ogni mezzo autoritario e di ogni eccesso, compresa una versione moderna dell’"autoritarismo democratico", il cui bersaglio non sarebbero solo le organizzazioni terroristiche in quanto tali, ma tutti quelli che si oppongono alle politiche globalizzatrici e neoliberiste. Per questo, oggi, c’è da temere che la "caccia ai terroristi" provochi - come si può osservare in Turchia dopo lo strano golpe di Stato fallito dello scorso 16 luglio -, derive pericolose, attentati ai diritti umani e alle libertà fondamentali. La storia ci insegna che con il pretesto della lotta al terrorismo molti governi, compresi quelli democratici, non esitano a restringere il perimetro della democrazia. Stiamo attenti a quello che accadrà. Potremmo essere entrati in un nuovo periodo della storia contemporanea, nel quale tornerebbero a essere possibili soluzioni autoritarie ai problemi politici. Il nuovo crocevia di tutte le paure di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2016 L’Europa è in stato di emergenza in Francia, e forse ora lo diventerà in buona parte del continente. Gli Stati europei sono percorsi da una sorta di follia diffusa che non esclude niente perché si sono insinuati nelle vene delle nazioni molteplici veleni, quelli importati dal Medio Oriente e quelli sedimentati in società che si sentono aggredite e frustrate nelle loro aspirazioni: il pericolo maggiore è un clima di paura difficile da dominare perché colpisce i luoghi della vita quotidiana. Pezzi di queste società e alcuni individui si sentono in guerra, forse prima di tutto contro se stessi. In Germania c’è stato un atto terroristico spaventoso ma la matrice è ancora incerta in un Paese ben più inquieto delle apparenze e con movimenti che vanno dal jihadismo alla destra estrema. Certo, la guerra che è stata per anni alle porte dell’Europa è entrata qui da un pezzo: da quel 7 gennaio del 2015, quando ci fu l’attentato a Charlie Hebdo, è anche cominciata una nuova fase, l’escalation del terrorismo non solo non si è fermata ma si è propagata dalla Francia, al Belgio alla Germania, con cellule organizzate in ospitali quartieri islamizzati o con i lupi solitari che sanno di potere ambire al marchio della bandiera nera dell’Isis. Non è accaduto però in Gran Bretagna, che in passato fu bersaglio anche di un terrorismo diffuso, dove sono stati investiti oltre due miliardi di sterline per l’intelligence e la prevenzione: in pratica per pagare centinaia di infiltrati e attirare nella rete i candidati al jihadismo. Chiaro che questa non è una garanzia assoluta di successo ma limita la possibilità di attentati. Bisogna però dirlo con franchezza: il terrorismo è una tecnica di combattimento prima ancora che un’ideologia mortale che non può essere sconfitto in maniera definitiva. Non ci sono realistiche possibilità di cancellare il pericolo di subire attentati come la quello di Nizza o di ieri a Monaco di Baviera o del giovane immigrato che attaccato all’arma bianca i passeggeri di un treno in Baviera. Si possono però ridurre i rischi; coprire le falle della sicurezza, attuare una maggiore collaborazione tre le intelligence europee. Anche se ogni volta sembra di ripetere dei mantra che si perdono nel vento alla ripetizione di ogni strage. Muhammad Riad, un afghano di soli 17 anni, ucciso nella fuga, è stata l’avanguardia dell’Isis in Germania che ha messo il suo marchio anche su questa azione disperata che del resto obbedisce alla direttive che aveva diramato nell’aprile scorso proprio il portavoce del Califfato Abu Mohamed al-Adnani, il "ministro degli attentati". Qui siamo alla componente ideologica di questa guerra che si collega ai conflitti che lambiscono il continente europeo. Secondo alcune ricostruzioni al-Adnani, con estremisti arabi ed europei, inizia a guardare lontano, quando l’Isis potrebbe essere sconfitto sul terreno, ovvero studia come creare una quinta colonna in Europa. E potrebbero usare il nord-est della Siria come area di addestramento e poi come ponte sul confine turco. Gli ultimi eventi in Turchia possono costituire un altro pericoloso relais con il Medio Oriente in disgregazione. Se la Turchia entra in una fase di destabilizzazione le terre mobili del mondo musulmano rischiano di coinvolgere un alleato della Nato dove ci sono 24 basi della Nato, armi nucleari comprese. Qui l’Isis è già entrato in azione perché in questi tre anni la Turchia è stata considerata Paese "amico" dei jihadisti, usati per combattere contro il regime siriano di Bashar Assad: Erdogan è stato l’unico presidente a trattare direttamente con l’Isis per il rilascio dei diplomatici turchi presi in ostaggio a Mosul nell’estate 2014. Ora la Turchia è nell’alleanza per la guerra allo Stato Islamico ma si può ben capire che lo fa senza grande convinzione. Questo è il mondo intorno a noi e non possiamo nascondere la testa sotto la sabbia o scordarcelo quando le crisi sembrano spegnersi. Lo abbiamo fatto troppe volte in questi decenni, dall’Afghanistan all’Iraq, e ora ne paghiamo il prezzo. Non semplifichiamo parlando di "noi" e "loro" di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 23 luglio 2016 Servono strumenti politici, come la cittadinanza ai figli d’immigrati, per ridurre l’emarginazione che può trovare pericolosi legami con l’estremismo. Ma l’integrazione è una battaglia culturale, dove creare sentimenti di condivisione antagonisti all’odio. Donald Trump l’ha dichiarato da tempo: "L’Islam ci odia". Dietro le gravi violenze ci sarebbe l’Islam. Hollande, dopo la strage di Nizza, ha intensificato i bombardamenti sul territorio siro-iracheno di Daesh. Il messaggio è chiaro: il terrorismo è parte della guerra del "califfato" contro di noi. Le sue rivendicazioni e la sua propaganda lo confermerebbero. Alla fine, dietro a tutto questo, si staglierebbe il mondo islamico con ambiguità e contraddizioni. Si