La fosca aritmetica della violenza di Luigi Manconi Il Manifesto, 21 luglio 2016 Legge sulla tortura, una brutta pagina scritta dal parlamento. "È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (Costituzione della Repubblica italiana, art. 13, co. 4). E ancora: "Il termine tortura designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona…". "… o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate" (Convenzione Onu contro la tortura, art. 1). Anche questa volta non sono bastate queste due limpide dichiarazioni, della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, a indirizzare il legislatore verso la soluzione di questo autentico misfatto italiano. L’assenza, cioè, del reato di tortura dal nostro ordinamento giuridico. Anzi, a dire il vero, il reato c’è. Manca solo la sanzione: sarebbe bastato replicare le parole della Costituzione o della Convenzione nel codice penale e aggiungervi un minimo e un massimo di pena, e gli odiosi casi di tortura, che pure si manifestano, anche quando non li si voglia chiamare come tali, avrebbero avuto la loro equa punizione. E invece no, in terza lettura, dopo averne già discusso una prima volta in commissione e in assemblea, e una seconda volta in commissione e in assemblea - e dopo che la Camera aveva fatto altrettanto - il Senato ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nella nostra legislazione dal 1988 (data di ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu). Se non dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana). Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando. Intanto, pendono davanti alla Corte europea dei diritti umani le decisioni sui casi di tortura verificatisi nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001 - esattamente 15 anni fa - e nel carcere di Asti nel 2004. E l’Italia sarà nuovamente condannata, come nel caso della Diaz (sempre Genova 2001), non solo per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, ma anche per l’assenza di un "rimedio giurisdizionale interno" (la fattispecie penale di tortura, appunto). Le responsabilità ultime, si sa, sono del ministro dell’Interno che, alla ricerca di un ruolo e di qualche consenso, fa di ogni erba un fascio e confonde la grande maggioranza degli appartenenti alle forze di polizia agli autori di atti di tortura e di violenza su persone loro affidate. Invece di perseguire le responsabilità penali, appunto personali, dei singoli autori di reato, si associano interi corpi dello Stato a pratiche indegne di servitori delle istituzioni. Le responsabilità penultime sono di chi ha accettato un progressivo scivolamento di piani. Sin dall’inizio - e da parte anche di alcuni ultra-sinistri - è stata interdetta la qualificazione del reato come proprio delle forze di polizia o degli incaricati di pubblico servizio. Si argomentava che, estendendone l’applicabilità, avrebbe potuto essere punita anche la tortura tra privati, dei sequestratori o dei depravati, e i pubblici ufficiali avrebbero avuto le loro brave aggravanti. Sì, ma quel primo scivolamento apriva la strada al balletto negazionista. E così siamo finiti a discutere, ancora, di quante volte si possa vessare una persona perché violenze o minacce possano integrare il reato di tortura. E nulla valgono quei mirabili singolari della Costituzione e della Convenzione: "È punita ogni violenza …"; tortura è "qualsiasi atto …". Inevitabile, a questo punto, precipitare nella fosca aritmetica della enumerazione delle crudeltà. Inascoltabili, poi, gli argomenti che associano la sospensione ai fatti di Nizza o al pericolo terroristico: il ministro dell’Interno pensa dunque di fare ricorso a pratiche di tortura per le indagini di terrorismo internazionale? E se accettassimo pure questa scellerata ipotesi sa dirci, il nostro ineffabile ministro, come avrebbe fatto ad applicarla preventivamente all’attentatore di Nizza o all’accoltellatore di Heidingsfeld? Suvvia, perfino da Angelino Alfano si deve pretendere un po’ di serietà. Al contrario, proprio in queste circostanze, va fatta valere la differenza nella concezione del diritto, tra chi usa la violenza e chi no. Va fatta valere contro i nemici della democrazia e dello stato di diritto e a fronte di pratiche di repressione come quelle di cui siamo testimoni ai confini dell’Europa, nell’Egitto di Al-Sisi come nella Turchia di Erdogan. Giochetti di tortura. Non è affatto "umiliante", per uno stato di diritto, introdurre il reato di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 luglio 2016 Perfino un fiero antigarantista come Gian Marco Centinaio, capogruppo della Lega in Senato, potrebbe convenire che l’Italia non è un paese votato al water-boarding, non pratica la tortura sistematica per estorcere informazioni agli islamisti, ha chiuso da decenni le "ville tristi" di salodiana memoria. Quando Centinaio (e con lui i senatori del centrodestra) dichiara che "non ci sarà alcuna umiliazione per le forze dell’ordine che potranno continuare a lavorare con onestà e tranquillità così come hanno fatto finora", dovrebbe sapere di che cosa parla. Esiste una convenzione delle Nazioni Unite contro "la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti" che il nostro paese ha ratificato nel 1988. È una questione di civiltà, non di umiliazione delle forze dell’ordine. Ma l’Italia non si è mai dotata di una legge specifica in materia. Martedì 19 luglio il Senato ha deciso di sospendere, al momento sine die, il ddl che introduce il reato di tortura e che era già stato approvato dalla Camera nel 2015. Poiché l’Italia è uno stato di diritto, formalizzare un reato di questo genere pertiene alla civiltà giuridica. Ma ha anche un altro significato, simbolico e pratico. Significa riconoscere che, in quanto stato di diritto, l’Italia, le sue forze dell’ordine e i suoi pubblici ufficiali non sottopongono in nessun caso e per nessun motivo i propri cittadini a trattamenti "inumani". Né in modo episodico né in modo "reiterato", per usare il termine che il ministro dell’Interno Alfano e Forza Italia hanno chiesto venga introdotto nel testo. È chiaro, e lo sappiamo, che i deputati votarono il ddl lo scorso anno anche sotto la pressione emotiva della condanna da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per i fatti della scuola Diaz di Genova. E che la contrarietà di un parte delle forze dell’ordine e del mondo politico alla legge prende spunto da quelle arcinote polemiche. Ma sappiamo anche che casi di "trattamenti crudeli" avvengono e sono avvenuti, in Italia. E questa è la vera umiliazione per lo stato, non di certo la volontà di vietarlo ai suoi uomini. C’è poi un’aggravante. Il pasticcio di martedì - cui è sperabile si trovi rimedio, anche perché il governo e il Pd si erano fortemente impegnati a varare la legge - nasce da infimi giochi di convenienza politica. Tra i quali l’interesse del ministro dell’Interno Angelino Alfano a non scontentare le forze di polizia, che ha fatto cambiare idea a qualche senatore centrista, mettendo in difficoltà il governo. Non meritiamo la tortura, e nemmeno questi giochetti. La brutta figura dell’Italia in grave ritardo sul reato di tortura di Dacia Maraini Corriere della Sera, 21 luglio 2016 Una Convenzione Ue del 1987 condanna e vieta questo illecito, ma il nostro Paese non l’ha ratificata. Forse c’è chi ancora ritiene che sia un metodo utile a estorcere confessioni? È sconcertante che ancora oggi si debba parlare di tortura in sede istituzionale. È dal 1987 che in Europa è entrata in vigore una Convenzione per prevenire la tortura. La convenzione è stata ratificata da 47 Stati europei. In Italia si è aspettato l’ottobre del 2012 per sottoscriverla, ma ancora nel 2016 non è stata ratificata. Quindi da noi non esiste ancora un reato di tortura. Mi chiedo: si tratta della solita negligenza nostrana, dei soliti ritardi per gineprai burocratici o c’è ancora una parte del Paese, o della classe dirigente del Paese che ritiene la tortura un metodo efficace per estorcere confessioni? A guardare la faccia devastata di Stefano Cucchi morto misteriosamente in mano a polizia e medici, si direbbe di sì. Già Voltaire nel 1769 scriveva: "La tortura è uno strano modo di interrogare gli uomini. Tutto fa supporre che questa parte delle nostra legislazione debba la sua prima origine a qualche brigante di strada. La maggior parte di questi signori hanno ancora l’usanza di schiacciare i pollici, di bruciare i piedi e imporre altri tormenti a chi rifiutava di dire loro dove aveva nascosto il denaro". Giustamente Voltaire mette in luce l’aspetto predatorio della tortura. Beccaria a sua volta ha spiegato bene che la tortura serve solo a fare dire ai torturati quello che vogliono i torturatori. E allora quale sarebbe il suo scopo? Prima di tutto umiliare, degradare, asservire la persona molesta che si vuole controllare e dominare. È per questo che l’Europa (a furia di dire male dell’Europa dimentichiamo alcune buone regole che si è imposta fin dal principio) ha proibito la tortura. La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha già disposto numerose sanzioni all’Italia, per il ritardo della condanna dei reati di tortura. Fra questi ci mette anche il sovraffollamento delle carceri. Sanzioni vuol dire fra l’altro multe salate che continuiamo a pagare mentre piangiamo sulle disperate condizioni delle finanze del nostro Paese. I sistemi di tortura naturalmente sono molto cambiati da quando si infilava un palo nel sedere di un povero condannato e lo si lasciava morire dissanguato in preda ad atroci dolori, oppure lo si bruciava vivo legato a un palo, o gli si apriva il petto con un colpo di coltello per strappargli il cuore peccatore. Oggi si usa la tecnologia, l’elettricità, la chimica. Però, guarda caso, esaminando i corpi dei torturati, si capisce che lo scopo della tortura è sempre lo stesso: non tanto carpire notizie, che comunque saranno falsate dalla paura e dal dolore, ma degradare, abbrutire, umiliare chi si considera nemico. La tortura doveva essere prima di tutto plateale, per scoraggiare chi osasse trasgredire alle leggi dei più potenti. Per fare spettacolo si sbizzarrivano le fantasie più perverse: chiudere un uomo dentro una gabbia assieme con dei topi affamati, togliergli piano piano la pelle in modo che morisse spellato, cavargli gli occhi, tagliargli la lingua ecc. Una forma leggera di tortura, veniva considerata dai greci la marchiatura del nemico catturato. Durante la guerra tra Atene e Samo, Plutarco racconta che i Sami marchiarono i prigionieri ateniesi con il disegno delle panciute navi "samene", in risposta agli Ateniesi che precedentemente avevano marchiato i prigionieri sami con il simbolo della civetta, cara ad Atena. Chissà se i tanti tatuati di oggi si rendono conto che da quella marchiatura del prigioniero deriva l’abitudine di incidere sulla pelle figure e immagini che dovevano ricordare a tutti la colpa del condannato. Sarebbe interessante sentire uno psicologo sull’uso così esteso di marchiare la propria pelle, come fossimo tutti prigionieri in cerca di evasione. Tutto quello che sappiamo della mafia, per esempio, non è mai venuto fuori dalla tortura, ma dai collaboratori che, sia perché in guerra con gruppi più feroci, sia in cambio di un alleggerimento della pena, hanno raccontato la struttura militare interna che nessuno conosceva nei dettagli fino alle intelligenti strategie confessionali di Buscetta. Beccaria aveva ragione nel diffidare razionalmente della tortura. Anche non volendo farne una questione di umanità, gli effetti di solito si ritorcono contro chi la pratica, creando disordine, odio e paura, sentimenti che modificano l’uomo più dei ferri e delle cinghie. L’umiliazione del nemico, la desacralizzazione del suo corpo, non può che degradare la lotta riducendola a pura sopraffazione del più forte. In autunno ci sarà il giudizio del Consiglio dei Diritti Umani all’Onu, cosa vogliamo fare? Ancora una volta la brutta figura di un Paese che non riesce a decidere, non riesce a stare ai livelli delle nazioni più avanzate d’Europa? Salta il voto sulla prescrizione, intesa in bilico di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2016 Dopo estenuanti trattative con un Centrodestra sempre più a pezzi, ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando continuava a ripetere che sulla prescrizione "è stato definito un accordo fra le forze della maggioranza". Tuttavia, la seduta notturna della commissione Giustizia - in cui si sarebbe dovuto votare l’articolo 7 del Ddl sul processo penale - è stata sconvocata all’ultimo momento. Ufficialmente, "per il protrarsi dei lavori d’aula". Più realisticamente per mancanza di un accordo. Se ne riparlerà oggi. Forse. Secondo lo schema di intesa raggiunto nel primo pomeriggio di ieri ("eventualmente da perfezionare in commissione", precisava Orlando), il Pd cede sulla durata della sospensione della prescrizione dopo la condanna di primo grado - che da due anni in appello e un anno in Cassazione passa a 18 mesi in entrambi i casi, con decorrenza non più dal dispositivo ma dal deposito della sentenza o dal termine indicato dal giudice per il deposito -; incassa la marcia indietro di Ncd sulla norma "acceleratoria" - che avrebbe fatto saltare il bonus della sospensione se la sentenza fosse stata depositata oltre i termini; accetta un compromesso sui reati contro la pubblica amministrazione, per i quali la prescrizione non aumenta più della metà rispetto al termine iniziale (articolo 157 Cp) perché quell’aumento scatta soltanto con il rinvio a giudizio (articolo 161 Cp). Così, ad esempio, la corruzione propria (articolo 319), che oggi si prescrive in 12 anni e mezzo, si prescriverebbe in 15 anni, mentre ce ne volevano 18 e tre mesi in base al testo della Camera. Dunque, Ncd spunta una riduzione dei termini. In compenso, però, il Pd ottiene che questo, seppure più limitato, aumento della prescrizione non si applichi solo a tre reati di corruzione (propria, impropria, giudiziaria), come stabiliva il testo della Camera, ma anche ad altri, come l’induzione indebita, la corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, la corruzione internazionale. Nonché alla truffa aggravata (640 bis). La stesa regola varrà anche nei confronti del corruttore. In realtà, i verbi dovrebbero essere usati al condizionale, almeno fino al voto sull’articolo 7. Certo è che la trattativa si è sbloccata soltanto negli ultimi tre giorni, e come primo approdo ha avuto lo slittamento a settembre della calendarizzazione in Aula (già prevista per il 26 luglio) del Ddl sul processo penale. Gli alfaniani hanno ammorbidito le loro apparentemente insuperabili resistenze, accettando di discutere di prescrizione anche senza la "clausola acceleratoria". In casa Pd lo negano, ma non sembra infondata la voce secondo cui sul tavolo della trattativa sia stato messo il ddl sulla tortura. Che dall’Aula è tornato in commissione (come voleva Alfano) nelle stesse ore in cui si sbloccava l’impasse sulla prescrizione. A quel punto, i problemi non sono più stati tra Pd e Ncd ma tra le varie anime del Centrodestra, sempre più frantumato. Peraltro, se anche si arriverà a un voto sulla prescrizione in commissione, non è detto che sia quello "definitivo", che, cioè, il testo venga confermato tale e quale in Aula. Per il Pd, l’importante è dare il segnale politico di uno sblocco del provvedimento, fermo da maggio del 2015 a Palazzo Madama dopo il voto della Camera. In autunno, tutto può ancora succedere. Sulla riforma del processo penale si vuole fare in fretta, non fare bene di Giunta dell’Unione delle Camere Penali camerepenali.it, 21 luglio 2016 Sulle riforme del processo penale vediamo una politica incapace di governare le pulsioni contrastanti che caratterizzano il processo penale, sensibile solo ai progetti che rendono in termini di consenso, un sistema perverso nel quale le riforme del processo penale non sono affatto un "mezzo" per migliorare l’amministrazione della giustizia, ma solo un "fine", un agognato traguardo, una preda di cui vantarsi a prescindere dalla efficacia o meno della riforma. Rassicurare in ordine al fatto che né la legge sulla tortura, né la legge sulla prescrizione subiranno "slittamenti" significa mettere assieme, con una logica che deforma impunemente la realtà, una riforma che l’Italia deve al mondo civile da oltre trent’anni, con una "legge truffa" che renderà i processi ancora più lunghi e la giustizia penale sempre più ingiusta. Due anni fa, più o meno in questo periodo, vedeva la luce il DDL che avrebbe dovuto potenziare le garanzie nel processo penale e ripristinarne l’efficienza. Ci è subito sembrato che le riforme processuali non intensificassero affatto le garanzie difensive, che le modifiche dei riti speciali ne deprimessero la potenzialità deflattiva, che molti interventi sul rito aumentassero i poteri del giudice e sbilanciassero l’equilibrio fra accusa e difesa. Ci è inoltre sembrato rispondente al solito banale populismo penale l’iniquo, indiscriminato innalzamento delle pene per reati selezionati esclusivamente con la sonda dell’immaginario collettivo. Riteniamo che, anche con il nostro contributo critico, molte storture sono state riviste, alcune irrazionalità ridimensionate, alcuni istituti francamente abnormi - come la richiesta di pena a seguito di confessione - messi da parte. Tuttavia, la critica originaria formulata al DDL, quella di non mostrare alcuna idea complessiva del processo penale, della centralità del valore del contraddittorio e della necessità di un suo recupero, non solo non è stata in alcun modo smentita, ma è stata, al contrario, confermata dall’emendamento governativo con il quale si è inteso introdurre una estensione irrazionale del processo a distanza. Come possa, infatti, convivere una simile riforma, contraria ai principi costituzionali e convenzionali, con la dichiarata volontà di rafforzamento delle garanzie del giusto processo, non è dato comprendere. Evidente, piuttosto, il ruolo avuto nella elaborazione di questo emendamento, dalla Commissione governativa presieduta dal dott. Gratteri. Evidente, ancora, il ruolo della magistratura, associata e non, nel parossistico rilievo che la riforma della prescrizione ha assunto nell’ambito delle vicende parlamentari del DDL e nella sua progressiva estremizzazione, come se questa riforma fosse la panacea di ogni male e di ogni disfunzione del processo. Così fino all’emendamento del dott. Casson che immagina la fatidica interruzione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Sarebbe necessario riprendere le fila di quella occasione di riforma mancata, ma vediamo, invece, una politica indebolita dalla assenza di ideologie, dalla mancanza di solide strutture concettuali, del tutto incapace di elaborare autonomi progetti di riforma sostenuti da una solida visione valoriale, ed incapace, in particolare, di governare le pulsioni contrastanti che caratterizzano la costruzione prima, e la vita poi, dei sistemi penali. Vediamo una politica sensibile solo ai progetti a breve termine, che rendano subito in termini di consenso. Un sistema perverso nel quale le riforme del processo penale non sono affatto un "mezzo" per migliorare l’amministrazione della giustizia, ma solo un "fine": un agognato traguardo, una preda di cui vantarsi a prescindere dalla efficacia o meno della riforma. Indifferenti al bene della collettività. Nell’attuale contesto di incertezze, la politica vede dunque le sue scelte inevitabilmente condizionate dall’ondeggiare emotivo dell’opinione pubblica e dall’apparato tecnico della magistratura. Denunciamo da tempo con preoccupazione come questo apparato, inteso in senso esteso, con i suoi antichi e nuovi strumenti (il CSM con i suoi pareri urbi et orbi, i magistrati insediati ovunque negli uffici legislativi dei Ministeri, le Procure con i loro protocolli onnivori, l’ANM con i suoi attacchi alla politica e le sue richieste di adeguamento) condizioni direttamente quei "fini", imponendoli alla politica, sostituendosi alla politica. Leggiamo che ANM, con il plauso del Ministro di Giustizia, avrebbe di recente organizzato più di una dozzina di "commissioni" pronte a sfornare progetti di riforma, suggerimenti ready-made, pronti già ad essere recepiti dal Legislatore. Cova sotto simili pretese, e sotto la favorevole incauta apertura della politica a simili iniziative, una deplorevole e obsoleta idea proprietaria della giustizia, come fosse una cosa che riguardi non la collettività, ma solo la magistratura. Unico organo competente a cucinare le leggi e i suoi condimenti. Ad elaborare le alchimie del processo di cui sola conosce i vizi e le virtù. L’unica che sappia come raddrizzarla e dove condurla. Basta che resti nel suo incontrastato dominio. Vale anche per la prescrizione questo delirio autocratico, risultando evidente come quella ipotizzata sia una prescrizione che consenta ai magistrati di governare i tempi del processo, al di fuori di ogni possibile controllo e di ogni limite ragionevole, dall’iscrizione alla sentenza definitiva, senza lacci e lacciuoli. Vorremmo sapere dal Ministro se davvero intende assecondare questa deriva istituzionale. Ci si sarebbe potuti dedicare con serietà ed impegno al miglioramento del DDL, all’effettivo rafforzamento delle garanzie (al di là del semplice proclama), al potenziamento del contraddittorio ed alla riqualificazione del dibattimento, con la tutela dei principi convenzionali e costituzionali dell’immediatezza e dell’oralità, riqualificare e potenziare la legge delega sulle intercettazioni, alla luce dell’inquietante irruzione dell’utilizzo dei c.d. Trojan, e della giurisprudenza che ne asseconda l’ubiquità) se non si fosse invece inteso cavalcare il flusso del pensiero dominante secondo il quale la prescrizione diveniva l’unica arma palingenetica da coltivare, il fine ultimo di una battaglia culturale falsificatrice, mediaticamente imposta dai vertici di ANM, sebbene molte voci anche in seno alla magistratura avessero colto i rischi evidenti che una simile riforma inocula nel sistema. Ci eravamo illusi che i sobri interventi del Governo sui rapporti fra politica e magistratura e le reiterate, generose e lucide esternazioni del Ministro della Giustizia in ordine alla incidenza della organizzazione degli uffici giudiziari sulla durata dei processi e sulla prescrizione, potessero e dovessero necessariamente imprimere una diversa direzione nei modi di affrontare il problema, aprendo ad una differente modalità di interlocuzione con l’avvocatura, rendendo tutti consapevoli che debba soprattutto investirsi nella riorganizzazione della macchina giudiziaria e non su regole che, aumentando le pene in violazione del principio di proporzione e di sussidiarietà ed allungando la prescrizione, finiscono con l’allungare a dismisura, irrazionalmente ed irragionevolmente, i tempi del processo, e con allontanare la pena eventuale dal fatto, proprio con riferimento a quei reati che la collettività avrebbe diritto a veder accertati nei tempi più brevi. È quel che si sta facendo con i reati di corruzione, che proprio per questi motivi dovrebbero essere oggetto di una rapida definizione processuale, operando un incongruo ulteriore aumento delle pene massime, con il conseguente allungamento del termine di prescrizione. Anche a tali reati si applicherebbe, evidentemente, la sospensione nelle fasi dell’appello e del ricorso per cassazione per un totale di tre anni (diversamente dislocati nelle ipotesi alternative oggetto della discussione: 18 mesi + 18 mesi; 1 anno e 2 anni, ovvero 2 anni ed 1 anno), con un allungamento evidente dei tempi di celebrazione di simili processi. Il contrario di quanto una democrazia moderna dovrebbe fare, per restituire credibilità all’azione della magistratura. Si dimentica spesso, infatti, che non sono solo i tempi della giustizia civile, come ampiamente dimostrato, ma anche i ritardi e le inefficienze del processo penale a disincentivare gli investimenti ed a deprimere l’economia. Ma la demagogia divora evidentemente il buon senso e le statistiche (secondo le quali il 70 % e più dei processi si prescrive nella fase delle indagini preliminari) ed obnubila anche la più chiara evidenza scientifica la quale dimostra che allungare i tempi della prescrizione non fa altro che spostare nel tempo questo fenomeno, aggiungendo danni ulteriori ai danni prodotti da un processo già iniquo e destinato a divenire ancor più inumano e contrario alle più recenti direttive europee (come si prospetta - attraverso la modifica dell’art. 134 bis att. - allorché si tratti indistintamente di imputati detenuti). Trapela una medesima indifferenza ai reali snodi del processo, ed una analoga ansia di fare "in fretta" piuttosto che di "fare bene", anche la superficialità con la quale si sono accantonati i tentativi di inserire, nell’ambito della riforma della prescrizione, strumenti "acceleratori" tali da consentire un recupero del tempo concesso laddove l’appello e il ricorso non venissero celebrati nei più lunghi tempi concessi. Anche simili rifiuti appaiono difatti il segno evidente che non si intende seguire la strada del recupero dell’efficienza ma solo operare un assurdo allungamento del processo, in evidente contrasto con il principio costituzionale della "ragionevole durata". Poiché il Ministro ha dimostrato di avere competenza anche in ordine alle vere cause del disastro, smentisca l’assunto, metta da parte una riforma insensata e riformi il processo come pretende una moderna democrazia, facendo di testa sua e non assecondando i diktat delle dieci, cento, mille commissioni del dott. Davigo. Speriamo solo che su una legge di riforma così controversa, che attiene a punti nevralgici del processo e che rischia pertanto di stravolgerne in maniera definitiva, ed in senso decisamente ed evidentemente incostituzionale, in quanto violativa dell’art. 111 Cost., venga discussa dal Parlamento al fine di consentire, così come dovrebbe sempre essere per le riforme del processo penale, la più ampia valutazione da parte di tutte le forze politiche. Rassicurare in ordine al fatto che né la legge sulla tortura, né la legge sulla prescrizione subiranno "slittamenti" significa mettere assieme, con una logica che deforma impunemente la realtà, una riforma che l’Italia deve al mondo civile da oltre trent’anni, con una "legge truffa" che renderà i processi ancora più lunghi e la giustizia penale sempre più ingiusta. Che ciascuno si affretti a tornare a fare il proprio dovere. Noi sapremo fare il nostro. Intervista a Andrea Orlando: "equo compenso, presto una legge per gli avvocati" di Errico Novi Il Dubbio, 21 luglio 2016 "Serve uno scatto. Sulla prescrizione confido che non ci siano ulteriori ripensamenti, non avrebbe senso". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando si rivolge ai gruppi della maggioranza, e in particolare ad Area popolare, che oggi votano in Senato sulla riforma del processo penale. Lo fa in un’ampia intervista al Dubbio con cui spiega anche quanto sia difficile riformare la giustizia senza una maggioranza omogenea: "Siamo partiti dalle posizioni diametralmente opposte delle due forze principali, Pd e Ncd, eppure molti provvedimenti sono andati a segno". Ma a Orlando non sfugge la necessità di "un Pd che sappia sì resistere alla tentazione dell’autosufficienza, ma che proponga in futuro anche una risposta propria e originale al populismo di destra". E in proposito prende un impegno per "una legge sull’equo compenso per gli avvocati". Una risposta indispensabile "se si vuole rimettere in equilibrio il rapporto tra chi esercita l’attività forense e i grandi committenti, a cui la logica del mercatismo puro dà un potere contrattuale assoluto". Mentre parliamo si vota sulla prescrizione. Materia tecnica diventata incredibilmente delicata dal punto di vista politico. Davvero si può intervenire su questioni del genere con una maggioranza nata da larghe intese? In generale credo che il tema della giustizia sarebbe gestibile con più omogeneità e linearità nel quadro di una maggioranza compiutamente di centrosinistra. Ho sempre ricordato le distanze enormi tra i programmi elettorali del Pd e quelli del centrodestra. Abbiamo dovuto partire da lì. Il che non ci ha impedito di correggere alcune tracce che il centrodestra aveva lasciato in materia di giustizia. A cosa si riferisce in particolare? Al famoso falso in bilancio, all’epoca oggetto di una battaglia durissima tra governo e opposizioni. O all’auto-riciclaggio, che per la destra era sempre stato un tabù, approvato con il ddl sulla criminalità economica. Pensiamo pure alle unioni civili, su cui c’è stata sì una mediazione estenuante ma anche una risposta finale non scontata, se si considera che su questi punti il centrosinistra al governo non era riuscito a tagliare il traguardo. In astratto avere una maggioranza non omogenea non ci ha aiutato, ma questo non ci ha impedito di arrivare a provvedimenti di rilievo. È vero anche che su misure come la responsabilità civile la dialettica con l’Ncd sembra essere stata utile. Finché la dialettica è stata tra forze che avevano una tenuta sono venuti anche dei frutti positivi. È chiaro che nel momento in cui si increspa il quadro politico questo rapporto rischia di sterilizzarsi. Va anche detto che in questi anni è cambiato l’approccio del Pd sui temi della giustizia, e lo si può dire più in generale anche di altre forze del centrosinistra. La rivendicazione dell’autonomia della politica, in quest’ambito, è cresciuta. Ma al di là del voto di domani in commissione, le frizioni nell’Ncd possono paralizzare il governo sulla giustizia in modo irreparabile? Il problema riguarda essenzialmente la giustizia penale. Noi abbiamo in cantiere anche molti provvedimenti che riguardano la giustizia civile, per esempio sul fallimentare, e lì non vedo particolari complicazioni: il lavoro insomma su altri fronti va avanti, ma certo sulla giustizia penale il mancato accordo rischia di compromettere un’azione che ha un’ambizione forte. In quel disegno di legge non c’è solo la modifica della prescrizione né solo le intercettazioni: c’è la revisione dell’impianto del processo penale nel suo insieme. È un’opera di manutenzione straordinaria, che dovrebbe assicurare un sistema processuale molto più rapido. Almeno in commissione i dettagli sembrano definiti, a cominciare dall’entità dell’aumento dei termini per la corruzione. Resta in bilico un eventuale ripensamento sulle sospensioni in caso di perizie o rogatorie. Guardi, io sono andato al confronto con la massima apertura. Arrivati a questo punto era importante chiudere: il rischio era che ogni volta potesse venir fuori una questione nuova. E che si finisse un po’ come la favola di Bertoldo che, dovendo impiccarsi chiese di poter scegliere l’albero, solo che l’albero non si trovava mai e alla fine scelse un filo d’erba... Lo dico anche nell’interesse di un lavoro che è stato comune. Questo non è il mio testo, ma quello uscito dal Consiglio dei ministri, quindi condiviso da tutto il governo, poi approvato dalla Camera e condiviso in larga parte dall’Ncd, con la sola eccezione della prescrizione. Sarebbe un peccato compromettere tutto l’enorme lavoro, frutto anche di commissioni ministeriali in cui si sono impegnati avvocati e magistrati, per un dissenso su una singola questione o per la continua individuazione di problemi. Ormai siamo alla stretta finale, anche se la prova dell’Aula non è mai vinta in partenza, come dimostra la legge sulla tortura. Io ho messo nel conto che la prescrizione non sarebbe stata quella che avrei voluto e auspicato, credo che anche l’Ncd debba mettere nel conto la stessa eventualità. In generale i provvedimenti sulla giustizia sono diventati una specie di test di presentabilità: o scegli una certa strada o arrivano i Cinque Stelle e ti accusano di essere complice dei corrotti. È tempo che la politica si affranchi da questa retorica? È sicuramente importante liberarsene ma credo che in parte lo si sia già fatto. L’abitudine a inseguire questo discorso si è abbastanza ridimensionata. Credo anche per merito del presidente del Consiglio, che ha rivendicato l’autonomia della politica e un diritto a rifiutare quel teorema. Un teorema che non aiuta, soprattutto quando si tratta di contrastare fenomeni che andrebbero affrontati insieme: è il caso della corruzione ma anche della criminalità organizzata. Se io sono in dubbio su un aumento di pena o se mi preoccupano gli effetti di uno strumento che può avere un impatto negativo sulle libertà personali, e per questo immediatamente divento corrotto o mafioso, la conseguenza è semplice: non si riesce mai a costruire un fronte unitario per la lotta a questo tipo di fenomeni. Corruzione e criminalità diventano il pretesto per contendersi qualche voto e non il bersaglio dell’azione politica. Puntare sempre su ciò che manca anziché su quello che si riesce a fare insieme, è un modo per indebolire la lotta a questi fenomeni. A proposito di coesione: alle prossime elezioni vede un Pd ancora alleato con una parte dei moderati o da solo, a vocazione maggioritaria, nel campo del centrosinistra? Naturalmente dipenderà dalla legge elettorale con cui si voterà, dal fatto che l’italicum venga modificato oppure no. Ma in generale sono convinto che il Pd non debba mai indulgere in un atteggiamento di autosufficienza. Mi ha sempre colpito il fatto che la Democrazia cristiana, che aveva vinto le elezioni del 1948 con una maggioranza pressoché assoluta, decise di costruire un rapporto con i partiti laici perché riteneva che per cambiare un Paese fosse necessario il consenso più largo possibile. E attenzione: parliamo di elezioni con un’affluenza del 90%. L’allargamento delle alleanze come condizione per fare riforme strutturali diventa ancora più urgente e drammatico nel momento in cui alle urne ci va poco più della metà degli elettori, come accade oggi. Non si può essere autosufficienti proprio perché chi vince le elezioni rappresenta solo una parte del Paese. Perciò considero la necessità di interloquire con gli altri una ricchezza, non una debolezza. E questo è anche un antidoto all’identificazione di un partito con la macchina dello Stato. Stare da soli e sentirsi il tutto non è mai utile. Ma vede interlocutori a sinistra del Pd con cui costruire una futura maggioranza? Bè, sarei poco onesto a negare che, ad oggi, ci sono distanze enormi, che si sono acuite in poco tempo. Questo non mi fa desistere dall’idea che un rapporto vada ricercato. Serve a livello locale, dove il doppio turno nei comuni richiede un’interlocuzione con quel pezzo di elettorato, ma serve anche perché c’è un’altra parte di elettori che di fronte alle divisioni a sinistra decide di starsene a casa. È un tema su cui dobbiamo essere attenti. Certo, un ostacolo su questo viene da quegli ex che sono passati con la sinistra radicale. È una dinamica ricorrente nella storia della sinistra: gli ex remano sempre contro qualunque forma di dialogo. Come può rispondere la sinistra al populismo di destra su banche, Europa, austerity? A voler essere sintetici direi con l’integrazione e l’uguaglianza. Il che vuol dire che l’integrazione tra i Paesi europei deve avere un contenuto diverso rispetto a quello degli anni scorsi. Si deve rispondere all’impoverimento di una parte della società: senza l’eguaglianza va in crisi il processo dell’integrazione europea. Ma è vero pure che senza questo processo è difficile trovare misure per contrastare gli effetti negativi della globalizzazione. Sarebbe un’Europa completamente diversa. Ma necessaria per replicare al racconto che le destre fanno della globalizzazione. Come spiega Bauman noi abbiamo società inquiete, la globalizzazione ha avuto un prezzo alto per ceti popolari e classe media: la destra sceglie di volta in volta dei bersagli: ora la casta, poi le banche o l’Europa. Non che questi bersagli siano scelti sulla base di un’analisi del tutto infondata, ma sono verità parziali. La sinistra deve avere il coraggio di dire la verità per intero: e cioè che queste diseguaglianze derivano da un meccanismo di produzione e distribuzione della ricchezza che ha avvantaggiato pochissimi e ha svantaggiato grandi masse di produttori e cittadini. Se la globalizzazione ha delle vittime, noi dobbiamo avere il coraggio di individuare i carnefici. Se no è come un giallo in cui non c’è l’assassino. Come si inverte la rotta se non si accorcia la distanza tra istituzioni europee e cittadini? Non lo si fa: è proprio la mancanza di legittimazione democratica che ha consentito all’Unione europea di portare avanti politiche di austerità a prescindere dalla condizione materiale delle persone. Se già ci fosse una federazione di Stati basata su una forma di autentica rappresentanza popolare la svolta sarebbe iniziata già da tempo. A proposito di politiche economiche e di classe media: è in corso un dialogo tra il suo ministero e il Consiglio nazionale forense per una legge sull’equo compenso per gli avvocati. A 10 anni dall’abolizione delle tariffe professionali, questa legge è un obiettivo raggiungibile? Innanzitutto penso che considerare gli avvocati come erogatori di un servizio qualunque sia stato un errore. L’idea che l’unico meccanismo con cui intervenire sia incentivare la competizione tralascia un dato: la competizione si è già sviluppata in modo selvaggio perché una carenza di programmazione ha fatto arrivare il numero degli avvocati a 240mila. Con la conseguenza di una fortissima crisi e di un fenomeno di proletarizzazione della professione forense. E questo rischia di incidere non solo sulla qualità della professione ma addirittura sulla tenuta democratica. A cosa si riferisce? A quell’impoverimento di un pezzo di classe media che rischia di generare posizioni populiste e anti sistema. Perciò ho cercato di sostenere in questi anni una terza via tra una logica mercatista e quella meramente corporativa: la professione si deve innovare, e abbiamo provato a farlo con la legge di riforma dell’ordinamento forense, ma nemmeno si può sottoporre l’avvocatura a delle cure da cavallo. L’impatto della globalizzazione sulla professione e l’aumento del numero di professionisti hanno già avuto effetti sul reddito medio degli avvocati. E come si argina tutto questo? Dobbiamo fare una sorta di politica industriale per guidare questa trasformazione. In parte lo abbiamo fatto con l’introduzione dei parametri, con gli strumenti che riguardano la formazione, con una regolamentazione più rigorosa della deontologia, e anche con le modalità di accesso al ruolo di cassazionisti. Ma adesso, e questo è anche l’impegno che ho assunto all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, dobbiamo provare a dare sollievo a un pezzo di avvocatura che soffre di più. E in questo senso la questione dell’equo compenso credo abbia sicuramente una rilevanza. Ci muoviamo all’indomani della firma di un decreto che consente la compensazione tra debiti tributari e crediti per il patrocinio a spese dello Stato, che consentirà di rimediare ai pagamenti ritardati da parte dei tribunali. Su questo l’Ue potrebbe opporsi per violazione delle direttive sulla libera concorrenza. Non possiamo prescindere dalla legge europea, ma dobbiamo partire da un punto: dall’enorme sperequazione che si è creata tra committente e professionisti nei casi in cui il committente è un grande soggetto economico o finanziario. Mi auguro che l’Antitrust e anche l’Unione europea tengano conto di questo squilibrio che nel tempo si è determinato e che genera un’alterazione del mercato. Il processo civile telematico ha consentito risparmi ma a volte si infrange su intoppi dei sistemi informatici: in che tempi prevede che la situazione sarà stabilizzata? Quest’anno supereremo i principali inconvenienti, cioè i black out periodici e la carenza di assistenza. Abbiamo stanziato 140 milioni di euro oltre ai 70 dello scorso anno, per l’informatizzazione. Quest’anno potremo fruire per la prima volta di fondi comunitari per l’implementazione del sistema, aggiuntivi agli altri 140 milioni. I risultati verranno. Anche se talvolta le manifestazioni di insofferenza sono un po’ eccessive: non è che quando c’erano le cancellerie funzionavano 24 ore su 24. Adesso questa copertura permanente c’è, se si interrompe ogni tanto si può comunque dire che l’accesso al servizio è stato ampliato. C’è allarme nelle sedi giudiziarie a rischio soppressione: prima di procedere avrà un nuovo giro di consultazione con avvocatura e magistratura? Assolutamente sì, non appena otterrò il parere del Csm sul lavoro delle due commissioni costituite per la revisione del Csm stesso e della geografia giudiziaria, avrò un confronto con l’Anm e con il Consiglio nazionale forense per valutare anche le posizioni che emergeranno da parte avvocati e magistrati. A proposito di Csm: il sistema per l’elezione dei togati verrà riformato dal governo in modo da dare spazio anche ai magistrati non legati alle correnti? Questo è l’obiettivo che ci siamo dati. Non appena avrò il parere del Csm, comincerò a lavorare su un articolato che porterò dopo l’estate in Consiglio dei ministri. Il pm della Diaz: "il poliziotto deve agire, ma nel rispetto delle regole" di Marco Vittone Il Manifesto, 21 luglio 2016 I 15 anni del G8. Il sostituto procuratore di Genova Enrico Zucca: se a commettere violenze sono le forze dell’ordine, spesso giudici e accusa cercano improbabili giustificazioni. Presentato in anteprima a Torino "Archiviato", documentario sulle cause intentate agli agenti. L’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. In Italia la tortura non è ancora reato, forse lo diventerà. È un tema ancora tabù e la difficoltà di chiamare alla responsabilità le forze dell’ordine lo dimostra. Negli ultimi quattro anni la procura di Torino avrebbe inquisito quasi mille manifestanti per violenze nelle proteste contro la Torino-Lione, 200 sono state le condanne. I processi ai No Tav hanno avuto una corsia preferenziale e sono stati istruiti da un pool specializzato di magistrati. Altri reati non sono stati perseguiti con la stessa abnegazione. Si tratta delle querele per violenze da parte della polizia nei confronti di manifestanti. Tutte archiviate. Ne parla