Pagano le intercettazioni coi soldi dei detenuti di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 luglio 2016 Spiccioli ai risarcimenti per carcerazione in condizioni inumane. La Corte europea per i diritti dell’uomo (la Cedu) tre anni fa aveva condannato l’Italia perché teneva migliaia di detenuti in cella in condizioni disumane. Meno di tre metri quadrati a detenuto. Stile Turchia. Meno di tre metri quadrati vuol dire lo spazio di una branda di un metro e 90 per un metro e mezzo e basta. Qualcosa di molto vicino alla tortura. Che durava per anni. Il governo italiano è intervenuto e ha deciso di risarcire i detenuti o accorciandogli la pena o versandogli un obolo di otto euro al giorno per ogni giorno di "carcerazione crudele". Però poi ha messo tante di quelle barriere burocratiche all’ottenimento del risarcimento da renderlo praticamente impossibile. E così ha risparmiato quasi tutti i 20 milioni stanziati. E ora siamo venuti a sapere che l’idea che sta prevalendo è quella di stornare questi fondi per finanziare nuove intercettazioni telefoniche. Sono passati oltre tre anni da quando, nel 2013, l’Italia venne condannata dalla CEDU con l’ormai storica sentenza "Torreggiani" per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, cioè il divieto di tortura o di trattamenti disumani e degradanti. La condanna, come si ricorderà, nasceva dal ricorso di alcuni detenuti delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza che lamentavano di essere stati costretti a vivere in meno di tre metri quadrati a testa, di non aver potuto regolarmente usufruire delle docce e di non aver avuto sufficiente illuminazione nella cella. I giudici di Strasburgo, con quella sentenza, aprirono di fatto una nuova emergenza carceri nel Paese, affermando che il sovraffollamento carcerario rappresentava ormai un "problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano". Il governo italiano, costretto a misure d’emergenza per evitare ulteriori conseguenze a livello europeo e, soprattutto, altre condanne, varò una seria di provvedimenti legislativi. Il più celebre fu senza dubbio il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 che, recependo le prescrizioni della Corte di Strasburgo, stabiliva un "risarcimento" per i detenuti reclusi in condizione di sovraffollamento. Tale risarcimento, su domanda dell’interessato, sarebbe consistito in uno sconto di pena di un giorno ogni 10 giorni di carcerazione subita in condizione inumane. I magistrati di sorveglianza vennero incaricati di provvedere al riguardo, valutando le istanze presentate dai detenuti. Per i detenuti già scarcerati, invece, venne stabilito un risarcimento pari ad 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione di sovraffollamento. Sempre a domanda dell’interessato da presentarsi, questa volta, al tribunale civile che avrebbe deciso in composizione collegiale. La norma prevedeva, infine, che questi rimedi risarcitori fossero soggetti a decadenza se non richiesti entro sei mesi dalla data della scarcerazione. Leggendo i dati sui risarcimenti erogati, aggiornati al primo semestre del 2016, sembra che in Italia non ci sia però mai stata alcuna "emergenza carceri", e che tutto sia stato il frutto di una strumentalizzazione mediatica orchestrata dai radicali, da sempre particolarmente sensibili su questo tema, o dalle associazioni che si occupano dei problemi dei detenuti. In questi anni, degli oltre 20 milioni di euro che il governo aveva stanziato nel 2014 temendo una valanga di ricorsi, ne sono stati erogati per i risarcimenti appena 500 mila. I motivi? Molteplici. In primo luogo le varie sentenze della Cassazione che si sono succedute nel tempo e che hanno ingenerato confusione sul concetto di "attualità" del trattamento inumano e degradante. Nel senso che se al momento della presentazione del ricorso il detenuto non era più ristretto in un loculo, essendo venuta meno l’attualità della domanda, questo veniva dichiarato inammissibile. Poi la difficoltà intrinseca nel ricostruire la "storia" carceraria del detenuto. Nei casi di lunghe carcerazioni, ad esempio, con frequenti spostamenti di cella o, addirittura, di carcere, non è affatto facile risalire al momento preciso della condizione di recluso in un contesto sovraffollato. Ma, ed è questo l’aspetto principale su cui bisogna soffermarsi, e che i più maliziosi dicono sia stato fatto apposta per scoraggiare la presentazione dei ricorsi, la procedura prevista dalla legge per l’ottenere il risarcimento. Cioè la causa civile da predisporre davanti al giudice. Causa che di per se comporta un costo per il detenuto fra contributo unificato da versare direttamente ed onorario dell’avvocato che deve curare il procedimento davanti al tribunale. Il detenuto, infatti, oltre al normale avvocato penalista, in molti casi deve affiancarlo anche da un civilista per la trattazione di questo genere di ricorso. Senza considerare, poi, che molti di questi sono detenuti sono soggetti estremamente fragili. Con problemi di tossicodipendenza o di clandestinità. E quindi portati a rinunciare ad affrontare un nuovo contenzioso. Per far fronte alla complessità della procedura risarcitoria, in questo periodo, si è sopperito con l’aiuto di associazioni di volontariato o con la meritoria attività di avvocati che, senza compenso alcuno, hanno seguito il procedimento civile. Al danno per i mancati risarcimenti, però, a breve potrebbe aggiungersi la beffa. Come ventilato da molti, il governo sarebbe intenzionato a "stornare" dal capitolo di bilancio questi milioni di euro che non sono stati spesi. Soldi che, pare, dovrebbero essere destinati per i pagamenti delle attività di intercettazione telefonica. Da sempre un pozzo senza fondo per il bilancio del ministero della Giustizia. Ci auguriamo di essere smentiti. La diseguaglianza della nostra giustizia di Michele Ainis La Repubblica, 22 luglio 2016 La giustizia è un treno a vapore. Ma non tutte le tratte ferroviarie sono lente, non tutti i convogli procedono a passo di lumaca. Dipende dai macchinisti, dipende inoltre dai binari: come mostra l’analisi dei dati pubblicata oggi su questo giornale, la velocità dei tribunali cambia notevolmente da un angolo all’altro del nostro territorio. E alle deficienze s’accompagnano, talvolta, le eccellenze. Solo che gli italiani non lo sanno, non conoscono le performance dei diversi uffici giudiziari. È un paradosso, giacché nella società online siamo tutti nudi come pesci. Un clic in Rete e puoi scoprire usi e costumi del tuo vicino di casa, del collega d’ufficio, del compagno di banco. Sono nude anche le amministrazioni pubbliche, da quando un profluvio di decreti ha reso obbligatoria l’"Amministrazione trasparente": quanto guadagna il Capo di gabinetto e dov’è situato il gabinetto, nulla più sfugge ai controlli occhiuti dell’utente. Anzi: il "decreto Trasparenza" del ministro Madia ha appena introdotto l’istituto dell’accesso civico, permettendo a ciascun cittadino d’accedere - senza alcun onere di motivazione - ai dati in possesso delle amministrazioni locali e nazionali, dal comune di Roccacannuccia alla presidenza del Consiglio. Sennonché troppe informazioni equivalgono di fatto a nessuna informazione. Dal pieno nasce il vuoto, come mostra la condizione del diritto nella patria del diritto: migliaia di leggi, migliaia di regole che si contraddicono a vicenda, sicché in ultimo ciascuno fa come gli pare. Anche l’eccesso di notizie offusca le notizie, le sommerge in una colata lavica. E spesso ci impedisce di trovare l’essenziale, l’informazione di cui abbiamo bisogno per davvero. Quando c’è, naturalmente. Perché talvolta manca proprio l’essenziale. Un esempio? La giustizia, per l’appunto. Grande malata delle nostre istituzioni, su cui s’addensa - di nuovo - un fiume di libri, analisi, commenti. Per lo più autoreferenziali, come i temi su cui discetta la politica: di qua la separazione delle carriere fra giudici e pm, oppure i tempi della prescrizione; di là un estenuante contenzioso sulla legge elettorale. Ma è davvero questo che interessa ai cittadini? Un bel saggio appena pubblicato dal Mulino (Daniela Piana, Uguale per tutti?, 226 pagg., 20 euro) rovescia l’usuale prospettiva. L’eguaglianza davanti alla legge - osserva infatti la sua autrice - è il caposaldo dello Stato di diritto. Ne discende, a mò di corollario, che l’applicazione delle leggi sia sempre impersonale, dunque garantita da giudici obiettivi e indipendenti, senza oscillazioni, senza asimmetrie fra i tribunali. Ma non è così, non è questa la norma. Perché, di fatto, in Italia vige una forte diseguaglianza nell’accesso alla giustizia, nelle opportunità di tutela dei diritti. Dipende dalla discontinuità del nostro territorio, dalla forbice socio-economica che divide Mezzogiorno e Settentrione. Dipende da storture organizzative ma altresì comunicative, psicologiche. Insomma, non basta misurare l’universo normativo per misurare la giustizia. Conta piuttosto la percezione dei cittadini, che a sua volta deriva da fattori extra-giuridici, esterni alla dimensione del diritto. Quanto sia complicato, per esempio, raggiungere i tribunali, orientarsi al loro interno, prelevarne documenti. Come tradurli nella lingua che parliamo tutti i giorni. Il costo d’ogni causa. La percentuale di successo dei diversi avvocati che operano nello stesso territorio. Quando verrà fissata l’udienza per una procedura di divorzio o per il recupero d’un credito. Quale sia la probabilità di soccombere in una controversia civile, rispetto alle statistiche di quel particolare ufficio giudiziario. I tempi dei processi del lavoro, delle liti condominiali, delle cause di sfratto. Sono queste le informazioni essenziali, è questo che interessa al cittadino prima di bussare al portone della legge. Se non so come funziona il tribunale della mia città, non potrò avvalermene per tutelare i miei diritti. Oppure dovrò farlo al buio, tirando in aria i dadi. Da qui una richiesta, anzi un’ingiunzione in carta bollata: fateci sapere. Scrivete tutti questi dati sui siti web dei tribunali, cancellando il sovrappiù che genera soltanto confusione. O lo fate già? Magari ci siamo un pò distratti, meglio controllare. Con un’indagine a campione fra tre tribunali di provincia, al Sud, al Centro, al Nord. Messina: che bello, qui c’è un link su "Amministrazione trasparente". Ci guardi dentro, però trovi soltanto l’indice di tempestività dei pagamenti ai fornitori. Meglio che niente, ma per te che non sai ancora se intentare causa è niente. Rieti: l’immagine d’un edificio anonimo, qualche sommaria informazione. In compenso tutti i dettagli sulla festività del Santo Patrono. Parma: niente anche qui, tranne una carrellata d’udienze rinviate. E un servizio indispensabile: il Servizio di anticamera del Presidente del Tribunale. A questo punto blocchi il mouse, però prima d’arrenderti non rinunci a visitare il sito del palazzo di giustizia più famoso: Milano. Più che un tribunale, un tempio, dove la seconda Repubblica (con Tangentopoli) ricevette il suo battesimo. Strano, proprio lì manca una foto del palazzo, che resta perciò invisibile ai fedeli. Tuttavia c’è una lieta sorpresa: il link con tutte le tabelle sugli arretrati del tribunale milanese, nonché sulle politiche intraprese per smaltirli. Peccato che i dati siano fermi al 2010, quando al governo c’era ancora Berlusconi, quando il papa si chiamava Benedetto XVI. Ma dopotutto si tratta d’un esercizio di coerenza: nella giustizia italiana è in arretrato pure l’arretrato. C’è giustizia e giustizia di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 22 luglio 2016 Le prestazioni degli uffici giudiziari variano molto a seconda delle realtà e non solo tra Nord e Sud. Ecco perché i dati vanno letti con attenzione. Appena pochi giorni dopo aver meritoriamente presentato la raccolta di tutte le "buone prassi" organizzative sperimentate in giro per l’Italia dagli uffici giudiziari, il Consiglio Superiore della Magistratura, nel votare tra una proposta di maggioranza e una di minoranza, è stato tacciato di aver nominato 25 nuovi giudici di Cassazione sorvolando qualche buona prassi come l’ascoltare le esigenze dell’ufficio (non servono giudici del lavoro perché ce ne sono già in sovrannumero, aveva chiesto il presidente Gianni Canzio, e invece il Csm glie ne ha mandati 7), o il non stravolgere con vertiginosi testacoda le valutazioni della Commissione Tecnica prevista per legge. "Segnalo l’insoddisfazione dell’intera Corte di Cassazione per non aver tenuto conto della metodologia fondamentale in questi casi", ha fatto mettere a verbale Canzio. Si è andati "evidentemente oltre il segno", ha lamentato il ministro Andrea Orlando. La vicenda, al di là di torti e ragioni nel caso specifico, è interessante perché mostra quanto le diatribe correntizie ancora annebbino l’impatto che la scelta dei posti di vertice può avere sulle prestazioni di un ufficio giudiziario. La diseguale geografia dei tempi e della quantità di risposta del sistema giudiziario, spesso trattata su queste colonne, è il cuore di un prezioso studio (Uguale per tutti, il Mulino) nel quale la professoressa bolognese Daniela Piana argomenta come non sia soltanto la variabile delle risorse (organici dei magistrati, numero dei cancellieri, fondi per le spese) a fare la differenza tra uffici virtuosi e uffici in difficoltà, e come la faglia non necessariamente passi tra Nord e Sud ma "spacchi" persino uffici limitrofi. Nel civile, ad esempio, la media nazionale di 403 giorni nasconde che i primi 10 tribunali per minor durata media stanno sotto i 180 giorni, osserva Piana, mentre gli ultimi 10 sfondano il tetto dei 700 giorni. Allo stesso modo, ad un estremo si possono