ritorna così a un modello interpretativo di successo - un archetipo: lo scontro tra Occidente e Islam. Ha avuto tanti sostenitori tra intellettuali e politici occidentali; fu all’origine della guerra all’Iraq nel 2003 e del crollo del sistema mediorientale. Non dispiaceva a Osama bin Laden e ad al Qaeda, perché - nell’opposizione - riconosceva loro la leadership contro l’Occidente. Non spiace nemmeno oggi al "califfato". Si crea così un’atmosfera bellicosa che favorisce il proselitismo islamico. Per gli occidentali si disegna invece uno scenario chiaro (in qualche modo rassicurante). Sappiamo da dove vengono le minacce, perché abbiamo un nemico: l’Islam, rappresentato complessivamente come ostile o ambiguo, da combattere o da obbligare a una chiarificazione. Solo così si fermano le sue quinte colonne tra di noi, figlie di un sistema politico-religioso globale. Un simile modello interpretativo fa il gioco dell’avversario e gli offre la grande legittimazione di nemico dell’Occidente, quasi avesse una sola testa. Da noi, favorisce i populismi, per cui solo una politica pugnace di muri e scontri ci difende. Motiva uno sguardo sospettoso e diffidente verso la quasi generalità dei musulmani. Il modello è una semplificazione. Il sociologo francese, Raphaël Liogier, ha recentemente dichiarato a Le Monde: "Bisogna rifiutare di partecipare allo scenario del "noi" contro "loro" desiderato da Daesh, e fornire una narrazione forte e positiva". Eppure parlare di "noi" e "loro" appare tristemente rassicurante nello stabilire frontiere. La realtà è diversa. Ci sono due problematiche distinte, anche se connesse. C’è il totalitarismo di Daesh con insediamenti territoriali, ramificazioni e la sua propaganda, che si sviluppa in un mondo islamico carico di contraddizioni e divisioni (e con tanti morti musulmani per il terrorismo). D’altra parte, si profilano in Europa i radicali, i folli, gli antisistema, pronti a fare tanto male, che vivono tra di noi. Colpendo Daesh si fa una guerra in Medio Oriente. Non c’è però guerra tra Islam e Occidente, bensì terrorismo folle nei nostri Paesi. È qualcosa di diverso, che richiede strumenti adeguati per isolare i folli e difendersi. Si deve tener conto della fragilità delle nostre società, con aree periferiche fuori controllo, sconnesse dalla vita sociale e comunitaria. Oltre al lavoro d’intelligence e polizia, ci sono vasti spazi sociali da "riconquistare" a un senso condiviso di destino nazionale e da strappare a derive nichilistiche. Si pensi alla banlieu francese, a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove nascono i terroristi, o a tante periferie "umane" a rischio anche in Italia. Va tenuto conto - il Corriere l’ha mostrato - che il nichilismo di gente antisistema si radicalizza attraverso internet e i social, costituendo ghetti mentali pericolosi. Sostenendo questo, non si sposta la sfida dal politico al sociale, ma si indica il terreno dove si addensano i pericoli. Il rapporto di Europol sul terrorismo per il 2015 afferma che non c’è prova che i rifugiati siano un veicolo di terroristi: una tematica sbandierata dai populisti. Registra invece l’esistenza di circa 5.000 foreign fighter europei. Soprattutto osserva come il 35% dei "lupi solitari" (tra il 2010 e il 2015) abbia sofferto di disturbi mentali. Si spiegano anche così le rapide o solitarie conversione alla violenza, ma anche le azioni folli di esibizione del terrore senza logica politica. Il problema è nelle nostre società, specie tra i giovani e chi ha un’ascendenza musulmana, dove l’islamismo agisce come spiegazione onnicomprensiva e ideologia dell’odio. È inutile vedere tutto provocato da oltremare. Il nichilismo serpeggia tra di noi. Lo si nota tra gli ultrà o negli attentati alle chiese a Fermo. È un "ospite inquietante", scriveva Umberto Galimberti. C’è un mondo da bonificare. Le società europee sono depauperate di reti aggregative e comunitarie: i corpi intermedi tradizionali - partiti, movimenti sociali o altro - sono in crisi. Senza sentimenti, passioni condivise, valori, come creare coesione sociale? Qui il problema dell’integrazione e del controllo sociale. In Italia è una grave lacuna che si rinvii la cittadinanza ai figli d’immigrati, lo ius culturae di cui si parla da tanto: cresce una generazione a metà, né italiani né stranieri, "diversi" dai giovani italiani. Per i "marginali" i legami sono spesso religiosi, specie con l’Islam. Non si tratta solo di formare imam con spirito italiano, come previsto dal ministero dell’Interno. C’è da integrare i musulmani con le altre comunità, favorendo convivialità e dialogo. Sono cadute esperienze, promosse in passato come, all’epoca del ministero dell’Integrazione, la conferenza dei leader delle varie religioni. Si tratta di creare, in un tempo così emozionale, sentimenti di condivisione antagonisti all’odio tipico dei ghetti mentali e sociali. La politica sociale è decisiva contro la radicalizzazione. Ma è pure decisiva la passione sociale e politica, così fragile in società europee caratterizzate da legami allentati e da un generale ripiegamento individuale. Individui soli e strutture non integrano: ci vogliono comunità di vita e di sentimenti accanto a sogni per il futuro. Quanto accade non chiede soltanto più muscoli, ma un salto d’intelligenza e di ethos sociale da parte di tutti. Migranti. Servono i corridoi umanitari, basta morti di Pietro Bartolo (Medico di Lampedusa) Il Dubbio, 23 luglio 2016 Non lasciamo i migranti nelle mani degli scafisti. In queste ore sono arrivate con i gommoni altre 150 persone, alcune stavano bene. Ma molte non sono arrivate. Morte. È disumano. È l’ennesima strage. E purtroppo, se si continua così, non sarà l’ultima. Malgrado gli sforzi fatti dalle navi italiane, anche civili, e da quelle del programma europeo Frontex la mattanza continua. Come mai? Cosa