Il Ministro Orlando: nelle carceri italiane 39 detenuti legati alla jihad Agi, 20 luglio 2016 "C’è un costante monitoraggio su circa 300 persone nelle carceri italiane e quelle che hanno dato segnale di adesione alla jihad sono 39. È poco ma il numero non va certo sottovalutato". Lo ha detto il Ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenuto ad Unomattina su Rai Uno. "Il carcere - ha aggiunto - è un luogo dove si realizzano forme di radicalizzazione rapida. L’Ue sta riflettendo su come gestire il fenomeno nelle carceri". In Europa quindi, ha spiegato ancora Orlando, "si sta riflettendo. La Gran Bretagna ha seguito la strada delle pene alternative per chi non ha compiuto reati gravi e ha funzionato. La Francia, che ha seguito la strada di segregare questo tipo di detenuti non ha ottenuto risultati al momento eccellenti. Non c’è un rapporto causa effetto fra modello adottato e risultati. Poi, chi è disposto a farsi esplodere non è che abbia paura del carcere, anche quando si inaspriscano le pene". Secondo il Ministro, "nel carcere l’aspetto della radicalizzazione ha ancora più forza. Anche il terrorismo faceva proselitismo. I terroristi facevano reclutamento. Bisogna trovare percorsi diversi quando si trovano persone che hanno capacità di leadership. Questa è una strada che va sicuramente seguita". Alfano seppellisce il reato di tortura di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 luglio 2016 La legge che introduce il reato di tortura è stata sepolta ieri. Rinviata sine die. Che una legge già in aula venga congelata sino a data da destinarsi è cosa tanto rara da rivelare in pieno la logica della scelta del Senato, appoggiata con tacito assenso dal governo: fare piazza pulita del reato di tortura. Del resto, la piena soddisfazione di tutti i capigruppo di destra, dopo la decisione della conferenza dei capigruppo del Senato, non lascia spazio a dubbi. È una sconfitta secca anche per il Pd, che certo non voleva vedere affondare la legge, ed è anche il passaggio che rende quello di Matteo Renzi un governo di fatto balneare. Si è certificato ieri che il governo ha sì una maggioranza per il voto di fiducia, ma è poi ostaggio della destra interna alla maggioranza su tutti i voti non coperti dalla questione di fiducia. Era stato tutto il centrodestra, con l’Ncd in prima linea, a reclamare la conferenza dei capigruppo, subito dopo la commemorazione delle vittime di Nizza e usando strumentalmente proprio quella strage come alibi per chiedere di rimettere mano al testo, riportandolo in commissione. A quel punto, la voce su uno slittamento del voto a settembre circolava già largamente, smentita però sia dal ministro della Giustizia Orlando ("Macché. Ci stiamo lavorando proprio in questo momento") che dal capogruppo Pd Zanda ("Auspico l’approvazione in tempi celeri"). In effetti l’esito del consesso dei capigruppo non è stato quello previsto. Il ddl non è stata rimandato a settembre ma sine die: così si può avere la certezza assoluta che non vedrà mai la luce. "È gravissimo - commenta la presidente del Misto Loredana De Petris - ed è vergognoso usare Nizza come alibi. Così si dà partita vinta ai terroristi". Sul fronte opposto il presidente dei senatori leghisti Centinaio non la manda a dire e rintuzza di brutto il tentativo di Zanda di salvare il salvabile inventando un’inesistente possibilità di varare comunque il ddl prima della pausa: "Noi abbiamo fatto e faremo il possibile perché di questa legge se ne parli il più tardi possibile". Sarà proprio così. A determinare la rotta del Pd sono stati prima lo schieramento di Alfano contro la legge di lunedì e poi, ancora di più, le dimissioni da capogruppo dell’Ncd rassegnate a sorpresa ieri mattina da Renato Schifani. Parole chiare: "L’oggetto sociale del nuovo centrodestra è stato disatteso. Il patto politico non è stato onorato. È venuto meno il pilastro. Ho votato le riforme solo per disciplina di partito". A certificare la fine del miraggio centrista, arriva subito dopo il comunicato di Cesa che schiera l’altra metà di Area popolare, l’Udc, a favore del No al referendum. Per ora, però, Schifani resta come semplice senatore nell’Ncd, e altrettanto fanno gli 8 o 9 senatori che sono pronti a seguirlo nel ritorno all’ovile azzurro. È una perfetta mossa da guastatori, non a caso proprio quella che aveva suggerito Berlusconi quando Schifani lo aveva incontrato ad Arcore. D’ora in poi il governo non potrà essere sicuro su nessun voto, a parte quelli di fiducia. Anche perché nella disgregazione del mini polo centrista nulla impedisce che altri voti si accodino a quelli della pattuglia di Schifani. Senza contare che il peso specifico di Verdini è nel giro di 24 ore aumentato a dismisura. In soldoni, il Pd si è arreso perché per far passare il ddl sul reato di tortura si sarebbe dovuto appoggiare ai voti determinanti dei 5S e della sinistra, cosa che voleva a ogni costo evitare. Per lo stesso motivo, dovrà ora congelare la riforma della prescrizione, osteggiata dalla destra come dai centristi interni alla maggioranza. Di qui alla pausa estiva, di conseguenza, governo e maggioranza dovranno sforzarsi per fare il meno possibile, evitando ogni terreno scivoloso. Poi, finita la stagione dei bagni, arriverà il momento della resa dei conti. Si tratterà però di un appuntamento al buio. Nessuno può prevedere oggi quanto rapidamente procederà la decomposizione dei centristi, e quali effetti avrà sugli equilibri parlamentari. Si può in compenso dire che il governo e la maggioranza per come sono stati sinora non esistono più, e che Renzi si avvia ad affrontare il referendum nel peggiore dei modi. Tortura e prescrizione: tutto rinviato a ottobre di Errico Novi Il Dubbio, 20 luglio 2016 Renato Schifani si dimette da capogruppo di Ncd per ragioni politiche generali, ma non è un caso che la deflagrazione tra i centristi si produca nel d-day delle leggi sulla giustizia. La materia è così incandescente da non potersi maneggiare senza farsi male. Si inceppa dunque definitivamente la trattativa sulla prescrizione e la legge sulla tortura va in freezer. La rottura tra gli alfaniani paralizza dunque la maggioranza. Sulla prescrizione, la fumata nera arriva in tarda mattinata, alla riunione che si chiude senza un accordo tra Pd e Ncd, rappresentato dal solo presidente della commissione Giustizia Nico D’Ascola. Nel caso del ddl che introduce il reato di tortura è una capigruppo del Senato a decidere la sospensione dell’esame in Aula. Un passo grave, reso inevitabile dalla spaccatura tra gli alfaniani. La misura non piace ai senatori di Area popolare né al loro leader, il ministro dell’Interno: solo che tra i primi, molti non condividono l’idea di un via libera di Palazzo Madama al provvedimento con successive modifiche alla Camera. Il rischio di un voto contrario di Schifani e di altri costringe la maggioranza alla resa. Niente voto sulla tortura, dunque, e neppure ritorno del testo in commissione. È un congelamento senza condizioni, che si consuma tra le grida indignate dei cinquestelle. E con la rassegnazione del capogruppo dem Luigi Zanda, che ammette: "Faremo di tutto per approvare la legge prima della pausa estiva, ma ci vuole una maggioranza larga". Che non c’è. L’addio di Schifani alla presidenza del gruppo di Area popolare (che riunisce Ncd con altri senatori moderati) arriva mentre si diffonde la fumata nera sulla prescrizione. Al vertice di mezzogiorno partecipano il guardasigilli Andrea Orlando, Zanda, i relatori Casson e Cucca, il capodelegazione dem sulla Giustizia Beppe Lumia e appunto D’Ascola, presidente della commissione. Sulle spalle dell’avvocato di Reggio Calabria precipita d’improvviso anche la delega a trattare per conto del partito. Non si trova l’accordo e si va all’esame in commissione senza rete. Passano i primi cinque articoli del ddl sul processo penale, che non toccano però il punto chiave dei termini di estinzione dei reati. Ma l’orizzonte del provvedimento è avvolto nell’incertezza. Il ministro Orlando si dice fiducioso che un’intesa sia "a portata di mano". Ma senza un accordo definitivo il rischio che i centristi non votino la riforma è altissimo. Ncd troppo diviso per trattare col Pd - Ncd dovrebbe arginare gli eccessi della sinistra dem sulla durata dei processi per corruzione. Ma è un fronte difficile da tenere, con un partito come quello di Alfano, spaccato sulle prospettive future. E l’addio di Schifani è come se certificasse questa debolezza: di fronte alla trattativa più difficile, quella sulla giustizia, emergono i limiti dell’Ncd, troppo diviso al proprio interno per essere contrappeso nella maggioranza. Dal vertice sulla prescrizione filtrano voci di un doppio rinvio: si discute a ottobre sulla riforma del processo e si torna in commissione sul ddl odiato dalle forze di polizia. Seguono rapide smentite, eppure la sostanza dei fatti non è lontana dall’idea della resa incondizionata: senza un accordo in commissione sui tempi del processo sarà inevitabile un congelamento di tutta la riforma penale, e con i centristi a pezzi votare il ddl sulla tortura è impossibile. Il risultato è appunto la paralisi. Gli aggiustamenti sulla prescrizione - Sui tempi per estinguere i reati di corruzione, Ncd potrebbe accettare un aumento superiore a un terzo, probabilmente della metà, ma che almeno scatti solo su uno dei due articoli del codice di procedura penale chiamati in causa, il 161. Così un processo per corruzione propria arriverebbe a 18 anni, contro i 21 e 9 mesi del lodo Ferranti. Netto no del Pd alla norma che rimette nel calcolo i 18 mesi di sospensione previsti dopo la condanna in primo grado, qualora la sentenza d’appello si faccia attendere più di un anno e mezzo. In compenso potrebbe essere eliminata la sospensione dei termini sulle perizie, con un aggiustamento anche su quella per le rogatorie. Sul reato di tortura sono invece le opposizioni, Forza Italia in testa, a chiedere di riunire la capigruppo. Ed è lì che si certifica il disarmo centrista: alla proposta firmata da Gasparri si accoda proprio il vicecapogruppo vicario di Area popolare, Luigi Marino (ex presidente di Confcoop). Sostituisce il dimissionario Schifani e di fatto decide di congelare la partita sine die. Zanda si infuria ma può solo rassegnarsi al dato di fatto. E a una maggioranza che, almeno sulla giustizia, già non c’è più. Reato di tortura. Il ministro disarmante di Luigi Manconi Il Manifesto, 20 luglio 2016 La discussione sul disegno di legge che attende dal 1988 rinviata a chissà quando. Come prevedibile, un Senato inqualificabile e infingardo ha preso una decisione inqualificabile e infingarda: ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nel nostro ordinamento dal 1988. Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando. Non poteva essere che così. A questo esito, hanno alacremente lavorato un ineffabile ministro dell’Interno che tenta di riscattare i propri fallimenti politici e di governo attraverso una successione di blandizie non nei confronti delle forze di polizia, bensì dei suoi segmenti più antidemocratici e arretrati. E, poi, i giureconsulti della domenica (ma dell’ora della pennica, mi raccomando) i garantisti ca pummarola ‘n copp’ e i tutori dei diritti purché di appannaggio dei soli potenti. Per motivare tutto ciò, alcuni senatori hanno argomentato, si fa per dire, sull’attentato di Nizza, collegandolo al rischio - nel caso di approvazione della legge sulla tortura - di "disarmare" polizia e carabinieri davanti alla minaccia jihadista. Che Dio li perdoni. Inutile cercare una logica in tutto ciò. C’è solo sudditanza psicologica e spirito gregario. Sotto il profilo normativo, tutto ciò significa una cosa sola: il delitto di tortura entrerà a far parte del nostro ordinamento, a voler essere ottimisti, tra due - tre - trent’anni anni. I Sindacati: "prima delle ferie, approvate il ddl contro il caporalato" di Antonio Sciotto Il Manifesto, 20 luglio 2016 Appello al Parlamento. Flai Cgil, Fai Cisl e Uila in presidio a Roma con i braccianti. La raccolta è già iniziata e i lavoratori rischiano per le alte temperature. Sanzioni estese alle imprese e più servizi, soprattutto per gli immigrati. Il sindacato sta facendo di tutto per l’approvazione del disegno di legge 2217 contro il caporalato: adesso è il momento che uno scatto lo faccia la politica, in particolare il Senato. Ieri Flai Cgil, Fai Cisl e Uila sono scese in piazza per la seconda volta in poche settimane, a Roma, davanti al Pantheon: il 25 giugno avevano portato 15 mila persone, tra cui tanti braccianti immigrati, in corteo a Bari. Il ddl 2217 contiene norme per rendere più facile - e soprattutto più legale - la vita dei lavoratori nei campi e nelle comunità che li ospitano, e nello stesso tempo estende la responsabilità e le sanzioni dai caporali agli imprenditori che si servono della loro intermediazione: è fermo al Senato da mesi (ieri era in Commissione Bilancio), deve ancora passare la prova dell’Aula, e poi andare alla Camera. I sindacati chiedono che concluda il suo iter entro la pausa estiva (il 5 agosto), e ieri la vicepresidente di Palazzo Madama, Valeria Fedeli, dopo aver ricevuto una delegazione, ha promesso che farà di tutto per accelerare i lavori. Si è anche auto-twittata con un cartello rosso preso in prestito dalla piazza: "Subito il ddl 2217 per un lavoro libero dallo sfruttamento", recita lo slogan. Lei e i colleghi prenderanno la questione a cuore? Se lo augura la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, al presidio con le categorie dell’agroindustria: "Il disegno di legge sulla lotta al caporalato deve avere un percorso privilegiato - ha detto, sollecitando la politica - Serve una calendarizzazione affinché diventi rapidamente norma dello Stato". Secondo Camusso il ddl "completa l’opera iniziata con la definizione del reato di caporalato, includendo, oltre a chi lo organizza, anche chi lo utilizza". Il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo, presente anche lui alla manifestazione, ha aggiunto che "quella contro il caporalato è una battaglia di civiltà". "È finita la raccolta delle ciliegie, quella dei pomodori sta iniziando, ma ancora non abbiamo uno strumento legislativo adeguato a contrastare lo sfruttamento nei campi", dice Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil. Il segretario Flai auspica che altri sindaci seguano l’esempio del primo cittadino di Nardò (Lecce), che "è arrivato a vietare con un’ordinanza il lavoro tra le ore 12 e le 16, perché nei campi si raggiungono i 50 gradi". Il disegno di legge era stato approntato l’anno scorso, dopo la serie di morti (almeno quattro) nelle campagne pugliesi. Fece scalpore il caso di Paola Clemente, bracciante di 49 anni, che lavorava all’acinellatura dell’uva nelle vigne di Andria: era pagata solo due euro l’ora. "Abbiamo chiesto e avuto assicurazioni sul fatto che il ddl sarà, nell’arco di pochi giorni, portato in aula e rapidamente approvato", dice Stefano Mantegazza, segretario Uila. dopo l’incontro con Valeria Fedeli. Per Annamaria Furlan, segretaria generale Cisl, "è necessario ridare centralità alla battaglia contro lo sfruttamento del lavoro rurale, aggiornare ed estendere le responsabilità penali, mettere in campo strategie partecipate che valorizzino l’apporto delle parti sociali". Si calcola che circa 430 mila lavoratori in tutta Italia vivano in condizione di sfruttamento, tra l’irregolare e il nero, e ricadano nella rete dei caporali. Il sommerso