trovare 10 tribunali dove ogni magistrato ha meno di 500 fascicoli iscritti a ruolo, e all’estremo opposto altri 10 tribunali da 1.000 fascicoli a cranio di magistrato. Neanche stare nel medesimo distretto giudiziario promette uniformità. Piana mostra ad esempio come nel distretto della Corte d’Appello di Milano un procedimento di lavoro venga definito in 230 giorni a Milano o 220 a Como, che diventano 346 a Pavia e 450 a Lecco e 514 a Varese, dove dunque il lavoratore e l’impresa attendono quasi un anno più di Como. i numeri ingannano. Proprio le statistiche, peraltro, a volte tacciono una verità sostanziale quando ne dicono una formale. Quand’è arrivato 3 anni fa alla I sezione civile del Tribunale di Siracusa (dove il Cerved calcola in 16 anni il tempo medio di chiusura di un fallimento contro ad esempio i 3 anni di Trieste), il presidente Antonio Alì racconta a Sette d’aver trovato, oltre al 28% di scopertura d’organico, "molti fallimenti addirittura ultratrentennali. D’accordo con i giovani colleghi (ora ridottisi da tre a due), abbiamo avviato un programma straordinario teso a chiudere i fallimenti più vecchi, studiando i motivi che ne hanno impedito la chiusura e rimuovendoli, anche attraverso la sostituzione di curatori neghittosi". E l’inversione c’è stata. Ma con un paradossale effetto statistico: "Proprio perché l’ufficio, con uno sforzo quasi disumano, ha chiuso fallimenti molto vecchi, la rilevazione della durata media (che riguarda appunto solo i fallimenti chiusi e non anche quelli pendenti) fornisce un dato "drogato". Se in ipotesi chiudo nell’anno 100 fallimenti che erano stati aperti tra il 1980 e il 1990, la durata media di quei fallimenti risulterà pari a 30 anni; computando la durata media degli altri fallimenti "normali", che pure vengono chiusi nell’anno, è facile giungere alla durata media di 16 anni rilevata dal Cerved". Rischia insomma di passare per maglia nera chi, volendo, avrebbe quasi potuto ciurlare nel manico dei numeri: "Se l’ufficio, invece di impegnarsi (come ha fatto) in un serio programma di smaltimento, avesse voluto cavalcare l’onda statistica per fare bella figura e indossare la maglia rosa, avrebbe potuto semplicemente non porsi il problema e accelerare le chiusure dei fallimenti più giovani, che spesso possono essere chiusi nell’anno per mancanza di attivo". Intesa sulla prescrizione: 18 mesi in appello e Cassazione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2016 L’intesa nella maggioranza sulla prescrizione supera la prova del voto al Senato, in commissione Giustizia, e il ministro della Giustizia Andrea Orlando, paziente tessitore dell’accordo, incassa la sua vittoria, tra proteste dei 5 Stelle e nel Centrodestra. "Sono stati risolti i nodi principali" spiega Orlando, che parla di "equilibrio ragionevole" e di "processi più rapidi". Poi aggiunge che la nuova disciplina è "una norma ponte" e non ne esclude "una più organica in futuro". Quella approvata "consente, però, di evitare che processi di particolare rilevanza, finiti con condanna in primo grado, possano finire nel nulla. Quanto alla corruzione, l’allungamento della prescrizione consente di affrontare questo tipo di reati anche quando emergono dopo molto tempo rispetto a quando sono stati commessi". Inoltre, anticipa l’approvazione (la prossima settimana) degli emendamenti Falanga (Ala) e Capacchione (Pd) "che prevedono la priorità per i processi di corruzione". Tuttavia, mentre dopo il via libera della Camera (maggio 2015) si era spinto a dire che nessun reato di corruzione si sarebbe più prescritto, ieri Orlando, più realisticamente, ha parlato di "prescrizione difficilissima". Anche se in Aula (a settembre) le cose possono ancora cambiare, lo schema del Senato è diverso da quello della Camera. Cambiano, anzitutto, la durata e la decorrenza della sospensione della prescrizione dopo una condanna in primo grado: 2 anni in appello e 1 anno in Cassazione, con decorrenza dalla lettura del dispositivo, secondo la Camera, mentre, secondo il Senato, 18 mesi sia in appello sia in Cassazione, che però partono dal termine fissato dal giudice (articolo 544 Cpp) per il deposito della motivazione (da 15 a 90 giorni). In quel lasso di tempo, dunque, la prescrizione continua a decorrere. Cambiano anche i termini per i reati di corruzione: la Camera aveva aumentato della metà il termine base di tre reati (corruzione propria, impropria, giudiziaria), per cui, tenendo conto anche dell’aumento di 1/3 previsto dall’articolo 161 Cp in presenza di atti interruttivi (il rinvio a giudizio), la corruzione propria (articolo 319 Cp) si sarebbe prescritta in 18 anni e 3 mesi (rispetto ai 12,6 di adesso); il Senato, invece, ha eliminato l’aumento della metà del termine base, alzando però da 1/3 alla metà il termine previsto dal 161 (cioè dal rinvio a giudizio) e lo ha fatto per una serie di reati contro la pubblica amministrazione (articoli 318, 319, 319 ter, quater, 320, 321, 322 e 640 bis). Quindi, la corruzione propria si prescriverebbe in 15 anni. Nel totale del termine di prescrizione non si calcolano i periodi di sospensione, quindi neanche i 3 anni (18 mesi+18) di bonus previsti per appello e Cassazione. L’emendamento che introduce il nuovo schema non è stato votato da uno dei relatori, il Dem Felice Casson che invece ha votato (con i 5 Stelle) l’emendamento per interrompere la prescrizione dalla condanna di primo grado, dal quale aveva tolto la firma l’altro relatore Dem Giuseppe Cucca. Scettico il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo. Durante un video-forum su Repubblica.it, dopo aver ribadito che "piuttosto è meglio di niente", Davigo ha contestato chi collega la prescrizione a un allungamento dei tempi processuali. "Non ci si rende conto che i processi durano di più perché c’è la prescrizione - ha spiegato -. Molti imputati, se non ci fosse la prescrizione, neanche farebbero appello. Lo fanno solo perché sperano che arrivi la prescrizione. Mi spiegate perché, una volta acquisite le prove e intervenuta la condanna in appello, la prescrizione deve decorrere? Solo la Grecia, in Europa, ha questo sistema. Quindi quello italiano è un sistema anomalo". Intesa tra Pd e Ncd sulla prescrizione, il Senato accelera di Sara Menafra Il Messaggero, 22 luglio 2016 Non ci credeva quasi nessuno. E invece, a sorpresa, dopo mesi e forse anni di trattative e stop and go, in commissione giustizia al Senato Pd ed Ncd hanno siglato l’armistizio sulla prescrizione. I centristi hanno deciso di eliminare la norma "acceleratoria", la mannaia infilata alcune settimane fa dai senatori Gabriele Albertini e Laura Bianconi che faceva riprendere velocità alla prescrizione dopo il periodo di blocco sul quale tutta la maggioranza era vincolata a causa del voto a Palazzo Chigi. Il testo è stato riformulato sotto la "lente" del governo e resta solo la sospensione di 18 mesi sia tra il primo grado di giudizio e l’appello sia tra il secondo grado e la Cassazione. Tre anni in più, di fatto, dati ai tempi del processo. "Un giusto punto di equilibrio", sottolinea il ministro della Giustizia Andrea Orlando arrivato nel pomeriggio a Palazzo Madama per ultimare la mediazione risolutiva tessuta assieme al responsabile giustizia David Ermini. Mediazione che, tra l’altro, prevede l’inserimento di tutti i reati di corruzione (incluso quello della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche concesse da Stato, enti pubblici o Ue) tra quelli per i quali la prescrizione, in caso di sua interruzione, può essere aumentata non oltre la metà del tempo necessario a prescrivere. Nei casi dei reati di corruzione, non oltre i 15 anni quindi, ai quali vanno aggiunti, per un totale di 18, i 3 anni concessi dalla sospensione che interviene tra i gradi di giudizio. L’aumento dei tempi sarà integrato dal cosiddetto "lodo" Falanga, ovvero dall’inserimento di tale tipologia di reati tra quelli che, ex art. 132 bis, godono di una corsia preferenziale ai processi. I lavori riprenderanno martedì dopo che il M5s, protestando contro l’assenza di tempo per valutare gli emendamenti della maggioranza, oggi ha minacciato di abbandonare la commissione inducendo il presidente Nico D’Ascola a sospendere la seduta "per rispetto delle opposizioni". A questo punto però, il capitolo prescrizione dovrebbe essere chiuso senza colpi di scena martedì, di modo da portare in Aula il ddl sulla riforma del processo penale già prima dell’estate. Il voto finale, invece, arriverà a settembre. Scelta, obbligata che però non ha convinto il presidente del Senato, Pietro Grasso: "Una colpa grave della politica non riuscire a chiudere in Senato entro la pausa estiva i lavori sul testo", ha detto nel corso della cerimonia del Ventaglio. Davigo: "prescrizione, anomalia italiana" di Piera Matteucci La Repubblica, 22 luglio 2016 Il presidente dell’Anm: "Non servono pene severe se non si sa a chi darle". E lamenta: "La corruzione è un reato che non viene denunciato praticamente mai". Sulla situazione turca: "Liste degli arrestati scritte prima, politica invochi l’intervento del Consiglio Ue". Nelle ore in cui la Commissione Giustizia del Senato ha bocciato l’emendamento presentato da Felice Casson, con il quale si prevedeva lo stop della prescrizione dopo una sentenza di condanna in primo grado, ma ha dato il via libera agli emendamenti Albertini-Bianconi (riformulati) all’art. 9 del ddl di riforma del processo penale, che prevede la sospensione di 18 mesi dei tempi di prescrizione sia dopo il primo grado di giudizio sia dopo il secondo grado di giudizio (il testo della Camera prevedeva uno stop ai tempi di prescrizione di massimo due anni dopo il primo grado di giudizio e di un anno dopo il secondo grado di giudizio), e all’art. 161 codice penale, con lo stop alla prescrizione fino a 18 anni in caso di condanna per corruzione, punti sui quali Ap e Pd hanno raggiunto l’accordo che aumenta della metà la sospensione del decorrere della prescrizione, il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, ospite di Repubblica Tv, ha risposto alle domande dei lettori proprio su intercettazioni, prescrizioni e giustizia. "Non servono pene severe se non si sa a chi darle", ha ribadito Davigo, che lamenta: "La corruzione è un reato che non viene denunciato praticamente mai". Per corruzione, stop di 18 anni a prescrizione. Stop alla prescrizione fino a 18 anni in caso di condanna per corruzione (articolo 319 codice penale): sono questi i termini dell’accordo di maggioranza che ha portato la Commissione Giustizia a dare il via livera all’emendamento di Area popolare, che aumenta della metà la sospensione del decorrere della prescrizione. Questo il calcolo: punto di riferimento è il massimo della pena del reato (ora 10 anni) cui bisogna aggiungere la metà (5) a questi si sommano i 3 anni previsti già dal testo per celebrare, in caso di condanna confermata, i processi fino alla Cassazione. Il testo della Camera prevedeva una prescrizione fino a 21,6 anni. Ma viene fatto notare, non si teneva conto dell’aumento delle pene stabilito dal ddl anticorruzione. Con la norma approvata in Commissione si modifica l’articolo 161 del codice penale e si prevede che l’aumento della metà si verifica al compimento di un atto interruttivo del processo. Prescrizione. Sul tema caldo della prescrizione, il presidente Anm ha sottolineato che "la prescrizione è un istituto di civiltà, che esiste in tutti i Paesi al mondo, prima del giudizio. Ma una volta che le prove sono state acquisite, una volta che è l’imputato condannato che appella, perché non si acquieta della sentenza di primo grado, perché deve decorrere la prescrizione? - si chiede Davigo -. A parte la Grecia, non ci sono altri Paesi europei in cui la prescrizione decorre in questo modo. E quindi c’è qualcosa che non va. È un sistema anomalo quello italiano". E insiste sul fatto che si confondono spesso le cause con gli effetti. "Si dice che l’allungamento dei termini di prescrizione o la mancanza di termini di prescrizione farebbe durare di più i processi e non ci si rende conto che i processi durano di più proprio perché esiste la prescrizione. Molti imputati, se non ci fosse la prescrizione, forse non appellerebbero. Appellano perché sperano che arrivi la prescrizione". Corruzione. È un gravissimo male del nostro Paese e il governo Renzi ha promesso molto. Per far emergere la corruzione, spiega Davigo, "è stata prevista una riduzione di pena per chi collabora, ma è blanda. Non solo, la corruzione dà vita a mercati illegali criminali talora gestiti dalla criminalità organizzata. Sarebbe più sensato estendere le normative dei collaboratori giustizia della criminalità organizzata" a chi parla. Bisogna "proteggere chi parla perche altrimenti subirà rappresaglie", ha detto il presidente dell’Anm. Contro la corruzione, ha aggiunto, la "repressione non basta, ma intanto bisogna farla, perché se non si fa non c’è nulla. Poi bisognerebbe aggiungere altre cose. La corruzione non è un reato visibile, non si commette davanti a testimoni. Non la rileva ad esempio una pattuglia". Perché emerga occorrono "strumenti invasivi di cui dispone l’autorità giudiziaria". Per questo occorre un "diritto premiale forte, una normativa analoga a quella dei collaboratori di giustizia, premi per chi collabora". Ma cosa funziona contro la corruzione? "Scoprirla - risponde Davigo -. Se non si scopre, non è possibile fare nulla. E per scoprirla c’è bisogno degli strumenti giusti". Rimedi inefficaci. Davigo individua nei ‘cartellì di imprese che si spartiscono gli appalti "uno dei problemi seri", e sottolinea che "le normative servono a ben poco di fronte ai cartelli". E quando gli viene fatto rilevare che forse Cantone, il