succede? Succede che restano trenta miglia da coprire, e in quelle trenta miglia le persone che fuggono da guerra e povertà muoiono. I trafficanti sanno che a poche miglia dalle coste trovano le navi di Frontex, e usano imbarcazioni meno vistose come i gommoni. I gommoni sono fatiscenti e vanno a benzina. Utilizzano le taniche per rifornire la barca e la benzina si mischia all’acqua, impregnando i vestiti delle persone che stanno al centro delle imbarcazioni. In tanti arrivano con ustioni dovute alla benzina utilizzata. Sono soprattutto donne. Sono loro che pagano, guarda caso, sempre il prezzo più alto: per le violenze che subiscono, ma anche per quella che io chiamo la "patologia del gommone". Allora io dico basta. Dico andiamo a prenderli direttamente noi. Facciamo questo "favore" ai trafficanti: facciamogli risparmiare anche i soldi che spendono per comprare i gommoni. Stringiamo accordi con i Paesi da cui arrivano. Con la Libia no, perché il governo è instabile. Ma con la Tunisia si potrebbe fare. E così potremmo costruire da lì i corridoi umanitari che salvino tutte queste vite umane. L’Italia ha davvero fatto tanti sforzi, facciamo questo passaggio ulteriore. In accordo con l’Europa andiamo a prendere uomini, donne e bambini e poi collochiamoli, equamente, nei vari Paesi. Non sono tanti, come si dice. Non è un’invasione. Anche quest’anno gli arrivi sono sempre gli stessi. E non sono persone che ci vengono a rubare il lavoro: sono esseri umani che si accontentano di sopravvivere. Si ha paura dei terroristi: ma chi arriva dal mare, chi rischia di morire pur di venire qua, non è un terrorista. È una persona che ha bisogno di aiuto. I terroristi li abbiamo in casa. Noi dobbiamo impedire che altre persone muoiano. L’Italia ha davvero fatto tanto, bisogna riconoscerlo. Ora però facciamo un passo in più. Abbiamo salvato tante persone, facciamo sì che non muoia più nessuno. È disumano assistere a queste morti. È vergognoso. Dalla vergogna non dovremmo più avere il coraggio di uscire fuori casa. Basta. Migranti. Già 3 mila le "croci" nel Mediterraneo di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 23 luglio 2016 Rapporto Oim. Raddoppiano i morti in mare sulla rotta Libia-Italia, stessi arrivi dell’anno scorso nello stesso periodo. È stata raggiunta proprio con la strage di donne su quel gommone semi sgonfio recuperato dalla nave Aquarius giovedì 21 luglio in mare aperto, la quota dei 3 mila morti, quest’anno. Tremila croci nel Mediterraneo, di migranti morti mentre cercavano di raggiungere le coste dell’Italia, unico approdo rimasto d’Europa, dopo la sostanziale chiusura della rotta balcanica attraverso la Grecia. Tremila morti è la cifra che fa alzare l’asticella delle statistiche nel quadrante rosso, fa capire l’Oim, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni che proprio ieri ha pubblicato il suo rapporto. È il terzo anno di fila che si raggiunge il numero dei 3 mila decessi sulle rotte marittime dei migranti ma quest’anno questa soglia è stata oltrepassata molto prima: nel 2014 si raggiunse il 21 settembre, l’anno scorso fu il 15 ottobre. Le morti in mare sono quasi raddoppiate finora ma gli arrivi non sono sostanzialmente cresciuti: si muore solo molto di più. Infatti Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Oim a Roma, precisa che circa 4.200 migranti sono stati salvati nel Canale di Sicilia da martedì scorso a giovedì ma, in base ai dati ufficiali del ministero degli Interni italiano, gli arrivi al 21 luglio sono a 84.052, un numero quasi identico al totale dello scorso anno nello stesso periodo, quando le autorità italiane ne hanno contati 84.026. Il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento immigrazione del Viminale, specifica che nel 95% dei casi la Libia è il porto di provenienza e "non si è aperto alcun canale di profughi dall’Egitto". Percorso e provenienza dei profughi sulla rotta del Mediterraneo centrale (Libia-Italia), per Oim e Unhcr resta lo stesso: partono dalla Nigeria (da ieri in recessione economica piena), arrivano ad Agadez in Niger e da lì risalgono verso i porti libici. Il referente in Libia dell’Oim, Othman Belbeisi, dice che la Guardia costiera libica nell’ultima settimana "ha collaborato attivamente" intercettando cinque barconi. Il pm di Trapani Andrea Tarondo ha avviato un’inchiesta per omicidio volontario e favoreggiamento all’immigrazione clandestina a carico di ignoti, con un pool di investigatori a tempo pieno sul caso del gommone della strage di donne. Ma gli scafisti che cerca, non li troverà tra i superstiti che sentirà oggi: perché sono in Libia. Migranti. "A morsi le donne cercavano di vivere" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 23 luglio 2016 Medici senza Frontiere ha raccolto gli agghiaccianti racconti dei superstiti e dei soccorritori della strage di donne a bordo di uno dei due gommoni intercettati giovedì dalla nave Aquarius. Una testimonianza che pubblichiamo integralmente. "Il fondo del gommone si è rotto, il peso delle persone lo ha lacerato e l’acqua ha cominciato a entrare. Quando l’acqua ha raggiunto l’altezza delle ginocchia, le ragazze che erano sedute al centro sono state prese dal panico, urlavano e gridavano. Alcune di loro hanno provato ad alzarsi ma scivolavano indietro nella pozza di acqua e benzina. Alcune mordevano gli uomini con i denti, perché erano intrappolate sul fondo del barcone". È l’agghiacciante racconto di David, 30enne nigeriano sbarcato ieri a Trapani con altri 208 superstiti recuperati dalla nave di soccorso Aquarius. È una delle testimonianze raccolte da Msf. La traversata del Mediterraneo per David è iniziata in Libia di notte. "Mi sono imbarcato sul gommone tre notti fa", inizia così il suo racconto. "È stata una notte orribile, alcuni uomini sparavano colpi in aria, hanno radunato le persone e le hanno spinte verso