nel settore, spesso organizzato dalle agromafie, drena dai 14 ai 17 miliardi di euro l’anno: i pomodori, le arance, i carciofi che troviamo nei supermercati o al dettaglio spesso non seguono filiere trasparenti. Tra gli obiettivi del ddl c’è infatti anche il rafforzamento della Rete del lavoro agricolo di qualità: dovrebbe raccogliere, certificare e "bollinare" le aziende virtuose, ma fino a oggi non è mai decollata. L’agricoltura è "funestata" anche dalla recente riforma dei voucher: il decreto correttivo al Jobs Act di qualche settimana fa ha infatti previsto che i lavoratori del settore (il ticket è previsto solo per studenti e pensionati) non abbiano più il limite dei 2 mila euro di reddito per committente. Potranno fare quindi fino a 7 mila euro annui con una sola azienda: perché non contrattualizzarli, allora, si chiedono i sindacati, facendo perdere tutte le tutele, i contributi e la disoccupazione? Inoltre, il preavviso obbligatorio prima della prestazione di lavoro, fissato a 60 minuti per tutti gli altri settori, nel bracciantato è stato esteso fino a una settimana, aprendo spazi ad abusi. Flai, Fai e Uila chiedono di ristabilire paletti più rigidi. Omicidio stradale, un pasticciaccio brutto di Giorgio Bignami Il Manifesto, 20 luglio 2016 Nel Libro Bianco 2016 sugli effetti della legge sulle droghe, diffuso alla fine di giugno l’aggiornamento sul tema "droghe e guida" si era esteso a una critica della nuova legge sull’omicidio stradale. La critica riguardava principalmente due aspetti: primo, la sproporzione tra le pene previste (sino a 18 anni di carcere) rispetto a quelle per i più gravi reati non solo colposi ma anche dolosi; secondo, nei casi in cui entrano in gioco l’alcol e/o le droghe illecite, le molte incertezze sulla fattibilità e validità di affidabili e tempestivi accertamenti clinici e analitici, e, in particolari casi, anche i sospetti di incostituzionalità. Dopo la stesura dell’aggiornamento si è avuta una dura presa di posizione dell’Unione camere penali, che ha definito la legge sull’omicidio stradale un "arretramento verso forme di imbarbarimento del diritto penale, frutto di cecità politico-criminale e di un assoluto disprezzo per i canoni più elementari della "grammatica" del diritto penale". Inoltre è apparsa su Diritto Penale Contemporaneo una minuziosa analisi critica della legge (di ben 34 pagine) condotta dal penalista Giuseppe Losappio, docente all’Università di Bari; un testo denso di riferimenti giuridici che non tenteremo di riassumere, limitandoci a citare alcuni passaggi del sommario. "È l’ennesima riforma che introduce nell’obsoleto tessuto del codice penale il frutto di opzioni politico-criminali di impostazione mediatico-emergenziale". Quindi "non sorprende che la nuova disciplina sia diffusamente caratterizzata da svariati errori di scrittura, difficoltà di lettura e coordinamento sistematico, da ricorrenti tracce di irragionevolezza/sproporzione, alcune delle quali persino di dubbia legittimità costituzionale". Seguono considerazioni sulla "imprecisione della formula che descrive il rapporto tra violazione della regola cautelare ed evento", al punto di postulare un "intervento di ortopedia interpretativa"; il che, se abbiamo capito bene, apre la strada a una troppo ampia discrezionalità nella applicazione della legge. Sul piano pratico, a parte quanto riguarda alcol e droghe di cui si è detto nel Libro Bianco, hanno iniziato a piovere segnalazioni allarmanti su vari possibili effetti perversi della legge. Per esempio, non pochi incidenti di per sé non gravi - come un tamponamento e il conseguente "colpo di frusta" - possono produrre lesioni con prognosi superiore ai canonici 40 giorni. Ebbene, in questo caso il responsabile pur "pulito" di sostanze dovrà affrontare un processo penale con una pena prevista da 3 a 12 mesi di reclusione e con una automatica sospensione della patente per ben cinque anni. Inoltre il gruppo Pd della Regione Emilia-Romagna ha adottato una risoluzione che chiede alla Giunta regionale di attivarsi insieme al Ministero dell’Interno per ridefinire la responsabilità degli Enti Locali proprietari e gestori delle strade, laddove sia venuta a mancare la manutenzione per mancanza di fondi. Da un lato, infatti, la legge 41/2016 si applica anche a coloro cui compete la tutela della sicurezza stradale, quindi agli Enti locali che abbiano mancato di rendere sicure e fruibili le strade pubbliche. D’altro lato per gli Enti locali, soprattutto per i comuni più piccoli, diventa sempre più difficile garantire una manutenzione adeguata della rete stradale a causa della contrazione delle risorse disponibili. Insomma, questo fiore populistico-penale all’occhiello di Matteo Renzi pare proprio un bruttissimo imbroglio, e non solo per ciò che riguarda gli incidenti sotto l’effetto di alcol e droghe. Intercettazioni che affare! Una torta da 200 milioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 luglio 2016 Costi altissimi, business e clamorosi errori giudiziari. Appalti pilotati, sospetto di una inquietante rete parallela, falle nel sistema, spese abnormi, distorsioni delle trascrizioni e condanne dalla corte europea. Parliamo delle intercettazioni telefoniche e ambientali utilizzate dalle procure durante le indagini. Notizia recente è l’assoluzione di Pietro Paolo Melis, l’allevatore sardo che ha scontato 19 anni di galera da innocente: ad incastrarlo per il sequestro di Vanna Licheri era stata una intercettazione ambientale dove erroneamente la perizia fonica riconobbe la voce dell’imputato. Ai giorni nostri non c’è processo, di una certa rilevanza, nel quale le intercettazioni telefoniche e/o ambientali non la facciano da padrone. In questo contesto molto spesso si parla di abuso delle intercettazioni volendo con ciò indicare una presunta leggerezza della autorità giudiziaria nel gestire questo strumento investigativo. In ogni caso, e comunque la si pensi, sta di fatto che le intercettazioni delle comunicazioni costituiscono uno strumento di indagine assolutamente irrinunciabile pur con il rischio di distorsioni e/o abusi. La distorsione di questo utilizzo non è rara. Secondo le stime degli esperti (un registro delle perizie non esiste), i periti fonici intervengono in centinaia di processi l’anno. Vengono scelti dalla procura e si chiede loro di identificare interlocutori anonimi intercettati, di verificare l’autenticità delle registrazioni, di trascrivere le intercettazioni. Ed è proprio la semplice trascrizione che presenta delle falle non di poco conto e che possono portare alla condanna di persone innocenti. L’inaffidabilità: il caso Lady Asl Oltre all’ultimo fatto di malagiustizia riguardante l’allevatore sardo, c’è un caso esemplare che riguarda l’intercettazione ambientale che portò all’arresto nel 2010 dell’ex direttrice generale della Asl Bari Lea Cosentino, soprannominata dalla stampa "Lady Asl". Dai periti nominati dalla procura ci fu una trascrizione completamente stravolta: in quella conversazione tra Lea Cosentino e Nettis, stando alla trascrizione dell’intercettazione ambientale fatta dal consulente della Procura e confermata nella perizia disposta dal giudice del processo, Lady Asl avrebbe detto "li prendiamo per fessi a tutti e due". Questa frase è riportata anche nell’ ordinanza d’arresto del 14 gennaio 2010. Nel provvedimento cautelare il gip scriveva che questa "locuzione semantica" che si riferisce "agli altri candidati è evidente indice rivelatore della pericolosità della Cosentino". Dopo quattro mesi trascorsi agli arresti domiciliari, il rinvio a giudizio e l’avvio del processo dinanzi ai giudici della prima sezione penale del Tribunale di Bari, "nella certezza che non avessi mai pronunciato tale frase" Lea Cosentino decise di presentare denuncia, chiese ed ottenne copia del supporto informatico contenente l’intercettazione, e affidò a due tecnici la consulenza fonico-trascrittiva. "La firmiamo perché evitiamo tutti i problemi" avrebbe detto Cosentino a Nettis, invece della frase riportata nel provvedimento restrittivo. A rischiare il processo è Giovanni Leo, il perito nominato dal Tribunale di Bari con l’incarico di trascrivere le intercettazioni alla base dell’inchiesta. Per Paolo Tauro, consulente nominato dal pm, c’è l’archiviazione perché è impossibile dimostrare un comportamento doloso da parte del consulente della procura. Discorso diverso per il perito del Tribunale: riascoltando le intercettazione, avrebbe dovuto accorgersi dell’errore. Non sono questi casi rari, tant’è vero che gli esperti in fonetica forense sono preoccupati per la qualità delle perizie usate nei processi, un problema aggravato dalla mancanza di un albo di esperti accreditati. "La confusione regna sovrana: nei tribunali si vedono ipotesi di lavoro ridicole", denunciava mesi fa Andrea Paoloni, ricercatore presso la Fondazione Ugo Bordoni e patriarca della fonetica forense italiana, scomparso nel novembre 2015. Non mancano casi di errata traduzione dialettale. In un’intercettazione, alcuni calabresi parlavano di "granate": il perito pensava fossero "bombe", ma si riferivano a "melograni", in dialetto. Oppure casi gravissimi come l’arresto di uno spagnolo che faceva il lava macchine, ma fu scambiato come il capo di un giro di narcotrafficanti e fu rinchiuso, da innocente, per due anni nel carcere di Poggioreale. Il motivo? Il perito tecnico scelto dalla Procura aveva identificato la sua voce nell’intercettazione ambientale di un narcotrafficante: solo dopo due anni di carcere e altre decine di perizie, il giudice poté rendersi conto che la voce non era di quello spagnolo. C’è un grave problema legato alla sacralizzazione delle intercettazioni. Non è infallibile la tecnica, per questo non potrà mai essere la prova decisiva. Soprattutto perché, come abbiamo visto, è soggetta ad errori e interpretazioni soggettive che variano da perito a perito. Appalti pilotati: un processo C’è una strana storia che per qualche oscura ragione non è mai stata divulgata al momento degli arresti. Il 18 Maggio scorso, durante la seconda udienza di un processo che si celebra avanti al tribunale monocratico di Pescara, si svela uno scenario inquietante. Si tratterebbe di un appalto pilotato dentro la procura, al quinto piano dove ci sono gli uffici del procuratore di Pescara da una parte e la sala intercettazione dall’altra. L’ipotesi investigativa però non mette sotto accusa la procura, ma un capo cancelliere responsabile della tecnostruttura e della parte amministrativa degli uffici giudiziari. L’ipotesi è quella di aver favorito, e dunque pilotato, un appalto per l’affidamento del servizio di intercettazione ambientale. Il capo di imputazione parla di "turbata libertà del procedimento di scelta del contraente", perché, secondo l’accusa, nel settembre del 2012 avrebbe pilotato un appalto per la gestione delle intercettazioni ambientali e telematiche a favore della società Ips Spa di Aprilia, estranea ai fatti. I cronisti del sito giornalistico abruzzese "primadinoi" hanno riportato ciò che è avvenuto durante l’udienza. In pratica sono stati ascoltati i sette testimoni dell’accusa: il vice questore aggiunto Dante Cosentino, che ha riferito brevemente sulle modalità delle indagini; l’amministratore delegato, il responsabile commerciale e i collaboratori della Ips Spa, che hanno spiegato come la ditta vincitrice dell’appalto del 2012 avesse svolto altri servizi nello stesso ambito, per la Procura pescarese, attraverso i consulenti esterni Danilo Alonzi e Antonio Fiorentino. Tra i testimoni anche Antonio Smerilli, all’epoca dirigente della segreteria e creatore della tecnostruttura, oggi collaboratore e consulente del presidente della Regione, Luciano D’Alfonso. Smerilli ha riferito che "nel giugno del 2012, a causa di un grave disservizio, venne sollevata dall’incarico la società che fino a quel momento si era occupata della gestione delle intercettazioni ambientali e telematiche, e si rese necessaria l’indizione di una gara per affidare l’incarico ad una nuova ditta". Secondo il legale dell’imputato, l’avvocato Giuliano Milia, venne avviata una sorta di operazione "trasparenza", attraverso la definizione di 11 criteri tecnici con relativi punteggi, per individuare le condizioni migliori, nell’ambito di una decina di ditte contattate e interessate a presentare un’offerta. La proposta dell’Ips Spa sarebbe risultata quella più adeguata alle esigenze della Procura, ma dopo la convenzione stipulata con l’azienda di Aprilia e sottoscritta anche da un magistrato, alcune delle ditte escluse si sarebbero lamentate, telefonicamente e con segnalazioni scritte. L’udienza è stata aggiornata al prossimo 20 gennaio per ascoltare tre testimoni della difesa. Perché non c’è un unico gestore Ma pilotare gli appalti sulle intercettazioni, risulta così difficile? La risposta è no, anche perché le procure non effettuano dei veri e propri bandi di gara e per questo l’Italia è stata bacchettata dalla Commissione Europea: a giugno del 2012 la commissione ha avviato una procedura di infrazione all’Italia per violazione della direttiva 2004/18/CE sugli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, da parte del regime italiano di assegnazione di contratti nel campo delle intercettazioni telefoniche e ambientali. In pratica non esiste una regolamentazione sugli appalti e in teoria un pm può assegnare l’appalto a chi vuole. Per questo motivo l’ex ministro della giustizia Severino aveva emanato una direttiva affinché si svolgesse una gara nazionale unica che affidasse a un solo gestore l’hardware delle sale d’ascolto di tutte e 166 le procure. Il problema è che ogni anno ne è stata rinviata l’attuazione. Dal ministero della Giustizia risulta che c’è un ennesimo rinvio all’estate dell’anno prossimo. Al momento ogni procura della Repubblica, con metodologie diverse e in assenza di una specifica normativa, sceglie a quale società affidarsi per noleggiare gli apparati necessari a compiere le operazioni di ascolto. Solo alcune procure (Napoli, Catania, Roma, Milano, Torino e Palermo) hanno scelto una gara d’appalto, le altre procedono con affidamenti diretti. Le società leader del settore sono una manciata: Area Spa, Innova Spa, Rcs Spa, Sio Spa, Rt Radio Trevisan Spa, Urmet sistemi Spa. E i costi sono salatissimi. Il bilancio del 2015, riguardo tutto l’apparato giudiziario, è di oltre un miliardo di euro, le spese per le intercettazioni sono le più alte e riguardano il 20 per cento del totale superando la somma di oltre 200 milioni di euro. Ma questa somma va aggiunta anche al debito nei confronti delle aziende private che supera i cento milioni di euro. I rapporti con Assad Le frontiere tra intercettazioni telefoniche e ambientali sono saltate: oggi quasi tutte le microspie hanno incorporata una scheda sim collegata a una linea telefonica. Il sistema più usato dalle Procure per l`intercettazione è il sistema Mcr: una sorta di grande orecchio che consente la registrazione, l’analisi e la gestione di contenuti provenienti da qualsiasi fonte, che sia telefonica o telematica. Questa montagna di informazioni sensibili viene gestita interamente da archivi informatici di privati: le centrali informatiche di queste società possono controllare visivamente l’intero sistema e intervenire su eventuali mal funzionamenti, correggendo l’errore. Quindi in buona sostanza le società private hanno accesso all’intero pacchetto dei dati intercettati. Si apre quindi uno scenario che alimenta quell’area