presidente dell’Anac, non sarà d’accordo su questo, il presidente di Anm replica "Cantone non sarà d’accordo su questa mia convinzione, però io la penso così...", e quindi suggerisce di infiltrare un ufficiale di polizia giudiziaria all’interno del sistema dei ‘cartelli’ di imprese e che possa intervenire non appena si palesa - concretamente - il reato di corruzione. Quando al Codice degli appalti, Davigo ha sostenuto "è imposto da una direttiva comunitaria, però se non si smontano i ‘cartelli’ serve a poco". Poco personale. Anm ha annunciato uno sciopero sulla mancanza del personale. "La situazione rischia di sfuggire di mano, mancano 1.000 magistrati su 9.000. Ci sono scoperture di personale oltre il 50% - ha spiegato, riferendosi al reparto amministrativo -. C’è il pericolo che gli uffici restino chiusi. Trovo che sia dissennato pagare un magistrato per fare le fotocopie, ma se il governo preferisce che io faccia questo, piuttosto che lezione all’Università, io lo faccio, ma costa molto di più". Sullo sciopero Davigo è perplesso: "Se facciamo uno sciopero, ci costa un sacco di soldi, ma non interessa a nessuno. Dobbiamo pensare ad altre forme più efficaci". Ma non si spinge oltre: "Ci penseremo", taglia corto. E troppi appelli. Sulle Corti d’Appello italiane si abbatte un numero di procedimenti molto più alto che in altri Paesi. "Appellarsi non costa nulla: in Italia tutte le sentenze vengono appellate. Se non ci sono freni all’impugnazioni e c’è poi la prescrizione, è normale che i tempi si allunghino", ha detto il presidente dell’Anm, che ritiene che sia proprio la presenza di questi strumenti nella procedura del nostro Paese a determinare una mole immensa di cause da smaltire. Se ci fosse, ha sottolineato il magistrato, il rischio di un inasprimento di pena per chi ricorre, probabilmente ci sarebbe un freno. Più intercettazioni che in altri Paesi. E, come ci sono più processi, in Italia pare ci sia un numero di intercettazioni maggiore che negli altri Paesi. Il motivo, spiega Davigo, è che "in Italia ogni intercettazione deve essere sottoposta ad autorizzazione giudiziaria. È per questo motivo che risulta un numero di ‘intercettazioni giudiziarie’ molto più elevato che in altri Stati, dove l’esecutivo procede direttamente". Non è possibile, dunque, fare un confronto. Una cosa, però, è sicura: "Non è vero che in Italia si fanno più intercettazioni che in altri Paesi". Nessun incontro in vista con Renzi. Data la situazione, si potrebbe ipotizzare un incontro a breve con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi? "Nella prassi dell’Anm non c’è stato mai un incontro con il presidente del Consiglio: il nostro interlocutore è il ministro della Giustizia. Non intendiamo richiedere incontri", ha chiarito Davigo che, però, non esclude la possibilità di un confronto, qualora il premier ne manifestasse la volontà. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento di Luciano Capone Il Foglio, 22 luglio 2016 Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: "Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo". E invece pare che la "casta" dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla "casta" dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito - nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset - condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso "pugno di ferro" è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto "caso Saguto", l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. "Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato - diceva in un’intercettazione Walter Virga - pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno". Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti. "Che fate, m’arrestate pè due carte?", avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene "interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi". Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita "solo" la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. Il pm di Genova: "I corpi della Diaz ricordano quelli turchi" di Mauro Ravarino Il Manifesto, 22 luglio 2016 Parla Enrico Zucca. Quello che accadde in quella scuola è la sospensione della democrazia. Come avviene oggi con le purghe di Erdogan. E scandalizza lo stop del governo al reato di tortura. La sera del 21 luglio 2001, al termine delle manifestazioni contro il G8 di Genova, la polizia fece irruzione nella scuola Diaz, sede del Genoa Social Forum. Il blitz terminò con oltre 60 feriti e 93 arresti. Enrico Zucca è il pm che ha condotto le inchieste e i processi sui fatti di quel luglio incandescente. Ed è il magistrato che denunciò la difficoltà di individuare i diretti responsabili e la mancata cooperazione da parte della polizia. Dottor Zucca, quindici anni dopo cosa è stata la Diaz? La Diaz è stato un orrore, che oggi viene ricordato sinistramente dalle immagini che arrivano dalla Turchia. Quella palestra con i corpi nudi ammassati degli arrestati nelle purghe del dopo golpe non può che far tornare alla mente le immagini della palestra della scuola di Genova. L’accostamento potrebbe sembrare una provocazione, ma così non è: l’indignazione deve essere eguale. La Corte di Strasburgo, in riferimento ai fatti della Diaz, nel 2015 ha condannato l’Italia per l’assenza di una legge adeguata per punire il reato di tortura. Un traguardo che non è stato ancora raggiunto. Questo anniversario viene, infatti, celebrato dalla sospensione del faticoso dibattito parlamentare sull’introduzione del reato di tortura. "C’è il terrorismo", dice quella parte politica che ha promosso questa battuta d’arresto. Invece, proprio nella lotta al terrorismo, che minaccia le nostre vite, non dobbiamo abbandonare i nostri principi di civiltà. È inspiegabile come un Parlamento non riesca a coagulare una maggioranza traversale su questo argomento. Questa sospensione segna con pervicacia la messa in discussione di quanto ha stabilito nel 2015 dalla Corte europea dei diritti umani, che oltre ad aver qualificato quell’irruzione delle forze dell’ordine come "tortura", ha condannato l’Italia non solo per il pestaggio subito da uno dei manifestanti (Arnaldo Cestaro, l’autore del ricorso) ma anche perché, appunto, non ha una legislazione adeguata. Pensa sia solo una questione di strumenti legislativi? In Turchia esiste il reato di tortura e i numeri identificativi per i poliziotti, ciò dimostra che il problema non è solo questo. Il problema è se crediamo ancora nei valori della democrazia occidentale. E se vogliamo metterli in pratica. Non è solo una questione di strumenti. Gli Avvocati di Strada, che difendono chi è in strada dì Rosario Di Raimondo Venerdì di Repubblica, 22 luglio 2016 Un pool di professionisti assiste gratuitamente i senza fissa dimora. Come quello che aveva rubato per fame e che sono riusciti a far assolvere. Chissà se è venuto in mente pure a lui quel verso, mentre prendeva da mangiare sperando di non essere scoperto. "Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame" cantava Fabrizio De André, e un giudice di Bologna sembra aver messo in pratica quel concetto. Pochi giorni fa un uomo è stato assolto dall’accusa di furto: aveva sottratto alcuni pezzi di formaggio dagli scaffali di un supermercato cittadino. Il tribunale ha riconosciuto "il disagio sociale" dell’imputato. Povero, senza fissa dimora, con problemi di salute. Ha rubato per sopravvivere. Al suo fianco, in tribunale, c’era Eleonora Irrera, uno dei legali di Avvocato di Strada. Un pool di professionisti che assiste gratuitamente i senza fissa dimora. Sia quando sono accusati di aver commesso un reato, sia quando le vittime sono loro: aggrediti, derubati, derisi. "In una pagina del libro L’avvocato di strada, il protagonista ideato da John Grisham dice "Prima di tutto sono un essere umano. Poi un avvocato". In realtà è possibile essere entrambe le cose" scrive il presidente dell’associazione Antonio Mumolo, consigliere Pd in Emilia-Romagna, nella presentazione del bilancio sociale 2015. I numeri: 3.475 persone assistite l’anno scorso (più di mille italiani), 43 sedi in Italia (l’ultima a Cosenza), quasi due milioni e mezzo di euro il valore del lavoro messo a disposizione da 300 volontari. Le pratiche più frequenti riguardano il diritto civile: sfratti, diritto alla residenza e all’assistenza sociale. Le battaglie per i migranti, come il permesso di soggiorno. I sempre più frequenti casi di aggressioni ai clochard: 83 l’anno scorso. Fino alle accuse di furti. Ecco, l’uomo incriminato per 50 euro di formaggio ha bussato allo sportello di Bologna, dove l’associazione è nata. "È finito in strada da un giorno all’altro, non ha idea di quanta gente si ritrovi nelle sue condizioni" racconta Mumolo. "La sua assoluzione arriva dopo una recente sentenza della Cassazione che è rivoluzionaria. Non sono punibili le persone che commettono un piccolo furto al solo scopo di sopravvivere. Il giudice dice: il fatto c’è, certo. Ma l’imputato ha rubato qualcosa da mangiare in un momento di estrema necessità". Sono 190 mila le persone in Italia che mangiano alla mensa della Caritas (rapporto 2015). Più di 4 milioni quelle in povertà assoluta. E questa non è solo una strofa da canticchiare. "Messa alla prova" nel decreto penale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2016 Corte costituzionale - Sentenza 201/2016. Anche il decreto penale di condanna, nonostante la legge non lo preveda, deve avvisare l’imputato del fatto che può chiedere la messa alla prova. La Corte Costituzionale interviene con la sentenza 201/16, depositata ieri, per allineare l’atto di chiusura indagine previsto dall’articolo 460 del codice di procedura penale a quello dei procedimenti ordinari. Il caso è stato sollevato dal Tribunale di Savona a margine di un decreto penale emesso per violazioni edilizie ed opposto dall’imputato. Nell’udienza di opposizione, questi aveva chiesto la possibilità di estinguere il reato mediante un programma di messa alla prova già concordato con il competente ufficio di esecuzione penale esterna. Tuttavia, codice di procedura penale alla mano, il giudice monocratico di Savona ha rilevato l’impossibilità di rimettere in termini il richiedente, considerato che la domanda andava presentata contestualmente all’atto di innesco del dibattimento - vale a dire l’opposizione. Da qui la remissione alla Corte Costituzionale perché, secondo il magistrato ligure, il mancato avviso nel decreto penale comporterebbe una violazione del diritto di difesa (articolo 24 della Carta) e, in una prospettiva più ampia, una discriminazione rispetto agli altri imputati con riti ordinari (articolo 3): questi infatti nell’atto di chiusura della fase procedimentale vengono avvisati, tra l’altro, della facoltà di chiedere riti alternativi e della facoltà di beneficiare, appunto, della messa alla prova. La Corte ha ritenuto fondata l’istanza di incostituzionalità, partendo dalla considerazione che la messa alla prova ha effetti sostanziali, perché estingue il reato attraverso un rito speciale alternativo al giudizio. Nonostante questo, nota il relatore, il decreto penale non prevede l’avviso all’imputato di tale facoltà che, peraltro, decade se non esercitata prima dell’udienza di opposizione. Nel solco tra l’altro di una consolidata recente giurisprudenza costituzionale (219/14; 237/12), la Consulta sottolinea che la richiesta di riti alternativi "costituisce anch’essa una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa"; pertanto l’avviso all’imputato è "una garanzia essenziale per il godimento di un diritto alla difesa", e la sua eventuale mancanza comporta una perdita irrimediabile della facoltà. Da qui scaturisce la irragionevolezza nella mancanza dell’articolo 460 del codice di procedura penale e la dichiarazione di incostituzionalità "nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova". Pena più alta per il recidivo anche se vincono le attenuanti di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 31669/2016. Aumento di pena per il recidivo anche se la "reiterazione a delinquere" sia stata neutralizzata da un’attenuante. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione - sentenza 31669/16 depositata ieri - chiudono il cerchio sugli effetti sanzionatori della riforma del 2005 (legge 251) sulla recidiva. La questione posta dal procuratore generale della Corte d’appello di Brescia riguardava il trattamento sanzionatorio di un imputato di vari reati in concorso e in continuazione, a cui i giudici di merito avevano riconosciuto l’equivalenza delle attenuanti generiche rispetto alla contestata recidiva reiterata. La vicenda, in sostanza, riguarda l’accezione della definizione "applicata" relativa alla recidiva contenuta nel codice di procedura all’articolo 81 c.4: "Se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, l’aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave". Per il tribunale di Bergamo, di fatto, il giudizio di equivalenza delle circostanze avrebbe "spento" la previsione sanzionatoria prevista dalla riforma del 2005 ("Se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due terzi") disinnescando così l’aggravio della condanna. Le Sezioni Unite però, con l’occasione, estendono gli effetti di vari precedenti alla recidiva nel reato continuato, secondo cui "applicare" la recidiva significa "apprezzarla funzionalmente" considerandone gli effetti. Nel giudizio di bilanciamento, scrive la Corte, il giudice fa esattamente questa operazione, "pesando" da un lato le attenuanti e dall’altro le aggravanti/recidive: così facendo, argomenta il relatore, il giudice sta "applicando" la recidiva, anche se questa risulta poi soccombente (o equivalente) con le attenuanti generiche o a effetto speciale. Ma ciò non esclude pertanto, a norma dell’articolo 81.4, gli effetti sull’aumento di pena, che devono comunque entrare nel computo finale della sentenza. Eternit, il ne bis in idem non chiude il caso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2016 Corte costituzionale 200/2016. Il processo Eternit bis può continuare. È questo il dato di cronaca più significativo dopo una prima lettura della sentenza della Corte costituzionale depositata ieri, la n. 200 del 2016 scritta da Giorgio Lattanzi. Il dato giuridico è invece certificato dalla dichiarazione di illegittimità dell’articolo 649 del Codice di procedura penale nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per il quale è iniziato il nuovo procedimento penale. Una pronuncia importante quindi perché si sofferma su uno dei cardini dell’ordinamento penale: il divieto di due procedimenti penali per il medesimo fatto. Già. Ma cosa bisogna intendere per medesimo fatto? Il Gup di Torino, chiamato a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio di Stephan Schmidheiny imputato, nella sua qualità di più elevato dei dirigenti della società Eternit di Casale Monferrato, dell’omicidio doloso di 258 persone per prolungata esposizione all’amianto, aveva rinviato alla Corte costituzionale la questione della corretta interpretazione dell’articolo 649. Il Gup sottolineava infatti che il manager era già stato prosciolto per prescrizione in un precedente giudizio, nel quale erano però stati contestati i reati di disastro innominato aggravato e di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Dalla lettura della pronuncia, quanto alla triste, ma decisiva contabilità delle vittime, delle 258 decedute e oggetto del nuovo capo d’imputazione per omicidio, 72 non figuravano nel vecchio procedimento concluso per prescrizione. Ed è un dato che potrebbe rivelarsi determinante ai fini della prosecuzione del giudizio. Il Gup chiedeva l’intervento della Consulta sostenendo di non potere applicare il divieto di bis in idem a causa del significato che la norma del Codice di procedura avrebbe assunto nel diritto vivente. In quest’ultimo l’identità del fatto sarebbe ormai consolidata come identità giuridica e non invece storica come invece da formulazione letterale della norma e da lettura aderente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Consulta però, all’esito di un attento esame delle disposizioni della Convenzione (articolo 4 del Protocollo n. 7) smentisce la tesi del Gup. Perché se è vero, conclude sul punto la sentenza, che la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base a una concezione naturalistica del fatto, non è invece vero che quest’ultimo può essere circoscritto nella sfera della sola azione od omissione di chi agisce. Dove invece la tesi del Gup di Torino è considerata convincente dalla Consulta è dove viene sottolineato come il diritto vivente consideri inapplicabile il ne bis in idem nel caso di concorso formale di reati. È effettivamente così, ammette la Corte costituzionale, ed è questo l’aspetto di contrasto con la Convenzione. Tanto da fare concludere alla Consulta per una sostanziale irrilevanza del concorso ai fini del divieto di doppio processo. Nessun peso dunque per la natura del reato, il bene giuridico tutelato l’evento in senso giuridico. Dovrà invece sempre essere condotta dall’autorità giudiziaria un’indagine per verificare l’identità del fatto storico oggetto dei due procedimenti, uno esaurito e uno in corso, per i quali sta procedendo. Indagine che andrà effettuata tenendo presente la terna, condotta (ma non solo quella appunto)-nesso causale-evento. Solo la coincidenza empirica di questi tre elementi può condurre all’affermazione dell’esistenza di un medesimo fatto. Pertanto - ed è un passaggio decisivo ai fini della valutazione dell’impatto sul processo Eternit - la Corte costituzionale avverte che non dovrebbe esserci dubbio sulla diversità dei fatti quando da un’unica condotta deriva la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, venendosi così a configurare un nuovo evento in senso storico. E sembrerebbe essere proprio il caso di quelle 72 persone la cui morte per esposizione alle polveri di amianto è oggetto del secondo procedimento senza che siano entrate nel primo. "Ove invece - prosegue la Consulta - tale giudizio abbia riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, il grado o per le circostanze". L’elemento oggettivo del reato di abbandono di persone minori o incapaci Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2016 Reati contro la persona - Abbandono di persone minori o incapaci - Rapporto di specialità con il reato di omissione di soccorso - Concorso di reati - Esclusione. Il reato di abbandono di persone minori o incapaci è in rapporto di specialità rispetto a quello di omissione di soccorso, in quanto, a differenza di quest’ultimo che punisce chiunque si trovi occasionalmente a contatto diretto con una persona in stato di pericolo, sanziona la violazione di uno specifico dovere giuridico di cura o di custodia, che incombe su determinate persone o categorie di persone, da cui derivi una situazione di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 25 marzo 2016 n. 12644. Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Elemento materiale - Abbandono - Nozione. L’elemento oggettivo del reato di abbandono di persone minori o incapaci, di cui all’art. 591 cod. pen., è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia), gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 2 settembre 2015 n. 35814. Reati contro la persona - Abbandono di persone minori o incapaci - Elemento materiale - Abbandono (Nozione). Ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’articolo 591 c.p., il necessario "abbandono" è integrato da qualunque azione od omissione contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) che grava sul soggetto agente e da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. • Corte cassazione, sezioni V, sentenza 10 settembre 2014 n. 37444. Reati contro la famiglia - Maltrattamenti in famiglia - Concorso con il reato di abbandono di persone minori o incapaci - Configurabilità. I reati di maltrattamenti in famiglia e di abbandono di persone minori o incapaci possono concorrere in quanto le relative fattispecie incriminatrici sono poste a tutela di beni diversi e integrate da condotte differenti. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 8 marzo 2013 n. 10994. Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Abbandono di persone minori o incapaci - Configurabilità. Integra il delitto di abbandono di persona incapace l’omesso adempimento, da parte dell’agente, dei doveri di custodia e di cura sullo stesso incombenti in ragione del servizio prestato, in modo che ne derivi un pericolo per l’incolumità della persona incapace. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 21 maggio 2010 n. 19476. La supremazia del Dna. Ma non chiamatela "verità" di Corrado Ocone Il Dubbio, 22 luglio 2016 Il determinismo biologico influenza la giustizia e la cultura. Dobbiamo essere grati al progresso che ci permette, attraverso analisi sempre più sofisticate quale ad esempio la cosiddetta "prova del Dna", di aggiungere ai vari elementi che portano gli inquirenti sulla traccia di un colpevole anche valutazioni di tipo "scientifico" o "oggettivo". Eppure, queste valutazioni non possono e mai debbono sostituirsi al giudizio umano: non possono essere l’unico elemento probante quando altri ne mancano, quando l’omicida non è stato "colto in fragrante". La prova della "pistola fumante" è ancora oggi e sempre sarà la principale: tutte le altre possono al massimo concorrere ad un giudizio, mai sostituirsi ad esso o determinarlo. Almeno fin tanto che resta valido il principio che, per condannare un reo, bisogna attingere la "verità", fosse anche solo quella processuale, e non la probabilità, per quanto alta essa possa essere considerata a partire dal quadro generale. Sempre che non si voglia contravvenire a quelle regole generali che contraddistinguono la nostra civiltà del diritto e che, giustamente, ci portano a dire che è meglio un colpevole fuori che un innocente in galera. Detto altrimenti, una prova "scientifica" non potrà mai, da sola, farci essere sicuri "oltre ogni ragionevole dubbio" della colpevolezza di un imputato. Ora, l’obiezione che subito le menti irriflessive fanno a queste considerazioni è che esse provengono da menti antiscientifiche, da "oscurantisti", dai tanti "nemici della scienza" di cui il nostro paese sarebbe, e in effetti veramente è, pieno. Ma si tratta di un sofisma, cioè della trasposizione di un fatto vero, la nostra scarsa dimestichezza con la cultura scientifica, in un ambito in cui esso non c’entra affatto. È in nome della scienza, oltre che della logica e del buon senso, che noi qui diciamo forte che la "verità scientifica" non ha nulla a che fare con quella "processuale" (oltre che con le molte altre e non riducibili "verità" di cui è costellato l’universo umano). Chi dà alle proposizioni scientifiche un valore unico e assoluto, deterministicamente cogente, è tutto sommato colui che non ha mai riflettuto fino in fondo, mai a portato a livello di consapevolezza teoretica, la scienza stessa: spesse volte è il "filosofo della scienza", non lo scienziato impegnato in laboratorio, immerso nella concretezza della sua ricerca. Tanto per cominciare bisogna considerare, in modo solo apparentemente banale, che una cosa è la "scienza", intesa come una sorta di entità empirica e alcune volte anche metafisicamente astratta, un’altra cosa sono gli scienziati. I quali sono uomini come tutti gli altri, fallibili e soggetti a impulsi, sentimenti, passioni. Ora, però, sono proprio gli scienziati, con tutta la loro fallibilità umana, a mettere mano al dispositivo scientifico. Ed è una fortuna che sia così: la "logica della scoperta scientifica", che non ha mai fine, procede per "tentativi ed errori", come ci ha insegnato Karl Popper, cioè in sostanza attraverso il dubbio messo in opera costantemente dagli operatori scientifici. I quali, al contrario dei teologi o dei metafisici, non si accontentano mai dei risultati raggiunti ma sempre continuano a metterli in discussione o in crisi. La verità di oggi non è quella di domani: anzi, una proposizione infallibile, cioè che si sottrae al dubbio, è semplicemente antiscientifica. Il fallibilismo, non la certezza, è l’orizzonte in cui opera l’impresa scientifica. Ma, oltre a questa considerazione, un’altra, più radicale, va fatta a monte. E qui bisogna riferirsi a Immanuel Kant, il quale ci ha dimostrato che la conoscenza scientifica in tanto può riuscire, giungere a risultati, in quanto lavora in un ambiente rarefatto, "depurato" da tutti gli elementi estranei o "impuri" che potrebbero "inquinare" o semplicemente non far riuscire l’esperimento. Lungi dall’essere priva di presupposti o pregiudizi, la scienza ne assume a monte, e quindi in modo inconsapevole per le menti irriflessive, di forti e precisi: dall’assunzione del "presupposto oggettivante", cioè della vitale convinzione che esista un mondo di cose separato da un io che pensa, al fatto che esista nella realtà un ambiente asettico come è quello in cui lo scienziato opera. E ad altri ancora. Senza queste "astrazioni" dal reale la scienza semplicemente non esisterebbe. E non esisterebbero nemmeno le mirabolanti applicazioni pratiche, cioè la cosiddetta "tecnica", che hanno cambiato la faccia del mondo e che, vivaddio!, hanno migliorato e continueranno a migliorare le nostre condizioni di vita e di sviluppo umano. Quello che qui si vuole dire, con Kant, è che è comunque l’uomo che immette certe categorie, a cominciare da quella di causa, nella realtà, rendendosela "scientificamente" disponibile e praticamente efficace. Dimodoché, anche per questa parte, sempre all’uomo, con la sua finitezza e fallibilità, si ritorna. Un esperimento scientifico "vero", "oggettivo", indubitabile nel senso forte e definitivo del termine, non esiste e non potrebbe esistere. Sarebbe cosa di un altro mondo, che metterebbe fine al nostro e alla stessa impresa scientifica, se mai potesse esistere. Non si spiegherebbero altrimenti gli esiti contrastanti a cui certi esperimenti, come la "prova del Dna", rifatti in tempi e modi diversi, giungono. E che a torto ci portano a dubitare non degli uomini, ma della scienza. Ora, giunti a questo punto del nostro ragionamento, non possiamo non considerare l’ulteriore obiezione di coloro che, ascrivendo alla "mentalità antiscientifica" quella che non è una ostilità contro la "prova del Dna" ma semplicemente contro la sua assolutizzazione, richiamano altri episodi, per quanto dissimili, che a questa mentalità sembrano secondo loro essere ascrivibili. Ad esempio, il prepotente intervento della magistratura su un caso come quello della Xylella che si vorrebbe sottrarre con protervia, essa sì veramente antiscientifica, alla competenza degli scienziati. Ora, a ben vedere, chi come noi contesta l’assolutizzazione della "prova scientifica" nel dibattimento giudiziario, può a buon diritto, con altrettanta forza, contestare tutti quei casi in cui il giudice, facendosi scienziato, vuole imporre alla scienza i metodi da utilizzare e i risultati da raggiungere. Nell’uno e nell’altro caso assistiamo infatti ad una "invasione di campo": alla prevaricazione, nel primo caso, della "verità scientifica" su quella giudiziaria (e poco importa che ciò avvenga per iniziativa degli stessi giudici, i quali assumono un comportamento alquanto deresponsabilizzante); alla prevaricazione, nel secondo caso, del giudice che vuole imporre le sue idee o ideologie agli scienziati, sconfessando i loro metodi e il loro lavoro. Quello che sempre manca è quella capacità di distinguere, di dubitare e mettere in discussione le proprie convinzioni, di sentire tutto il peso e la responsabilità delle proprie azioni e dei propri comportamenti, di non sapere immedesimarsi nelle situazioni e soprattutto nella vita degli altri (prestando loro la dovuta attenzione), che è il vero dramma dell’epoca attuale. La messa in discussione della nostra (liberale e garantista) civiltà del diritto, non è che una conseguenza di questo stato delle cose. "A mio padre vogliono far fare la fine di Provenzano" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 luglio 2016 La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, da 24 anni al 41 bis e in cella a L’Aquila. Ha un tumore alla faringe e i 24 anni di 41 bis gli anno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio scorso, ma restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in "casa lavoro" nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Parliamo di Vincenzo Stranieri. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. "Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni ? dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti ? ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano". La sua denuncia è stata raccolta dalla radicale e presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Subito si è attivata chiedendo al capo del Dap, Santi Consolo, di intervenire sulla vicenda. Rita Bernardini conosce bene la situazione perché aveva già segnalato il grave problema del carcere di L’Aquila: durante la visita di Pasqua aveva ritrovato reclusi cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta "casa lavoro"; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto "rieducarsi" e ottenuto la risposta che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno. Uno che faceva il porta-vitto, le chiese "Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso? ". Un altro ancora le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. "Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare? ". Rita Bernardini fa quindi presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, sarà riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. A questo si aggiunge che a causa della sua malattia ha bisogno della chemioterapia: il carcere di L’Aquila sarà in grado di riservargli questo trattamento sanitario assolutamente indispensabile? Alla trasmissione Radio carcere, condotta da Riccardo Arena, la Bernardini ha posto in diretta la questione a Santi Consolo. Il capo del Dap le ha risposto che purtroppo tutto rientra nella legge, dove è espressamente previsto che le persone ritenute ancora pericolose possono essere sottoposte a misura di sicurezza. Tuttavia ha segnalato il problema al magistrato di sorveglianza il quale ha ritenuto che Vincenzo Stranieri, nonostante i suoi gravi problemi di salute fisica e mentale, sia compatibile con la misura di sicurezza in 41 bis. Consolo ha comunque espresso il parere personale - in sintonia con quello della Bernardini - che tale regime in 41 bis non è compatibile nemmeno con la finalità del lavoro, per questo ha allertato il Provveditore regionale per chiedere chiarimenti. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante abbia scontato tutti gli anni inflitti e il sopraggiungere di questa grave malattia? Ma come denuncia efficacemente Rita Bernardini, è giusto che la figlia Anna, oggi che il padre si trova nella cosiddetta "casa di lavoro" dell’Aquila, si sia sentita umiliata quando con arroganza qualcuno, alla sua garbata domanda "come sta mio padre? ", ha risposto "è in cella! ". La Bernardini conclude amaramente: "Anna Stranieri lo sa bene che suo padre è in cella e che ci rimarrà contro ogni principio di legalità e di umanità per altri due anni, ma era proprio necessario calpestare i suoi sentimenti? " Nel carcere di L’Aquila, in realtà, è stata creata una casa di lavoro per internati sottoposti al regime previsto dall’art 41 bis op. Attualmente sono presenti, oltre a Stranieri, Filippo Guttadauro, Salvatore Corrao, Salvatore Nobis e Pasquale Scarpa. Sono stati collocati nella dismessa area riservata del carcere e sono trattati come detenuti particolarmente pericolosi, La loro gestione è affidata al Gom, lo speciale reparto operativo mobile. Salvatore Corrao è internato da due anni e mezzo, gli altri da circa 7 mesi. Sono in gruppi da due persone, non hanno un programma trattamentale, non sono seguiti da educatori e criminologi. Il magistrato di sorveglianza non è mai andato in carcere a verificare le condizioni in cui si trovano questi internati nonostante le molteplici richieste avanzate. Da qualche mese gli hanno consentito di lavorare, solo dopo le ripetute richieste avanzate dal difensore, ma solo con mansioni di scopino o porta vitto, A distanza di oltre due anni di reclami e ricorsi rigettati, anche il loro comune difensore, Piera Farina, ha perso la speranza. Scarpa e Nobis nel mese di febbraio hanno presentato una licenza per gravi motivi di famiglia ma non hanno avuto riscontro dal magistrato. Corrao si trova nella peggiore delle condizioni: dopo 9 anni di detenzione (di cui 7 in regime di alta sorveglianza e 2 in 41 bis op) ha visto rigettarsi licenza premio, riesame anticipato della pericolosità e revoca anticipata del 41 bis. A febbraio scorso scadevano i due anni di casa lavoro ma il magistrato si è determinato a prorogarla di 6 mesi e il tribunale di sorveglianza de L’Aquila cui è stato proposto appello non ha ancora depositato l’ordinanza. Il ministro della Giustizia gli ha prorogato il regime speciale a maggio e si è in attesa dell’udienza. Anche Scarpa ha avuto la proroga del regime speciale a gennaio e il tribunale di sorveglianza di Roma investito del reclamo ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata, ritenendola infondata. Appare evidente che sia stato creato un nuovo e mascherato "fine pena mai" e magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di Roma giocano a palla avvelenata. Bologna: Garante regionale; al Pratello nessuna separazione fra minorenni e maggiorenni bologna2000.com, 22 luglio 2016 Nell’Istituto penale per i minorenni di Bologna "la situazione pare essere sotto controllo, dopo i disordini che si sono verificati circa un mese fa" ma rimane la criticità della "mancata separazione fra minorenni e maggiorenni che, anche per ragioni di ordine strutturale, legate all’organizzazione degli spazi detentivi, condividono ambienti e anche le medesime attività trattamentali". Questa settimana Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, ha effettuato un sopralluogo all’Istituto penale per i minorenni di Bologna, incontrando il direttore Alfonso Paggiarino e visitando le sezioni detentive e gli spazi dedicati ai laboratori, accompagnata da personale della Polizia Penitenziaria. "Dopo i disordini che si sono verificati circa un mese fa, legati a una protesta dei ragazzi detenuti che aveva portato all’incendio dei materassi e all’aggressione di personale, la situazione è parsa essere sotto controllo- spiega Bruno-. I sei ragazzi coinvolti nei disordini sono stati trasferiti in altre sedi penitenziarie e, attraverso un interpello straordinario, è intervenuta un’integrazione di organico di sei unità della Polizia penitenziaria". Inoltre, sottolinea la Garante, "si registra che negli ultimi anni la direzione della struttura ha trovato una felice continuità di mandato mentre sono continui gli avvicendamenti al comando del reparto di Polizia penitenziaria". Come riporta la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, "è sotto controllo anche il numero delle presenze": sono 20 i ragazzi detenuti, 19 presenti in istituto e 1 assente temporaneamente. Fra questi ci sono 11 minorenni, 13 condannati in via definitiva, 2 italiani, 3 tossicodipendenti, 2 autori di reati sessuali e 7 persone di fede musulmana. "Continuano a essere ospitati a Bologna anche quei ragazzi che sarebbero destinati all’Istituto penale per i minorenni di Firenze - ricorda -, in ragione della perdurante chiusura temporanea al fine di agevolare la conclusione dei lavori di ristrutturazione". La Garante ha poi rilevato la criticità relativa alla "mancata separazione fra minorenni e maggiorenni che, anche per ragioni di ordine strutturale, legate all’organizzazione degli spazi detentivi, condividono ambienti e anche le medesime attività trattamentali". Secondo Bruno "considerato che il trend nazionale relativo alla presenza di detenuti minorenni, in rapporti al numero di maggiorenni nel circuito penale minorile, risulta essere in diminuzione, sarebbe auspicabile una riorganizzazione degli spazi detentivi degli istituti penali minorili, prevedendo spazi adeguati dove collocare i detenuti giovani adulti". Anche perché, prosegue, "come noto, l’esecuzione dei provvedimenti limitativi della libertà personale nel circuito penale minorile è stata estesa anche nei confronti di coloro che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età ma non il venticinquesimo". La Garante si concentra poi sulle condizioni dei ristretti: "Secondo quanto riferito dal direttore, sarebbe prossimo l’avvio dei lavori per la sistemazione del sottotetto e dell’area verde, dove i ragazzi sono soliti passare l’ora d’aria all’aperto e nella quale verranno allestiti nuovi campi da calcio e basket - riferisce Bruno. Durante i lavori di ristrutturazione dell’area verde sarà necessario garantire ai ragazzi detenuti di poter usufruire delle ore d’aria previste, anche in condizioni di sicurezza per il personale, potendo risultare opportuno procedere a una diminuzione programmata delle presenze, di almeno la metà delle attuali, operando trasferimenti verso altre sedi penitenziarie, e anche eventualmente optando per una chiusura temporanea della struttura, sino alla conclusione dei lavori di ristrutturazione, come si è verificato in altre situazioni analoghe". Nella mattinata, conclude la Garante, "i ragazzi detenuti erano impegnati in attività sportiva e nel laboratorio di falegnameria, e riprenderà a breve anche l’attività di formazione nel settore della ristorazione che ha già dato frutti importanti, dotando della professionalità adeguata giovani detenuti che preparano i pasti quotidiani". Bologna: "reintegro per direttrice dell’Ipm", confermato no a rimozione Paola Ziccone Ansa, 22 luglio 2016 La decisione della sezione Lavoro della Corte di Appello. Dopo un’ulteriore pronuncia giudiziaria a favore, che conclude la vicenda amministrativa a suo carico, Paola Ziccone chiede al ministero della Giustizia il reintegro nell’incarico di direttrice dell’Istituto penale minorile del Pratello a Bologna. Dal ruolo era stata rimossa il 29 agosto 2011: il provvedimento era stato annullato dal giudice del Lavoro nel 2012, con condanna del Ministero a corrispondere a Ziccone gli stipendi dalla data della revoca; la sentenza è stata confermata il 12 luglio dalla sezione Lavoro della Corte di Appello, che ha respinto l’impugnazione ministeriale. In precedenza sempre la sezione Lavoro della Corte aveva confermato la sentenza del tribunale che nel 2013 aveva annullato la sanzione disciplinare della sospensione di tre mesi inflitta a Ziccone, assistita dall’avvocato Giorgio Sacco. Prima ancora c’era stata la sospensione della sanzione con un’ordinanza del 9 luglio 2012, confermata il 28 settembre di quell’anno. Nel chiedere il reintegro e l’esecuzione delle sentenze, il legale fa riferimento ad un comportamento persecutorio che ha provocato alla propria assistita un notevole danno morale, di immagine, alla vita di relazione e alla salute, di cui si riserva di chiedere il risarcimento. Parma: presunte violenze in via Burla, il Gip archivia il caso di Rachid Assarag parmatoday.it, 22 luglio 2016 Le motivazioni sono state depositate ieri, 21 luglio. Il Giudice ha archiviato le denunce del detenuto Rachid Assarag sulle presunte violenze all’interno del carcere di via Burla a Parma. Il caso di Assarag era nato in seguito alla pubblicazione di alcune registrazioni che sono state effettuate all’interno della struttura penitenziaria grazie ad un registratore che era stato fatto entrare in carcere. "Si osserva - si legge nel testo delle motivazioni - che a prescindere da ogni questione sulla utilizzabilità delle registrazioni operate dal detenuto all’interno dell’istituto carcerario, le stesse non consentono di collocare nel tempo gli episodi che ne sono oggetto così che non possono, di conseguenza, essere riferite con certezza ad alcuna delle contestazioni oggetto del presente procedimento. Le registrazioni, inoltre, sono di non facile e sicura interpretazione essendo state estrapolate da dialoghi intervenuti tra il detenuto e persone non individuate (agenti, medici, psicologi)". "È uscita prima di agosto, quando Tribunali e avvocati sono in vacanza o quasi in vacanza - ha dichiarato a Parmatoday Emanuela d’Arcangeli, la moglie di Rachid - non ci vedo niente di limpido. Stiamo parlando di darci la possibilità di fare un processo, invece no. I processi contro di lui sono attendibili sempre mentre qui, che ci sono le prove, si dice che non sono attendibili. Se hanno argomenti per difendersi si difenderanno al dibattimento, invece così non si avvia nemmeno il processo". Sassari: reinserimento sociale detenuti, si conclude la prima parte di "Isola Digitale 2.0" buongiornoalghero.it, 22 luglio 2016 Venerdì 22 luglio alle 10 del mattino nella sede della Fondazione di Sardegna in Sassari (via Carlo Alberto 7) si terrà la conferenza stampa di chiusura della prima parte di "Isola Digitale 2.0", un complesso progetto finanziato da Ras e Fondazione di