un documentario che si intitola, appunto, "Archiviato", promosso, tra gli altri, da Antigone, Giuristi democratici e Contro Osservatorio Valsusa. Il film è stato presentato in anteprima a Torino, alla proiezione ha partecipato anche Enrico Zucca, attuale Sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Genova. Zucca è stato il pm che ha seguito i processi scaturiti dai fatti della scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001, quando si trovò di fronte a un muro costruito dalla polizia per impedirgli di identificare le persone appartenenti alle varie forze dell’ordine che, in ipotesi, si erano rese responsabili di abusi. Dottor Zucca, pensa che ci sia una specificità torinese nel condurre indagini relative alle violenze delle forze dell’ordine ai danni di manifestanti No Tav? Non credo, rilevo invece analogie con l’approccio inadeguato e generale della magistratura inquirente rispetto alle violazioni dell’articolo 3 della Cedu. Un atteggiamento di sottovalutazione e riluttanza, non conforme ai canoni della Corte europea che impone agli inquirenti un impegno straordinario nelle indagini e che ammonisce di non accontentarsi delle versioni ufficiali. Il ricorso all’uso della forza è autorizzato se giustificato e proporzionato, però nessuno può dubitare che infierire su una persona ridotta a impotenza sia qualcosa di inaccettabile. Molte immagini del documentario testimoniano purtroppo proprio questo, come al G8. Troppo spesso giudici e pm cercano improbabili giustificazioni, utilizzando criteri di giudizio più benevoli rispetto a quelli ordinari. Quali le radici di questo problema? Mai come in questo periodo la mancata incriminazione dei poliziotti induce nell’opinione pubblica la sensazione della violazione del principio di uguaglianza. Guardiamo gli Stati Uniti. Pochissimi sono i casi in cui i procuratori esercitano l’azione penale. È difficile raggiungere una prova. Per molte ragioni. Non giuridiche. Processare un poliziotto, ovvero colui che è deputato alla nostra sicurezza, da un lato porta a meccanismi di immedesimazione, perché lo fa per noi, dall’altro può mettere in discussione l’integrità del sistema, scatenando un meccanismo di difesa dello stesso. Il poliziotto si aspetta a sua volta protezione dal sistema, scatta quella concezione sottile e pericolosa che lo porta a credere di far bene il proprio lavoro nell’interesse della società assicurando il fine a qualunque costo: si tratta della cosiddetta "corruzione per la nobile causa". Non si accetta che il poliziotto deve sì combattere il crimine, ma rispettando le regole. Esiste una specificità italiana? Nella contingenza politica attuale v’è una esasperata logica dello schieramento, pro o contro la polizia, nonostante la Diaz, Bolzaneto o le sentenze di Strasburgo. Occorrerebbe riflettere che, anche qui, più che altrove, si afferma la tendenza a mandare le forze dell’ordine a risolvere conflitti o situazioni che non possono essere risolti con l’autorità della forza, ma con l’autorevolezza. Invece di chiedersi cosa ha fatto la polizia, bisognerebbe domandarsi chi l’ha mandata lì? Perché la tensione è cresciuta invece che essere raffreddata. È un problema politico. Certo, può arrivare il momento in cui è necessario l’uso della forza, ma allora la polizia deve usare il potere che ha secondo le regole del diritto, che sono quelle della proporzionalità. Spesso vengono assegnate le indagini allo stesso corpo che ha membri sotto inchiesta. Perché? È una violazione delle indicazioni della Corte Edu. Così l’indagine non può essere indipendente, neppure se c’è il pubblico ministero a dirigerla. È ciò che ha già detto la Corte proprio all’Italia. Penso sia giunto il momento di interrogarsi seriamente e riconoscere un problema di conflitto d’interessi. Dovremmo creare gruppi specializzati che abbiano più distacco e quindi più indipendenza concreta. Non consentire che gli stessi pm indaghino contemporaneamente su manifestanti e poliziotti. E non si può concludere un’indagine per non essere riusciti a identificare gli agenti di un reparto, non si tratta di bande paramilitari. La sentenza Cestaro è molto dura su quest’aspetto, non ci possono essere ignoti tra le forze di polizia. La magistratura dovrebbe dare segnali di fermezza, non di rassegnazione compiacente, così da rendere effettivo il principio di legalità. Una giustizia giusta, fino a prova contraria di Francesco Straface Il Dubbio, 21 luglio 2016 Presentato il movimento fondato da Annalisa Chirico. Fino a prova contraria. Un principio giuridico, un auspicio, che dà il nome al nuovo movimento presieduto dalla giornalista Annalisa Chirico: "Siamo stanchi di una giustizia ostaggio delle schermaglie politiche, che pregiudica anche la qualità della democrazia". Alla presentazione in Piazza Colonna la testimonianza più forte è stata quella di Fausta Bonino, l’infermeria di Piombino vittima di un processo mediatico che l’ha trasformata in mostro. Dopo 21 giorni in carcere con l’accusa, tremenda, di aver ucciso 13 pazienti in corsia, è stata scarcerata dal Tribunale del Riesame di Firenze, che ha sconfessato l’indagine della procura di Livorno: "Sono qui perché spero che cambi qualcosa. Sono stata sbattuta in galera con grande clamore. Non lo auguro a nessuno, la mia vita è cambiata per sempre. Sono giunta peraltro all’amara constazione che se non si hanno soldi o supporto non se ne esce fuori, perché non avrei potuto consultare i periti che sono stati fondamentali". Eloquenti i dati raccolti dai promotori del movimento: in Italia ci vogliono in media 600 giorni per arrivare al giudizio di primo grado nelle cause civili. Soltanto Malta fa peggio di noi; in Francia ne bastano 300, in Germania 200. A Foggia, Salerno e Latina il 40% dei processi si protrae da oltre tre anni. In video-collegamento il presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone, che ha rimarcato quanto questa lentezza incida in termini di competitività. L’Italia infatti è soltanto l’ottavo paese dell’Unione Europea per investimenti provenienti dagli Usa, mentre logica vorrebbe che fosse almeno sul podio: "Le classifiche internazionali vengono utilizzate per scegliere se portare o meno i capitali in alcuni paesi. Gli imprenditori vogliono certezze sulla durata delle controversie e prevederne gli esiti". Il giudice costituzionale Giuliano Amato ha indicato dei possibili correttivi: "Ero ragazzo quando ho sentito parlare per la prima volta di riforma della giustizia. Bisognerebbe rafforzare i filtri che in campo penale precedono l’intervento dell’inquirente e del giudicante. Qualunque illecito amministrativo diventa automaticamente penale, anche perché i pm italiani hanno la capacità di individuare potenziali irregolarità e fattispecie di reato che altrove non esistono. Negli uffici arrivi di tutto, senza prima essere setacciato". L’ex presidente del consiglio indica negli Usa l’esempio da seguire: "Siamo molto più lenti di loro, che hanno soltanto due gradi di giudizio invece di tre. Puntano a chiudere in fretta le controversie, mentre noi inseguiamo per anni la chimera della verità assoluta. Spesso l’appello è più lungo del primo grado: un’inciviltà difficile da comprendere e accettare". Dall’ex ministro è arrivato anche un riferimento, forte, all’attualità: "Il caso Cucchi urla vendetta, quelle immagini fanno male. Evidentemente all’interno di alcune categorie c’è ancora oggi dell’omertà". Il confronto con il modello statunitense è stato approfondito grazie all’intervento dell’ambasciatore americano a Roma, John R. Phillips: "Gli investitori spesso non sbarcano in Italia per via di un sistema legale ritenuto inaffidabile. Negli Usa e in molti altri paesi europei i procedimenti viaggiano molto più spediti. Da noi è stata determinante la quantificazione di un limite alla produzione degli incartamenti da parte degli avvocati, che può essere derogato soltanto in casi eccezionali. Anche la digitalizzazione ha rappresentato un evidente passo avanti rispetto al cartaceo". Smaltimento degli arretrati e esaustività delle pronunce di primo grado gli altri capisaldi di un modello al quale l’Italia è chiamata a ispirarsi: "Negli Usa ci sono metodi alternativi per risolvere le dispute. Le parti raggiungono un compromesso in tempi brevi e addirittura il 90% dei casi viene archiviato senza processo. Rispetto all’Italia si arriva al grado successivo di giudizio soltanto quando possono essere contestate questioni di diritto e non di fatto. Mediamente la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi soltanto 80 volte l’anno". Non è mancato un riferimento all’indagine della Procura di Trani, che denunciò possibili interessi speculativi da parte di una nota agenzia di rating: "Alcuni dirigenti di Standard & Poor’s sono stati accusati dopo avere declassato i conti italiani. La criminalizzazione dei comportamenti negligenti ha rappresentato un grande deterrente per imprenditori e amministratori delegati. Ecco perché si allontanano: in Italia i rischi sono troppo alti". Per l’ex ministro della Giustizia Paola Severino l’Italia deve compiere tanti progressi anche dal punto di vista culturale: "La corruzione emerge a tanti livelli. Ancora oggi chi paga le tangenti viene considerato più furbo degli altri, mentre sta commettendo un grave delitto. A Hong Kong hanno insegnato ai bambini dell’asilo che corrompere è reato e hanno sgominato il fenomeno. Da bambina mia madre mi fece restituire una mela e mi disse che si vergognava di me, che l’avevo rubata. Tante famiglie dovrebbero imitarla. La prevenzione e l’applicazione delle regole vengono prima della repressione". Il presidente dell’Unione delle camere penali Beniamino Migliucci condivide i principi ispiratori di Fino a prova contraria: "Bisogna recuperare alcuni valori del processo liberale democratico: la presunzione d’innocenza, la separazione delle carriere e il ragionevole dubbio. Troppo spesso si dà importanza ai risultati delle indagini o alle sentenze di primo grado. Il giustizialismo invece non è proficuo. L’opinione pubblica è influenzata molto dai media e va formata in modo differente. È come con le malattie: quando riguardano gli altri non ci si rende conto di cosa rappresentino né come vadano affrontate". Un punto ribadito da Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale all’università di Palermo: "Parte del sistema mediatico è molto appiattita sull’attività giudiziaria. Alcuni giornalisti hanno un rapporto privilegiato con i magistrati e quindi non possono essere sufficientemente critici. Prese di posizione oggettivamente discutibili non vengono approfondite sul serio, con un approccio intellettuale autonomo". Vi sono comunque esempi virtuosi. I 22 tribunali delle imprese hanno risolto il 70% dei casi a loro sottoposti in meno di un anno. "Rappresentano un’esperienza felicissima e hanno accorciato moltissimo i tempi del diritto civile. Andrebbero estesi all’ambito penale", ha aggiunto la Severino. Torino, grazie all’impegno del magistrato Mario Barbuto, ha smaltito il 26% di arretrati, imponendosi come modello di organizzazione: "Prima della legge Pinto alcuni processi si erano dilungati per 15 o addirittura 30 anni e avevamo subito ben quindici condanne della Corte Europea. La vergogna mi ha imposto un differente programma di gestione, improntato su una statistica comparata di 24 parametri. L’Osservatorio ci ha consentito di studiare le performances di 140 tribunali italiani e non sono mancate le sorprese". Smentiti tanti luoghi comuni: "Non è vero che la giustizia è in crisi dappertutto. 28 uffici giudiziari superano le medie europee. Il pieno organico non è sinonimo di maggiore efficienza e neppure gli indici di litigiosità o criminalità incidono in modo determinante. Non vi è una questione meridionale: Marsala è il secondo tribunale in Italia per velocità dei processi. E i carichi esigibili non sono affatto una soluzione. D’altronde è come se gli ospedali esponessero un cartello per annunciare che i medici cureranno soltanto i primi 150 pazienti e che tutti gli altri dovranno arrangiarsi". Più giudici per tribunali e procure di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2016 Venezia, Bologna e Brescia. È in questi distretti che il ministero della Giustizia ha deciso di concentrare il maggiore rafforzamento degli organici della magistratura, sia giudicante sia requirente. Al Csm il ministro Andrea Orlando ha inviato da poche ore il "Progetto per la rideterminazione delle piante organiche del personale di magistratura negli uffici giudiziari di primo grado". Un progetto messo a punto nel tentativo di restituire efficienza al sistema giudiziario anche attraverso un nuova taratura degli organici successiva alla riforma della geografia giudiziaria. In via Arenula si tiene a sottolineare che la messa punto si inserisce in una serie di interventi con misure di carattere normativo (degiurisdizionalizzazione e avvio di forme alternative di risoluzione delle controversie, per il potenziamento delle quali a breve la commissione Alpa presenterà un pacchetto di proposte) e di natura organizzativa (varo dell’ufficio del processo, potenziamento del processo civile telematico, aumento del personale di cancelleria). Il tutto mentre potrebbe essere vicino alla presentazione in Consiglio dei ministri un decreto legge con un pacchetto di misure per affrontare l’emergenza della Cassazione e accelerare i tempi di definizione delle cause di competenza del giudice unico. A fare da bussola nell’intervento di Orlando ci sono poi alcune direttrici delle politiche giudiziarie: da una parte la necessità di dare una risposta adeguata alle richieste di giustizia che arrivano dalle aree territoriali nelle quali è concentrato il maggiore tessuto produttivo del Paese, provando a fare diventare la leva giudiziaria uno strumento di sostegno e non di freno alla crescita, dall’altra l’obbligo di mettere in campo un periodo più robusto dell’amministrazione della giustizia in quei territori dove più preoccupante è la presenza di forme di criminalità organizzata. Sul piano quantitativo, i