grigia del sistema informatico e telefonico legato alle intercettazioni: se le società di telefonia agiscono sempre sotto la richiesta formale degli inquirenti istituzionali, è pur vero che basta un "gancio" all’interno di esse per poter effettuare le intercettazioni al di fuori del controllo del magistrato, cioè illegalmente. Parliamo di privati, e quindi può capitare che le stesse società che lavorano per le Procure, nello stesso tempo lavorino anche per le dittature sanguinarie. In una inchiesta condotta dalla giornalista dell’Espresso Giovanna Locatelli, siamo venuti a conoscenza che nel dicembre del 2008 il debito maturato dallo Stato italiano nei confronti di tre società che lavorano nel settore delle intercettazioni era arrivato a 140 milioni di euro. Si trattava di Research Control Systems, Area Spa e Sio Spa. Ditte lombarde che gestiscono nella Penisola oltre il 70 per cento del mercato delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Il debitore, lo Stato, era anche il loro unico cliente. È allora che Area spa si affaccia al mercato estero, cercando nuovi contratti di lavoro. Nel 2009 vince una gara d’appalto internazionale con la Siria di Assad, indetta dal gestore telefonico statale - e principale operatore - Syrian Telecommunication Establishment. Il contratto stipulato riguardava le intercettazioni delle e-mail e del traffico su internet nel Paese Mediorientale. L’accordo è del valore di 13 milioni di euro circa. Per il progetto, altamente invasivo e complesso, si utilizzarono hardware e software provenienti da altre tre società occidentali: la californiana Net App Inc., la francese Qosmos SA, e la tedesca Utimaco Safeware. Ognuna delle quali leader, a livello internazionale, nel settore della sorveglianza elettronica. Nel 2010 gli ingegneri informatici italiani erano al lavoro per la Siria e nel febbraio 2011 arrivarono a Damasco gli equipaggiamenti elettronici. Il mese dopo iniziò la rivoluzione siriana con tanto di repressione e il 30 marzo ingegneri e tecnici della società tricolore si trovarono a Damasco per far funzionare il sofisticato macchinario. Qualcosa però andò storto grazie all’inchiesta giornalistica dell`agenzia americana "Bloomberg" che scoperchiò gli accordi e rivelò tutti i dettagli e i retroscena relativi al progetto, compresa la presenza degli ingegneri italiani a Damasco durante la repressione di Bashar Al Assad contro i civili. A questo punto le compagnie Qosmos e Ultimaco fecero un passo indietro, dichiarando di abbandonare il progetto. Nell’ottobre 2011 anche il rapporto tra Area spa e la Siria saltò per gli stessi motivi. Area non è stata l’unica società italiana ad aver collaborato con i Paesi "caldi" del vicino Oriente. La società con sede a Milano, Hacking Team, era attiva anch’essa in Medio Oriente e Africa durante le rivoluzioni della "primavera araba" e vide in quella Regione un importante fetta del suo mercato, come emerge dal bilancio dell’azienda chiuso il 31 dicembre 2010. Nel documento si legge: "Dopo la chiusura dell’esercizio sono avvenuti i seguenti elementi rilevanti: è stato completato l’inserimento di un commerciale dedicato per l’area Middle East e Africa nel mese di gennaio (2011), e al contempo sono state avviate le attività di ricerca di due sviluppatori e un addetto pre-sales entro il 2011". Intervista a Guarinello: "serve una procura per i reati ambientali" di Paolo Viana Avvenire, 20 luglio 2016 Raffaele Guariniello oggi è un magistrato in pensione, il super consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’amianto e sull’uranio impoverito nelle Forze Armate; ma per tutti è il grande accusatore dell’Eternit, il procuratore che ha aperto la stagione dei processi all’amianto che uccide. E che guarda all’esito della battaglia con grande disincanto. Partiamo dalla sentenza Olivetti: a Ivrea è stata condannata la Storia industriale del Paese? Guardi, la prima condanna per un caso di mesotelioma, con la morte di un lavoratore che lavorava alla coibentazione del grattacielo Rai di Torino, è addirittura del 1995; poi venne l’Eternit e altre inchieste, sino all’Olivetti, che è giunta solo al primo grado di giudizio; insomma, siamo di fronte a un processo di giustizia molto lungo e complesso, che negli anni ha creato una ricca giurisprudenza. Più che processare la Storia industriale del nostro Paese direi che l’Italia sta facendo scuola; anzi, è già diventato un faro giuridico a livello internazionale. Qui si celebrano procedimenti che non si fanno in nessun’altra parte del mondo. A ottobre sono invitato a parlare in Brasile perché sono tutti stupefatti di quello che avviene in Italia. Non dimentichiamo che l’amianto continua a essere prodotto e utilizzato in sessanta Paesi, tra cui la Cina, la Russia, l’India. Perché il cuore di questa battaglia batte proprio a Torino? Perché quella procura, dove ho lavorato per tanti anni, era attrezzata per raccogliere questa sfida, mentre molte altre devono fare i conti con deficit strutturali che impediscono di rispondere alla domanda di giustizia di tantissime vittime dell’amianto, le quali ancora muoiono senza che nessuno istruisca un processo. Dal Piemonte alla Sicilia, ci sono migliaia di tragedie inascoltate: a Torino, come a Ivrea, non ci sono magistrati più bravi che altrove; semplicemente, altre procure dispongono di organici troppo ridotti e non riescono a diventare un punto di riferimento per i medici, i quali, una volta riscontrato un caso di mesotelioma, dovrebbero comunicarlo alla magistratura. Come si supera questo deficit strutturale? Il governo dovrebbe dare finalmente una risposta alla domanda di giustizia che sale dal Paese e creare una organizzazione unitaria, una procura o un’agenzia nazionale che si occupi di reati ambientali e non solo. Ad esempio, la procura di Trani sta lavorando bene sulla tragedia ferroviaria di Corato, ma quanti binari a rischio ci sono in Italia? Per prevenire, le procure, vincolate al territorio, non sono sufficienti. Non sempre basta celebrare un processo per avere giustizia. Vero, se si riferisce al primo processo Eternit, conclusosi con la prescrizione, un esito che abbiamo evitato nel caso Thyssen solo perché abbiamo indagato in meno di tre mesi; e anche in quel caso è stato decisivo disporre di inquirenti specializzati. Eternit è finita com’è finita, peraltro, perché abbiamo seguito una prima interpretazione della Cassazione, secondo la quale il reato si consuma finché non cessa nel tempo, ma in seguito la Corte ha cambiato orientamento. Con l’inchiesta Eternit bis avete contestato il reato di omicidio, lo stesso che ha condotto alla condanna di De Benedetti. Non proprio lo stesso, visto che in quel caso si tratta di omicidio colposo, mentre noi abbiamo contestato l’omicidio con dolo diretto. La Corte Costituzionale permetterà che si celebri quel processo? Bisogna aspettare con profondo rispetto il suo pronunciamento sul ne bis in idem. È in discussione una norma del codice secondo cui, stando anche all’interpretazione della Cassazione, non saremmo di fronte a un "duplicato", quindi io confido. Confido, ma rispetto. È una decisione importante: farà giurisprudenza e segnerà il futuro di tutti. Le vostre inchieste lo hanno segnato al punto di ispirare la riforma del codice penale che ha introdotto il reato di disastro ambientale. È un deterrente efficace? Non è dipeso tutto da noi, però, effettivamente, abbiamo dato la spinta finale. Quella riforma introduce pene severe ma non risolve tutto, perché, come avevo sottolineato durante il dibattito parlamentare, è ancora possibile la prescrizione, un problema grosso con disastri che si manifestano a distanza di decenni. Non crede che tutte queste difficoltà dipendano anche dal fatto che il mondo sta camminando in senso contrario alla sicurezza sul lavoro? Noi dobbiamo realizzare una globalizzazione della salute e della sicurezza: non accettare passivamente quella del rischio, che mi pare molto più arretrata, sul piano della civiltà. Le riforme del diritto del lavoro che stanno affermandosi in Europa ci rendono più o meno civili? Ci sono tante novità, ma il testo unico sulla sicurezza del lavoro resta il più avanzato al mondo. Il nostro problema non riguarda le leggi ma la loro applicazione. Poi è anche vero che in Francia, dove pure c’è la Eternit, non sono mai riusciti a celebrare un processo e ciò dipende forse anche dal fatto che il pubblico ministero in Italia non è subordinato al potere esecutivo: un altro motivo per ringraziare i nostri padri costituenti. Ilaria Cucchi chiede aiuto all’associazione nazionale magistrati di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 20 luglio 2016 Dopo l’assoluzione dei cinque medici. La battaglia per la verità sulla morte di Stefano Cucchi, dopo sette anni e una nuova assoluzione per i cinque medici che lo ebbero in cura all’ospedale Pertini, non è ancora finita. Anzi, il quarto processo, quello che verrà e che vede alla sbarra per la prima volta i cinque carabinieri che lo catturarono nel parco degli Acquedotti, trovandogli addosso 28 grammi di hashish, alcune dosi di cocaina e i suoi farmaci antiepilettici, deve ancora svolgersi. Sarà probabilmente il processo della verità ma, dopo l’assoluzione dei medici due giorni fa, il legale della famiglia Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo, è scoraggiato. Tanto che ha detto ieri, intervistato dal settimanale Left, si è lasciato scappare un "pensiamo di ritirarci, è una lotta contro i mulini a vento". Per lui, spiega, quest’ultima sentenza "può essere un assist - cioè un suggerimento - per l’inchiesta nei confronti dei carabinieri indagati". Battagliera come al solito ma anche lei molto provata, la sorella Ilaria Cucchi ieri ha utilizzato il suo spazio-blog sull’Huffinton Post per scrivere una lunga e accorata lettera indirizzata al presidente dell’Anm Piercamillo Davigo intitolato "le persone vengono prima delle sentenze". Il titolo non dà però del tutto il senso di ciò che scrive la sorella del geometra morto il 22 ottobre del 2009 in un reparto dell’ospedale Pertini di Roma. E forse per capire il suo stato d’animo e l’allarme che l’ha portata a rivolgersi al presidente del sindacato dei magistrati bisogna andare a ciò che ha scritto sulla sua pagina Facebook a caldo, ripostando la foto del fratello sul tavolo della camera mortuaria, quattro giorni dopo il decesso. Un corpo più che emaciato, scheletrico, e segnato da ematomi e fratture, come del resto fu riscontrato già nel primo referto medico dopo l’arresto, all’ospedale Fatebenefratelli. Di fatto, spiega Ilaria Cucchi a Davigo, chiedendogli di leggere l’intero incartamento processuale, è come se con l’ultima sentenza la nuova corte d’appello abbia chiesto alla famiglia Cucchi di "farsene una ragione". La sentenza che proscioglie dall’accusa di omicidio colposo, cioè non voluto, il primario Aldo Fierro e gli altri quattro dottori del Pertini usa la formula "perché il fatto non sussiste". "Mi hanno spiegato - scrive Ilaria a Davigo - che questo vorrebbe dire o che Stefano è morto ma non si sa perché e non si potrà mai sapere o che mio fratello è morto di morte naturale o che è morto per colpa sua". Scriveva la sera prima sul social network, con le foto del cadavere del fratello che Fb ha poi rimosso (ma sono riapparse a centinaia, ripostate da altri): "Ciao Stefano, tu eri già così. Lo sei sempre stato. Eri già morto e non ce ne siamo accorti…Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Magari tu sei sempre stato morto". In effetti la foto della morgue - quella foto che Ilaria ogni tanto esibisce come cartello - è la prova più tangibile in mano alla famiglia della vittima, assente in altri casi di persone morte in carcere o agli arresti come nel caso del livornese Marcello Lonzi - ma alcuni avvocati della difesa ora dicono che essendo stata scattata a distanza dal decesso, quell’immagine non sarebbe una prova del reale stato del ragazzo 31enne prima del sopraggiungere della sua ultima ora. Ilaria Cucchi e il suo legale si dicono profondamente rispettosi delle sentenze della magistratura. Ma dopo sette anni anche la nuova inchiesta aperta dal procuratore Pignatone non ha reperito nuovi elementi di prova. Esiste solo la possibilità di una "resa cognitiva" al non poter far luce sulla morte di Stefano Cucchi, proprio quell’abbandono di ricerca della verità che la Cassazione ha ritenuto "inammissibile", respingendo il ribaltamento in appello da condanna a assoluzione per i cinque medici che ieri l’altro sono stati invece nuovamente assolti. "Mi rivolgo a voi perché Stefano non muoia una terza volta", aveva sintetizzato il pm Eugenio Rubolino nella sua arringa chiedendo dai quattro ai tre anni e mezzo per i cinque medici. Intendendo dopo la prima degli uomini in divisa, la seconda dei camici bianchi ora la morte per mano della magistratura. "L’unico fatto che certamente sussiste - dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia - è la morte di Stefano Cucchi". Affidato alle non tanto amorevoli cure dello Stato. Caso Cucchi, un’insostenibile mancanza di giustizia di Giuseppe Anzani Avvenire, 20 luglio 2016 Stefano Cucchi non è morto per colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dice daccapo la Corte d’Assise d’appello di Roma in fase di rinvio. Accusati di aver lasciato in abbandono quell’uomo incapace dal povero corpo stremato, condannati in primo grado per omicidio colposo, poi assolti in appello con una formula ricavata dalla "mancanza di certezze sulla causa della morte", rimessi ancora alla sbarra dalla Corte Suprema che aveva cassato la sentenza, imponendo un nuovo processo, escono ora di scena (salvo ennesimo ricorso) i sanitari, i camici bianchi ai quali è affidata la salute degli uomini. Non conosciamo ancora il percorso argomentativo col quale i giudici hanno risposto al puntiglioso dettato della Cassazione, i cui princìpi ancora si stagliano: il medico è il garante della tutela della salute per ogni paziente, il medico è tenuto a fare "tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente", il medico di cui non è mai giustificabile, neppure nelle situazioni complesse, l’inerzia o l’errore diagnostico. Non abbiamo ragioni nostre per dire che questa rinnovata assoluzione è giusta o sbagliata. È ribadita e ferma. E così la morte di Stefano Cucchi resta un grido che chiede ancora perché. Un grido che non si spegne nel segmento terminale delle ipotesi fatte dai periti e dai vari consulenti di parte (tutti di chiara fama, ma così divergenti); ben prima di incrociare responsabilità personali dirette, ora escluse, interroga il senso dell’ingresso in una struttura di ricovero e di terapia, da parte di un uomo in vinculis, infragilito e a rischio di morte, col corpo ferito. Senza che quel "sistema" lo scampi dal morire, pur senza la colpa penale di nessun camice bianco. È questo lo scacco, il fallimento inaccettabile, che la cronaca ha unito alla crudeltà burocratica della solitudine del ragazzo rispetto ai genitori in attesa di permesso, cui fu dato accesso il giorno dell’autopsia. Il riverbero dell’esclusione della colpa dei sanitari rilancia l’immagine del corpo sfinito per le percosse. Gli agenti di polizia penitenziaria mandati a processo sono stati assolti, in primo secondo e terzo grado. Ma le botte ci sono; la Cassazione commenta persino la "disarmante sicurezza e semplicità di un carabiniere" che testimonia: "Era chiaro che era stato menato". Quelle botte sono un delitto