il mare. Hanno caricato troppe persone sulla nostra barca, troppe persone". Ricorda il momento della tragedia, del panico assoluto, dopo giorni di navigazione in mare aperto, quando il gommone dove si trovava si è squarciato sul fondo: "Tutti nel gommone si muovevano in modo concitato. Non potevamo andare da nessuna parte ma si spostavano, cercavano di non scivolare, di non rimanere intrappolate nella pozza di benzina e acqua, ma quando si muovevano da un lato o dall’altro entrava sempre più acqua. Abbiamo cominciato a buttare fuori acqua, l’imbarcazione era completamente piena". Poi i soccorsi: "Quando è arrivata la nave italiana, sono state portate via per prime tutte le donne ancora in vita. C’era una ragazza ancora viva sotto i corpi dei morti. È stata tirata fuori da sotto i corpi senza vita". "Sono salvo e penso che ringraziamo Dio - è la sua conclusione -. Salire sulla barca è davvero pericoloso. Questa è la verità. Non consiglio a nessuno di prendere la barca. Non posso dimenticare quello che ho visto con questi occhi". Mary, violentata in Libia - La testimonianza di Mary, 24 anni, nigeriana anche lei, anche lei sul gommone sfondato insieme al marito, è persino più cruda. "Durante la traversata, l’acqua entrava nella barca. Stavo annegando - racconta - lottavo per sopravvivere. Invece di aiutarmi le persone mi calpestavano e mi usavano per cercare di stare a galla. Una donna incinta chiedeva aiuto, alcune persone erano già morte. Continuavo a chiedere aiuto ma nessuno mi aiutava. Non respiravo, ho dovuto mordere per cercare di respirare. Ho detto a Dio che non volevo morire. Poi qualcuno ha urlato "tua moglie ti sta chiamando" e mio marito mi ha preso la mano e mi ha trascinato per farmi riuscire a respirare. Le persone mi camminavano addosso. Alcuni mordevano mio marito, il suo corpo era pieno di morsi. Ha usato tutta la forza che gli rimaneva, mi ha preso e mi ha stretto contro il bordo del gommone. Così l’acqua ha iniziato a uscire dalla mia bocca. Quando è passato un elicottero abbiamo cercato di farci vedere muovendo le mani chiedendo aiuto. Ho pensato che anche la polizia libica sarebbe andata bene. Sarei tornata in quella prigione piuttosto che morire in mare. Dio mi ha dato una seconda possibilità". "Sulla nave che ci ha salvato ho visto un uomo che non mi aveva aiutato - continua Mary - Mi ha detto che non era colpa sua, stava lottando per la sua stessa vita". Mary ha passato due mesi in Libia. È stata in prigione là e racconta di essere stata violentata dai suoi carcerieri: "Non puoi dire di no. Loro hanno le pistole, urlano, parlano nella loro lingua. Speravo non mi guardassero, che mi vedessero come una donna adulta. Cercano giovani ragazze attraenti. Ti toccano il seno, fanno quello che vogliono, ti picchiano come animali. Tutti i giorni le persone piangevano, svenivano, se chiedevi aiuto ti ridevano in faccia. Ogni tanto aprivano la prigione e dicevano di scappare, ma poi ti raggiungevano e ti riportavano dentro. Questa è la mia testimonianza - conclude - voglio usarla per dire alle persone quanto grande sia Dio". Il silenzio dei sopravvissuti - La dottoressa Erna Rijnierse, è a capo dell’èquipe medica di Msf a bordo della Aquarius e racconta: "Quando siamo arrivati ci ha colpito subito il silenzio. Di solito quando ti avvicini a un barcone le persone agitano le braccia, urlano. Stavolta erano tutti in silenzio. Ho chiesto il permesso di salire a bordo. L’acqua mi arrivava ai polpacci. C’era un odore fortissimo di carburante misto a urina e altro. Era difficilissimo non calpestare i corpi, ma volevo essere assolutamente certa che le donne fossero davvero oltre il punto di una possibile rianimazione. Alcune di loro erano già in rigor mortis. Era chiaro che non erano morte negli ultimi minuti e potevi vedere nei loro occhi che avevano lottato per sopravvivere. Dal punto di vista medico non c’era più niente da fare. Così sono tornata al nostro gommone per vedere i sopravvissuti. Molti avevano bruciore agli occhi dovuto ai gas o al carburante. Altri avevano graffi e morsi sulle gambe, sulla schiena e sulle braccia. Probabilmente glieli avevano procurati le ragazze schiacciate a terra mentre cercavano di liberarsi. Dev’essere stato un inferno". "I sopravvissuti sono traumatizzati - aggiunge la dottoressa, guardano nel vuoto, sguardi persi. Quanto hanno vissuto qui è oltre ogni immaginazione. Non riescono nemmeno a riconoscere i propri cari. Quello che davvero non posso sopportare è che queste ragazze siano morte di una morte orribile per l’unica ragione che non avevano altro modo di venire in Europa. Sono furiosa. Sono arrabbiata contro le politiche che tengono lontane queste persone, che non hanno per loro alcuna importanza. Queste ragazze avrebbero potuto comprare un biglietto aereo e fare un viaggio comodo e sicuro. E avrebbero pagato meno della metà di quanto hanno pagato per questa traversata maledetta. Allo stesso tempo sono estremamente triste perché queste persone non avevano commesso alcun crimine. Non erano malate. Erano persone normali con tutta la vita davanti". Sotto il cumulo dei corpi - Ferry Schippers, coordinatore di Msf a bordo della Aquarius racconta a sua volta: "Dopo la chiamata di emergenza, ci è stato chiesto di dirigerci verso est il più velocemente possibile. Le prime informazioni parlavano di 15 morti su uno dei due gommoni. Il numero di corpi senza vita che abbiamo portato a bordo era poi ancora più alto: ventidue, 22 morti evitabili. I miei pensieri sono subito andati a chi era ancora a bordo del gommone in attesa di essere soccorso mentre fissava i propri cari o le persone conosciute senza vita ai propri piedi. Dovevamo portare queste persone a bordo il più velocemente possibile. Abbiamo soccorso prima i 104 sopravvissuti, poi le 105 persone a bordo dell’altra imbarcazione. Infine, abbiamo