principali indici di orientamento sono così rappresentati dalla domanda di giustizia e dalla dimensione delle sedi. Sul primo punto, determinante è stata la misurazione dei flussi di affari civili e penali dell’ultimo biennio: l’elemento delle sopravvenienze, a scapito del classico rapporto tra popolazione e magistrati, è stato determinante, accompagnato dall’incrocio con la dimensione dell’ufficio elaborata sulla base di uno studio del Csm, da piccolo a metropolitano, con tre passaggi intermedi. La domanda di giustizia è stata poi analizzata secondo alcuni indicatori di qualità che vanno dal numero di imprese presenti sul territorio alla loro concentrazione per circondario, passando per l’incidenza della criminalità organizzata e la consistenza dei cosiddetti city user e cioè i fruitori potenziali del servizio giustizia, non residenti sul territorio, ma tuttavia presenti per tutto l’anno o solo per alcuni periodi. Al tirare delle some così, il maggiore rafforzamento della pianta organica delle toghe vede in testa il distretto di Venezia che potrà contare su 29 giudici e 9 pubblici ministeri, seguito a ruota da quello di Bologna, con 22 giudici 6 pm in aggiunta e Brescia con 18 giudici e 7 rappresentanti della pubblica accusa. La tossicodipendenza è uno stile di vita: non si può applicare la continuazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 20 luglio 2016 n. 31243. Al tossicodipendente non può essere inflitta la continuazione perché la reiterazione degli illeciti è finalizzata all’unico scopo di procurarsi gli stupefacenti. Si tratta - spiega la Cassazione con la sentenza n. 31243/2016 - di un vero e proprio status o come meglio viene precisato di un vero e proprio stile di vita. La vicenda - Alla base della vicenda quattro sentenze di condanna nei confronti di tossicodipendente pronunciate dal Tribunale di Trani per condotte delittuose in violazione delle prescrizioni imposte con la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno. La Corte ha precisato come, invece, la continuazione presuppone l’anticipata e unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti nella mente del reo nella loro specificità, almeno a grandi linee, situazione ben diversa, invece, da una mera inclinazione a reiterare nel tempo violazioni della stessa specie, anche se dovuta a una determinata scelta di vita o a un programma generico di attività delittuosa da sviluppare nel tempo secondo contingenti opportunità. Sulla questione si legge nella sentenza è stato evidente l’errore commesso dal giudice dell’esecuzione. Quest’ultimo, infatti, in relazione allo status di tossicodipendente ha ignorato la rilevanza a esso data dal legislatore con specifico intervento legislativo evidentemente volto ad attenuare le conseguenze della condotta sanzionata nel caso di tossicodipendenti (si vedano le modifiche dell’articolo 671, comma 1, del cpp introdotte dalla legge n. 49/2006). Al riguardo ha avuto modo di statuire la Corte che la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza non è condizione necessaria o sufficiente ai fini del riconoscimento della continuazione, tenendo conto che il riscontro dello stato di tossicodipendenza non può essere contrastato sul piano logico, ai fini della decisione per cui è causa, con il richiamo allo stile di vita del condannato ("quello del tossicodipendente è infatti uno stile di vita anche per esplicita statuizione legislativa integra dato positivamente valutabile ai fini in discussione"). Il principio di diritto - L’ordinanza impugnata deve essere annullata per nuovo esame che tenga presente il principio di diritto secondo cui: "I principi che regolano l’istituto della continuazione, con particolare riguardo a quello secondo il quale l’unicità del disegno criminoso, in quanto postulante l’attuazione di un programma preventivamente ideato e voluto, non può confondersi con la semplice estrinsecazione di un genere di vita incline al reato, non possono trovare applicazione anche ai soggetti per i quali è stato riconosciuto e provato lo status di tossicodipendente, dovendosi tener conto della volontà del legislatore espressa con la novella di cui al Dl 30 dicembre 2005 n. 272 convertito dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 e della considerazione che quella del tossicodipendente che delinque per procurarsi stupefacente è esso stesso uno stile di vita". Confisca per equivalente con limiti di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2016 Cassazione - Sezione terza penale- Sentenza 20 luglio 2016 n. 30995. La Corte di cassazione frena nuovamente sulla confisca per equivalente nel caso in cui il prezzo o il profitto del reato sia costituito da denaro. In queste ipotesi, il vincolo sul conto corrente della persona fisica - o giuridica se questa è il soggetto nel cui interesse è commesso l’illecito - deve essere qualificato come confisca diretta e applicato nei limiti del beneficio contestato dall’accusa. La Terza penale - sentenza 30995/16, depositata ieri - ha annullato senza rinvio un’ordinanza del Tribunale di Teramo che aveva respinto, dichiarandolo inammissibile, l’appello di un indagato per omessi versamenti Iva (articolo 10-ter del decreto legislativo 74/2000). L’imprenditore si era visto congelare dal Gip immobili nella sua disponibilità per un importo "non superiore" alla contestata evasione (341mila euro), vale a dire mediante una confisca per equivalente. Impugnato dalla difesa, il provvedimento è stato annullato dalla Terza in quanto non allineato alla giurisprudenza delle Sezioni unite più recente (31617/15). Secondo i giudici di merito, il sequestro per equivalente si giustificava con l’impossibilità di recuperare il risparmio di spesa, poiché la difesa non aveva dimostrato l’esistenza di disponibilità finanziarie e/o di beni derivanti dall’utilizzo delle somme non versate all’erario. Inoltre, la richiesta di rateizzazione del debito contributivo avrebbe fatto propendere, sempre secondo questa analisi, per una mancanza di liquidità e quindi per il dissolvimento del "risparmio" fiscale ottenuto. In sostanza l’ordinanza impugnata scaricava sui difensori la responsabilità "investigativa" e l’onere della prova, onere che invece, secondo la Cassazione, incombe sulla procura all’esito di una valutazione sul patrimonio dell’ente che aveva "beneficiato" del reato. Non solo. La Terza richiama una serie di precedenti (39177/14 e 41073/15, fino alle Sezioni Unite 31617/15) che, in caso il profitto consista in denaro o in altre cose fungibili. prescrivono che la confisca delle somme o del tantum "sia sempre in forma specifica sul profitto diretto e mai per equivalente". E anche in tema di prezzo o profitto cosiddetto "accrescitivo", la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario di cui il soggetto abbia la disponibilità "deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra le somme materialmente oggetto dell’ablazione e il reato". Sappe: superata quota 54mila detenuti, la Polizia penitenziaria necessita di nuovi agenti grnet.it, 21 luglio 2016 Sale a quota 54.002 il numero dei detenuti presenti oggi nelle carceri italiane. Ne dà notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Sono pressoché esauriti gli effetti delle leggi svuota carceri e gli istituti di pena ritornano ad essere significativamente affollati, a tutto discapito del lavoro delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale Sappe. "54.002 detenuti rispetto ad una capienza regolamentare di poco superiore ai 44mila posti letto effettivamente disponibili è un segnale preoccupante, che va a incidere pesantemente sul lavoro dei Baschi Azzurri. Le regioni più affollate sono Lombardia (8.016), Campania (6.887), Lazio (5.904) e Sicilia (5.885). Ma tutte, proprio tutte, le carceri sono affollate oltre la capienza ordinaria". Per il Sappe "poco è cambiata" la situazione penitenziaria del Paese: "Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Solamente in questi ultimi dieci giorni si sono infatti contati Agenti di Polizia Penitenziaria aggrediti in varie carceri, tra le quali Saluzzo, Nisida, Matera, Agrigento, Monza, Potenza", aggiunge il leader nazionale dei Baschi Azzurri. Che sollecita un intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando su un fatto specifico: "Nonostante la Polizia Penitenziaria è carente in organico di 8.000 Agenti, la Legge di stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di almeno 800 nuovi Agenti, a partire dall’assunzione degli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a frequentare i corsi di formazione. Credo che sia assolutamente necessario che, almeno su questo, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando assicuri queste nuove assunzioni assolutamente indispensabili anche per il contrasto della criminalità e del radicalismo integralista nelle carceri". Sicilia: il Cosp "nelle carceri gravi criticità, manca il personale" messinaora.it, 21 luglio 2016 Il Cosp (Coordinamento sindacale penitenziario) apre la propria associazione sindacale a Niscemi per le esigenze del territorio e degli uomini in divisa. Un sindacato che ribadisce le "gravi criticità dovute alla mancanza di circa 350 uomini e 50 donne corpo Polizia penitenziaria nelle numerose prigioni siciliane". "Ancor più critica la situazione sui turni di servizio, sulle ore eccedenti a quelle ordinarie di 6 ore richieste e prestate allo stato oltre le 8 ore o, le 12 ore di servizio riservate ai nuclei e piantonamenti e traduzione, lavoro straordinario e buono pasto di cui il personale operante attende ancora il pagamento". Le dodici strutture Penitenziarie visitate dal Cosp tra il Catanese, Caltanissetta, Messina etc. presentano, quasi tutte, gravi crepe negli organici della Polizia Penitenziaria maschile e femminile, una vistosa vacanza numerica che in alcune sedi supera il 30% rispetto alle postazioni interne detentive e il carico eccessivo di lavoro che a questi Uomini e Donne l’Amministrazione ben cosciente della crisi continuerebbe a disporre. Tra l’altro, ad aggravare la situazione con ridotti spazi detentivi degli oltre 3800 detenuti stipati nelle Carceri della Sicilia, sarebbero le condizioni logistiche e strutturali, gli ambienti insalubri, la promiscuità, il fumo nocivo mai adeguatamente affrontato, le discutibili condizioni igienico sanitarie e il caldo che proprio in questi giorni che il leader Nazionale Domenico Mastrulli del Cosp e la Sua delegazione Regionale, Provinciale e Territoriale ha effettuato, superava anche i 45 gradi. "Una battaglia di civiltà sul benessere del personale finalizzata a un miglioramento della vita degli Uomini in divisa per le pessime condizioni di igiene, salubrità e sicurezza attualmente vigente nei penitenziari Siciliani". Così il Sindacato Cosp prova a lottare in tutte quelle realtà dove il benessere del personale è ancor di più e, ancor peggio evidente quale la sede di Gela - Catania Piazza Lanza - Giarre ma anche in quelle sedi dove il Bar Sala Spaccio e Sala Convegno verrebbero aperte a "dosaggio" giornaliero come Messina e non con una continuità oraria aderente ai turni di servizio che i Poliziotti Siciliani nonostante le altissime temperature oltre i 42/45 gradi, che i rappresentanti dello Stato sopportano sulla cinta muraria, sui mezzi del Corpo di vigilanza e nei settori detentive. Il Sindacato ha inoltre ascoltato direttamente, fuori dal servizio, la Polizia Penitenziaria sul sistema celle aperte, Vigilanza Dinamica e sulla forse troppo e tanta libertà negli ultimi mesi offerti dal Vertice Penitenziario nazionale ai reclusi che in Italia supera la soglia di 54.000 contro le 44.000 posti letto, mentre in Sicilia superano i 3.800 contro una capienza di circa 3000 posti letto. "Si ha necessità di una dirigenza penitenziaria che rafforzi l’attuale stato delle Relazioni Sindacali che sembrano andare a senso unico quale lo spostamento di personale dalle Carceri alla Scuola di Catania senza alcun interpello regionale e privo di trasparenti criteri, si avverte la necessità di una maggiore incidenza sui trasferimenti dalle graduatorie nazionali, e non uno spostamento schizofrenico di uomini e mezzi da un Istituto all’altro penalizzando le dotazioni organiche delle sedi cedenti a quelle riceventi. Cosp - Proprio per far fronte alle tante criticità e necessità che gli operatori della Sicurezza del Mondo penitenziario hanno bisogno, ha aperto una Specifica Sezione Associazione Cosp nella città di Niscemi seguita dal segretario provinciale già Poliziotto Penitenziario Saro La Porta, con l’ausilio di Luigi Barbera, messinese in forza ad Arghillà di Reggio Calabria, Segretario Regionale Poliziotto Penitenziario, al fine di meglio individuare sul posto, le esigenze del popolo delle divise direttamente nel territorio siciliano. Infine, inaccettabile appare dover assistere alla disgregante movimentazione dei dirigenti penitenziari che amministrino ancora oggi contemporaneamente più sedi Penitenziarie mentre nei Prap e Dap il numero dei dirigenti e dei Funzionari sembrano andare ben oltre le dotazioni necessarie, come dire: "si da ossigeno a chi respira e si toglie il respiro a chi boccheggia" siamo di fronte alla solita politica di "Palazzo" non condivisa dal nuovo e moderno Sindacato". Lazio: Fp-Cgil; oltre 400 agenti destinati a mansioni amministrative, carceri sguarnite jobsnews.it, 21 luglio 2016 Quello che tutti i giorni viene sopportato dagli agenti di Polizia Penitenziaria del Lazio è al di là di ogni immaginazione: turni di 16/18 ore di lavoro ininterrotto, impossibilità di programmare la propria vita in quanto spesso richiamati in servizio per mancanza di personale, vigilanza a vista dei detenuti, posti di lavoro fatiscenti e lontani dagli standard previsti dalla legge per la sicurezza dei lavoratori, mancati controlli sanitari sull’idoneità fisica come previsto dalle norme, da ultimo in questo periodo, impossibilità di organizzare un qualsiasi piano ferie che sia degno di questo nome salvo che il personale rimanente non si attivi attraverso doppi e tripli turni di lavoro. Tutto questo accanto alla