vergognoso, commesso all’interno degli apparati dello Stato. Di quel delitto nessuno sta rispondendo, e il colpevole non si trova e forse non si troverà. È vero che c’è in corso un’altra inchiesta, riguardo ai carabinieri che ebbero tra le mani Stefano Cucchi dall’arresto in poi. Dico "tra le mani" di proposito, come figura di ciò che l’arresto, il fermo, la cattura fisicamente produce, sul piano del possesso o della padronia di un corpo in ceppi, quando legge e forza si fanno tutt’uno. Da quel momento deve scattare una cautela che ha in sé qualcosa di sacro, una salvaguardia per la dignità umana dell’arrestato, una garanzia per la sua incolumità e sicurezza, una responsabilità dello Stato che lo ha in custodia. Purtroppo non accade sempre così, e le trasgressioni sono difficili da smascherare, e talvolta è persino rischioso denunciarle, c’è chi preferisce tenersi l’occhio pesto perché "caduto dalle scale" piuttosto che rischiare una controdenuncia per calunnia. Ci vuole un salto di civiltà, un soprassalto di coscienza. La morte di Stefano Cucchi ha sparigliato molte carte, c’è qualcosa di più importante da fare, che macinare altre doverose sentenze su cenci residui. C’è da rifare luce nel mondo della legge, togliendo ogni opacità e ipocrisia. La vita d’un uomo vale la vita del mondo. Censura per la toga che rinvia a giudizio per un reato prescritto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 19 luglio 2016 n. 14800. Merita la censura il magistrato che dispone il rinvio a giudizio malgrado il reato sia prescritto da mesi. Un "errore" che getta discredito sull’immagine della categoria e costringe le imputate ad affrontare i costi e i patemi di un processo inutile. Le sezioni unite della Cassazione, (sentenza 14800) respingono il ricorso della toga che, come sostituto procuratore, aveva chiesto il rinvio a giudizio per un reato prescritto da circa quattro mesi, come accertato dal giudice dell’udienza preliminare che aveva dichiarato il non luogo a procedere. Infondate le giustificazioni dell’incolpata che aveva fatto leva sulla delicatezza del caso trattato e contestato l’esistenza di un danno per le imputate. Il rinvio a giudizio era stato disposto nei confronti di due medici indagati per la morte di un bambino di 14 mesi avvenuta nel corso di esame endoscopico: un caso archiviato e poi riaperto a tre anni di distanza, in seguito a una nuova perizia. La ricorrente invocava l’applicazione della norma sulla condotta disciplinare irrilevante (articolo 3 del Dlgs 109/2006) che scatta quando il fatto è di scarsa rilevanza. A suo avviso, infatti, il processo non era un danno ma un’opportunità offerta alle indagate di rinunciare alla prescrizione e dimostrare al Gip che c’erano gli estremi per un proscioglimento nel merito. La Cassazione non è d’accordo. Giustamente la sezione disciplinare ha escluso l’applicazione dell’articolo 3 con una valutazione basata sul peso che assume la consapevolezza dell’intervenuta prescrizione, che avrebbe dovuto indurre il pubblico ministero a chiedere l’archiviazione. Un passo imposto dal principio generale regolatore del processo penale (articoli 129 e 411 del codice di rito) che esige l’immediata declaratoria delle evidenti ragioni di proscioglimento, anche nel caso di estinzione del reato. Lo svolgimento di un’udienza preliminare, inutile e dispendiosa, per il giudice disciplinare è stata non solo "espressione di una inescusabile trasgressione, da parte dell’incolpata, di un inderogabile obbligo di legge, ma anche causa di un danno per le parti, costrette ad affrontare l’udienza preliminare, e fonte di compromissione dell’immagine del pubblico ministero in presenza dell’esaurimento della pretesa punitiva da parte dello Stato". Si è così superato il limite della scarsa rilevanza. All’unanimità l’attribuzione di diritti particolari solo ad alcuni soci di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2016 Corte di cassazione Seconda sezione penale, sentenza 19 luglio 2016 n. 14766. L’attribuzione di diritti particolari ad alcuni soci di una Srl non può avvenire a maggioranza. Tanto meno se il tema non compariva all’ordine del giorno. È pertanto legittima la sanzione disciplinare a carico del notaio che ha iscritto nel Registro delle imprese il relativo verbale di assemblea straordinaria. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 14766della seconda sezione penale depositata ieri. La sentenza ha così respinto il ricorso presentato dal professionista contro la sentenza della Corte d’appello che, rivedendo il giudizio della Commissione regionale di disciplina, ha inflitto la sanzione della sospensione per 6 mesi dall’esercizio della professione e 516 euro di misura pecuniaria. Tra i motivi di impugnazione, la difesa del notaio sottolineava come l’articolo 2468, terzo comma, del Codice civile rende legittima una previsione dello statuto societario che attribuisce a singoli soci il potere di individuare uno o più sindaci; scelta statutaria, ricordava il ricorso, che non pregiudica affatto il diritto intangibile di ciascun socio all’informazione e controllo sugli affari sociali. La Cassazione non è stata però di questo parere e, nell’affrontare la questione, mette in evidenza come in realtà la disposizione del Codice civile in discussione, l’articolo 2468, "ha chiaramente attribuito solo al consenso di tutti i contraenti la possibilità di modificare il regolamento contrattuale, che sta alla base della società, con riguardo ai diritti dei soci all’interno dell’organizzazione societaria". Così, se i soci di una società a responsabilità limitata intendono introdurre nell’atto costitutivo una clausola che permetta loro, attraverso una delibera a maggioranza, di modificare i diritti particolari riconosciuti dall’atto costitutivo ai singoli soci, è necessario, avverte la Cassazione, che la decisione che introduce questa deroga sia approvata con l’unanimità del consenso. Inoltre, per l’inserimento successivo, nell’atto costitutivo, di diritti particolari a favore di uno o più soci non si può derogare dalla regolare dell’unanimità "perché l’attribuzione di un nuovo diritto ad un socio coinvolge l’interesse degli altri soci ben più della mera modifica di un diritto preesistente". Per la Cassazione, allora, nella nozione di modifica dei diritti particolari, per la quale serve l’unanimità dei voti dei soci, deve essere compresa anche l’ipotesi in cui questi diritti sono introdotti dopo la stipulazione dell’atto costitutivo, dal momento che l’attribuzione di un nuovo diritto a un socio non può che incidere inevitabilmente anche sui diritti degli altri soci, sulla loro posizione giuridica ed economica nel contesto dell’organizzazione societaria. A rendere ancora più problematica la posizione del professionista c’era poi l’assenza del tema dall’ordine del giorno. Non era cioè presente un’indicazione anche solo sintetica del punto che sarebbe stato trattato. Indicazione che avrebbe consentito ai soci presenti di deliberare in maniera consapevole e informata e agli assenti di non dovere temere colpi di mano. La Cassazione, infine, conclude per l’irrilevanza dell’elemento dell’annullabilità e non della nullità della delibera non unanime. Infatti, ricorda la Corte, dal 2000, dopo la semplificazione della fase costitutiva e di quella modificativa della società di capitali, poi confermata dal nuovo diritto societario, il controllo del notaio è di legalità sostanziale, di verifica della conformità della delibera assembleare rispetto alle caratteristiche del modello di legge. Un controllo che prescinde dalla distinzione dei vizi negoziali, in termini di nullità e annullabilità, e che però si deve concentrare non sui profili di contenuto ma anche sul procedimento formativo. Il notaio cioè, ricorda la Corte, deve svolgere la funzione di "filtro preventivo", rifiutando l’iscrizione nel Registro di delibere assunte in contrasto con le procedure di legge. Più che cambiare il codice serve una cultura del processo di Domenico Carponi Schittar (Avvocato) Il Dubbio, 20 luglio 2016 Il dottor Leonardo Rinella ha lodato il codice Rocco, ricordando, finalmente, che era un codice "liberale, come il suo ispiratore" che era un "giurista eccelso". Era tempo. Direi che le lodi sono state addirittura inferiori ai meriti. Tant’è vero che quel codice predemocrazia e prediritti fondamentali subì in 60 anni meno riforme e meno interventi per incostituzionalità di quanti ne ha subiti, non sempre razionalmente, il "nuovo codice" in 25 anni. Tuttavia quel codice andava riformato ? ma ci sarebbe voluto il pugno di un altro Rocco per evitare che il risultato dei lavori fosse quello della coperta troppo corta che se copre la testa scopre i piedi - quanto meno relativamente ad alcuni istituti, e anche orientandolo verso il sistema accusatorio la cui convenienza era segnalata da eminenti giuristi già pendendo i lavori del codice del 1930. Tanto più era conveniente un raddrizzamento di percorso forse anche per il fatto che la cultura del processo (parlo, in particolare, di quella dei pubblici ministeri e dei giudici) non fosse più pari a quella che mi auguro ? sono vecchio, ma non c’ero ? era stata quella d’un tempo. Ci si sarebbe potuti arrestare alla stessa e invece si è scelto il salto della barricata optando per un sistema, e per un codice ? comincio a distanziarmi qui dal pensiero del dottor Rinella - che non si può dire che non fosse stato fatto sostanzialmente bene. Se poi da molti - da troppi di coloro che avrebbero dovuto applicarlo fedelmente - fu visto e osteggiato come realizzato sul cliché americano, invece di considerarlo impostato sul modello inglese (canadese, australiano, neozelandese, indiano, sudafricano; - come mai lì funziona?), ciò è da ascriversi alla nostra condizionante sudditanza verso la (dis) cultura di quel Paese. E non è da escludere che la resistenza accanita al codice, non ancora esausta, non sia da addebitarsi anche all’atteggiamento ideologicamente contrario a quel Paese. Il dottor Rinella ritiene che l’inadeguatezza del nuovo codice al sistema italiano sia da ascrivere al non aver tenuto "conto delle caratteristiche concrete della giustizia italiana e della realtà dei nostri uffici giudiziari, privi delle dotazioni di personale e strumentali per accompagnare la riforma". Può essere. Tutto può concorrere. Ma più, che "cause" questi, se analizzati a fondo potrebbero essere "alibi". Basti qualche esempio. Quello sul gran discutere sulla stenotipia e dei suoi connessi costi. Esami e controesami dalla perfetta verbalizzazione scritti con la penna d’oca seguendo tecniche elementari che ancor oggi possono essere insegnate e apprese sono ancor oggi - dove si studia - oggetto di studio (se però, invece di "insegnare e apprendere", un Paese preferisce buttar denaro sulla stenotipia anche per l’ubriachezza molesta, imputet sibi). "La tanto osannata cross examination si è rivelata un’utopia"? Sarebbe come dire che va contestata l’appendicectomia perché ai chirurghi non s’insegna a eseguire gli interventi. "Il rapporto di polizia giudiziaria si è inaridito rendendo più difficile il lavoro del pm", - perché? Perché abbiamo fatto strame di norme civilissime, come l’articolo 368 c. p. p.. che impone la ricerca anche della prova a discarico? Vediamola in modo differente – caro direttore ed egregio dottor Rinella - a mezzo di un solo esempio, sempre riferito al codice di rito: la polizia giudiziaria e il pubblico ministero ex articolo 368 raccolgono non solo la prova a carico, ma anche la prova a discarico; il pubblico ministero ex articolo 125 delle disposizioni di attuazione chiede l’archiviazione quando "gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio"; il giudice dell’udienza preliminare ex articolo 425 "pronuncia sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori e comunque non idonei a sostenere un’accusa in giudizio" che prognosticamente pervenga, come vuole l’articolo 533, a una condanna al di là del ragionevole dubbio. Prima di proseguire varrà ricordare le parole di un etologo (K. Lorenz in Natura e destino): "È ormai noto da tempo che nei sistemi organici evolutisi naturalmente "tutto è in rapporto col tutto": rapporto reciproco di cause ed effetti azioni e retroazioni che nel loro insieme costituiscono un sistema di regolarità che mantiene il delicato stato di equilibrio necessario alla conservazione del tutto. (?) Chiunque abbia un certo livello culturale a oggi sufficiente familiarità con le idee della tecnica per capire che uno strumento costruito dall’uomo e di un certo grado di complessità è un sistema nel quale ogni costituente è e deve essere in un rapporto ben equilibrato con ogni altro e che solo così il tutto può funzionare". Applichiamo il concetto all’esempio or ora fatto: quello che lega gli articoli 368, 125, 425, 633 è un percorso armonico. Rompi un costituente, viene meno l’equilibrio e il sistema non funziona. Quante volte, ogni giorno, nel nostro Paese, risulta rotto almeno uno dei tre costituenti? Ossia quante volte, non sono raccolte anche le prove a discarico, il pubblico ministero e il giudice affidano al dibattimento la eventualità (o dovrei dire maliziosamente: la speranza?) che la prova salti fuori al dibattimento? Quanto nuocciono al sistema giustizia, con inutili sovraccarichi e dispendio di energie economiche e umane, "caratteristiche concrete della giustizia italiana" come queste?... Ed è, ripeto, soltanto un esempio?. Recentemente un procuratore della repubblica - lodando nostre novelle legislative (già adottate da decenni in altri paesi meno famosi del nostro quanto all’essere "culla del diritto") - ha esternato pubblicamente che "fino ad oggi abbiamo garantito gli indagati, da oggi in avanti garantiremo le vittime". Ahimè, sono parole che lasciano pensare che il vizio non sia nel codice d’oggi e paiono piuttosto evidenziare caratteristiche concrete della giustizia italiana alle quali nessun altro codice potrebbe tener testa - neanche l’ottimo codice Rocco - per cui non gioverebbe (Dio ci guardi) creare una nuova commissione per un’altra riforma. Forse la vera soluzione potrebbe stare nel rendersi conto che andrebbe messa mano alla creazione, finalmente, di una cultura della legge e del processo atta a educare quanti - giudici, pubblici ministeri, polizia giudiziaria, avvocati ? sono funzionali al sistema giustizia. Cultura che oggi - se è esistita prima - a quanto sembra, latita. Dopo Genova 2001, la tortura dell’emendamento di Lorenzo Guadagnucci Il Manifesto, 20 luglio 2016 Legge contro la tortura. A Genova un confronto a più voci su una legge debole e inutile per le mediazioni tra politici e rappresentanti delle forze di polizia. Una discussione parlamentare surreale senza mai nominare Diaz e Bolzaneto. Se manca un riconoscimento pubblico e chiaro le vittime restano senza voce. La cura e il riscatto di chi subisce tortura restano confinati nel privato, nel silenzio. Allora meglio niente che un brutto pasticcio. Venerdì scorso a Genova abbiamo discusso attorno a un tema cruciale, per quanto snobbato dai più e rimasto invisibile sui media. Il convegno si intitolava "Perché non puniamo la tortura?" e attraverso i vari e qualificati interventi (Antonio Bevere, Stefano Anastasia, Enrico Zucca, Marina Lalatta Costerbosa, Mimmo Franzinelli, Emanuele Tambuscio, Sandro Gamberini, Sergio Lo Giudice, Gennaro Migliore, Elena Santiemma, Michele Passione, Adriano Zamperini, Maria Luisa Menegatto, chiamati dalla rivista Critica del diritto