Sardegna con il coinvolgimento della struttura carceraria di Bancali, per promuovere il reinserimento sociale di venti detenuti della casa circondariale, più uno in esecuzione penale esterna, permettendo la digitalizzazione ottica di migliaia di documenti degli archivi del carcere di Bachiddu e della dismessa struttura di San Sebastiano. Grazie a un permesso speciale sarà presente in sala uno dei detenuti protagonisti del progetto, che potrà raccontare questa eccezionale esperienza vissuta nei panni di archivista. All’incontro interverranno Giorgio Oggianu, presidente della Cooperativa sociale Isola Digitale di Oristano, che ha sviluppato il progetto; la dott.sa Ilenia Troffa, educatrice e referente per l’area trattamentale del carcere; la dott.sa Maddalena Sanna in rappresentanza dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) e Simonetta Sanna, vice presidente della Fondazione di Sardegna. Da quest’esperienza nasce anche il libro "Isola Digitale" realizzato dagli stessi detenuti, con le impressioni sul lavoro svolto e sulle tempistiche d’intervento. Treviso: scivoli e altalene nello spazio verde per gli incontri tra detenuti e figli Redattore Sociale, 22 luglio 2016 Area realizzata dall’associazione Soroptimist International nell’istituto penitenziario di Treviso. I papà avranno la possibilità di stare con le famiglie nell’area esterna due volte al mese, oltre al colloquio settimanale all’interno. Il carcere di Treviso ha un nuovo spazio verde, un luogo accogliente, destinato all’incontro dei detenuti con moglie e figli. Un’area allestita con scivoli, altalene e panchine dove le famiglie in visita potranno trascorrere il tempo con il familiare detenuto, così da eliminare la percezione di freddezza della casa circondariale e creare un ambiente più accogliente e meno aspro, soprattutto per i bambini. Lo spazio verde, realizzato a favore della Casa circondariale di Santa Bona grazie al contributo dell’associazione Soroptimist International di Treviso, è stato inaugurato ierii. A disposizione dei circa 40 bambini che si recano a trovare i padri (una ventina su una popolazione carceraria di 190 persone) nella struttura di Santa Bona ora vi sono un’altalena, un canestro, una struttura modulare composta da vagoni colorati e un gazebo, oltre a palle e palloni. "L’allestimento dello spazio gioco esterno - ha spiegato Stefania Barbieri, presidente del Soroptimist International Club di Treviso - rappresenta la prima tappa di un percorso che la nostra associazione ha iniziato qualche mese fa e che potrà continuare con altri interventi a favore delle famiglie dei detenuti di Santa Bona. Dobbiamo tutelare compagne e bambini, non sono loro a dover scontare la condanna". I detenuti avranno la possibilità di incontrare le famiglie nell’area esterna due volte al mese, oltre al colloquio settimanale all’interno. L’iniziativa risponde solo a una delle tante esigenze presentate dalla casa circondariale trevigiana, un ulteriore passo per umanizzare gli spazi del carcere e rendere più tollerabile il periodo di detenzione. Milano: "Libera Cucina" tra le mura di San Vittore, i detenuti si scoprono chef di Simona Ballatore Il Giorno, 22 luglio 2016 Ospite una settantina di cittadini; così si sfatano anche i falsi miti sul carcere. Il portone di San Vittore si apre. Una settantina di "liberi cittadini" entra, in punta di piedi, per assaporare i piatti della "Libera scuola di cucina". Ad accogliere gli ospiti Mariangela e Jonathan, li guidano sino alla "Rotonda", mostrano i raggi, rispondono alle domande di chi per la prima volta mette piede in una casa circondariale, sfatando miti e leggende. È l’antipasto della cena didattica che ciclicamente viene proposta dentro le mura di piazza Filangieri. Arriva il via libera degli chef: i commensali entrano nel cuore della sezione femminile e scoprono un piccolo cortile senza nome, una bolla d’ossigeno, che sembra "altrove", lontana dalle celle, lontana da Milano. Tavoli lilla e verde, candele che scaldano l’atmosfera: 22 chef servono e si siedono accanto ai loro ospiti, rispondono alle domande, respirano quella ventata che entra dall’esterno. In questo angolo di San Vittore, per una manciata di ore, non esiste più "dentro" e "fuori", non si giudica, non importano le storie alle spalle, si guarda oltre e ci si lascia conquistare dal potere del cibo. "Non è un ristorante - premette Marina De Berti, responsabile della scuola promossa da A&I Onlus, agenzia accreditata per la formazione e per il lavoro in Regione Lombardia -. In una casa circondariale non sarebbe possibile perché è per sua natura un luogo di transito. La scuola di libera cucina è il risultato corale di una collaborazione con la direzione della casa circondariale, A&I, gli educatori, i poliziotti penitenziari e le persone che partecipano". Tra i provetti cuochi c’è chi è in attesa di giudizio, chi resterà tre mesi o diversi anni. "Sembra inusuale che una scuola di cucina inviti i cittadini dentro il carcere, ma è coerente col mandato costituzionale creare attività educative, permettere l’inclusione sociale, dare strumenti per abbattere il tasso di recidiva. E l’obiettivo è rendere più consapevole la società civile", sottolinea De Berti. L’idea della scuola è nata così, quattro anni fa, ed è stata premiata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della giornata internazionale della donna. Non vengono utilizzati soldi pubblici, si finanzia da sé, grazie ai contributi dei commensali che entrano nel progetto. Si pagano materiale, ingredienti, si comprano attrezzature per il carcere, si dà una piccola indennità a chi partecipa. La scuola è stata aperta per le detenute (guidate dal funzionario giuridico-pedagogico Francesca Masini), coinvolge in alcuni percorsi paralleli anche l’istituto a custodia attenuata per le madri, e per la prima volta ha aperto le porte alla sezione dei "giovani adulti" coordinati dall’educatrice Fiore Corrao. Altra novità, le lezioni sono tenute da chef stellati, blogger, esperti. Come Sonia Peronaci, la fondatrice di Giallo Zafferano oggi protagonista di nuovi progetti editoriali e culinari. "L’atmosfera è surreale - commenta - sono stati tutti bravissimi, attenti alle lezioni, partecipi. La cucina è un atto d’amore, che unisce e trasmette emozioni". I detenuti corrono ai fornelli, servono, intrattengono gli ospiti. Roxana per l’occasione si è fatta i boccoli: "Ero scopina (in gergo chi si occupa delle pulizie nel carcere) - racconta - mi piacerebbe lavorare in cucina, ogni tanto impasto in cella". Mirko spiega gli ingredienti di ogni piatto accanto a un poliziotto penitenziario, che lo guarda con occhi orgogliosi: "Sarai bravissimo. Anche fuori". Monza: "Parole oltre i muri", dal carcere un album rap per "evadere" Il Dubbio, 22 luglio 2016 "Parole oltre i muri" è il terzo lavoro inciso in via San Quirico. La musica entra nel carcere ed aiuta ad evadere. È quello che accade dal 2014 nella casa circondariale di San Quirico di Monza dove Kiave, un rapper di origine cosentine, è protagonista di del progetto "Parole oltre i muri", che poi è anche il nome del terzo album inciso oltre le sbarre di via Sanquirico che si può ascoltare dal sito internet www.razzismobruttastoria.net. Con Kiave gli altri rap Mario Mof, Manna, Giacomo e Patrice. Storie di vita vissuta, di disagio e rabbia, ma non solo. Anche di nuovi percorsi come quello offerto dalla musica. Il rap che unisce. Che regala "un pò di sole dopo anni di tempesta". Parole scritte e cantate dai detenuti del carcere di Monza. Con il sostegno del Centro servizi per il volontariato e della Fondazione della comunità di Monza e Brianza, e con la collaborazione della direzione e degli agenti, i ragazzi dell’associazione "Il razzismo è una brutta storia" sono riusciti a entrare in carcere e a registrare le esperienze dei detenuti. Le loro storie e i loro sogni. Perché "ognuno ha diritto a una seconda opportunità ? dice Kiave -. L’hip hop l’ha data a me e ora io cerco solo di trasmettere quello che questa cultura è destinata a fare: proiettare le persone verso qualcosa di più, di migliore". Dal link bit.ly/ Registriamone1 è possibile partecipare a un nuovo, progetto: una campagna di crowd-funding per sostenere l’allestimento di una sala di registrazione in carcere, che in cento giorni punta a raccogliere almeno 8mila euro che permetterebbe di realizzare lavori di ottima qualità. Ravenna: il soul entra in carcere con due concerti dedicati ai detenuti ravenna24ore.it, 22 luglio 2016 Spiagge Soul varca i confini del carcere. Quest’anno, per la prima volta, infatti, il festival include due tappe molto speciali, che proveranno a unire passione per la musica e attenzione per il sociale: sono i concerti nella casa circondariale di Ravenna, previsti il 25 luglio e il 2 agosto. Si parte con la performance del chitarrista Paul Venturi che insieme ai Poor Boys, il duo composto da Ste Barigazzi e Enrico Zanni, porterà le note e i ritmi del blues nel cortile del carcere di Ravenna. Il 2 agosto, invece, il bis con le percussioni dell’artista maliano Sidiki Camara. Non solo musica, però. In entrambi i concerti, la parte musicale sarà intervallata dai racconti degli artisti, in uno scambio culturale e, quindi, anche umano, con chi ogni giorno deve fare i conti con la vita all’interno di una struttura penitenziaria. L’evento nasce dalla convinzione che le note non raccontino solo un genere musicale, ma anche la biografia di chi nella musica ha trovato non solo un lavoro ma, spesso, anche il senso della propria vita. È questo lo spirito che il festival della "musica dell’anima" intende portare dentro le mura del carcere ravennate. Risultato di un più ampio progetto di educazione musicale che l’Associazione culturale "Blues Eye" ha portato avanti questa primavera dentro la casa circondariale, con un corso di chitarra rivolto a sei detenuti che si è concluso con un saggio-concerto il 21 giugno, in occasione della Festa europea della musica. "Come associazione culturale - spiega Francesco Plazzi, direttore artistico di Spiagge Soul - lavoriamo per far conoscere la musica in ogni suo aspetto: è importante la parte ludica, ma anche quella formativa, che nutre la nostra capacità di relazione con il mondo. Per questo, ci è sembrato importante poter portare una cosa bella come la musica in un luogo dove si trovano persone che fanno i conti ogni giorno con l’assenza di libertà. Questo è un progetto a cui teniamo molto - prosegue Plazzi - e che contiamo di far diventare un appuntamento fisso di Spiagge Soul, da curare e far crescere, così come abbiamo fatto con i laboratori musicali nelle scuole ravennati". L’associazione "Blues Eye" porta avanti da anni un lavoro di promozione culturale in ambito musicale, attraverso iniziative di carattere pedagogico. Tra queste, il corso di musica rivolto a studenti delle scuole elementari e medie inferiori del ravennate, giunto alla sua seconda edizione. Un esempio felice di come questa forma d’arte si presti in maniera efficace nei percorsi di integrazione scolastica e dialogo interculturale. I ragazzi delle scuole, provenienti da diverse etnie, hanno potuto non solo apprendere i rudimenti di uno strumento musicale, ma anche confrontarsi tra di loro e con gruppi di musicisti professionisti: la musica è stato il punto di partenza di una discussione più ampia, che ha toccato aspetti personali delle loro vite, raccogliendo una risposta entusiasta e partecipata. Spiagge Soul è il festival di musica soul, giunto all’ottava edizione, che dal 18 luglio al 1°agosto, con due anteprime il 14 e il 15 luglio, invade con diciassette giorni di grande musica spiagge, piazze, strade e stabilimenti balneari di Ravenna, Marina di Ravenna e dei lidi ravennati. Nel 2015 più di 20mila persone hanno assistito ai tanti eventi in calendario, tutti rigorosamente a ingresso gratuito. Spiagge Soul è il festival organizzato dall’Associazione culturale "Blues Eye" con la direzione artistica di Francesco Plazzi, la compartecipazione del Comune di Ravenna, il sostegno della Regione Emilia-Romagna e il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Viaggio nella mente di un jihadista di Marta Serafini Corriere della Sera, 22 luglio 2016 Uno psichiatra indaga i risvolti patologici del terrorismo e in un libro edito dal Corriere della Sera analizza i metodi di reclutamento del Califfato. "Mi chiamo Muhammad Riad e sono un soldato del Califfato". Gela il sangue sentire un 17enne pronunciare queste parole mentre agita un coltello da cucina poco prima di salire su un treno con l’obiettivo di fare una strage. Ma chi è Muhammed Riad, un pazzo? Un folle cui il terrorismo ha offerto un pretesto per dare sfogo alla violenza? Ad analizzare Isis e il terrorismo da un punto di vista psicologico è lo psichiatra Corrado De Rosa, autore di "Nella mente di un jihadista", Corsivo del Corriere della Sera in uscita in questi giorni. Nizza, Orlando, Dacca. Il modello sembra consolidato, dopo la strage emergono dettagli sulla vita degli attentatori che ci portano a parlare di follia, come sottolineato anche dall’ultimo report di Europol e dal Corriere della Sera. Ma davvero i terroristi sono pazzi di cui Isis riesce a servirsi? O si tratta di una semplificazione che rischia di portarci fuori strada? "Dal punto di vista clinico è necessaria una premessa: bisogna valutare caso per caso. E, poiché gli autori degli attacchi per lo più vengono uccisi, abbiamo pochi elementi per studiarli. Detto questo, va sottolineato che il binomio tra violenza e follia esiste, ma in misura molto modesta. E aumenta in presenza di un abuso di sostanze. In realtà, sbaglia chi pensa di essere di fronte a persone non dotate di razionalità: più spesso