mancanza del rinnovo del contratto di lavoro ormai fermo dal 2009. L’ordinaria follia che tutti i giorni si verifica negli istituti di pena del Lazio è ulteriormente acuita dalla mancata presenza di 428 agenti che svolgono la loro attività presso il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. Se la pianta organica prevede poco più di 4.100 agenti, alla già pesante carenza che fa registrare un totale di 3.100 unità si aggiunge quindi la beffa di oltre 400 colleghi sottratti agli istituti. Il saldo è misero: meno 1.500 poliziotte e poliziotti. Tutto ciò è intollerabile: da una parte agenti che con strenuo senso del dovere fanno di tutto per tenere in piedi un sistema al collasso, dall’altra un’amministrazione molto sensibile a parole, poco nei fatti. Il numero degli agenti negli istituti deve essere quello previsto dagli organici. Non è più tollerabile un sistema che chiede a pochi di fare il lavoro di molti. Serve un’inversione di rotta che consenta agli agenti di Polizia Penitenziaria di svolgere il proprio lavoro, oltre che con dedizione, anche con maggiore serenità. Novara: i detenuti puliscono via Leonardo da Vinci novaratoday.it, 21 luglio 2016 I marciapiedi erano invasi dalla vegetazione. I detenuti, coordinati da Assa, hanno provveduto alla pulizia e alla rimozione delle erbacce anche da via Visconti. Pulizia straordinaria in Via Leonardo Da Vinci oggi, mercoledì 20 luglio. L’intervento, coordinato e supportato operativamente e logisticamente da Assa, è stato effettuato con l’impiego dei detenuti volontari della Casa Circondariale di Via Sforzesca usciti in permesso premio, accompagnati dagli agenti della Polizia Penitenziaria, per lo svolgimento della "Giornata di recupero del patrimonio ambientale" nell’ambito del Protocollo sottoscritto da Comune di Novara, Magistrato di sorveglianza, Casa Circondariale, Uepe Ufficio esecuzioni penali esterne, Atc e Assa. I detenuti, coadiuvati dal personale Assa, hanno pulito dai rifiuti e dalle erbacce la Via Leonardo Da Vinci e anche la Via Visconti, dove hanno pulito i marciapiedi dalla vegetazione che li infestava limitando il passaggio pedonale e hanno raccolto rifiuti ed erbacce anche lungo tutto il perimetrale dell’area industriale dismessa, la ex Olcese, pulendo tutta l’area antistante. Napoli: negli scavi di Ercolano, dove i detenuti cucinano per gli agenti penitenziari di Maurizio Capozzo Il Mattino, 21 luglio 2016 Musica, cucina (con dietro i fornelli i detenuti venuti persino da Milano) e archeologia, abbinamenti vincenti per celebrare il tradizionale appuntamento col concerto annuale della banda musicale della polizia penitenziaria. Il ministero della Giustizia ha scelto la suggestiva cornice delle rovine dell’antica Herculaneum per l’evento estivo organizzato dalla Scuola allievi di Portici che ospita appunto la banda nazionale del corpo. Soprintendenza e ministero dei Beni culturali hanno aperto ieri sera le porte degli Scavi per ospitare la serata dedicata al "Creator Vesevo" e, per l’occasione, hanno riservato a tutti gli ospiti una spettacolare sorpresa. Dopo il concerto, infatti, la Società Campana Beni Culturali ha presentato in anteprima "La notte di Plinio", un suggestivo viaggio nella città antica per rivivere l’ultima drammatica notte di Herculaneum, fino alla spaventosa eruzione che seppellì completamente la città. Una ricostruzione curata nei minimi dettagli, con giochi di luci e suoni che hanno trasportato i viaggiatori moderni indietro nel tempo. Ma le sorprese riservate dalla padrona di casa, la direttrice della "Scuola di Formazione ed Aggiornamento del personale della Polizia Penitenziaria", Donatella Rotundo, non sono finite qui. Dopo la musica ed il viaggio nella storia, infatti, la cucina ha avuto il suo momento di gloria con le pietanze preparate da una serie di chef d’eccezione: detenuti ed ex detenuti riuniti nella cooperativa che ha portato ad Ercolano, grazie all’autorizzazione del magistrato di sorveglianza di Milano, detenuti del carcere di Bollate in permesso speciale per la serata. Tra gli assaggi offerti agli ospiti maccheroncini in salsa agrodolce, luccio al forno con gnocco fritto, speck d’oca con crostini e pan brioche. Il tutto innaffiato dai vini del Consorzio Tutela Vini del Vesuvio ed accompagnato, in chiusura dai dolci della pasticceria la "Conchiglia" di Mario Guida, noto per le sfogliatelle che accompagnano le tavole di Papa Francesco. Partner della serata l’Unicef che ha finanziato il progetto della cooperativa di detenuti. A spasso tra gli Scavi e le degustazioni c’ erano il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, il capo Dap, Santi Consolo, i vertici degli uffici giudiziari del distretto, da Elisabetta Garzo a Paolo Mancuso e poi, ancora il senatore Vincenzo Cuomo, il generale di corpo d’armata Luigi De Leverano, i sindaci di Ercolano e di San Giorgio a Cremano Ciro Buonajuto e Giorgio Zinno. Protagonista indiscussa della serata è stata, comunque, la banda musicale della polizia penitenziaria. Sessanta gli elementi che compongono la banda, diretta per la serata agli Scavi dal Vice Commissario Filippo Cangiamila, tutti appartenenti alla Polizia Penitenziaria e rigorosamente diplomati presso i conservatori di musica italiani. Tempio Pausania: due laureati in Giurisprudenza tra i detenuti del carcere di Nuchis cagliaripad.it, 21 luglio 2016 Si tratta del coronamento di un percorso formativo quinquennale, impegnativo sia per lo studente sia per i docenti, che si è svolto completamente all’interno della struttura carceraria con notevoli limitazioni. Martedì 19 luglio nella Casa di Reclusione di Nuchis è stata conferita la Laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza a un detenuto che ha discusso una tesi intitolata "La legittima difesa", alla presenza del Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari Prof. Gianpaolo Demuro, del Delegato Rettorale per i rapporti con l’Amministrazione Penitenziaria, Dr. Emmanuele Farris, e di altri docenti del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Ateneo Sassarese. Si tratta del coronamento di un percorso formativo quinquennale, impegnativo sia per lo studente sia per i docenti, che si è svolto completamente all’interno della struttura carceraria con notevoli limitazioni alle possibilità di incontro con i docenti, fruizione dei materiali didattici e dei numerosi servizi online messi a disposizione dall’Università di Sassari. Qualche giorno prima anche un altro detenuto di Nuchis ha conseguito la Laurea magistrale in Giurisprudenza recandosi in permesso a Sassari, dove nell’Aula Magna dell’Ateneo, insieme ad altri studenti, ha discusso una tesi dal titolo "Ergastolo ostativo: aspetti problematici", ottenendo 110/110 e lode. Questi brillanti risultati, particolarmente significativi anche nell’ottica della finalità rieducativa della pena sancita dall’articolo 27 della Costituzione (comma 3), sono stati raggiunti nel quadro dell’intesa tra Università e Amministrazione Penitenziaria. L’Università di Sassari, insieme al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) per la Sardegna e all’Ersu, ormai da diversi anni si impegna per favorire gli studi universitari di studenti detenuti nelle case di reclusione di Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio. Da marzo 2014 è attivo un protocollo d’intesa per la costituzione e il buon funzionamento del Polo Universitario Penitenziario del nord Sardegna. Per l’anno accademico 2015-2016 risultano immatricolati 40 studenti detenuti, iscritti a 15 diversi corsi di Laurea afferenti a 6 Dipartimenti Universitari (Agraria; Giurisprudenza; Scienze Economiche e Aziendali; Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione e Ingegneria dell’Informazione; Scienze Umanistiche e Sociali; Storia Scienze dell’Uomo e della Formazione). Dall’anno accademico 2014-2015 ogni corso di Laurea (o Dipartimento) ha nominato un Referente che affianca il Delegato Rettorale e facilita il contatto tra i responsabili delle aree educative dei 4 istituti di reclusione coinvolti (Alghero, Nuoro, Sassari-Bancali e Tempio-Nuchis) e i docenti. L’Università di Sassari nel solo anno accademico 2014-20115 ha destinato 22 unità di personale (di cui metà docenti e metà amministrativi) impegnate continuativamente per il funzionamento del Polo Universitario Penitenziario, che ha coinvolto per attività didattiche, di tutoraggio, orientamento e supporto decine di docenti dei vari dipartimenti, oltre ad una quarantina di volontari tra i quali diversi docenti universitari in pensione. Il veleno dello stato d’emergenza di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 21 luglio 2016 Francia dopo Nizza. Misure d’eccezione per altri sei mesi. Le derive del dibattito parlamentare. Hollande vuole una Guardia nazionale con i riservisti. Loi Travail al capolinea con un altro. Il veleno che poco per volta sta impregnando una parte della società francese e che rischia di portare a lacerazioni irreversibili è aumentato nella notte tra martedì e mercoledì. Una dose massiccia è stata iniettata nel dibattito pubblico con la discussione che ha accompagnato all’Assemblée il voto a favore del quarto prolungamento dello stato d’emergenza, questa volta per sei mesi, cioè fino a gennaio 2017. E da oggi ci saranno i poliziotti armati sulle spiagge, mentre Hollande invita a partecipare a una "Guardia nazionale" con la presenza dei riservisti, per "difendere la Repubblica". A Parigi alcune manifestazioni estive, culturali e sportive, sono state annullate dalla Prefettura, per Paris-Plage protezione al massimo. Alle 4,53 del mattino di mercoledì, con 489 voti a favore, 26 contrari e 4 astensioni (hanno votato contro Front de Gauche e Verdi), lo stato d’emergenza rafforzato, che include alcuni emendamenti presentati dalla destra, è passato dopo uno scontro che ha visto un governo indebolito cercare di parare gli attacchi più violenti. Eric Ciotti, deputato Lr del dipartimento di Nizza: "non siete riusciti a proteggere i francesi, il contratto sociale è rotto, la fiducia è irreversibilmente spezzata", ormai "è la guerra civile o l’avventura estremista che ci attende". Laurent Wauquiez, deputato Républicain e presidente della regione Rhône-Alpes: siete solo capaci ad "invocare le libertà personali dei terroristi" siete colpevoli di "vigliaccheria di fronte al comunitarismo". David Douillet, ex campione di judo e deputato Lr: ha accusato il Ps di essere "sclerotizzato" nel "rifugiarsi sistematicamente dietro la Costituzione". Di fronte a questa valanga di derive, il socialista Sébastien Pietrasanta ha parlato di "indecenza". Il primo ministro, Manuel Valls, ha accusato Wauquiez di essere "opportunista", e di fare "affermazioni inammissibili". Ieri, François Hollande ha ancora cercato di trovare le parole per evitare che tutto scricchioli: "la collera è legittima, ma non deve degenerare nell’odio e nel sospetto". Nel dibattito all’Assemblée si sono perse nel vuoto le parole di André Chassaigne, del Pcf, contro la scelta di "prorogare a oltranza misure di eccezione che non si rivelano più efficaci del diritto comune". Valls ha scelto il realismo: "se qualcuno in questo emiciclo ha i mezzi per fermare il terrorismo in qualche giorno, settimana o mese, lo dica! Sarebbe meglio dire la verità ai francesi, ci saranno altri attentati, altri morti innocenti, non dobbiamo abituarci, ma imparare a vivere con questa minaccia". Valls ha respinto le "affermazioni vergognose che insinuano che tutto quello che è successo avrebbe potuto essere evitato". Ma il governo, debole, ha accettato un prolungamento di sei mesi (contro i tre proposti in un primo tempo) dello stato d’emergenza e prevede anche di riformare la legge del ‘55 per poter imporre di nuovo le perquisizioni extra-giudiziarie. Passano anche in prima lettura (ieri c’è stato il Senato, poi il ritorno del testo all’Assemblée a grande velocità) la legalizzazione delle perquisizioni dei bagagli e delle auto in caso di controlli di identità (anche se la persona li rifiuta) e la soppressione delle riduzioni automatiche di pena per chi è in carcere per terrorismo. La maggioranza per il momento invece tiene duro sul rifiuto di legalizzare i domiciliari o il braccialetto elettronico per gli schedati "S". No anche alla chiusura dei luoghi di culto giudicati a rischio, su semplice decisione amministrativa. Valls elenca i risultati dello stato d’emergenza: 77 condanne ai domiciliari contro presunti terroristi, 3594 perquisizioni amministrative e le conseguenti 600 procedure giudiziarie aperte, 756 armi sequestrate (75 da guerra), 950 indagati per terrorismo. Non ha la forza, né l’intenzione, di convincere che lo stato d’emergenza a oltranza non serve, anche se non possono ancora venire constatati gli effetti della legge anti-terrorismo del 3 giugno scorso (che autorizza il ministro degli Interni a mettere sotto controllo amministrativo dei sospetti, al di fuori della procedura giudiziaria). Secondo un sondaggio Ifop, l’81% del francesi accetta una diminuzione delle libertà sotto la minaccia terrorista. Una grossa minoranza, il 28%, ritiene che "l’islam rappresenti una minaccia" e se ci fossero derive da "guerra civile" (questa espressione è stata usata dal direttore dei servizi di sicurezza interni, Patrick Calvar) - rappresaglie contro musulmani e le loro attività economiche da parte dell’ultra-destra - solo il 51% le condannerebbe. Ieri, nel clima rovente dell’Assemblée c’era anche l’ultimo capitolo dell’iter legislativo della Loi Travail, con un nuovo ricorso all’articolo 49.3 (senza voto). I decreti di applicazione non saranno completati però prima del prossimo gennaio. Lo stato d’emergenza servirà per mettere a tacere gli oppositori, che già hanno previsto una nuova manifestazione il 15 settembre? È già successo al momento della Cop21 (poco dopo il Bataclan), 480 militanti stranieri bloccati alle frontiere, 27 francesi ai domiciliari e manifestazioni proibite il 28, 29 e 30 novembre 2015. In occasione delle manifestazioni contro la Loi Travail, per 130 militanti c’è stata la proibizione di