in collaborazione con Antigone e Altreconomia) si è capito quanto siamo distanti, nel nostro paese, da una sincera comprensione di che cos’è la tortura e di quali sono gli strumenti adatti a prevenirla e quindi limitarla. Penso che in Parlamento sia in corso un "non-dibattito" su una "non-legge", visto che il tema vero della discussione è il seguente: come facciamo a introdurre una legge sulla tortura, come la Corte europea per i diritti umani ci chiede e in qualche modo ci impone, senza scontentare troppo i corpi di polizia, che sono pregiudizialmente contrari? Ecco il succo del non-dibattito e la spiegazione del perché le Camere si rimpallano la patata bollente e concentrano la discussione su articoli di legge, locuzioni verbali, eccezioni e distinguo che vanno tutti nella stessa direzione: correggere la normativa standard internazionale in modo da ridurne l’incidenza pratica e simbolica. Di emendamento in emendamento si è arrivati a formulazioni così confuse e maliziose da far dubitare che il futuro crimine di tortura si applicherebbe a un nuovo caso Diaz o - peggio ancora - alle torture che effettivamente si praticano nel mondo contemporaneo, quasi sempre senza contatto fisico, spesso addirittura per omissione. Ascoltando Enrico Zucca, pm a nel processo Diaz, o Marina Lalatta Costerbosa, autrice di recente di un libro importante come "Il silenzio della tortura", sono convinto alla radice di simile disastro vi sia il rifiuto di accettare che la tortura è fra noi e ci riguarda tutti, perché guasta profondamente la relazione fra cittadini e istituzioni. Siamo di fronte a una rimozione che comincia con l’esclusione dall’ordine del discorso delle figure più preziose, ossia le vittime-testimoni degli abusi. Queste persone sono state ascoltate in tribunale nei processi Diaz e Bolzaneto ma la loro voce non è andata oltre. Non le conosciamo, non hanno fatto opinione, non sono state né consultate né coinvolte in una discussione franca (il Parlamento ha cancellato immediatamente la previsione di un fondo per le vittime, indicato come una necessità dalla Convenzione internazionale contro la tortura, sostenendo che un’ipotesi di spesa avrebbe complicato l’iter del progetto). La storia della tortura dimostra che chi subisce gli abusi perde fiducia nell’altro e nella società: la tortura è praticata proprio col fine dell’esclusione sociale e dell’annientamento, colpisce alcuni per impaurire tutti gli altri. Lottare contro la tortura ha dunque come necessaria premessa la cura e il riscatto di chi la subisce, sapendo che la prima reazione del torturato è il silenzio, perché chi è vittima di un abuso ne prova vergogna, si sente umiliato e non compreso, spesso è anche impaurito. Ma la tortura non è un fatto privato: chi vi è sottoposto è suo malgrado simbolo e portavoce di tutti i cittadini. Se manca questo riconoscimento pubblico la tortura non può essere percepita e giudicata socialmente per quel che è. Lo vediamo bene nel nostro paese. In Parlamento si discute di tortura senza menzionare né Diaz né Bolzaneto e il non-dibattito in corso ha per protagonisti dirigenti e sindacalisti delle forze di polizia (18 di loro sono stati "auditi" alla Camera, su un totale di 24), per quanto il principale loro argomento sia del tutto risibile: una legge sulla tortura - dicono - esporrebbe gli agenti al pericolo di denunce e quindi li indurrebbe a non svolgere bene le loro normali funzioni, come arrestare o gestire l’ordine pubblico. Come se nei paesi che hanno una buona legge sulla tortura - in Europa quasi tutti - non si arrestasse o non si operasse in piazza durante cortei e altre manifestazioni. Nell’incontro di Genova il senatore Lo Giudice ha riconosciuto le lacune del testo oggi in discussione precisando però che la legge dev’essere comunque approvata perché i rapporti di forza parlamentari non consentono niente di meglio. Gennaro Migliore, sottosegretario, si è spinto più in là, affermando che il varo della legge porterà una rivoluzione e difendendo - a mio avviso in modo non convincente - i punti più critici dell’attuale testo, ossia l’uso del plurale ("violenze o minacce") rimasto dopo la cancellazione del vocabolo "reiterate" e la necessità che il trauma psichico inflitto sia "verificabile", con tutto ciò che simile dizione - una specialità italiana - comporta in termini di accertamenti psichiatrici e di evidenti rischi di fallacia della norma (possiamo immaginare che a parità di trattamenti inflitti a due persone, se vi fosse per qualsiasi ragione un solo trauma psichico verificato, avremmo un aguzzino processato per tortura e l’altro no…). Riconosco che il lavoro parlamentare è ben altra cosa rispetto all’attivismo sociale e reputo le persone menzionate del tutto stimabili, e tuttavia devo dire - da cittadino e testimone di tortura - che siamo troppo distanti da un accettabile quadro di discussione e di intervento. Sappiamo tutti che una legge sulla tortura, anche la migliore, non garantirebbe l’estinzione degli abusi: la legge, per essere efficace e cambiare davvero lo stato delle cose, dovrebbe essere accompagnata da interventi legati a tutti gli snodi più delicati: l’incapacità delle forze dell’ordine di riconoscere i propri errori e di porvi rimedio; l’opacità delle condotte e l’avversione per la trasparenza; il mancato rispetto, da parte del nostro governo, degli adempimenti indicati nella sentenza di condanna della Corte di Strasburgo sul caso Diaz, come la rimozione dei condannati e l’obbligo di codici di riconoscimento sulle divise; l’urgenza di rivedere radicalmente i criteri di formazione e reclutamento (oggi si entra in polizia solo dopo il servizio volontario nelle forze armate). Tutti argomenti tabù. Se c’è una cosa che credo di aver capito in questi quindici anni che ci separano dal G8 di Genova, è che una riforma democratica delle forze di polizia è una necessità per i cittadini. Per tutti i cittadini, inclusi i cittadini in divisa, oggi in balìa di una dirigenza e di una cultura professionale che non sembrano in linea - per usare un eufemismo - con i migliori standard democratici. Per queste ragioni dobbiamo tenere aperta la discussione, coinvolgere i cittadini comuni, cercare alleanze fra quelli in divisa, mostrare a tutti che quando parliamo di tortura e di polizia in realtà parliamo dei fondamenti della democrazia e della convivenza civile, non di questioni tecniche o di norme di settore. Molti dicono che approvare una legge sulla tortura, per quanto imperfetta e quindi simile al testo oggi in discussione, sarebbe comunque un passo avanti, io mi sono invece persuaso che stiamo ormai parlando di una legge-feticcio, cercata e agognata magari per buone ragioni ma ormai inservibile, per quanto è farraginosa e minata da cattive intenzioni, allo scopo d’essere un presidio di democrazia e di protezione dei diritti fondamentali dei cittadini. A Genova si è visto che siamo in molti a pensarla così. Se il Parlamento alla fine approverà quella legge si dirà che la riforma è fatta, che la pagina è voltata e che le forze di polizia italiane stanno cambiando, ma sarà un’illusione e dovremo invece lottare ancora per una vera riforma, per una vera prevenzione degli abusi di potere; a quel punto sarà ancora più difficile farlo. In verità non ci sono scorciatoie: il cambiamento al quale aspiriamo non può essere calato dall’alto, esito di un confronto dai toni surreali fra parlamentari da un lato e dirigenti e sindacalisti di polizia dall’altro; il cambiamento arriverà se i cittadini lo vorranno, se sapremo avviare la discussione che finora non c’è stata. Trieste: se al processo per omicidio la Corte si ritira (al ristorante) di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 20 luglio 2016 Indagato dalla procura di Bologna il presidente Reinotti che aveva portato i giudici a pranzare prima della sentenza. Verdetto (di condanna) a rischio. L’imputata: "Li ho visti pranzare allegramente". Reinotti: "Non commento ma non esistono norme specifiche". Trieste non è New York e le Corti italiane non sono le giurie americane. Nel senso che non hanno gli stessi doveri di isolamento, segretezza e candore rispetto al giudizio. Ma neppure possono andare allegramente al ristorante quando si ritirano in Camera di consiglio per decidere se condannare un imputato di omicidio. E siccome nel capoluogo giuliano sembra sia andata un po’ così, ecco che il processo si rovescia e sotto accusa finiscono i giudici. Anzi, il primo giudice di quel processo, cioè il presidente della Corte d’assise d’appello di Trieste, Pier Valerio Reinotti, indagato per falso ideologico in atto pubblico proprio in relazione alla scelta di andare al ristorante con l’intera Corte. L’accusa - L’accusa è mossa dalla procura di Bologna, competente a indagare sui magistrati triestini, che ha chiuso di recente l’inchiesta depositando gli atti. Dai quali emerge l’intera vicenda, che sta peraltro mettendo a rischio un processo per omicidio. Succede tutto il 26 giugno del 2015, il giorno della sentenza d’appello Feltrin. Sul banco degli imputati c’è Fiorella Fior, la dipendente delle Poste che nella notte del 10 febbraio 2012, al culmine di un litigio, uccide con una coltellata il compagno Carlo Feltrin nella sua casa di Udine. I giudici di primo grado l’avevano condannata a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, riconoscendole l’eccesso di legittima difesa. In secondo grado, il 26 giugno, è stata invece una stangata: nove anni e quattro mesi per omicidio volontario. L’anomalia - La cronaca di quel giorno è stata ricostruita ora per ora. Alle 11.40 la Corte d’Assise d’appello dichiara chiuso il dibattimento e si ritira in camera di consiglio per deliberare. Il presidente rinvia tutti al pomeriggio per la lettura della sentenza: "Dopo le 14.30". É in quelle tre ore che accade l’anomalia. Perché ti aspetteresti un lungo, riservatissimo consulto fra giudici, magari intervallato da un pasto frugale portato con cautela in camera di consiglio. La Corte decide invece di prendersi del tempo per pranzare al ristorante. Sia chiaro, non il Cosme di New York: Peperino Pizza & Grill. Il fatto è che in quel locale è capitata anche l’imputata che ricorda così la scena: "In un grande tavolo in fondo alla sala esterna del locale c’erano tutti i miei giudici che serenamente e allegramente pranzavano, mentre il presidente, capotavola, sembrava animare la conversazione". "Abbandono collettivo" - Sfortuna ha poi voluto che in un altro tavolo ci fossero anche i suoi avvocati, testimoni pure loro del curioso banchetto. I quali hanno naturalmente colto la palla al balzo per urlare allo scandalo. "Abbandono collettivo della camera di consiglio!", ha scritto Federica Tosel, difensore di Fiorella Fior. Di più: "Dell’intero Palazzo di giustizia". "Compromesso il processo". "Sentenza illegittima". Chiudendo la denuncia con la battuta graffiante: "Ristorante di consiglio". Inevitabile l’esposto al Csm che si è però dichiarato incompetente. E inevitabile anche il ricorso per Cassazione contro la condanna. La difesa - Nel frattempo a Bologna si muoveva il pm Luca Tamperi che ora ha chiuso l’indagine. Il presidente Reinotti preferisce non commentare: "Dico solo che non ci sono norme specifiche che regolamentano la materia". Gli inquirenti ritengono che anche se non siamo in America l’assenza va quantomeno verbalizzata e giustificata da buoni motivi. Resta dunque un dubbio: è o non è un buon motivo d’abbandono quel languorino che ha spinto i giudici al ristorante? Torino: scandalo Grinzane, ricoverato in coma l’ex patron Giuliano Soria di Sarah Martinenghi La Repubblica, 20 luglio 2016 Il professore è stato incarcerato cinque giorni fa dopo che la condanna a 6 anni e 8 mesi è diventata definitiva. Colpito stamane da insufficienza respiratoria. È in coma, in gravi condizioni, Giuliano Soria: l’ex patron del premio Grinzane Cavour è ricoverato in rianimazione all’ospedale Giovanni Bosco, affetto da insufficienza respiratoria acuta. Il 118 l’ha trasportato d’urgenza questa mattina in ospedale dal repartino del carcere delle Vallette in cui si trovava rinchiuso da cinque giorni. Il 13 luglio infatti la Cassazione aveva confermato la sua condanna, riformulando la pena a 6 anni e 8 mesi di carcere per peculato e violenza sessuale, dato che l’accusa di maltrattamenti al maggiordomo Nitish era ormai prescritta. Mercoledì scorso era stato portato in carcere, nonostante i suoi avvocati Aldo Mirate e Luca Gastini avessero chiesto gli arresti domiciliari per motivi di salute. "Sto molto male, ho un’infezione a una gamba che non mi permette di camminare" aveva dichiarato Soria dalla sua casa di via Montebello il giorno prima della sentenza della Cassazione. "È molto provato e sofferente - si limita a commentare l’avvocato Mirate - era previsto che facesse un controllo medico in ospedale perché non sta bene, è affetto da più patologie". Viterbo: detenuto tenta di impiccarsi, salvato dalla polizia penitenziaria tusciaweb.eu, 20 luglio 2016 Tragedia sventata la scorsa notte al carcere di Mammagialla, quando un detenuto italiano sulla quarantina ha provato a impiccarsi in cella con un cappio fatto di stracci. Provvidenziale l’intervento degli agenti di polizia penitenziaria che, durante un giro di ispezione, hanno notato che qualcosa non andasse. Subito hanno bloccato l’uomo che, affidandolo poi alle cure dei medici. "Ringrazio il personale di polizia penitenziaria - dice Danilo Primi, delegato regionale Uspp - perché nonostante sia sotto organico lavora sempre con la massima attenzione per garantire la sicurezza e la tutela dei detenuti all’interno del carcere. È per loro, se oggi, si è sventata quella che poteva essere una tragedia". Non meno di una settimana fa, Primi aveva denunciato un’altra criticità per il personale di polizia costretto a lavorare in locali che superano i 30 gradi. "Sulla questione dei climatizzatori - conclude Primi - non abbiamo ancora avuto risposte e, se non le avremo entro breve, siamo pronti a manifestare davanti all’istituto". Milano: il Consigliere regionale Mantovani a San Vittore, porta donazione per la legatoria Agi, 20 luglio 2016 "Oggi sono qui per mantenere l’impegno preso quando il 23 novembre ho lasciato San Vittore. Una lettera consegnatami di alcuni detenuti chiedeva infatti di poter procurare del materiale per la legatoria del carcere ormai chiusa. Devo dire che grazie ad una raccolta fondi oggi consegniamo tre quintali di carta, 30 chili di colla, 150 listelli, vinilpelle e materiale vario". Lo ha reso noto il Consigliere regionale della Lombardia Mario Mantovani, davanti al carcere milanese dove ha consegnato il necessario per la ripresa della attività della legatoria all’interno dell’istituto penitenziario. "Tornare qui - ha continuato - è una cosa drammatica, ma ho voluto adoperarmi per aiutare questi ragazzi. In Italia ancora troppi pochi detenuti hanno la possibilità di lavorare e i dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dicono che la recidiva di reato è circa il 19% per chi ha svolto attività lavorativa mentre è del 68% per chi durante la propria detenzione non ha avuto modo di seguire programmi di reinserimento lavorativo. In consiglio regionale abbiamo approvato una risoluzione che impegna la giunta ad assumere provvedimenti più incisivi per favorire lavoro e formazione all’interno degli istituti penitenziari lombardi. Ho già chiesto al Presidente della Commissione Fanetti di potermi occupare della questione perché