recuperato i corpi, forse l’azione più impegnativa". "Le persone che salivano a bordo - riferisce ancora Schippers - guardavano nel vuoto, verso un punto lontano. La maggior parte di loro non rispondeva nemmeno quando gli chiedevamo che lingua parlassero. Abbiamo dato loro una piccola borsa con una coperta, biscotti energetici, dell’acqua che bevevano d’un fiato, calze e un asciugamano. Un uomo, in francese, mi ha detto: "Mia moglie è morta ed è ancora sul gommone, non so cosa fare…"". L’ultima parte dell’operazione è stata recuperare i corpi senza vita. "Tre uomini sono scesi sul gommone, pieno di corpi che galleggiavano in una pozza di acqua e carburante - spiega il coordinatore. Con una barella e una carrucola li abbiamo tirati a bordo uno a uno, nel massimo rispetto. Non importa quanti corpi prendessimo, il gommone sembrava non svuotarsi mai. Nella mia mente c’erano moltissimi pensieri. Ero arrabbiato e pieno di tristezza per quelle persone sfortunate, soprattutto donne, che avevano sofferto così tanto. Non avevano commesso alcun crimine tranne quello di cercare una vita migliore in Europa". La morte avrà i tuoi occhi - Ablaygalo Diallo è il mediatore culturale dell’équipe di Msf che ha partecipato al Pfa (Psychological First Aid), il supporto psicologico allo sbarco sul molo di Trapani. Ha soccorso tra gli altri l’uomo nigeriano che ha visto la moglie morire davanti ai suoi occhi. "Sono rimasto a lungo vicino a lui - dice - all’interno della tenda di Msf dove garantiamo privacy e senso di sicurezza ai più vulnerabili. Mi ha raccontato di come insieme alla moglie sono fuggiti dalla Nigeria, hanno attraversato il deserto. La donna, incinta, durante il viaggio ha perso il bambino. Nonostante le enormi difficoltà, sono riusciti a partire insieme, imbarcandosi per una traversata pericolosissima. Il gommone stracarico su cui viaggiavano ha ceduto sotto il peso delle persone, più di cento, creando una falla. Le donne che stavano al centro sono morte asfissiate e affogate, mi ha spiegato lui in lacrime. Non ha più visto sua moglie e si è reso conto solo a bordo dell’Aquarius che era tra i cadaveri, riconoscendola dalla maglietta che indossava". Diallo è riuscito a farlo sfogare e a calmarlo, convincendolo a chiamare la famiglia a casa, "per dire alla madre che era ancora vivo". "Quando ha sentito la voce della madre dopo mesi, ho visto un sorriso spuntare sul suo viso". "È stato difficilissimo per me - dice il mediatore - spiegargli quale sarà il suo futuro ora che è arrivato qui". Migranti. Boldrini: "l’accordo con la Turchia sui migranti è lesivo dei diritti umani" di Luca Fazio Il Manifesto, 23 luglio 2016 Intervista. La presidente della Camera esprime le sue condoglianze alle famiglie delle donne che sono morte soffocate nel canale di Sicilia: "Questa vergogna marchierà per sempre il nostro tempo, dobbiamo trovare la forza di dire no all’indifferenza e all’abbrutimento". Presidente della Camera Laura Boldrini, lei ha detto che trattare con la Turchia sui migranti è stato un errore. Ci sono ancora margini per rimediare a quell’errore? Lo pensavo all’epoca e a maggior ragione lo penso oggi. Da molto tempo l’Europa era a conoscenza di alcune azioni preoccupanti compiute delle autorità turche. La rimozione dei magistrati e il giro di vite sulla stampa non sono certo una novità, erano fatti risaputi già nel 2015, tant’è che il parlamento europeo, con una risoluzione, chiese alla Turchia di rivedere la propria legislazione anti terrorismo perché attraverso definizioni troppo vaghe rischiava di mettere all’opera misure più che discutibili. E sicuramente non conformi alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Oggi però non sembra che l’Europa abbia molte carte da giocare sul fronte immigrazione. Anzi, si parla di estendere quel modello di accordo con la Turchia anche agli stati africani, alcuni dei quali non sono proprio dei modelli di democrazia. Quel modello di gestione del fenomeno migratorio non è da riprodurre, non si possono fare accordi al ribasso sui diritti. Ci sono paesi le cui legislazioni non sono in linea con gli atti fondativi dell’Unione europea. Basta guardare cosa sta succedendo proprio ai cittadini turchi. Voglio esprimere tutta la mia solidarietà al popolo turco. Se la Turchia arriva a mettere in discussione la libertà dei propri cittadini come sta accadendo in queste ore, proviamo a pensare cosa potrebbe accadere con i rifugiati. Dobbiamo assolutamente rivedere quell’accordo. Alla luce di quello che sta succedendo in seguito al tentativo di colpo di Stato, come si fa a considerare la Turchia uno stato sicuro? La comunità internazionale ha fatto bene a condannare il tentato golpe militare, ma questo non significa che il presidente Erdogan sia autorizzato a compiere qualsiasi azione di rappresaglia. Lei ha detto che l’Europa dovrebbe prepararsi ad accogliere i potenziali rifugiati turchi in arrivo, ma proprio in questa fase l’Europa sta dando il peggio di sé proprio per l’incapacità di accogliere chi fugge da guerra, repressione e miseria. Volevo soprattutto evidenziare il paradosso per cui questi cittadini turchi arrestati arbitrariamente, queste persone cui da un giorno all’altro è stata negata la libertà di esercitare la professione, oggi potrebbero venire in Europa a chiedere asilo politico. Potrebbero essere loro a fuggire in seguito alla repressione, proprio mentre la Turchia in base a quell’accordo sbagliato con l’Unione europea sta gestendo l’accoglienza di migliaia di profughi. L’immagine di quegli uomini seminudi ammassati in un capannone mi ha fatto venire in mente ciò che avevo visto nei Balcani negli anni Novanta, sono rimasta molto turbata. Capisco la tensione dopo il tentato golpe, ma questi metodi non sono tollerabili. L’Europa deve farsi sentire e protestare vivamente. Non crede che l’Europa, anche perché