partecipare ai cortei, solo su base di vaghi "sospetti" amministrativi. Il Sindacato della magistratura (sinistra) ha denunciato le "derive" dell’utilizzazione dello stato d’emergenza, "illegittime" in uno stato democratico. Il virus turco ci riguarda di Beppe Giulietti (Presidente Federazione della stampa) Il Manifesto, 21 luglio 2016 Libertà di stampa. I giornalisti non possono restare muti. "La Turchia è diventata la più grande prigione a cielo aperto ai confini dell’Europa…", parole scritte dal giornalista Can Dundar che rischia l’ergastolo per aver scritto sugli ambigui rapporti tra Erdogan e l’Isis. La sua drammatica riflessione risale a qualche settimana fa, quando ancora non si era consumata la tragica farsa del golpe o autogolpe che sia. Il "nuovo" colpo di Stato è fallito, immediatamente ha ripreso forza il "vecchio", quello già in atto sotto la guida di Erdogan, un presidente "eletto democraticamente", come continuano a ripetere, con inconsapevole ironia, i governanti dell’Unione europea. Nel giro di poche ore sono stati fermati, rimossi, arrestati migliaia di magistrati, intellettuali, professori, studenti, giornalisti, accusati di aver promosso e sostenuto il colpo di Stato e di aver trescato con Gulem, l’ex sodale di Erdogan, ritenuto il mandante e la mente dell’ambiguo e goffo tentativo di golpe. Le immagini e i disperati appelli che ancora filtrano dalla Turchia ci ricordano gli stadi cileni, la "Macelleria messicana" di genovese memoria, l’umiliazione della dignità della persona, la soppressione dei più elementari diritti civili, politici, sociali. In queste ultime ore alla già lunga lista di giornalisti denunciati ed arrestati, si sono aggiunti i nomi di altri 34 cronisti ai quali è stato ritirato il tesserino professionale e di decine di siti e di emittenti oscurati o chiusi. L’Europa invita Erdogan a non introdurre la pena di morte "altrimenti sarà fuori dalla legalità comunitaria", come se la rottura non si fosse già materializzata, come se il colpo di Stato non si fosse già consumato, come se il bavaglio non fosse calato sulla già precaria democrazia turca. Cos’altro bisogna attendere: la chiusura del Parlamento? Lo scioglimento del partito curdo? La definitiva cancellazione della residua autonomia dei poteri di controllo? Queste solo alcune delle ragioni che dovrebbero indurre ciascuno di noi a reagire, a contrastare una deriva che minaccia di coinvolgere L’Europa, a partire da quelle realtà, dalla Polonia all’Ungheria, che già presentano segni di involuzione autoritaria. Chi ha marciato a Parigi, e non solo, per contrastare gli assassini che avevano colpito la redazione di Charlie Hebdo, non può oggi restare muto ed immobile. Per questo la Federazione della Stampa, attraverso il segretario Raffaele Lorusso, ha deciso di chiedere alle organizzazioni internazionali dei giornalisti, di valutare la possibilità di inviare subito una delegazione in Turchia, ma anche di promuovere ogni iniziativa utile a scuotere le coscienze e a sollecitare un’azione immediata ed efficace da parte delle istituzioni europee che non possono assistere inerti alla "macelleria turca". Se non lo faranno spetterà alle forze politiche, sociali, religiose, ancora sensibili al tema dei diritti e della libertà, farlo comunque, sfidando omissioni, diserzioni, opportunismi di vario segno e natura. Nel frattempo, e il manifesto ne è un positivo esempio, spetterà a ciascun giornalista il compito di dare voce e visibilità ai cronisti "oscurati", riportando i loro appelli, dando ospitalità alle opinioni censurate, realizzando siti e trasmissioni rivolte alla pubblica opinione turca, promuovendo una campagna di sostegno operativo che vada oltre le testimonianze di solidarietà. Chi, da sempre, ha scelto di contrastare censure, bavagli, soppressione dei diritti e delle garanzie, non può fingere di non sapere che il virus turco ci riguarda. Non può esserci uno scambio tra il rispetto delle libertà fondamentali e la promessa di Erdogan di fare il guardiano alle frontiere per conto dell’Europa. L’infezione va fermata ora e subito, prima che la Turchia diventi, per parafrasare Can Dundar: "La più grande prigione a cielo aperto del mondo". Israele "vende" all’Europa il suo modello di sicurezza di Michele Giorgio Il Manifesto, 21 luglio 2016 Limitazione diritti della persona, arresti arbitrari, interrogatori, comunità etniche e religiose da considerare composte interamente da potenziali terroristi, come avviene nei Territori occupati. Sono queste le proposte di Tel Aviv per individuare gruppi armati e "lupi solitari". "Interrogare, interrogare, interrogare" ripete Haim Tomer, ex capo di due divisioni del Mossad. "Prevenire, prevenire, prevenire" ribatte Gilles de Kershov, coordinatore dell’Unione europea per l’antiterrorismo. Due concezioni lontane solo in apparenza su "cosa fare" dopo gli ultimi attacchi compiuti in Francia e Germania da presunti "lupi solitari" dello Stato islamico. In realtà sono sempre più vicine. L’Europa guarda con crescente interesse al "modello di sicurezza" di Israele. E lo Stato ebraico è felice di metterlo in vendita. Due giorni fa al Convention Center di Tel Aviv si è svolta la seconda Conferenza internazionale sulla Sicurezza e le Forze Speciali. Presenti il ministro Israel Katz, esperti, analisti e per il Mossad, oltre a Haim Tomer, la celebre agente "Yula". Numerosi gli stranieri giunti da diversi paesi, Giordania inclusa. Accanto alla sala della conferenza è stata allestita una sorta di fiera di armi, tecnologie di sicurezza, sistemi di cyberwar e altre produzioni delle più famose imprese israeliane del settore. Ci siamo andati anche noi. a prima cosa che abbiamo notato è che alla conferenza di promozione del "modello israeliano" di sicurezza, le guardie agli ingressi non ci hanno controllato documenti e zaino. L’altra è che diversi interventi, più che prendere in esame gli aspetti peculiari della sicurezza, hanno affrontato questioni politiche. La situazione a Gaza e in Cisgiordania in primis. Quindi si è parlato delle similitudini tra gli attacchi nei Territori occupati compiuti da palestinesi contro soldati e coloni israeliani con coltelli e auto e quelli di militanti dell’Isis in Europa, messi sullo spesso piano anche se hanno motivazioni e radici molto lontane. Non sono emerse soluzioni risolutive per i "lupi solitari". Così, alla prima occasione, abbiamo posto alla persona a nostro avviso più indicata, Haim Tomer, ex alto dirigente del Mossad, di spiegarci il "modello israeliano" e perché l’Europa dovrebbe adottarlo. "Il nostro modello si basa su di un punto centrale: individuare i potenziali terroristi", ha risposto Tomer. Come si fa? "Per arrivare a questo obiettivo - ha aggiunto l’ex agente segreto - occorrono tre componenti: le risorse umane, la tecnologia e il modo di operare. Il problema dei "lupi solitari" deve essere affrontato con la capacità di ogni singolo operatore di sicurezza di individuare, sulla base del suo giudizio e delle sue esperienze, i potenziali attentatori". In Israele, ha proseguito Tomer, "le guardie di sicurezza e i poliziotti sono addestrati a capire se una persona è sospetta. Da parte sua l’intelligence deve indicare coloro che vanno interrogati, anche se non si hanno elementi sufficienti. L’interrogatorio è il punto centrale, perché tra i tanti che vengono arrestati si possono individuare quei 2-3 che hanno collegamenti con i terroristi. In ogni caso va bene anche come forma di deterrenza perché gli interrogati, una volta rilasciati, sanno di essere sotto osservazione". Attraverso la promozione del suo modello di sicurezza, Israele sembra puntare al riconoscimento dei Paesi occidentali dei sistemi che usa con i palestinesi sotto occupazione, sino ad oggi condannati dai centri e dalle istituzioni che tutelano i diritti umani. Corti militari, detenzione "amministrativa" senza accuse precise e senza processo, arresti arbitrari, raid notturni che vedono tanti palestinesi finire in manette, interrogati per giorni non in presenza di un avvocato, allo scopo di ottenere altri nomi di persone da cercare, arrestare e interrogare. Un modello che prevede l’individuazione, chiaramente su base etnica e religiosa, di "potenziali terroristi" e, di conseguenza, la limitazione di diritti per chi appartiene alle comunità e ai gruppi selezionati. "L’Europa deve decidere cosa è più importante, la vita umana o la libertà - ci dice in conclusione Haim Tomer - non dico di abolire i diritti dell’individuo ma di emendarli. Occorre cambiare il sistema europeo". E l’Europa è sempre più vicina a tutto ciò. "Ci sono voluti cinque anni per ottenere il via libera dell’Europarlamento all’accesso ai dati personali dei passeggeri delle compagnie aeree in modo da poter selezionare i profili di potenziali jihadisti. L’Europa per ragioni storiche tiene Zoomafie: combattimenti e corse clandestine, in aumento i crimini contro gli animali di Cristina Nadotti La Repubblica, 21 luglio 2016 Il rapporto 2016 della Lav registra numeri in crescita anche per il traffico di cuccioli, soprattutto dai Paesi dell’Est, e di animali rari. Non bastano le campagne di sensibilizzazione, non basta l’aumento di denunce. Il rapporto Zoomafia 2016, stilato come ormai da 17 anni dalla Lav, rileva un aumento sensibile di tutti i reati connessi al maltrattamento di animali. In particolare, cresce del 64% il numero dei sequestri di cani da combattimento e del 110% il numero delle persone coinvolte arrestate. In aumento anche il traffico dei cuccioli, soprattutto dai Paesi dell’Est, e di animali rari, così come non si arresta il fenomeno delle corse clandestine di cavalli e del bracconaggio ittico, la pesca illegale nei fiumi del nord soprattutto del pesce siluro, sul quale aveva posto l’accento il rapporto del 2015.Il Rapporto Zoomafia 2016 "Crimini organizzati contro gli animali", redatto da Ciro Troiano, criminologo e responsabile dell’Osservatorio Zoomafia della Lav svela inoltre come dietro alle azioni illegali che hanno come protagonisti gli animali si nascondono due mali atavici del nostro Paese, la corruzione e la collusione. È vero infatti che l’aumento di alcune cifre si può spiegare con una maggiore sensibilità sia in chi denuncia, sia in chi indaga, come dimostra l’analisi su un campione di procure avviata dalla Lav, ma è altrettanto vero che è sempre più evidente la rete di gestione del crimine organizzato. A muovere traffici di proporzioni economiche enormi sono infatti pochi clan, come ha messo in luce anche la notizia di giornata sull’arresto del "re del pesce", Francesco Muto, il boss di camorra che controllava anche il mercato ittico. Colpisce, dopo le tante campagne di sensibilizzazione avviate non soltanto della Lav, l’aumento del traffico di cuccioli soprattutto dall’Est. Sottolinea Ciro Troiano: "Abbiamo leggi che funzionano, ma ci vorrebbe più vigilanza. I dati del nostro rapporto evidenziano un vasto sistema corruttivo e collusivo che vede coinvolti pubblici ufficiali addetti al controllo del rilascio della documentazione che accompagna gli animali". "È sempre più evidente - afferma Ciro Troiano - la presenza di una sorta di affaristi zoomafiosi formati da imprenditori senza scrupoli e speculatori che, per il raggiungimento dei loro obiettivi, creano sinergie scellerate con delinquenti, funzionari collusi e faccendieri, uniti dall’interesse economico comune. Segnali di questo tipo si rilevano nel traffico di cuccioli, nella gestione dei canili, nell’allevamento e macellazione di animali, nella distribuzione agroalimentare. Nel traffico di cuccioli, ad esempio - conclude Troiano - è noto l’interesse di alcuni esponenti della camorra, mentre nella gestione dei canili basta ricordare le vicende di mafia capitale, che hanno evidenziato il tentativo di accaparramento degli appalti comunali". E per frenare il fenomeno dei combattimenti clandestini tra cani, dal primo luglio, la Lav ha anche riattivato il numero Sos Combattimenti, 064461206, allo scopo di raccogliere segnalazioni di combattimenti tra animali e tracciare una mappa dettagliata del fenomeno per favorire l’attivazione di inchieste giudiziarie e sequestri di animali. Caso Regeni. L’Egitto dice ancora no alle richieste di Roma di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 luglio 2016 La commissione trilaterale del parlamento del Cairo rifiuta di consegnare i materiali di inchiesta perché così violerebbe la Costituzione. Poi propone di invitare nel paese i genitori di Giulio. Ancora prolungate le detenzioni dei due avvocati Abdallah e Adly. La prima concreta reazione egiziana alla sospensione (decisa dal parlamento italiano a fine giugno) della fornitura gratuita dei pezzi di ricambio per gli F16 è arrivata martedì sera. Più che una risposta è un’altra chiusura: la commissione Esteri del parlamento del Cairo, impegnata sul caso Regeni, ha negato di nuovo alla Procura di Roma la consegna di materiali relativi all’inchiesta in corso. La giustificazione è la stessa addotta in passato: le richieste italiane sono "incostituzionali". Secondo Tarek al Kholi, segretario della commissione, gli investigatori italiani avrebbero chiesto tabulati telefonici, immagini delle telecamere presenti nei luoghi della scomparsa e del ritrovamento di Giulio e l’estradizione di tre persone. Se i tabulati e le immagini non rappresentano una novità (da mesi il team del pm Pignatone insiste per ottenerli), sorprende l’elemento nuovo delle estradizioni. Una stranezza che i primi a sottolineare sono propri gli inquirenti italiani: fonti della Procura hanno negato di aver mosso simili richieste. Lunedì, il giorno precedente all’ufficializzazione del diniego egiziano, si era riunita al Cairo la commissione parlamentare trilaterale (Esteri, Difesa e Diritti Umani) proprio per discutere del caso del giovane ricercatore. Secondo quanto riferito da al Kholi, "la riunione odierna ha svelato quelle che sono le vere richieste italiane". "Le tre commissioni hanno confermato il rifiuto delle autorità egiziane - ha aggiunto - a rispondere alle domande italiane in quanto vietato dalla