odiano quelli da cui sono attaccati, si attengono a regole precise". Che tipo di approccio psicologico si adatta meglio? "La loro psicologia va letta in una logica di gruppo: è impossibile separare le condotte dei jihadisti dal contesto che le ha determinate. Uno dei loro meccanismi di difesa è la proiezione: odiano l’Occidente perché rappresenta il mondo da cui si sentono esclusi. Sono mossi da un narcisismo insano che spinge alla ricerca di gratificazione a tutti i costi". Foreign fighters, combattenti, lupi solitari. Esistono delle differenze? "Le motivazioni che portano all’arruolamento sono diverse, così come diversi sono i percorsi di radicalizzazione. Nel caso dei lupi solitari la componente patologica gioca un ruolo più significativo. Nei loro profili si mischiano rabbia distruttiva, stile di pensiero fanatico, depressione, odio, vuoto esistenziale. Si tratta di personaggi per i quali la motivazione religiosa è labilissima". Scrive che i reclutatori in qualche modo praticano una sorta di screening per capire le differenze… "È probabile. Dal momento che la richiesta di affiliazione va dal basso verso l’alto, il reclutatore deve valutare che tipo di persona ha davanti per decidere il da farsi. Il suo lavoro si fonda sulla graduale acquisizione di fiducia. L’obiettivo è comprendere le ragioni che spingono a partire, isolare e aumentare il senso di colpa dell’interlocutore. Aumentando l’asticella delle richieste, il senso di colpa di chi non ha ancora iniziato a combattere aumenta". E per fare breccia quali tecniche vengono usate? "Si fa leva sulle motivazioni esistenziali, tipiche della post adolescenza: incertezza, bisogno di appartenenza, bassa tolleranza alla frustrazione, senso di rivalsa o di ingiustizia. I reclutatori differenziano i bisogni e, in base ai punti deboli, intervengono. A chi è spinto dal desiderio di battaglia, mostrano scene di guerra girate come videogame per dire: "Quello che per voi è un gioco noi te lo facciamo fare". Se capiscono che tra le ragioni c’è il desiderio di portare aiuto postano le foto dei bambini morti in Siria …". Gli attentatori sanno di dover morire? "Si, e ci sono differenze rispetto al passato. Secondo gli studi classici, il suicidio dei martiri di Allah sarebbe di tipo altruistico, cioè mirato a portare benefici alla società, oppure dovuto alle prescrizioni di una disciplina rigida. Il Califfato invece asseconda la fascinazione della morte per raggiungere i suoi scopi e sfrutta il suicidio per ridurre il rischio di fuga di notizie. Anche se, come è accaduto nel caso di Salah Abdeslam dopo gli attentati di Parigi, la volontà di morte può vacillare. Rispetto all’accettazione sociale del gesto, poi, oggi assistiamo a uno scollamento tra i desiderata dei martiri e quelli delle famiglie, in particolare quelle occidentali, che non comprendono le ragioni dei figli, né tantomeno approvano le loro scelte". Migranti: Medici senza frontiere "raddoppiati i morti in mare rispetto allo scorso anno" di Viviana Daloiso Avvenire, 22 luglio 2016 Quando si sono avvicinati al gommone alla deriva hanno visto subito l’orrore: da un lato, ammassati e disperati, i profughi che chiedevano aiuto con le mani alzate, urlando. Dall’altro, sul fondo dell’imbarcazione, le braccia e le gambe scomposte, decine di cadaveri riversi nel carburante. Chissà da quanto, erano lì. Chissà per quanto si sono mescolati, i vivi e i morti, in balia del mare e dell’arsura. quando si sono avvicinati al gommone alla deriva hanno visto subito l’orrore: da un lato, ammassati e disperati, i profughi che chiedevano aiuto con le mani alzate, urlando. Dall’altro, sul fondo dell’imbarcazione, le braccia e le gambe scomposte, decine di cadaveri riversi nel carburante. Chissà da quanto, erano lì. Chissà per quanto si sono mescolati, i vivi e i morti, in balia del mare e dell’arsura. È toccato ai volontari di Medici senza frontiere e Sos Mediterranée scoprire l’ennesima tragedia di migranti, procedere alla terribile conta. Alla fine del trasbordo, sulla nave di ricerca e soccorso Aquarius i salvati sono 209, i cadaveri 22. E 21 sono donne. Sono loro le più deboli, nelle traversate. Se sono giovani, e gracili, vengono travolte dai vicini negli spostamenti. Se sono ma-late, se hanno subito violenze nella lunga permanenza nei lager libici, soccombono per l’afa e la fame. Se sono madri, nonne, sorelle, fanno scudo col loro corpo ai bambini. Sul gommone soccorso da Aquarius ce n’erano 50, 45 non accompagnati. Chissà quanti hanno perso la donna della loro vita, sotto i piedi. Cosa sia accaduto, una volta raggiunto il largo, i sopravvissuti non l’hanno ancora saputo spiegare: sono quasi tutti sotto choc, e disidratati. Unica consolazione, le due giovani incinte scampate alla morte. Salve, coi loro piccoli stretti in grembo. Quel che è certo, però, e che la dice lunga su come la gestione dei flussi di migranti sia tutto fuor che sotto controllo è che dal primo gennaio le vittime del Mediterraneo sono state 2.920, contro le 1.870 dell’anno scorso: "Il numero dei migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia cioè - incalza Lorsi De Filippi, presidente di Medici senza frontiere - è raddoppiato". Significa 16 vittime al giorno. Di più: "La nostra esperienza ci ha portato a constatare che sono in aumento le imbarcazioni di fortuna, semplici gommoni con centinaia di persone ammassate a bordo, spinte a partire dalla difficile situazione in Libia". Spinte nel nulla, senza giubbotti di salvataggio, senza scorte, senza carburante. Come dire, le tragedie sono destinate ad aumentare. A meno che non si intervenga alla radice, con un cambio di rotta politico. "È necessario - spiega il Centro Astalli - garantire canali umanitari sicuri a quanti, in fuga da conflitti e persecuzioni, cercano protezione. È l’unica strada percorribile per evitare che trafficanti di esseri umani continuino a mettere in pericolo vite innocenti, lucrando sulla disperazione". Secondo i gesuiti l’Europa "ha il dovere di creare alternative al traffico di esseri umani come canali umanitari e programmi di reinsediamento, al vaglio da tempo sui tavoli istituzionali, mai diventati adeguatamente operativi". Insomma, soccorrere non basta: bisogna anche prevenire "attraverso ingressi protetti e un’accoglienza dignitosa e organizzata che tenga in considerazione la volontà dei migranti" perché "politiche e misure volte esclusivamente a evitare gli arrivi e chiudere le frontiere sono evidentemente destinate a fallire oltre ad avere un costo altissimo in termini di risorse economiche ma soprattutto di vite umane". Dello stesso parere don Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes: "I corridoi umanitari sono l’unica soluzione possibile e devono uscire dall’estemporaneità di quelli realizzati da Sant’Egidio e Federazione delle chiese evangeliche". Secondo Perego gli strumenti ci sono, le diplomazie sui territori sono preparate, "si potrebbe cominciare dal piano di riallocamento europeo pensato per 160mila migranti e di fatto già fallito. Quei 160mila potrebbero essere accompagnati dall’Europa in un percorso garantito, sicuro, e la loro distribuzione a quel punto gestita razionalmente in base al sistema delle quote". Qual è il problema allora? "La mancanza di una volontà politica di tutti i Paesi - spiega monsignor Perego. C’è il timore che una volta arrivati nei Paesi di prima accoglienza i migranti finiscano poi per spostarsi comunque altrove, dove sono indesiderati". Vince la chiusura, vincono comunque i muri. E il mare, l’unica via di salvezza che resta per l’Europa, continua a inghiottire vittime. Muro di Ncd, la cannabis liberalizzata va in fumo di Francesco Ghidetti Il Giorno, 22 luglio 2016 Se ne riparla a settembre. Su 1.700 modifiche, 1.300 sono dei centristi. Non c’è niente da fare. Parli di questioni "eticamente sensibili" e la spaccatura è totale. Nel Paese. Nei palazzi della politica. Un bel guaio per il governo di Matteo Renzi, ora alle prese, dopo la grana delle unioni civili, con la depenalizzazione della cannabis. Ma andiamo con ordine. Il dato tecnico è il seguente: di fronte a 1.700 emendamenti (in gran parte dei centristi di Ap, vale a dire la somma in Parlamento di Nuovo centrodestra e Udc) presentati al disegno di legge che depenalizza la cannabis, le commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera decidono di non esaminare e votare le proposte di modifica. Il testo, quindi, va direttamente in Aula. Appuntamento a lunedì 25 luglio. Con conseguente slittamento a settembre del voto su emendamenti e ddl. Eppure il sale della vicenda è squisitamente politico. Per l’esecutivo, l’area centrista, anche in questo caso, è una spina nel fianco. La polemica, dai toni accesi, coinvolge anche lo scrittore di questioni criminali più alla moda: Roberto Saviano. Il quale non usa mezzi termini: gli emendamenti sono "un’azione irresponsabile e da incompetenti". Apriti cielo. A stretto giro di Twitter gli risponde Maurizio Lupi, capogruppo a Montecitorio dei centristi: "Irresponsabile e incompetente è chi vuole legalizzare la droga come te, dannando una generazione". Competente è anche il procuratore antimafia Gratteri che dice No alla cannabis?". Domanda retorica diretta che offre l’occasione al sottosegretario agli Esteri di replicare a Lupi: "Per me - scandisce Benedetto Della Vedova, antica anima radicale - Gratteri sbaglia, ma almeno è coerente: vuol proibire anche alcool e tabacco. Anche te?". Uno dei più convinti sostenitori della depenalizzazione - Arturo Scotto, capogruppo di Sinistra Italiana alla Camera - avverte: "Lupi legga bene gli argomenti di Saviano. A dannare i giovani sono le mafie che si sono arricchite col proibizionismo". E pure Riccardo Magi, leader dei Radicali italiani (sempre in prima fila nella battaglia antiproibizionista) punta il dito contro gli emendamenti. Si tratta della "controffensiva proibizionista per impedire che il Parlamento affronti una delle più gravi questioni sociali aperte con un dibattito serio e argomenti fondati su base scientifica, non ideologica". Ma il fuoco concentrico dei centristi è potente. Paola Binetti (un passato nel Pd, ora in Ap) si chiede se "ci si può fidare di un governo che ignora tutti i segnali di allarme che arrivano dalla Commissione antimafia, dalle comunità di recupero, dalle famiglie e dalla comunità scientifica?". Di "regalo gigantesco alla mafia" parla Sergio Pizzolante, anch’egli di Ap. Polemico Carlo Giovanardi di Idea: "Pensare di combattere la mafia legalizzando la cannabis è da dilettanti di criminologia". E poi, ancora bordate. Che però arrivano da dentro il Pd. Come quelle di Giacomo Portas e Edoardo Patriarca. Sì, temi sensibili. Pericolosamente sensibili. Turchia: diritti umani "sospesi" di Mariano Giustino Il Manifesto, 22 luglio 2016 Il parlamento approva lo stato di emergenza per tre mesi: Erdogan accumula altri poteri e ne regala alla polizia. Ankara fuori dalla Convenzione europea dei diritti umani. Ancora epurazioni, il paese è sempre più spaccato. Per la sesta notte di fila dopo il fallito golpe del 15 luglio, nelle strade e nelle piazze delle città turche i manifestanti filogovernativi si ritrovano richiamati dagli appelli del presidente Erdogan e dai muezzin delle moschee. Ci appare davvero inspiegabile questo richiamo alla mobilitazione popolare in luogo del ritorno alla normalità e legalità democratica, come invocano le opposizioni laiche del paese. Ma non si vuole tornare alla normalità: lo dimostra chiaramente la decisione del presidente di indire tre mesi di stato di emergenza. L’annuncio era stato dato dallo stesso Erdogan mercoledì sera. Dopo cinque ore di Consiglio di Sicurezza, i vertici turchi sono usciti fuori con la perfetta ricetta alla crisi: concentrare nelle mani del presidente ancora più poteri. Nei fatti il presidente si arroga l’autorità che in una democrazia spettano al primo ministro. Nei tre mesi che seguiranno (sempre che la misura non sia successivamente rinnovata) nuovi poteri finiranno nelle mani del Ministero degli Interni, ergo della polizia: sarà molto più rapido e semplice emettere mandati di arresto e i tempi di detenzione potranno essere allungati. Allo stesso tempo il governo potrà indire coprifuoco nel paese (una realtà concreta ormai da tempo per il sud est kurdo, che ne subisce da un anno), potrà bandire manifestazioni e assemblee con più facilità e soprattutto potrà passare leggi su decreto. Ovvia la reazione delle opposizioni. Non è un caso che il leader del Partito repubblicano del popolo, maggior partito di opposizione, Kemal Kiliçdaroglu, e quello del Partito filocurdo democratico dei popoli, Selahattin Demirtas, abbiano fatto appelli per la riaffermazione dello Stato di diritto e per il rispetto delle istituzioni, come quella parlamentare che tutti insieme hanno difeso nella terribile notte del 15 luglio. Erdogan si sente ancora insicuro. E teme che un ritorno veloce alla normalità possa vanificare il vantaggio politico conseguito nei confronti delle opposizioni. E gioca quindi la carta della sicurezza generale per consolidare il proprio potere. Ma questa è una rischiosissima partita che potrebbe rivolgersi contro di lui. Le opposizioni stanno dimostrando una grande maturità democratica: quella che hanno avuto nei riguardi del tentativo di golpe e quella che ora stanno mostrando dinanzi alla violenza degli ultranazionalisti e degli islamisti nelle piazze. Il Partito repubblicano del popolo ha convocato per sabato 24 luglio a Istanbul, in piazza Taksim, una manifestazione per lo Stato di diritto, per il ritorno alla normalità costituzionale e contro ogni colpo di stato. Ma intanto la paura tra i cittadini turchi si è diffusa. Lo stato di