sotto ricatto proprio per via di quell’accordo sui migranti, a questo punto sia condannata a sostenere il presidente Erdogan? Proprio per questo, da subito, ho sempre pensato e detto che quell’accordo non andava fatto. Il problema è che non tutti gli stati europei hanno seguito le indicazioni della Commissione europea che puntava sulla suddivisione dei profughi. Un continente con 500 milioni di abitanti non può andare in crisi per un milione di richiedenti asilo. È un’assurdità. La questione va risolta all’interno dell’Europa: gli stati che non vogliono collaborare ne devono rispondere e andrebbe pensato anche un sistema di sanzioni. In questo modo si sarebbe potuto evitare di appaltare alla Turchia la gestione dei richiedenti asilo. Con questo accordo l’Europa rischia di perdere la sua reputazione, non dobbiamo dimenticare che siamo il continente dei diritti umani e su questo abbiamo costruito la nostra autorevolezza. Intanto i migranti continuano a morire nel silenzio generale. È un’ecatombe senza fine. Siamo al punto che di venti donne morte di stenti nel canale di Sicilia quasi non resta traccia sui media. Oggi si convive con la morte in mare come se facesse parte della nostra normale esistenza, come se non fosse più un dovere cercare di evitare in tutti i modi ciò che sta accadendo nel Mediterraneo. È una situazione terribile. Apprezzo molto gli sforzi della Marina, della Guardia Costiera e di tutti i mezzi di soccorso che ogni giorno si impegnano per salvare la vita ai profughi, ma a questo punto è evidente che tale spiegamento di forze non basta più. Non ci si può abituare a considerare il Mediterraneo un luogo di lutto, né mettere in conto che si debba morire per cercare la salvezza. Voglio esprimere le mie condoglianze anche alle famiglie delle ultime vittime in ordine di tempo, le donne che sono morte soffocate. Questa vergogna marchierà per sempre il nostro tempo, dobbiamo trovare la forza di dire no all’indifferenza e no all’abbrutimento. Cannabis legale, così le forze proibizioniste la vogliono affossare di Riccardo Magi (Segretario di Radicali Italiani) Il Dubbio, 23 luglio 2016 Come prevedibile, il cammino del disegno di legge dell’intergruppo parlamentare Cannabis Legale si annuncia tutto in salita. Quando lunedì 25 luglio la proposta che disciplinerebbe la legalizzazione della produzione, della vendita e del consumo di cannabis approderà, finalmente, per la prima volta in Aula alla Camera, si troverà subito davanti un muro di quasi 2 mila emendamenti e alcune pregiudiziali di costituzionalità. È solo la prima mossa della controffensiva proibizionista scattata, puntualmente, a pochi metri da un traguardo significativo, per quanto simbolico, della quarantennale battaglia per la legalizzazione. Sappiamo infatti che proprio quando obiettivi una volta ritenuti irraggiungibili iniziano a prendere forma, l’ostilità e le resistenze nei loro confronti si fanno più forti e meglio organizzate. Basta ricordare quanto accaduto su quello straccio di legge sul fine vita - il cosiddetto "decreto salva Eluana Englaro" poi diventato ddl Calabrò - e ricordare uno dei dibattiti parlamentari più bassi della storia repubblicana e il suo epilogo in un nulla di fatto (la calendarizzazione a ridosso della pausa estiva costituisce in questo un’insidia). Le forze politiche che hanno messo in moto la macchina dell’ostruzionismo puntano a impedire che il Parlamento affronti una delle più gravi questioni sociali aperte nel nostro Paese con un dibattito serio, con argomenti fondati su base scientifica, e non con pretesti ideologici smentiti prima ancora dell’avvio della discussione. In queste ore, infatti, abbiamo sentito enunciare, tra i "principi cardine" che "non esistono droghe leggere", eppure nel febbraio del 2014 la Corte costituzionale, dichiarando l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, ha abrogato anche l’equiparazione tra droghe leggere e pesanti che quella legge aveva stabilito. Abbiamo perfino sentito parlamentari di lungo corso negare l’evidenza, e cioè che legalizzare la cannabis aiuterebbe a contrastare la criminalità organizzata. Eppure la più autorevole istituzione in quest’ambito, la Direzione nazionale antimafia, ha comunicato ufficialmente alla Camera il proprio parere favorevole al provvedimento, parlando per la prima volta esplicitamente di "legalizzazione". Il mercato delle droghe è il terzo al mondo per fatturato, dopo quello alimentare e dell’energia. Solo in Europa vale 24 miliardi l’anno, di cui la parte più consistente è rappresentata proprio dalla cannabis. Se nell’Unione europea venisse legalizzata si sottrarrebbero alla criminalità organizzata quasi 13 miliardi l’anno. È un fatto, quindi, che intralciare l’iter parlamentare con un ingorgo di emendamenti significa fare il gioco delle narcomafie, che devono la propria fortuna e prosperità proprio alle politiche proibizioniste. Ma a incarnare il fallimento del proibizionismo sono anche e soprattutto i costi sul piano della giustizia. E non parliamo soltanto dei 2 miliardi annui per le spese di tribunali e operazioni di polizia. Ci sono altri costi, altissimi, che riguardano la salute dei cittadini e la loro libertà di scegliere senza finire negli ingranaggi della macchina della punizione. Sono quasi 17mila i detenuti reclusi a causa dell’articolo 73 del Testo unico sulle droghe, che punisce la produzione il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti. Si tratta del 32% della popolazione penitenziaria: uno su tre. La stessa percentuale dei detenuti con problemi di dipendenza. Di questi la maggior parte sono giovani, giovanissimi. Dietro numeri così imponenti ci sono le storie e i corpi di queste persone. I processi interminabili, gli anni dietro le sbarre, la vita che, anche una volta fuori, non riparte. Ecco perché non bisogna abbassare la guardia e, al