Costituzione". Torna così a galla di nuovo lo scoglio della privacy, tragica ironia in un paese che esercita un controllo maniacale sui propri cittadini. All’ordine del giorno della riunione - ha detto il generale Amer, capo della commissione - sono finite (ufficialmente per alleggerire le tensioni con Roma) anche le eventuali misure da assumere dopo lo stop al rifornimento dei pezzi di ricambio dei caccia da parte italiana. Ieri sono state presentate al parlamento egiziano le 10 raccomandazioni uscite da quel meeting: tra queste, riporta Agenzia Nova, ci sono l’invito in Egitto della famiglia Regeni e la formazione di un team che gestisca i rapporti con l’Italia. Quelli messi in dubbio, all’indomani del voto del parlamento italiano, dal Ministero degli Esteri egiziano che aveva minacciato l’alleato usando come strumento di ricatto i rapporti strategici su immigrazione, crisi libica e lotta allo Stato Islamico. A quasi sei mesi dalla scomparsa di Giulio nella sera del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, il 25 gennaio, la verità è lontanissima. Alle tensioni di facciata fanno da contraltare il mantenimento dei saldi rapporti economici tra Italia ed Egitto e l’assenza di passi in avanti nelle indagini, in perenne stallo per il rifiuto egiziano a collaborare. Il presidente al-Sisi è tranquillo: membro osannato dalla comunità internazionale nell’ampio fronte della lotta al terrorismo (ieri i suoi rappresentanti erano a New York a discutere con quelli di altri 30 paesi della questione), prosegue spedito sulla via della repressione interna. Non c’è giustizia per Giulio, come non ce n’è per migliaia di egiziani dimenticati nelle carceri di Stato. Tra loro Ahmed Abdallah e Malek Adly. Il primo, presidente della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà e consulente della famiglia Regeni, è in carcere dal 25 aprile, uno degli innumerevoli arresti "preventivi" in vista delle proteste di piazza contro il governo. Ieri l’ordine di detenzione è stato rinnovato per l’ennesima volta di ben 45 giorni. Simile il destino dell’avvocato per i diritti umani, Malek Adly: arrestato il 6 maggio e da allora costretto in isolamento (ulteriore forma di tortura psicologica), si è visto consegnare un altro rinnovo lunedì. Per lui altre due settimane di prigionia, costantemente riproposte da quasi quattro mesi. Il suo avvocato e la moglie non smettono di fare appelli: la salute di Malek sta deteriorando drasticamente. Erdogan, il consenso e il rispetto dei diritti di Sabino Cassese Corriere della Sera, 21 luglio 2016 Può bastare parlare in nome del popolo perché ci sia democrazia? Il mondo si è interrogato da più di un secolo sulla portata dei principi di autodeterminazione dei popoli. "Che diritto ha l’Unione Europea a porre il veto su qualcosa che vuole democraticamente il popolo?", si è chiesto il presidente turco due giorni fa. Erdogan è stato in effetti eletto nel 2014 con il 52 per cento dei consensi dal 76 per cento degli aventi diritto. L’elezione parlamentare del 2015 ha confermato il successo del suo partito, anche se non nei termini da lui sperati. Ha ora i poteri che gli attribuisce la Costituzione turca del 1982, più volte modificata, in particolare con i referendum del 2007 e del 2010. Si tratta di poteri molto estesi, che vanno dalla proclamazione della legge marziale e dello stato di emergenza (su decisione del Consiglio dei ministri) alla nomina dei presidenti delle università. Ma basta parlare in nome del popolo perché ci sia democrazia? Il mondo si è interrogato da più di un secolo sulla portata dei principi di autodeterminazione dei popoli, di sovranità popolare e di non interferenza nelle questioni interne di altre nazioni: questi comportano che i governanti, una volta eletti, rispondano solo al popolo? La risposta data fin dalla seconda guerra mondiale è che ogni governo deve rispondere anche agli altri Paesi e alla comunità internazionale. Non a caso la solenne dichiarazione del Millennio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite prevede un impegno collettivo non solo a promuovere la democrazia, ma anche ad appoggiarne il consolidamento. Questo perché non solo le economie, ma anche la stabilità, la pace, l’ordine, la sicurezza di ogni nazione è strettamente interdipendente con quelle di altre nazioni e Stati, come i recenti atti di terrorismo dimostrano. Un acuto studioso americano ha chiamato questa horizontal accountability, spiegando che i governi nazionali non debbono rendere conto soltanto ai popoli che li hanno eletti, ma anche agli altri popoli, e ai governi che li rappresentano, perché hanno un comune interesse all’ordinato svolgimento della politica negli altri Stati. Solo una concezione errata della democrazia può far pensare che, se un popolo vuole instaurare una dittatura, la comunità internazionale deve assistere in silenzio. E che i diritti conferiti dal voto popolare a una maggioranza possano esprimersi anche in compressione dei diritti delle minoranze. Il presidente turco non sta violando solo il diritto comune a veder rispettata la democrazia, ma anche i diritti umani e le libertà fondamentali dei cittadini del suo Paese. Anche questo non è solo un affare interno della Turchia. È una violazione non soltanto del diritto turco e della relativa Costituzione, ma anche dei principi più generali ai quali fanno riferimento la dichiarazione Onu del 2000 e molti trattati internazionali. Le repressioni in massa, la privazione della libertà personale, la revoca di autorizzazioni all’insegnamento, il licenziamento di dipendenti pubblici e in particolare di giudici, sono avvenuti senza regolari processi, con possibilità di contraddittorio, in pubblico, dinanzi a giudici imparziali. Vanno quindi condannati dalla comunità internazionale, a cui il presidente turco deve rispondere. Tutto questo vale a maggior ragione per l’Unione Europea, non solo perché questa è una comunità fondata sul diritto, ma anche perché lo Stato turco ha dal 1963 un trattato di associazione con l’Unione, ha posto la sua candidatura per entrare a farne parte nel 1987, e dal 2004 ha iniziato i negoziati, cercando di dare prova di possedere i requisiti per l’adesione. La ragion di Stato, dettata agli Stati Uniti dall’importanza militare strategica della Turchia e all’Unione Europea dall’accordo del marzo 2016 sull’emigrazione, porterà l’uno e l’altra ad attenuare le pressioni che possono esercitare sul nuovo corso della politica turca. Ma questo non deve attenuare l’interesse dell’intera comunità internazionale a veder rispettati democrazia e giustizia in Turchia. Anche da questo dipende la nostra pace. Ucraina: morte di un giornalista, ucciso dai poteri che aveva combattuto di Franco Venturini Corriere della Sera, 21 luglio 2016 Sheremet aveva preso di petto con eguale impeto il potere bielorusso, quello russo e quello ucraino. Aveva sfidato, cioè, il triangolo autoritario che negli anni è costato la vita a moltissimi altri reporter. Pavel Sheremet, il giornalista ucciso ieri a Kiev da una bomba piazzata nella sua automobile, aveva da anni poche probabilità di sopravvivere. Da professionista libero e senza paura, Sheremet aveva preso di petto con eguale impeto il potere bielorusso, quello russo e quello ucraino. Aveva sfidato, cioè, il triangolo autoritario che negli anni è costato la vita a moltissimi giornalisti, valga per tutti l’esempio della russa Anna Politkovskaja. Indifferente ai consigli di prudenza, Sheremet fu dapprima arrestato nel 1997 dalla polizia di Aleksandr Lukashenko. Rimase sei mesi in carcere. Le sue critiche al regime però continuarono, e quando alcuni "sconosciuti" lo malmenarono in pieno centro di Minsk nel 2004, Pavel si trasferì a Mosca e prese la nazionalità russa. Amico di quel Boris Nemtsov che venne freddato a colpi di pistola nel febbraio del 2005, Sheremet riuscì nel prodigio di criticare Putin come giornalista della televisione di Stato russa. Ma il miracolo non durò a lungo, e lui preferì emigrare in Ucraina. Dove non si fece mancare le critiche al presidente Poroshenko, alla corruzione dilagante, al potere di nuovo in crescita degli oligarchi. Fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo respiro. Sheremet, che conosceva bene i rischi che correva, di certo non avrebbe gradito che la sua morte venisse strumentalizzata in un batter d’occhio proprio da quei poteri che lui aveva combattuto. E invece le autorità di Kiev hanno rilevato che dietro il delitto potrebbero esserci interessi stranieri che vogliono destabilizzare l’Ucraina. Tutti hanno capito l’allusione alla Russia, e il Cremlino ha risposto che la colpa è invece della russofobia alimentata da Kiev con l’appoggio dei suoi alleati euro atlantici. Così, nel giro di poche ore, la memoria di Sheremet è stata coinvolta in un conflitto che non riesce a sbloccarsi e che è costato diecimila morti in due anni. Pavel meritava sorte migliore. Ucraina: sparizioni e torture da entrambi i lati del conflitto di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 luglio 2016 "Vadim", 39 anni, è stato arrestato e torturato prima da una parte, poi dall’altra. Nell’aprile 2015, uomini armati lo hanno fermato a un posto di blocco delle forze ucraine, lo hanno incappucciato e lo hanno interrogato sulle sue presunte relazioni coi separatisti. Ha trascorso sei settimane in prigionia, per la maggior parte del tempo in una struttura a quanto pare diretta da personale dei servizi di sicurezza ucraina (Sbu). Lo hanno torturato con la corrente elettrica, spegnendogli sigarette sul corpo e picchiandolo perché confessasse di lavorare per conto dei separatisti. Dopo essere stato rilasciato, "Vadim" è tornato a Donetsk ed è stato immediatamente arrestato dalle autorità locali, che lo sospettavano di essere stato reclutato dall’Sbu durante la prigionia. Ha trascorso oltre due mesi senza avere contatti col mondo esterno in un centro di detenzione non ufficiale al centro di Donetsk, dove è stato sottoposto a pestaggi e maltrattamenti. La sua storia sintetizza efficacemente i contenuti di un rapporto congiunto di Amnesty International e Human Rights Watch diffuso questa mattina. Le due organizzazioni per i diritti umani accusano sia le autorità di governo ucraine che i gruppi separatisti appoggiati dalla Russia nell’Ucraina orientale di rapire civili e a volte torturarli durante lunghi periodi di detenzione arbitraria e talvolta in luoghi segreti. Il rapporto è basato su interviste a 40 vittime, ai loro familiari, testimoni, avvocati e ulteriori fonti. Le due organizzazioni per i diritti umani hanno documentato nove casi di detenzione arbitraria e prolungata di civili da parte delle forze ucraine in siti informali, in alcuni casi equiparabili a sparizioni forzate, e altrettanti casi analoghi che chiamano in causa i gruppi separatisti. La maggior parte dei casi descritti nel rapporto si è verificata nel 2015 e nella prima metà del 2016. Le autorità ucraine e i gruppi paramilitari pro-Kiev arrestano civili sospettati di far parte dei gruppi separatisti o di esserne simpatizzanti. I separatisti, a loro volta, arrestano persone sospettate di parteggiare per il governo o di fare le spie. In alcuni casi, la detenzione costituisce sparizione forzata in quanto le autorità rifiutano di riconoscerla o di fornire informazioni ai familiari del detenuti. La maggior parte di questi ultimi, in tali circostanze, subisce maltrattamenti e torture e molte delle persone ferite durante la detenzione non ricevono cure mediche. In tre dei casi di sparizione forzata verificatesi nei territori controllati dal governo, le persone detenute hanno riferito di essere state arrestate dall’Sbu e trattenute in località sconosciute per periodi varianti da sei settimane a 15 mesi. Una è stata rilasciata nell’ambito di uno scambio di prigionieri, le altre due sono tornate in libertà senza mai essere state processate. Amnesty International e Human Rights Watch hanno verificato che detenzioni illegali e non riconosciute hanno avuto luogo in strutture dell’Sbu a Kharkiv, Kramatorsk, Izyum e Mariupol. Nel giugno 2016 anche un rapporto delle Nazioni Unite ha descritto la sede dell’Sbu di Kharkiv come un possibile centro non ufficiale di detenzione. Secondo numerose fonti, compresi ex detenuti, con cui sono entrate in contatto Amnesty International e Human Rights Watch, fino a 16 civili potrebbero trovarsi tuttora nel centro segreto di detenzione dell’Sbu di Kharkiv. L’Sbu ha negato ogni coinvolgimento in centri di detenzione diversi da quello provvisorio ufficiale di Kiev e ha dichiarato di non avere informazioni sulle violazioni documentate dalle due organizzazioni per i diritti umani. Nelle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk le forze di sicurezza locali agiscono senza controllo, arrestano arbitrariamente civili e a volte li torturano. Abitanti delle due città hanno descritto i rispettivi ministeri per la sicurezza come le più potenti e temute organizzazioni delle repubbliche autoproclamate. L’assenza di qualsiasi parvenza di stato di diritto nelle aree controllate dai separatisti priva i detenuti dei loro diritti e praticamente di ogni forma di aiuto. In quasi tutti i 18 casi oggetto del rapporto, il rilascio è avvenuto a seguito di accordi per lo scambio di prigionieri (nella foto, ex prigionieri rilasciati dopo uno di questi accordi). Questo fatto fa sorgere forti sospetti che entrambe le parti in conflitto arrestino civili per avere "moneta di scambio". In questo caso, si tratterebbe di cattura di ostaggi, ossia di un crimine di guerra. Amnesty International e Human Rights Watch chiedono al governo ucraino e alle autorità delle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk di porre immediatamente fine alle sparizioni forzate e alle detenzioni arbitrarie e non riconosciute e di adottare una politica di tolleranza-zero nei confronti della tortura. Tutte le parti in conflitto devono assicurare che le forze che agiscono ai loro comandi siano consapevoli delle conseguenze derivanti, secondo il diritto internazionale, dal sottoporre ad abusi i detenuti.