la mia volontà è quella di portare avanti con determinazione questo tema. Ritengo fondamentale che le istituzioni forniscano tutti gli strumenti utili per poter offrire una seconda possibilità di vita a chi ha sofferto la disavventura del carcere", ha concluso Mantovani. Asti: avviato al carcere di Quarto il progetto pilota "Dentro con Fido" atnews.it, 20 luglio 2016 È partito a luglio 2016 presso la casa di Reclusione di Quarto d’Asti il progetto pilota "Dentro Con­fido", organizzato in collaborazione con il campo Cinofilo Skipper di Castagnito. Il progetto fortemente voluto dal direttore Dott.ssa Elena Lombardi Valluri, dal comandante Ramona Orlando, dal capo area Trattamentale Maria Vozza e da Sabina Zappalà, educatore cinofilo, operatore in IAA, il Progetto sta coinvolgendo 8/10 detenuti. Il centro cinofilo di Castagnito specializzato in interventi assistiti con gli animali coinvolgerà i detenuti per 5 incontri. Il progetto vuole portare tra i detenuti la realtà cinofila. Il percorso sarà strutturato su un modello innovativo di Eaa­Educazione assistita con animali e in linea con quanto prescritto dalle linee guida nazionali in materia di interventi assistiti con animali (IAA). L’attività permetterà di affrontare tutte le tematiche principali della relazione e conoscenza del cane. "Il nostro intento ­afferma Sabina Zappalà responsabile del centro ­ è quello di dare competenze cinofile e riaprire un filo di affettività verso un altro essere. Lavoreremo sulla collaborazione tra i detenuti e il cane. Inoltre, guidato dall’amico umano, il cane, dimostra che si possono esprimere i propri istinti e utilizzare le proprie capacità naturali in modo sano, piacevole per sé e per gli altri, trovando in questo equilibrio e sicurezza. S’intende promuovere una "rieducazione affettiva" dei carcerati." Nel corso dell’intervento vengono toccate tante attività proprie della relazione uomo­cane, quali: ­l’approccio (modalità di relazione col cane). ­il contatto (relazione tattile). ­la relazione epimeletica (grooming, accudimento, affettivo). ­l’interazione mimetica (imparare a muoversi insieme all’animale). ­il gioco. ­il dialogo (comunicazione paralinguistica). ­la collaborazione. Il pet diviene un vero e proprio mediatore dell’aggressività, uno stimolo positivo che contrasta con la vita in carcere. Gli obbiettivi sono: minori livelli di ansia, depressione, solitudine, inutilità, che portano anche ad una diminuzione di medicinali assunti: ­ diminuzione dell’aggressività e dei suicidi; ­ divertimento: il gioco con un cane o il guardarlo giocare e interagire con noi umani ed i suoi simili è indubbiamente divertente; ­ aumento del rispetto verso gli altri: quindi una maggiore cooperazione tra detenuti e personale di custodia. Gli animali, inoltre, accettano gli altri senza pregiudizi di alcun tipo, quello che conta è l’instaurarsi di una relazione positiva. Questo messaggio potrà essere riportato nelle relazioni con le altre persone. Il progetto pilota ha l’intento di promuovere progetti futuri con finanziatori esterni, per allargare il discorso cinofilo in relazione con il carcere. Prato: poliziotto ammette "sono miei i post razzisti, sconvolto dagli attentati" di Luca Serranò La Repubblica, 20 luglio 2016 Così l’agente ha giustificato in procura le sue frasi su Facebook contro la Boldrini e la vedova del nigeriano ucciso a Fermo. "È vero, sono stato io. Ero nervoso, gli ultimi attacchi terroristici mi avevano dato alla testa". Avrebbe risposto così, davanti al procuratore Giuseppe Nicolosi, il poliziotto in servizio alla questura di Prato finito nella bufera per alcuni commenti shock apparsi sulla sua pagina Facebook, con violenti insulti alla vedova del ragazzo nigeriano ucciso a Fermo e irriferibili invettive contro la presidente della Camera, Laura Boldrini. L’agente, sotto indagine per i reati di istigazione all’odio razziale e diffamazione a mezzo stampa, si è presentato in procura accompagnato dal suo legale, l’avvocato Marco Parducci. Un faccia a faccia durato meno di un’ora, durante il quale si sarebbe mostrato pentito per le frasi, dando la "colpa" a un attacco di rabbia scatenato dalla campagna di terrore dei seguaci dell’Is. Le conseguenze rischiano comunque di essere pesanti. Oltre all’inchiesta penale, sul poliziotto - già spostato in via cautelare da ruoli operativi a un lavoro d’ufficio, lontano dal pubblico - pende infatti un procedimento disciplinare avviato dal questore Paolo Rossi. I primi provvedimenti, alla luce della "confessione" resa in Procura, potrebbero scattare a breve. Nessuna voglia di parlare, intanto, da parte dell’agente. "Posso solo dire che sono state rese dichiarazioni, che il mio assistito non si è avvalso della facoltà di non rispendere - dice l’avvocato Tarducci - Per il resto siamo ancora in fase di indagine, non possiamo entrare nel merito della vicenda". Il caso esplode la scorsa settimana, poche ore prima della strage di Nizza. In un crescendo di odio, l’agente attacca prima la vedova del ragazzo di Fermo, poi si scaglia con incredibile violenza contro la presidente della Camera, oggetto di insulti sessisti e macabri auspici. Diversi i post, poi rimossi, che finiscono sul tavolo della squadra mobile e della polizia postale. "Giustizia è stata fatta e quella donna, nera bianca o gialla che sia deve essere incriminata e lasciata alla sua vita inutile...", il primo messaggio, pubblicato insieme con un articolo di stampa in cui si parla della presunta nuova versione di Chiniery sui fatti che hanno portato alla morte del marito. Poi gli attacchi si concentrano su Boldrini, per la scelta di non partecipare ai funerali delle nove vittime italiane del terrorismo a Dacca e "santificare" invece due persone, Emmanuel e sua moglie, che "che hanno mandato in galera un innocente". Le frasi suscitano indignazione tra gli utenti, ma c’è anche chi le difende, donne comprese. Il tam tam finisce per rimbalzare in tutta la città, tanto che nel giro di poche ore gli screenshot raggiungono gli uffici di polizia e poi il tavolo dello stesso questore Paolo Rossi. La reazione è dura: prima una segnalazione d’urgenza in procura, poi un provvedimento amministrativo "in via cautelare", con il poliziotto spostato in un ufficio in attesa della fine degli accertamenti. In un primo momento le indagini si concentrano proprio sul profilo Facebook, per sgombrare il campo da ipotesi come un furto d’identità, un hackeraggio, o uno scherzo di cattivo gusto, ma col passare dei giorni i dubbi lasciano spazio alle prime certezze. Fino a ieri pomeriggio, quando l’agente si è presentato in Procura e ha ammesso la paternità delle frasi. Le indagini vanno comunque ancora avanti. Non si esclude, al momento, che nel mirino possano finire anche altri utenti che hanno aderito ai commenti razzisti. Il doppio volto del terrore islamico di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 20 luglio 2016 L’Isis si avvale - lo ha sempre fatto ma adesso appare più chiaro - di chiunque sia utile ai suoi scopi. Esseri umani lucidi e determinati, così come personalità disturbate e ingestibili. Bevitori e delinquenti così come fedeli ligi ai precetti delle cinque preghiere. In coda all’aeroporto o seduti in metropolitana, per gioco macabro o vera ansia, molti si saranno chiesti almeno una volta: chi ha il volto dell’attentatore? Chi potrebbe farsi esplodere, o tirare fuori un coltello? Il pregiudizio indurrebbe a fissare lo sguardo sul devoto in djellaba e barba sul mento, segni visibili di lunga e convinta appartenenza religiosa islamica. Ma sul treno in Germania a colpire è un 17enne autoradicalizzato di recente, e a Nizza il Tir lo ha guidato "il George Clooney del quartiere", come i vicini chiamavano l’assassino: sorriso da attore, fisico scolpito in palestra, dedito all’alcol, al sesso con uomini e donne, mai andato in moschea. Sull’orlo della follia, ma reclutato in extremis da uno jihadista algerino dell’Isis. Terrorista islamico, quindi, anche lui. Gli orrori di questi giorni mostrano che esiste il terrorismo dell’Isis, ma non un unico profilo religioso, etnico, culturale, e poi operativo dei suoi adepti. La minaccia quindi è ancora più grave. Per affrontarla, due posizioni - ugualmente ideologiche - si sono ormai cristallizzate da anni: un campo tende a sminuire il ruolo dell’Islam, connotato in modo sbrigativo come "religione di pace"; l’altro individua nel Corano i germi di una inevitabile violenza, e accusa di cecità e sottomissione chiunque provi a distinguere tra musulmani e fondamentalisti predestinati al terrorismo. "Benpensanti" contro "islamofobi", secondo il lessico delle accuse reciproche. Gli eventi sembrano dimostrare che entrambe le griglie non funzionano. Se l’obiettivo è capire il rapporto tra religione islamica e radicalismo islamista, bisogna provare a mettere insieme i fatti, senza processi alle intenzioni. La storia personale di Mohamed Bouhlel, l’attentatore di Nizza, è importante e va raccontata non perché qualcuno potrebbe usarla per assolvere l’Islam incolpando la malattia mentale (poveri malati mentali, tra l’altro), ma perché mostra chi sono i nemici che abbiamo di fronte. L’Isis si avvale - lo ha sempre fatto ma adesso appare più chiaro - di chiunque sia utile ai suoi scopi. Esseri umani lucidi e determinati, così come personalità disturbate e ingestibili. Ubriaconi e delinquenti, magari rapper amanti della musica tanto odiata dai predicatori salafiti, così come fedeli ligi ai precetti delle cinque preghiere e del Ramadan. E bisessuali, che l’organizzazione accoglie come suoi "soldati" a Orlando e Nizza con solennità postuma mentre a Raqqa, capitale del Califfato, verrebbero fatti volare giù da un palazzo per punizione. È terrorismo islamico quello del 13 novembre a Parigi: un’azione coordinata e complessa, ideata in Siria e portata a termine da combattenti addestrati. Ed è terrorismo islamico pure quello del 14 luglio, un camion di 19 tonnellate che piomba sul lungomare di Nizza. Il fatto che l’attentatore fosse un 31enne con problemi psichici che si è radicalizzato - o meglio convertito - all’improvviso non toglie nulla al carattere terroristico, ideologico e politico del suo gesto: ha compiuto un’azione invocata già dal settembre 2014, e rivendicata adesso, dallo Stato islamico. Mohamed Bouhlel può non essere mai andato in moschea in vita sua, ma l’Isis è stato comunque in grado di orientare la sua conversione e dargli la copertura morale per la carneficina della Promenade des Anglais. E non importa se sia "artigianale", dipinta a mano, la bandiera dello Stato islamico trovata a casa del ragazzo afgano autore due sere fa dell’assalto sul treno in Germania. Quel simbolo gli ha fornito comunque la forza per calare l’accetta sui passeggeri. Il punto è che la propaganda dell’Isis è efficace quale che sia il percorso religioso e culturale dei suoi seguaci. Anzi, prolifera soprattutto tra quanti, nelle giovani generazioni, hanno abbandonato l’Islam dei padri. L’Isis arriva a colmare un vuoto, e fa presa persino su tanti europei che si sono formati lontano dall’Islam. I famosi convertiti rappresenterebbero circa il 20 per cento dei combattenti stranieri nel Califfato. Tra loro c’è Maxime Hauchard, un ragazzo dai lineamenti delicati e gli occhi azzurri, nato e cresciuto non nelle "banlieue degradate", come si è soliti dire, ma in una famiglia cattolica del piccolo villaggio di Bosc Roger en Roumois, tra le mucche e i cavalli della Normandia, e finito poi a tagliare teste in Siria con il nome di Al Faransi ("il francese"). Certe volte i predicatori islamici preparano il terreno per il passaggio alla jihad. Più spesso la stessa religione - l’Islam - serve da argine, riesce a trattenere giovani che altrimenti sarebbero tentati dall’Isis come da una setta. Per questo lo Stato islamico tende a disprezzare i musulmani che continuano a vivere in Europa (nella terra dei "miscredenti"): spesso sono di cultura islamica ma ormai secolarizzati, quindi - nell’ottica del Califfato - vicini all’apostasia meritevole della morte. Oppure, se religiosi praticanti, i musulmani europei restano in maggioranza fedeli a un Islam tradizionale che non ha la portata rivoluzionaria auspicata dallo Stato islamico. L’Isis sospetta i musulmani europei di connivenza con il nemico, teorizza che sono vittime collaterali sacrificabili, a Nizza lo ha messo in pratica. Attribuire al terrorismo islamico gli attentati compiuti da squilibrati con scarsi legami organici con l’Isis non significa essere "islamofobi". Segnalare il rapporto spesso conflittuale tra religione islamica e radicalismo islamista non è una tesi da "benpensanti" che non hanno il coraggio di aprire gli occhi. Le due realtà convivono. Lo dimostra l’attentato del 14 luglio a Nizza: sulle 84 vittime del terrorismo islamico dell’Isis, oltre trenta sono musulmane. Caso Regeni, l’Egitto conferma il no alle richieste dell’Italia: "Sono incostituzionali" La Repubblica, 20 luglio 2016 La commissione egiziana che lavora al caso del ricercatore assassinato accusa l’Italia di aver chiesto parte dei tabulati, l’estradizione di tre persone e le immagini di telecamere a circuito chiuso "Richiesta in contrasto con la Costituzione". Fonti investigative di Roma: "Non è stata chiesta l’estradizione di alcuno". Le richieste avanzate dall’Italia all’Egitto nell’ambito delle indagini sulla vicenda Regeni sono "incostituzionali". Così il segretario della Commissione esteri della Camera del Cairo, Tarek al Kholi, dopo che la commissione parlamentare trilaterale egiziana che lavora al caso del ricercatore assassinato, ha confermato il rifiuto a condividere con gli inquirenti italiani una parte dei materiali dell’inchiesta; secondo la Commissione, l’Italia avrebbe chiesto l’invio dei tabulati telefonici, l’estradizione di tre persone e l’acquisizione delle immagini di alcune telecamere a circuito chiuso. Tuttavia fonti investigative italiane che seguono la vicenda replicano che l’Italia "non ha chiesto l’estradizione di alcuno, quindi le accuse sarebbero senza fondamento. Non solo l’Italia "non ha chiesto alcuna estradizione", ha aggiunto la fonte investigativa, ma l’Egitto, diversamente da quanto riferito dal parlamentare, "ha già fornito una parte rilevante dei tabulati telefonici" richiesti dall’autorità giudiziaria di Roma. Una dichiarazione, quella di al Kholi, che "non aiuta la distensione dei rapporti tra Egitto e Italia", tesi sin dal 3 febbraio, giorno del ritrovamento al Cairo del cadavere martoriato di Giulio Regeni. Fra gli episodi più recenti, la reazione del ministero degli Esteri del Cairo dopo la conferma, nel decreto missioni, del blocco delle forniture italiane di pezzi di ricambio per i caccia F16 egiziani: una decisione, aveva minacciato il Cairo, che avrà "conseguenze anche sulla lotta all’immigrazione clandestina nel Mediterraneo e in Libia". In un comunicato il deputato ha riferito della riunione della Commissione parlamentare trilaterale egiziana - Esteri, Difesa e Diritti umani - con i rappresentanti del ministero dell’Interno, della Giustizia e della Sicurezza nazionale, nella quale si è fatto "il punto sulle inchieste riguardanti l’omicidio del giovane italiano Regeni". Al Kholi ha indicato che "i rappresentanti dei due ministeri hanno informato le tre Commissioni del loro rapporto con gli investigatori italiani e della loro piena collaborazione con la parte italiana", aggiungendo che "la riunione odierna ha svelato quelle che sono le vere richieste