contrario, rilanciare con ancora più forza la battaglia antiproibizionista, in occasione dell’avvio della discussione parlamentare. Come Radicali Italiani, insieme all’Associazione Luca Coscioni, abbiamo deciso di farlo con la nostra proposta di legge popolare Legalizziamo! (legalizziamo. it) promossa in collaborazione con tutte le più grandi associazioni antiproibizioniste italiane, e che prevede la regolamentazione legale della cannabis e la decriminalizzazione del consumo di tutte le droghe. Soluzioni ancora più radicali di quelle all’attenzione del parlamento, con le quali vogliamo far arrivare al legislatore la voce di un Paese ormai pronto per un cambio di rotta verso politiche antiproibizioniste. Per questo lunedì saremo davanti alla Camera, insieme ai cittadini e alle loro firme, per chiedere al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità, senza piegarsi alle resistenze proibizioniste che tanto male hanno fatto sul piano sociale, economico e sanitario. Ecco perché appoggio la legalizzazione della cannabis di Leonardo Marras (Capogruppo Pd nel Consiglio regionale della Toscana) La Repubblica, 23 luglio 2016 Per la prima volta una proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis approda a Montecitorio. Accadrà lunedì 25 luglio e credo che anche dalla Toscana debba arrivare un messaggio forte di incoraggiamento ad approvare quella proposta. Per questo, ho firmato, insieme ad altri consiglieri del Partito democratico, una mozione che esprime condivisione sulle finalità del testo Giachetti e auspica che questa iniziativa legislativa possa essere portata presto in porto, per svoltare finalmente nel campo delle politiche esclusivamente proibizioniste, dimostratesi altamente inefficaci, oltre che sbagliate. Mi spiego. Si tratta innanzitutto di avere buon senso e di ascoltare le autorevoli voci di esperti internazionali, di magistrati antimafia, medici e sociologi che da anni sostengono la bontà di un tale provvedimento legislativo. È bene ricordare che cosa prevede la proposta di legge. Principalmente cambierebbero le attuali regole sul possesso: sarà possibile tenere in casa fino a 15 grammi di cannabis senza dover chiedere il permesso a nessuno, né comunicare alcunché a enti e autorità. Fuori dalla propria casa, invece, la quantità lecita scende a 5 grammi. Si possono anche derogare questi limiti, ma l’importante in questo caso è dimostrare che il possesso di cannabis è per uso terapeutico. C’è poi il capitolo dell’auto-coltivazione. Nella legge vigente è completamente proibita, nel testo Giachetti si prevede la possibilità di coltivare fino a cinque piantine e di coltivarle in forma associata, con l’idea di fondo, come avviene in Spagna con i Social club, di generare una sorta di "monopolio attenuato". Si possono associare fino a cinquanta persone, ad esempio pazienti per le loro esigenze terapeutiche. Nelle due forme, l’auto-coltivazione può iniziare solo dopo aver dato comunicazione all’Agenzia dei monopoli. In questo modo, sarà lo Stato a monitorare quantità e qualità della cannabis, che oggi, invece, si può acquistare ovunque, arricchendo la criminalità organizzata. Pensiamo, non per ultimo, ai benefici che tutto ciò porterebbe sulla situazione delle nostre carceri e sulla gestione della giustizia. Sono alcune delle buone ragioni per augurarsi che il Parlamento possa approvare quanto prima le nuove norme. Quando in Toscana, qualche anno fa, approvammo una legge sulla cannabis a "uso terapeutico", lo facemmo oltre che per i malati, anche per sottrarre alle mafie una fetta di mercato. Abbiamo scritto una pagina nuova, "copiata" anche da altre Regioni. Ora, tocca ai parlamentari siglare un diverso e più efficace sistema di rapportarsi con il consumo ed il mercato criminale delle droghe. Cannabis legale, l’Antimafia dice sì ma avverte "attenti a non favorire la criminalità" di Antonio Maria Mira Avvenire, 23 luglio 2016 La Procura nazionale antimafia non chiude alla legalizzazione della cannabis, ma solo se rigidamente gestita dallo Stato, in regime di Monopolio. Altrimenti c’è il rischio che torni in mano alle mafie così come successo con la legalizzazione dell’azzardo. Lo scrive in una nota inviata il 20 giugno alla commissione Giustizia della Camera. Il ‘sì’ è stato già sbandierato ampiamente dai politici pro legalizzazione. Assolutamente ignorati, invece, i rigidi paletti della Dna. "Appare sicuramente condivisibile - si legge - l’idea di inquadrare la cannabis fra i generi di Monopolio. L’assimilazione cioè del regime giuridico a quello dei tabacchi". Ma, avverte la Procura guidata da Franco Roberti, "deve essere portata avanti con coerenza e senza tentennamenti". Invece, denuncia, "l’idea di creare, quanto al commercio al dettaglio della cannabis, una (inevitabilmente) nuova rete di esercizi commerciali dedicata solo alla vendita di questo prodotto, desta forti perplessità". Il motivo è grave. "Non diversamente da quanto si è avuto modo di constatare in altri settori di recente legalizzati (ad esempio quello delle scommesse) questo nuovo affare attirerebbe inevitabilmente gli interessi del crimine organizzato". Ancora più netta la contrarietà alla libera produzione, prevista nelle proposte di legge. "Appare assolutamente non condivisibile scrive in neretto la Dna - l’idea di autorizzare la coltivazione in forma associata". Perché può "essere un ulteriore cavallo di Troia per far rientrare nell’affare la criminalità organizzata che attraverso le associazioni in questione, potrebbe acquisire un importante e ulteriore opportunità per produrre e commerciare la cannabis". Anche perché "le possibilità per la criminalità di creare e governare associazioni ‘fantasmà composte da persone spesso inconsapevoli, ovvero da meri prestatori d’opera o, semplicemente, da chi presta il proprio nome, sono inesauribili". E questo