emergenza proclamato ieri è visto come una grave minaccia alla libertà di ogni individuo. Il governo turco ha deciso di sospendere temporaneamente la Convenzione europea dei diritti dell’uomo dopo aver proclamato lo stato di emergenza. A renderlo noto è stato il vice primo ministro Numan Kurtulmus, dichiarando che la mossa è indispensabile per consentire alle autorità di agire rapidamente e in modo più efficace nei confronti di quanti hanno complottato contro lo stato turco. L’emittente televisiva Ntv ha riferito che secondo Kurtulmus lo stato di emergenza potrebbe essere revocato entro un mese o un mese e mezzo. Il vice primo ministro ha inoltre identificato in errori individuali e strutturali in seno all’intelligence le difficoltà nel prevenire e reagire al tentativo di golpe, aggiungendo che è in corso una ristrutturazione delle forze armate. Il ministro della Giustizia Bekir Bozdag ha dichiarato in parlamento che lo stato di emergenza è stato proclamato specificatamente per prevenire un secondo colpo di stato. Bozdag ha anche rassicurato l’opinione pubblica che la Turchia non invocherà la legge marziale, come accadde dopo il colpo di stato militare del 1980 o nei giorni caldi dell’insurrezione kurda degli anni Novanta, che i cittadini comuni potranno proseguire con le loro vite ordinarie, e che le misure adottate non avranno un impatto negativo sull’economia. Ma cos’è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? La Turchia ha firmato la Cedu nel 1950 in quanto uno dei 12 paesi allora membri del Consiglio d’Europa, e l’ha ratificata nel 1954. La Cedu prevede che ciascun cittadino dei paesi aderenti possa rivolgersi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per denunciare le violazioni commesse dai singoli stati. Tuttavia, la Convenzione può essere soggetta a due tipi di limitazioni: le restrizioni e le deroghe. Le restrizioni sono connesse a specifiche fattispecie di reato e hanno carattere continuativo. Per esempio, in Italia l’articolo sul regime di carcere duro per i reati di mafia, il 41 bis, che limita alcune garanzie procedurali e i diritti dei detenuti. Le deroghe hanno invece carattere temporaneo e ricalibrano il delicato equilibrio tra i diritti del singolo e le esigenze della collettività. La Cedu prevede che si possa rinunciare temporaneamente alle sue norme solo in due casi: durante un conflitto o durante un’emergenza pubblica che metta in pericolo l’esistenza stessa della nazione. Ma la Turchia non è l’unica ad aver scelto di agire in deroga alla Cedu. Anche la Francia ha deciso di sospendere la Convenzione dopo gli attentati del 13 novembre 2015. La deroga temporanea alla Cedu implica la sospensione di diritti quali quello a un equo processo, il diritto alla libertà di associazione e quello alla libertà di espressione. Il presidente Recep Tayyip Erdogan tornerà presto a spingere verso una riforma costituzionale con lo scopo di concentrare il potere nelle sue mani. Di certo Erdogan non ha prodotto la lista di quasi tremila giudici poi arrestati durante una sola notte. È probabile che questa epurazione fosse il progetto che stava preparando da tempo e il golpe è stato l’occasione che ha scatenato gli arresti di massa già in programma. Se i turchi chiederanno asilo in Italia, la politica dia prova di maturità di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 22 luglio 2016 La Turchia è uno Stato che confina con importanti focolai, di tensioni e conflitti: ogni scelta sarà influenzata da questa situazione. Non sono però motivi che rendono meno universali i valori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ci potrebbero essere presto per alcune autorità del nostro Paese scelte delicate da compiere, potrebbe risultare complicato conciliare doveri morali e interessi nazionali. L’Italia darebbe o non darebbe asilo politico a turchi che lo chiedessero per sottrarsi all’ondata di repressione ordinata dal presidente Recep Tayyip Erdogan in risposta al fallito colpo di Stato della settimana scorsa? La Turchia è uno Stato che confina con importanti focolai, accesi o potenziali, di tensioni e conflitti: ha 899 chilometri di frontiera con la Siria in guerra civile, 367 con l’Iraq che è un altro Stato insidiato da Daesh, 534 con l’Iran, 273 con la Georgia in guerra con la Russia quasi otto anni fa, 311 con l’Armenia. Altre frontiere le ha con due Paesi dell’Unione europea, 223 chilometri con la Bulgaria e 192 con la Grecia dal precario assetto finanziario, più 17 chilometri con l’Azerbaijan. Basterebbero questi numeri a rendere l’idea del rilievo strategico e della capacità di pressione della repubblica di Erdogan. Se non fossero sufficienti, si sappia che Erdogan ha avuto sull’appoggio all’autoproclamato Stato islamico di Daesh un’ambiguità temeraria. Non sono però motivi che rendono meno universali i valori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Sull’accettazione delle richieste di asilo si eviti un dibattito politico grezzo e scomposto. Chiunque prenderà la parola sappia di maneggiare materiale capace di aiutare o stroncare vite di persone in carne e ossa. La scelta legale è quella in generale prevalsa finora, affidata alle attuali Commissioni territoriali con rappresentanti di ministero dell’Interno, Comuni e agenzia dell’Onu per i rifugiati Unhcr: valutazioni caso per caso, tali tuttavia da non spedire in prigioni (e dai boia, se venisse ripristinata la pena di morte) cittadini turchi invisi al regime e innocenti. La politica italiana dia prova di maturità. Trovi modo di contribuire a salvare esistenze ed equilibri essenziali per la sicurezza collettiva. Turchia: la stretta di Erdogan sui diritti umani di Valerio Sofia Il Dubbio, 22 luglio 2016 La Turchia sospende la Cedu e annuncia tre mesi di stato di emergenza. Nessun tentennamento in Turchia nella stretta seguita al tentato golpe di una settimana fa. Anzi, il governo di Ankara punta al bersaglio grosso: annunciato lo Stato di emergenza di tre mesi (ma che secondo il vicepremier turco Numan Kurtulmus dovrebbe durare al massimo 45 giorni), viene sottolineato che esso comprende "come in Francia" la sospensione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Firmata a Roma nel 1950, riguarda i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa e prevede che ogni cittadino possa rivolgersi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per denunciare le violazioni commesse dai singoli Stati. Essa stessa, però, prevede delle eccezioni, tra cui deroghe ammesse in caso di guerra o di un pericolo pubblico che "minaccia la vita della nazione", caso invocato dalla Francia a novembre per quanto riguarda il diritto a un equo processo e la tutela della libertà d’espressione e di associazione e il rispetto della privacy, e ora dalla Turchia. "Il diritto di riunirsi e di manifestare - ha chiarito Kurtulmus - non verrà cancellato. Non è previsto alcun coprifuoco e non ci sarà alcun passo indietro nel progresso democratico". "Non c’è alcun passo indietro in materia di diritti umani - ha specificato l’altro vicepremier Simsek. I responsabili del tentativo di golpe devono confrontarsi con la piena forza della giustizia. Lo stato d’emergenza non avrà impatto sulla vita dei cittadini. Comporterà la capacità di adottare decreti con forza di legge per epurare lo Stato da elementi malvagi". Intanto però il bilancio delle epurazioni è piuttosto massiccio. Erdogan stesso ha specificato che sono 10.937 le persone arrestate finora in relazione al fallito golpe del 15 luglio. Fra gli arrestati ci sono oltre 6 mila militari, un centinaio di poliziotti, nonché numerosi giudici e procuratori, giornalisti e qualche esponente del mondo dell’Università e della Cultura. Tutti sono accusati di essere collegati alla rete del predicatore Fetullah Gulen, alleato di Erdogan fino al 2013 e ora in esilio negli Stati Uniti da cui la Turchia ha chiesto l’estradizione. Oltre agli arresti continuano le limitazioni e le sospensioni per i dipendenti pubblici, cui sono state ritirate le ferie e che non possono andare all’estero. Il numero delle persone rimosse dal loro incarico sfiora quota 50.000. L’authority per le comunicazioni ha sospeso le trasmissioni di 24 emittenti Tv e radio. Nello stesso ente le autorità hanno sospeso 29 membri impedendo loro di lasciare la sede. Il direttorato per la stampa ha comunicato il ritiro del tesserino per 34 giornalisti. Ieri sono stati arrestati due noti giornalisti-attivisti, di cui uno è stato poi rilasciato. Intanto continuano a rincorrersi le voci e le tensioni internazionali. Secondo alcune fonti, il golpe sarebbe stato anticipato dagli autori e poi nonostante questo fallito perché gli uomini del presidente Erdogan ne avevano saputo l’avvicinarsi. A informarli potrebbe essere stata la Russia, che però ha negato nettamente di aver avuto un ruolo nella vicenda o fornito informazioni. Il presidente turco, nel suo discorso ad al-Jazira, ha affermato di non poter escludere che qualche Paese straniero abbia in qualche modo partecipato al golpe. Non ha fatto ulteriori riferimenti ma si sa che Ankara è ai ferri corti con gli Stati Uniti perché ospitano Gulen. Inoltre Erdogan ha avuto uno scontro verbale indiretto molto forte col presidente egiziano al-Sisi, che ha accusato di un golpe violento e di aver "ucciso migliaia dei suoi cittadini". Erdogan, infatti, era uno stretto alleato di Morsi, il presidente egiziano leader dei Fratelli Musulmani deposto da al-Sisi. Ankara, paura nel campus universitario: "in corso una caccia alle streghe indiscriminata" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 22 luglio 2016 Dopo il fallito golpe viaggio nel più importante Ateneo della capitale nel giorno più grave della persecuzione voluta dal presidente Erdogan contro gli intellettuali. Parla Metin Feyzioglu, docente universitario e presidente dell’Associazione Nazionale degli Avvocati. Visita al campus universitario più importante tra gli otto nella capitale, proprio nel giorno più grave della persecuzione voluta dal presidente Erdogan contro gli intellettuali. "Possiamo parlare soltanto con la promessa del totale anonimato. Non rischiamo più solo il posto e il salario, ma le nostre vite e quelle dei nostri famigliari", sussurrano un paio di universitari incontrati nelle facoltà umanistiche. Temono persino che siano rivelati i loro campi di ricerca. "Voi giornalisti stranieri non potete capire. Siamo precipitati in uno stato di polizia come nei fascismi europei tra le due guerre. I commissariati possono arrestare chiunque, senza i limiti imposti dal sistema giudiziario e dal parlamento. Il nuovo stato d’emergenza ci mette alla mercé degli uomini dei servizi d’informazione. Non ci sono garanzie per nessuno. La nostra unica salvezza sono anonimato e silenzio", dicono. Le università sono semivuote di studenti in questo periodo di vacanze, seguito alla fine della sessione degli esami estivi. In compenso abbondano i professori. Fanno atto di presenza forzata nei loro uffici, ne approfittano per espletare qualche pratica burocratica, si portano avanti con i lavori per l’autunno. C’è come un’atmosfera d’attesa carica d’incognite per il futuro. Corridoi vuoti, le bacheche senza annunci dove normalmente sono segnalati i corsi, aule di lezione silenziose e invece docenti chiusi dietro le porte. "Ero in vacanza a Marmaris, non lontano dall’Hotel dove si trovava Erdogan con la famiglia la sera del golpe una settimana fa. Ho visto il caos, i rombi delle esplosioni, la guerra a poche centinaia di metri da noi. Pensavo, mi illudevo, fosse finita lì, con la notizia che il golpe era fallito, per fortuna. Ma poi è giunto l’ordine della sospensione dal lavoro per la grande maggioranza dei docenti universitari su volere diretto del gabinetto. Non so neppure se riceverò il prossimo stipendio. Ciò significa che sono abolite anche le ferie. Con la mia famiglia allora sono tornata a casa. La facoltà mi chiede di restare a disposizione. Tra poche settimane avrei dovuto recarmi a Bruxelles per un convegno internazionale. Ma per almeno tre mesi a noi docenti turchi è stato vietato di viaggiare all’estero", spiega una professoressa quarantenne. Persecuzione degli intellettuali significa che il governo spara nel mucchio. I portavoce di Erdogan raccontano che i "golpisti" legati al suo ex alleato oggi rivale, Fethullah Gulen, hanno "penetrato" non solo gli apparati militari, ma soprattutto le scuole e il sistema educativo nazionale. Pare però non vi siano liste precise di "colpevoli" o "cattivi maestri". Ogni docente è automaticamente considerato sospetto. E dunque da investigare. "Una pura follia, una caccia alle streghe indiscriminata. È come se Erdogan e il suo gabinetto avessero paura di chiunque pensa con la propria testa", ci dice (questa volta con nome e cognome) Metin Feyzioglu 47enne docente di criminologia alla facoltà di Legge nella capitale e soprattutto presidente dell’Associazione Nazionale degli Avvocati. "Siamo oltre 100.000 divisi in 76 sezioni locali, quella di Ankara dirige tutti", specifica. I numeri parlano da soli: a parte le decine di migliaia di soldati, ufficiali e generali arrestati o sotto inchiesta, il nuovo stato d’emergenza si scaglia contro giornalisti (ad almeno 34 è stato revocato l’accredito stampa), giudici, dipendenti statali e professori. Soprattutto questi ultimi: 15.000 funzionari del ministero dell’Educazione sono sospesi, 21.000 maestri e docenti di ogni ordine e grado hanno il mandato revocato sino a nuovo ordine, 1.577 rettori risultano dimissionati. "Vige l’arbitrarietà. L’esecutivo agisce in modo totalmente autonomo", denuncia Feyzioglu. Una presa di posizione coraggiosa la sua, visto i tempi che corrono. Si dice ben felice che il golpe