italiane: i tabulati telefonici, l’estradizione di tre persone e l’acquisizione delle immagini di alcune telecamere a circuito chiuso". Kholi ha poi precisato che "le tre commissioni hanno confermato il rifiuto delle autorità egiziane a rispondere alle domande italiane, in quanto ciò è vietato dalla Costituzione", aggiungendo che le "commissioni hanno già steso un rapporto definitivo e dettagliato che sarà presentato al presidente del Parlamento Ali Abdel Al". Turchia, la vendetta e la paura di Ezio Mauro La Repubblica, 20 luglio 2016 La foto dei soldati seminudi e legati dopo il tentato golpe è la testimonianza di un’umiliazione che evoca vecchi fantasmi. L’unico segno di riconoscimento sono i capelli scuri dei vent’anni, con la sfumatura alta dei soldati. Nient’altro. Centinaia di uomini ammassati sulla sabbia a torso nudo, piegati in avanti perché le manette tengono le braccia imprigionate dietro la schiena, costretti a stare in mutande e a capo chino come bestie prigioniere, in una palestra militare dalle finestre sbarrate. Non c’erano i social network a Tienanmen quando dopo aver oscurato l’antenna della Cnn il regime fece scattare la repressione selvaggia contro i ragazzi che avevano occupato la piazza, e il lavoro sporco poté compiersi nel buio. C’era solo il terrore quando Stalin ordinò le deportazioni e le uccisioni di massa della grande purga sovietica. Non c’era né Internet né una pubblica opinione quando Franco ordinava la garrota per i dissidenti "per liberarli dal peso della loro stessa malvagità purificando la Spagna". Oggi quella foto postata su Twitter dalle caserme di Erdogan documenta lo stesso meccanismo, in circostanze diverse e in mezzo al XXI secolo. Il potere che dopo essersi difeso si vendica selvaggiamente demonizzando intere categorie sociali e cancellando fino all’annientamento le persone che stanno sotto le toghe giudiziarie, le grisaglie dei prefetti o le divise militari, scelte come simbolo del nuovo nemico del popolo. Torna, invocato dal potere, il concetto di "popolo", normalmente evocato là dove non esiste il "cittadino", soggetto autonomo, libero, titolare di doveri e diritti. Torna la purga, la vecchia cistka sovietica, un’operazione che per definizione è senza giustizia e fuori misura perché mescola paura e vendetta, e mentre dovrebbe re-insediare con la forza un potere minacciato, in realtà rivela il terrore del Palazzo per il nemico nascosto, l’insicurezza di un regime che non sa trovare la sua legittimità se non nel pugno di ferro universale, la violenza che certifica l’instabilità permanente mentre vorrebbe sconfiggerla. Torna soprattutto l’umiliazione fisica e morale dei prigionieri trasformati nell’immagine materiale e pedagogica della sconfitta e come tali "esposti" perché il popolo veda, impari e capisca: la foto dei prigionieri è la documentazione perfetta della distanza incommensurabile che può correre tra i vincitori e i vinti anche nella modernità in cui viviamo, quando si è fuori dallo stato di diritto. Il vincitore è puro potere che perpetua se stesso, proteggendosi anche contro le ombre e con qualunque mezzo, perché ha prevalso e perché avrà sempre più paura. Il vinto è ridotto a puro corpo, da legare, ammassare e colpire, pur di controllarlo, in attesa di poterlo magari giustiziare domani, perché l’ossessione della purificazione non ha limiti, come l’angoscia. D’altra parte il presidente Erdogan ha parlato di una necessaria "pulizia" all’interno di tutte le istituzioni dello Stato, per liberarle dal "virus" della rivolta. Ritorna, con la pretesa di sterilizzare la società infetta, l’incubo contabile con cui il potere prova a rassicurare se stesso spaventando i sudditi. Non c’è altro, quando la politica viene consegnata in caserma, come in Turchia. Con Istanbul presidiata da 2 mila uomini dei reparti speciali, i caccia che pattugliano lo spazio aereo delle capitali, gli elicotteri militari che non possono decollare senza permesso, il premier annuncia che gli arrestati sono 7.543, tra cui 100 poliziotti, più di 6 mila soldati, 650 civili, 755 giudici e procuratori, 103 ammiragli e generali, due giudici della Corte Costituzionale. Ma intanto 1.500 funzionari delle Finanze sono stati sollevati dal loro incarico, insieme con 30 prefetti e 8.777 dipendenti degli Interni, tra cui 7.899 poliziotti che hanno dovuto riconsegnare pistola, manganello e distintivo. È la somma del ritorno all’ordine sventolata dal Palazzo, una somma parziale visto che il ministro della Giustizia Bozdag promette che ci saranno altri 6 mila arresti, "perché continueremo a fare pulizia". Ed è la misura dell’arbitrio e della sproporzione, perché nessuno è in grado di controllare il regime a cui sono sottoposti gli arrestati, le condizioni in cui si svolgono gli interrogatori, la misura della reazione del potere all’offesa subita col tentativo di golpe, le reali possibilità di difendersi e discolparsi degli incarcerati in massa. Ciò che è chiaro è il richiamo di fedeltà assoluta al Sultano che arriva da queste operazioni. Non c’è spazio per distinzioni, l’emergenza continua, il pericolo è in agguato, lo Stato dev’essere un blocco unico compatto nella difesa del potere sfregiato ma superstite, dunque autorizzato a colpire. La decimazione dell’esercito cancella ogni eredità laica riducendolo a guardia reale. L’epurazione della polizia - da tempo inquieta - suona come l’ultimo richiamo all’ordine. Soprattutto, l’accanimento carcerario nei confronti dei giudici e dei Capi delle procure riscrive nei fatti codici e costituzione, imponendo fedeltà prima che giustizia, guardando alla salvezza del regime più che a quella del diritto. A questo punto, con la pistola puntata alla tempia della magistratura, chi giudicherà i golpisti e in nome di quale legalità? Torna l’ombra dei processi politici, tipica dei regimi autoritari e totalitari. Se salta di fatto la divisione dei poteri, chi controllerà il presidente e l’esecutivo? Con quale legge, al riparo di quale Costituzione? Con quale opinione pubblica, dopo che i giornali liberi sono stati annientati e le televisioni occupate e controllate? Mentre i tribunali certamente chiederanno conto ai colonnelli dei carrarmati portati in strada nella notte, chi chiederà conto ad Erdogan e al suo governo di quella lista già pronta, fulminea, di magistrati da arrestare, prefetti da destituire, ammiragli da ammanettare, funzionari da epurare? Non è nemmeno necessario arrivare alle conclusioni interessate del grande nemico del Sultano, il predicatore Fethullah Gülen, che dall’America accusa Erdogan di essersi confezionato il golpe per poter annientare i suoi avversari interni: basta osservare la reazione del potere per capire che un vero e proprio "contro golpe" è in atto in Turchia. Per poi aggiungere, necessariamente, che quel "contro golpe" è fuori da qualsiasi canone delle democrazie occidentali, che anche quando sono sotto attacco sanno di avere il diritto di difendersi, ma insieme con il dovere di rimanere fedeli a se stesse, e ai loro principii. E qui, sta tutta l’ambiguità dell’Europa. La Ue e i suoi governi hanno aspettato alla finestra la notte del golpe, per capire se i militari erano in grado di spazzare l’equivoco e la grandeur di Erdogan, senza scegliere tra le urne che gli avevano dato il potere un anno fa e i carrarmati che volevano toglierglielo. Oggi l’Europa, condizionata dal negoziato appena firmato con Ankara per il contenimento dei due milioni di profughi siriani, balbetta davanti alla minaccia turca di reintrodurre la pena di morte e di fronte alla vendetta del Sultano, che si sta dispiegando sotto i nostri occhi, fuori da ogni codice. È ora di dire che noi viviamo in democrazie deboli e malandate: ma una "democratura" autoritaria, finché rimane tale e lega le sue vittime nude come animali in gabbia, non può entrare in Europa. Turchia: una dittatura inaccettabile che calpesta tutti i diritti di Ugo Tramballi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2016 Con una visione della realtà che la circonda ancora una volta fuori fase, era piuttosto velleitaria la minaccia dei ministri Ue a Erdogan, lunedì a Bruxelles: se la Turchia ripristina la pena di morte, non entrerà nell’Unione. Ieri il nostro ministro degli Esteri lo ha ripetuto con convinzione in varie interviste. Posto che il problema ora sia come tenere quelli che pensano di uscirne e non come attrarne di nuovi in Europa, l’idea che Bruxelles ha di quel Paese è decisamente antiquata: alla Turchia di oggi, quella di Erdogan, non interessa più entrare nella Ue. Le sue ambizioni sono ormai globali, più orientali che occidentali, più da Sublime Porta che da paese moderno. La trattativa con la Ue avviene solo per tenere un’opzione sempre aperta come vuole la diplomazia e perché, alla fine, è economicamente vantaggiosa: come dimostra l’accordo sui rifugiati. È giusto che un governo che crede alla pena di morte non debba entrare nell’Unione. Ma la questione della condanna capitale diventa sempre più irrilevante rispetto agli altri valori democratici che la Turchia dovrebbe affermare e che invece schiaccia. Sfruttando la legittima necessità di riportare l’ordine dopo un inusitato tentativo di golpe fuori dalla storia e da ogni logica politica, il regime di Erdogan si sta trasformando sempre più in una satrapia levantina. L’uomo che aveva costruito in Turchia un’economia smagliante da XXI secolo, la sta riportando indietro nel tempo: a quando il sultano vietava l’importazione dall’Europa delle macchine stampatrici perché i turchi non dovevano leggere. Oggi il presidente sta mandando in galera gli ultimi giornalisti indipendenti ancora a piede libero. Il passo avanti rispetto al sultano è relativo: i turchi dunque possono leggere ma solo quello che vuole il regime. Non c’è categoria professionale, non c’è settore civile né militare che non sia sottoposto in queste ore a liste di proscrizione di fronte alle quali quelle di Silla e di Ottaviano durante la morente repubblica romana, sembrano innocui spoils system. Decine e decine di migliaia di persone: militari, poliziotti, imprenditori, funzionari di governo, dipendenti pubblici, giornalisti, insegnanti di ogni ordine e grado. Arrestati, licenziati, epurati, picchiati. Improvvisamente, tutti terroristi. È evidente che una lista di epurandi così vasta e dettagliata non poteva essere stilata su due piedi: era pronta da molto tempo prima del golpe. E se il colpo di stato non ci fosse stato, il partito-sempre più regime di Erdogan avrebbe trovato altri pretesti utili. Dopo aver deciso di trasformare di nuovo Santa Sofia in moschea, ora Erdogan vuole rimodellare anche piazza Taksim, a Istanbul, dove i democratici hanno sempre celebrato le loro manifestazioni. Vorrebbe costruirvi due caserme e una moschea. Come per la pena di morte, sono il popolo e il parlamento che lo vogliono. E lui, Erdogan, si piegherà al volere della democrazia: come il generale al-Sisi in Egitto, come diceva Saddam Hussein, come dicevano i golpisti latino-americani e tutti i dittatori europei del XX secolo. La cattedrale che nel 1931 Ataturk aveva trasformato in museo e la piazza nel centro della città, sono due fondamentali simboli di modernità e laicità della Turchia. Trasformarle in caserme e moschee e non in altro, spiega la profondità dell’involuzione del paese. Esce fuori l’antica natura intollerante e reazionaria del movimento dei Fratelli musulmani del quale il partito di Erdogan fa parte. Come per il generale al-Sisi che ha una matrice diversa ma uguali comportamenti illiberali, anche di Erdogan molti dicono che è un alleato necessario per sconfiggere il radicalismo islamico. Trasformando tutti gli oppositori in terroristi - ora anche gli insegnanti, i travet e i giornalisti - questi dittatori o dittatori in pectore, sono i più efficaci incubatori di quell’estremismo che dicono di combattere. Evitando minacce ormai superate dagli eventi, forse dovremmo rassegnarci che la Turchia - questa Turchia - apparterrà all’Europa parzialmente e solo per ragioni geografiche. Il Medio Oriente con i problemi dei quali Erdogan è sempre stato più un mestatore che un risolutore, la sta risucchiando inesorabilmente. La grande paura delle turche laiche: legge islamica sempre più vicina di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 20 luglio 2016 Alle sette di sera, su Istiklâl Caddesi, i top e le minigonne scompaiono. Da venerdì notte, sulla via dello struscio di Istanbul, e poi su fino a piazza Taksim, cuore passionale della città, vige una legge non scritta che le donne hanno imparato in fretta a rispettare. Dopo una certa ora, meglio girare con braccia e gambe coperte, magari pure con un velo a mascherare collo e capelli. La notte è del popolo di Erdogan, che resta sveglio fino a tardi facendo caroselli per le strade, cantando inni patriottici o inneggiando alla pena di morte contro gli autori di questo golpe amatoriale. "All’inizio siamo usciti anche noi, i "turchi bianchi", così veniamo chiamati qui noi laici - ci racconta Alya, commessa in un negozio "occidentale -. In fondo, abbiamo pensato io e le mie amiche, è meglio una cattiva democrazia di una dittatura militare. Ma ora le cose stanno prendendo una brutta piega, soprattutto per noi donne. Da sabato vengo al lavoro con meno pelle in vista". A pochi metri, sfila il fervore religioso dei sostenitori dell’Akp, il partito del presidente. Innalzano le bandiere rosse con la falce di luna e la stella, sono tutti maschi. L’effetto è quello di un branco. Nell’atmosfera un po’ surreale del dopo golpe, per ora sono combriccole festose, domani potrebbero diventare altro. Su Twitter - il mezzo di comunicazione e d’informazione preferito dei giovani - iniziano a girare alcune storie raccapriccianti. Come quello della studentessa che racconta il grido lanciatole contro da un’auto, sabato sera: "Uccideremo anche le donne come voi". Sulla carta, Istanbul è ricca di associazioni femminili e collettivi femministi. Ma in queste ore nessuno ha voglia di parlare. La risposta standard è quella inviata via mail dal gruppo Women for Women’s Human Rights, una Ong nata nel 1993 per promuovere la parità di diritti in Turchia: "Possiamo fare l’intervista un’altra volta? Sa cosa sta succedendo in Turchia. Stiamo cercando di capire la situazione…". La "situazione", come le strade, sta diventando pericolosa per le donne. Lo confermano gli sguardi sconcertati delle passanti "laiche" e le parole di alcune donne coraggiose. Come l’avvocatessa Ceren Akkawa, volontaria part time presso Mor çati, la prima e attivissima organizzazione in Turchia a combattere la violenza contro le donne. "Passo dopo passo stanno restringendo i nostri diritti e dopo i fatti di venerdì scorso la situazione non potrà che peggiorare - racconta -. Sulla carta la Turchia ha una legislazione molto avanzata nel campo della parità di genere. Ma nelle strade, nelle stazioni di polizia, nelle aule di tribunale, la prassi è di tutt’altro genere. C’è una distanza abissale tra la teoria e la realtà. La Turchia resta una società patriarcale. Da almeno quattro anni il governo spinge verso un conservatorismo sempre più marcato: la legge islamica si avvicina ogni giorno di più". Il Sultano Erdogan non ha mai fatto mistero delle sue opinioni sul ruolo della donna, dal numero dei figli che dovrebbe avere (3) al tipo di impiego ("non è uguale a noi uomini, non può fare lo stesso lavoro"). Uno dei primi decreti è stato il via libera al turban in scuole e uffici