vanificherebbe uno dei motivi per i quali la Dna dice sì alla legalizzazione: togliere l’affare alle mafie. E infatti, si legge, la "coltivazione in forma associata porterebbe ad un aggiramento della normativa sul monopolio e a una nuova discesa in campo del crimine organizzato in una materia che, con la legalizzazione, si intenderebbe sottrarre alla sua egemonia". Inoltre "porterebbe, paradossalmente, sia a livello preventivo che a livello repressivo, a drenare e impiegare quelle risorse umane e finanziarie che invece si volevano liberare legalizzando il settore". Che è il secondo motivo del sì. Ma la Procura esprime "perplessità" anche sulla "coltivazione individuale e ‘domesticà" perché "si presta ad abusi e ad aggiramenti del regime di Monopolio". Infatti, spiega, "se svolta ‘in retè e in modo coordinato, da un numero cospicuo di soggetti, che magari svolgono il ruolo dei meri prestanome, rappresenta un rischio concreto di creazione di un mercato illegale e clandestino". C’è inoltre "un ulteriore grave rischio", cioè che senza controlli possano essere coltivati "prodotti che attirano un mercato di nicchia, interessato a un prodotto caratterizzato da un alta concentrazione di Thc e dunque maggiormente nocivo e in grado di indurre maggiore dipendenza". Stesso discorso vale per detenzione e cessione, ovviamente permessa solo per la cannabis di Monopolio (l’altra deve restare penalmente punibile). Mentre dovrebbe essere inserito uno specifico reato di cessione a minori "con sanzioni particolarmente elevate". Turchia: quasi 11mila passaporti annullati, suicidi tra i militari accusati del golpe di Marco Ansaldo La Repubblica, 23 luglio 2016 Agenti in borghese con i mitra in mano, per le vie della Istanbul europea. Sono i primi effetti dello stato d’emergenza in atto in Turchia, con i fermi che sí estendono a 8 giorni senza bisogno di convalida del giudice, dai 2 attuali. Ovunque, tutti guardano tutto. E l’atmosfera da stato di polizia è sublimata dalla riunione tra il Presidente, Recep Tayyip Erdogan, e il capo dell’intelligence, Hakan Fidan, per un confronto sul fallito golpe del 15 luglio. La testa del Mit, i servizi segreti turchi, rischia di saltare. Fidan è un fedelissimo di Erdogan. Ma già lo scorso anno aveva chiesto di essere sollevato dall’incarico per entrare in politica, e una lavata di capo lo riportò a posto. Ora il Leader ha rivelato che nei primi convulsi minuti del golpe aveva cercato il boss dell’intelligence, senza però trovarlo: "Qualcosa non ha funzionato nei servizi", ha concluso. Spiega il vice premier Numan Kurtulmush che nell’attuale situazione "possono esserci tentativi isolati di assassinio o può esserci qualcuno pronto a farsi esplodere". E aggiunge, sui golpisti: "Volevano portare in Turchia un’occupazione straniera". Le autorità hanno così ritirato il passaporto a 10.856 cittadini sospettati di avere collegamenti con l’organizzazione di Fethullah Giilen, il predicatore islamico accusato da Erdogan di avergli tramato contro, il quale però smentisce il suo coinvolgimento. La temporanea sospensione della convenzione sui diritti umani non alleggerisce la tensione. Sono svariate, adesso, le notizie di suicidi nell’esercito e nella polizia dopo il fallito golpe. Divorato dai sensi di colpa per non essere riuscito a fermare il tentativo di colpo di Stato, ieri mattina il colonnello Levent Onder, vice comandante del Terzo Comando Brigata, si è tolto la vita a Siirt sparandosi con una pistola. E un altro colonnello, Birkan Coroz, accusato di aver preso parte al golpe, ha minacciato di gettarsi nel vuoto da un ponte sul Bosforo. A una settimana dall’intervento militare si sono uccisi il governatore di un distretto e tre poliziotti. Il processo ai golpisti sarà colossale. E proprio per motivi di spazio si svolgerà a Sincan, 40 chilometri da Ankara. Laggiù, nel 1997, i carri armati realizzarono il cosiddetto "golpe postmoderno", che portò alle dimissioni del premier islamista Necmettin Erbakan, mentore di Erdogan. Un luogo più che simbolico. Gran Bretagna: spaccia droga nelle carceri con un drone, arrestato: è il primo caso di Rachele Grandinetti Il Messaggero, 23 luglio 2016 Daniel Kelly è il primo uomo a scontare il carcere per un simile reato. Usava un drone per spacciare droga nelle prigioni: è la prima volta che un uomo viene arrestato per questo genere di reato. È successo in Inghilterra, nel carcere della contea del Kent - uno dei due riforniti dal giovane, oltre a quello dello Hertfordshire - dove Daniel Kelly sconterà 14 mesi di detenzione. Il 37enne incastrato non è un pioniere, in realtà. La Press Association, infatti, ha dimostrato come soltanto nel 2015 sono stati accertati 33 casi di traffico di droni attraverso le sbarre. Lo scorso aprile, una pattuglia della polizia aveva individuato una macchina parcheggiata nei pressi della prigione Swaleside, sull’isola di Sheppey. Poi gli agenti hanno visto un uomo correre e salire al volo sul sedile anteriore del passeggero di quella stessa Audi. L’auto è stata ritrovata in un vicino villaggio vacanze dove Kelly è finito in manette. Il drone sistemato nel bagagliaio della vettura, originariamente bianco, era stato tinteggiato di nero grazie ad uno spray e le luci coperte da nastro adesivo; si trattava di un regalo fatto ai suoi tre figli di 3, 12 e 13 anni. Da giocattolo a complice dell’illegalità, il drone è entrato nel registro dei reati nel novembre 2015. "La vicenda di Kelly - ha dichiarato il detective Constable Mark Silk - è seria. Mostra una mancanza di rispetto per il nostro sistema di giustizia ed è opportuno che egli riceva una pena detentiva. Tabacco e sostanze stupefacenti hanno un valore gonfiato in prigione e questo può generare reati all’interno dello stesso carcere. Il fatto di Kelly ha messo due detenuti e alcuni uomini del personale penitenziario a rischio".