pubblici (il velo islamico turco, che copre il capo ma lascia scoperto il volto, era vietato dal 1924 per volere di Ataturk). Le islamiche, o "turche nere", sono uscite poco alla volta: non solo nelle strade, ma anche nelle aule universitarie e in quelle di tribunale. "Adesso è il loro turno, ormai sono maggioranza - dice Akkawa. Ma tante donne oggi si mettono il velo perché è socialmente più "comodo". In questi giorni, io stessa mi sono accorta che sto cominciando ad auto-censurarmi nel modo di vestire". Poi è venuto l’attacco alla legge sull’aborto: "un omicidio", disse Erdogan nel 2013, quando era ancora primo ministro. Le imponenti proteste di piazza gli impedirono di renderlo illegale, ma subito dopo si sono moltiplicati gli i medici "obbiettori di coscienza": secondo un’inchiesta di Mor çati, a Istanbul solo tre ospedali pubblici oggi praticano le interruzioni di gravidanza. È solo l’inizio, secondo le "turche bianche". Pur essendo il primo Paese firmatario della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (2011), la Turchia è al 77 posto su 100 nell’indice sull’uguaglianza di genere dell’Undp (Programma per lo sviluppo dell’Onu) e le turche hanno un rischio 10 volte maggiore di essere pestate dal proprio compagno rispetto alle cittadine dell’Unione europea (dall’inizio dell’anno sono state uccise 135 donne). L’ultimo raduno di piazza importante, alla vigilia dell’8 marzo, nel distretto asiatico di Kadikoy, è stato disperso dalla polizia con proiettili di gomma e lacrimogeni. E il peggio deve ancora venire. Tra le proposte avanzate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul divorzio, c’è la depenalizzazione dell’abuso sessuale sulle minorenni se viene seguito da cinque anni di matrimonio "sotto il controllo del governo". Ufficialmente un modo per condonare le "fuitine", ancora molto diffuse nelle zone rurali. "È disgustoso, stanno incoraggiando i matrimoni forzati delle bambine", commenta Ayse Arman, editorialista del quotidiano Hurriyet. Le fa eco la presidente della Federazione delle associazioni femminili turche, Canan Güllü: "Vogliono infilare le vittime di violenza nello stesso letto dello stupratore e poi costringerle a vivere con lui per cinque anni. Questa mentalità non è degna della Turchia contemporanea". Di fatto, nella prassi è già così: secondo fonti giudiziarie, sono 3000 i casi di stupratori che hanno evitato il carcere sposando le proprie vittime. Di recente, poi, la Corte costituzionale ha abolito l’articolo 103 che punisce gli abusi sessuali sui minori, sostenendo che la punizione per i reati sui bambini fra i 12 e i 15 anni non può essere uguale a quella che coinvolge gli under 12. I legislatori hanno tempo sei mesi per riformulare la legge, dopodiché si creerà un vuoto legislativo. E la pedofilia sarà, di fatto, legale in Turchia. I giornali pro-Erdogan in questi giorni continuano a pubblicare in prima pagina foto di bambine sorridenti sulle spalle dei padri e donne scamiciate che sventolano bandiere in piazza. Ma sono eccezioni, in una folla popolata di veli e ombre nere. Turchia: gli ultrà dell’Islam a Istanbul: "ora tutte le donne avranno il velo" di Marco Ansaldo La Repubblica, 20 luglio 2016 Il reportage. La parte liberale del Paese sembra sparita, anche dai quartieri più europei della metropoli del Bosforo. Ovunque caroselli di macchine con i fedelissimi del partito del presidente che urlano "Allah u Akhbar". In auto quattro uomini barbuti apostrofano due ragazze che passeggiano sorridenti sulla discesa di Barbaros Bulvari, il boulevard del quartiere Besiktas, a Istanbul. "Questi sono gli ultimi bei giorni per voi - attacca il tipo a fianco del guidatore - tra poco metterete il velo come tutte!". Scoppia un alterco, le donne si ribellano, i quattro rispondono, finiscono per andarsene. Ma le ragazze, sconvolte, si perdono nelle lacrime. Benvenuti nella Turchia sopravvissuta al golpe. Dove giorno e notte bande di esaltati percorrono le strade di Istanbul a clacson spianati come per una vittoria calcistica. Dove famiglie intere coi bambini in braccio indossano sul capo una fascia rossa con il nome del presidente conservatore islamico Recep Tayyip Erdogan. E dove donne velate con il niqab nero che le copre fino ai piedi fanno spuntare la mano per agitare la bandiera rossa con la mezzaluna al grido "Allah u Akhbar", Dio è grande. La faccenda del vessillo nazionale è il dettaglio più sorprendente. Da sempre i turchi, più che essere nazionalisti, sono molto patriottici e adorano la propria bandiera. Guai a chi la profana, a rischio della vita. Ma il pezzo di stoffa rossa, da quasi cento anni simbolico appannaggio dei laici che si richiamano al pensiero kemalista di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, gli è ora stato letteralmente strappato dalle mani, per passare in quelle dei lealisti islamici. E adesso lo brandiscono felici, come per un tesoro conquistato. Mai, in questo paese, si era visto uno stormire di bandiere così esibito come dopo la conclusione del fallito golpe. E nelle piazze, nelle strade, lungo i viali, compaiono solo loro: i seguaci di Erdogan, i fedelissimi del presidente sfuggito alla destituzione. Galata, quartiere europeo per eccellenza, colonia genovese di Costantinopoli, pare un deserto: negozi serrati, ristoranti chiusi, attività ferme. Passa una motoretta, ma sono due barbuti che alzano le dita a V. La zona oggi si chiama Beyoglu: qui c’è il famoso Liceo Galatasaray, l’Accademia di Francia, il Consolato di Svezia, bar e locali dove i turisti stranieri ascoltavano musica inebriati dal raqi, il prelibato distillato d’anice. Però questa sera, come tutte le altre ormai, dopo il golpe, nulla di tutto questo: solo silenzio, paura, e nemmeno un goccio di liquore. Ma dove sono tutti gli altri? I laici, i democratici, i liberali. Dov’è la Turchia scesa in Piazza Taksim e a Gezi Park. Sono tutti a casa, la testa fra le gambe. "Abbiamo paura a uscire - spiega Meltem, bella manager quarantenne, al lavoro la mattina in tailleur blu elettrico - il presidente ha ordinato ai suoi di presidiare le strade e le piazze, e allora è meglio non rischiare di cadere in provocazioni. Tutti sono molto emotivi, adesso. Potrebbe scatenarsi una guerra civile, facile che accada, ed è opportuno evitare ogni attrito. Possiamo solo sperare che la situazione cambi. Come? È una bella domanda. Non lo sappiamo davvero. Ma con le elezioni non è stato mai possibile. I media sono quasi tutti asserviti. Polizia e magistratura hanno paura. Nemmeno l’esercito è riuscito a fare il golpe. Sì, ci sentiamo proprio soli". Così i nuovi padroni imperversano e si sono impadroniti di Piazza Taksim, cuore della città. E, naturalmente, del Parco Gezi della famosa rivolta. Adesso innalzano colonne di fumo come per uno spettacolo musicale, urlano slogan al microfono, cantano fino alle 3 del mattino. Autobus e metro, per tutti, sono gratis, pur di presidiare le vie. Quando poi al mattino appare il leader, è un tripudio di bandierine in festa. Lui annuncia: "Se Dio vuole, come prima cosa costruiremo caserme a Taksim. Che lo vogliano o no". In arrivo altre misure: la chiusura del Centro culturale di Ataturk, la costruzione dell’ennesima moschea. E Piazza Taksim e Gezi Park, simboli storici della laicità, possono languire nell’islamizzazione accelerata. I numeri la evidenziano. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, al potere dal 2002, ha conquistato alle ultime elezioni del 2015 più del 49 per cento dei voti. La metà del paese. Ma è soprattutto una rivoluzione sociale, quella in atto nella repubblica di Mustafa Kemal: oggi alle leve del comando sono gli anatolici, i cosiddetti "turchi neri" delle provincie più interne e lontane; mentre i "turchi bianchi" della costa, circassi, occhi azzurri, biondi come lo era Ataturk, stanno confinati ai margini dopo aver comandato per tutto il secolo scorso. E questo è un momento di svolta. Perché se l’altra metà del paese non sarà capace di reagire, velocemente, e le strade continueranno a essere presidiate da baffuti e donne velate con in pugno la bandiera, la Turchia cosmopolita e tollerante di un tempo rimarrà un ricordo. Di un paese che, a guardarlo trasformarsi, si avvicina a tappe spedite all’Iran e agli Emirati arabi uniti. Stati Uniti: il programma di Trump, trasformare le paure in voti per la Casa Bianca di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 20 luglio 2016 Alla fine il dato politico più significativo viene dall’intervento di Melania. Avrà pure copiato, ma in una serata di rabbia, frustrazione e America in rovina, lei è l’unica a puntare su un messaggio positivo. Donald Trump, poi il deserto. Sul palco della convention sfilano comparse che recitano - chi con grande verve, chi con tono incerto - il testo che scorre su uno schermo. La conclusione è sempre la stessa: "Se vuole tornare grande, l’America deve affidarsi a Trump". Una giornata passata discutere se alcune frasi della moglie Melania sul valori di Donald e l’impegno per consegnare ai figli un’America migliore siano state copiate dal discorso di Michelle Obama alla convention democratica del 2008 danno la misura di questo vuoto pneumatico. Che non è un incidente ma un effetto voluto da un candidato allergico agli impegni programmatici, ma abilissimo nel trasformare insicurezze e paure in consenso politico. La prima giornata della "kermesse" è stata dedicata alla paura per la sicurezza perduta. La seconda, apparentemente più costruttiva, al "che fare" per dare lavoro agli americani. In realtà, nonostante il tasso di disoccupazione Usa sia più che dimezzato durante la presidenza Obama (ora è al 4,9 per cento), anche qui domina il catastrofismo: economia malata, lavori precari, ceto medio in rovina. Che le cose non vadano bene nonostante le apparenze è sicuramente vero: Trump cavalca un malessere reale del ceto medio e del proletariato conservatore impoverito. Per capirlo, più che ascoltare gli oratori della "convention", bisogna uscire fuori dal suo perimetro blindato e infilarsi nella folla variopinta di fan e avversari di Trump tra i quali spicca, oltre a quella dei "bikers", i trumpiani arrivati a cavallo delle loro Harley Davidson, la tribù dei "Truckers for Trump". È l’avanguardia arrabbiata e spaventata dei 3,5 milioni di autisti di camion e autotreni d’America, i primi professionisti del volante che rischiano di perdere il lavoro con l’avvento dei veicoli che si guidano da soli. Cosa promette loro Trump? Il muro per bloccare gli immigrati messicani che si prendono i lavori più umili, la fine del "free trade", il ritorno in America delle fabbriche emigrate in Cina. Misure che, nella sostanza, hanno poso senso: i campionisti e molti altri perdono il lavoro per via dell’automazione, non per colpa del libero scambio o della globalizzazione. E le fabbriche che tornano negli Usa sono solo quelle che possono essere riempite di robot: di posti di lavoro ne producono pochini. Ma il messaggio funziona comunque perché il super imbonitore Trump sa porlo in modo seducente, sa stuzzicare i timori, giocare sulle insicurezze, magari indirizzandole su bersagli fasulli. L’economista conservatore Tyler Cowen, per dirne una, lega il malumore del ceto medio impoverito anche all’angoscia dei "baby boomers" che oggi hanno dai 55 ai 64 anni: hanno un risparmio previdenziale medio di 110 mila dollari e un’aspettativa di vita superiore ai 20 anni. Significa che dovranno vivere, in media, con 23 mila dollari l’anno (16 mila di assegni della previdenza sociale e 7mila di pensione privata). Pensioni vicine alla soglia di povertà che provocano rabbia e malessere ma delle quali non è certo colpevole Obama: sono figlie della crisi finanziaria del 2008 (a sua volta figlia dalla "deregulation" reaganiana) e della parziale privatizzazione del sistema pensionistico con la responsabilizzazione del singolo lavoratore che doveva diventare l’assicuratore di sè stesso. Insomma, se si comincia ad andare a fondo sui fenomeni le cose cambiano aspetto: allora meglio restare in superficie facendo il surf sugli slogan populisti. Si spiega così questa "convention" apparentemente sbilenca, disertata dagli esponenti repubblicani di maggior peso (sbeffeggiati senza pietà da team Trump: i due ex presidenti Bush definiti "puerili, bambineschi", il governatore dell’Ohio John Kasich liquidato come un personaggio "petulante e imbarazzante") e zeppa di mezze figure. Tanto che, a parte Melania, il protagonista assoluto della prima serata è stato un vecchio arnese come Rudy Giuliani, ripescato dalla soffitta della politica americana dopo i suoi falliti tentativi presidenziali di quasi dieci anni fa. Quello che doveva essere il pezzo forte della serata, l’attacco a Hillary sulla gestione della crisi di Bengasi con le testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime, si è risolto in una narrazione confusa, prolissa, ripetitiva alla quale nemmeno i delegati si sono appassionati. Ha scosso di più la platea lo sceriffo nero di Milwakee, David Clarke, col suo "blue lives matter" contrapposto al "black lives matter" degli attivisti afroamericani. Il richiamo alle divise blu dei poliziotti ha suscitato l’ovazione più convinta della serata in una città nella quale per tutto il giorno la folla della "convention" non ha fatto altro che ringraziare gli agenti. Il senatore dell’Arkansas Tom Cotton, un emergente della nuova onda populista, è quasi invisibile col suo intervento incolore, subissato dalla "verve" del sindaco della "tolleranza zero" che promette un Trump capace di "fare in America quello che io ho fatto a New York". Poi Giuliani rivela: "Donald ha un cuore grande, è un benefattore generoso, ma non vuole che si sappia". Alla fine il dato politico più significativo viene dall’intervento di Melania. Avrà pure copiato, ma in una serata di rabbia, frustrazione e America in rovina, lei è l’unica a puntare su un messaggio positivo: Donald, il miliardario che ha voltato le spalle a Wall Street, aiuterà i deboli, gli impoveriti. In realtà Trump sta per annunciare nuovi tagli fiscali che dovrebbero beneficiare soprattutto i benestanti, ma a lui gli elettori concedono assegni in bianco: è questa la chiave elettorale del successo del "tycoon" che prova a travestirsi da Robin Hood. Afghanistan: mostra di prodotti confezionati a mano da donne e uomini detenuti informazione.it, 20 luglio 2016 Ieri mattina nella base di Camp Arena, sede del contingente italiano in Afghanistan, è stata inaugurata una mostra di prodotti confezionati a mano da donne e uomini detenuti del carcere di Herat, dal titolo "Herat Jail Handcraft exhibition". All’evento erano presenti il Generale di Brigata Gianpaolo Mirra, Comandante del Train Advise Assist Command West (Taac W), la Direttrice dell’ala femminile del carcere, Col. Sima Pazhman, e un addetto dell’Ufficio Industriale che collabora per la gestione dei manufatti prodotti dagli ospiti del carcere. L’esposizione, sostenuta dalla cellula di Cooperazione Civile Militare Italiana (Cimic), ha permesso ai militari del Taac W di poter acquistare i diversi oggetti, tra cui abiti, scarpe, vari monili realizzati in differenti materiali, tappeti e accessori in lana. Il ricavato dalla vendita verrà utilizzato per migliorare le condizioni dei detenuti e delle loro famiglie. L’iniziativa travalica il semplice significato economico, pur di grande importanza per gli ospiti del carcere, e contribuisce a ridare fiducia ad una parte della popolazione afgana molto povera.