Errori giudiziari, in 24 anni 24mila innocenti in cella di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 1 luglio 2016 Docufilm dall’idea di due giornalisti e un avvocato. Cifre sconcertanti: dal 1992 lo Stato ha pagato 630 milioni per ingiusta detenzione. A Napoli record-indennizzi: 144 casi nel 2015. A Torino "solo" 26. Le disavventure di gente famosa e cittadini sconosciuti. Nomi e cognomi. Condanne. Poi il dietrofront: ci siamo sbagliati, siete liberi. In Italia è successo 24mila volte a partire dal 1992, quando venne introdotto l’istituto per la riparazione per ingiusta detenzione. In cella tanti sconosciuti: Fabrizio Bottaro, designer di moda, accusato di rapina, un mese in carcere, 9 ai domiciliari: assolto perché il fatto non sussiste. Daniela Candeloro, commercialista, 4 mesi e mezzo in carcere, 7 e mezzo ai domiciliari per bancarotta fraudolenta: assolta con formula piena dopo un processo di 6 anni. Lucia Fiumberti, dipendente provinciale, arrestata per falso in atto pubblico, 22 giorni di custodia cautelare: assolta per non aver commesso il fatto. Vittorio Raffaele Gallo, dipendente delle Poste, 5 mesi di carcere, 7 ai domiciliari per rapina: assolto per non aver commesso il fatto dopo 13 anni. Antonio Lattanzi, assessore comunale, arrestato per tentata concussione e abuso d’ufficio 4 volte nel giro di due mesi, 83 giorni di carcere: sempre assolto. Non mancano volti noti, se non celeberrimi: Enzo Tortora, Lelio Luttazzi, le attrici Serena Grandi e Gioia Scola. Le storie e il film - Bisogna partire da questo sconfinato elenco per inquadrare "Non voltarti indietro", un docufilm presentato ai festival di Pesaro e di Ischia, incentrato sulle storie di 5 vittime di errori giudiziari, scelte fra le centinaia e centinaia di casi che ogni anno si verificano in Italia. I loro nomi e le accuse compaiono alla fine, prima dei titoli di coda. Perché in fondo la sostanza di quelle accuse è falsa, non esiste. Esiste, invece, il viaggio materiale, psicologico e umano che una persona che sa di essere innocente compie quando è privata della libertà. Un’esperienza che chiede di non voltarsi indietro, appunto, anche se certi segni - l’ansia per gli spazi chiusi, alla vista di un furgone della penitenziaria o del lampeggiante di una sirena - non si possono cancellare. www.errorigiudiziari.com - Storie che sono tratte dal sito www.errorigiudiziari.com curato da due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, e un avvocato, Stefano Oliva. Tutte e tre romani. Tutti e tre sulla cinquantina. E tutti liceali negli stessi anni nello stesso classico, il Giulio Cesare di Roma: amici che si appassionarono al caso che vide ingiustamente arrestato per la violenza nei confronti della figlia, una bimbetta di anni, un professore di matematica, Lanfranco Schillaci. Era il 23 aprile 1989. Si scoprì poi che quei lividi sul corpicino della piccola erano dovuti a una patologia tumorale che ne causò la morte tempo dopo. E non ad abusi. Una vicenda di cui si parlò nelle case di tutta Italia. Prima per il delitto commesso dal presunto mostro. Poi per le conseguenze del clamoroso abbaglio giudiziario. Lattanzi e Maimone successivamente raccolsero le storie in un saggio edito da Mursia - "Cento volte ingiustizia" - poi "aggiornato" nel sito, divenuto un imponente e aggiornatissimo database che non ha eguali in Europa. Riparazione per ingiusta detenzione - Ma prima del film ci sono i numeri. Sconcertanti. Il dato complessivo lascia senza parole. Il risarcimento complessivo versato alle vittime della "mala-giustizia" ammonta a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti - spiegano dal Ministero - sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in carcere - L’errore giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci: custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti "automaticamente" - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari. Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in linea con una sorta di "spendig review" - che viene dall’orientamento della Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene rimborsato. Napoli-record; meno indennizzi al Nord - In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo: 80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi. Il docufilm - Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso. E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro, nella necessità di tirare a campare con la pensione. Il docufilm, attraverso le storie dei protagonisti, racconta tutte e due le facce della medaglia. Dove non arrivano le immagini (girate da Francesco Del Grosso che ha diretto il docufilm) nelle carceri e le interviste, scelte e montate con ritmo narrativo e supportate dalle musiche originali di Emanuele Arnone, sono i disegni di Luca Esposito a ricostruire le vicende di malagiustizia. Il Sottosegretario Gennaro Migliore: "sul 41bis serve più flessibilità" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2016 "Riteniamo che l’interruzione dei rapporti con l’organizzazione non debba essere anche un’interruzione dei diritti fondamentali della persona". A dirlo è stato il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore al termine della visita effettuata mercoledì mattina al carcere di L’Aquila che - come il Dubbio ha già ricordato - ospita più di un centinaio di persone ristrette al 41 bis, di cui sette sono donne. Gennaro Migliore ha promesso che il governo è pronto a ridiscutere certi aspetti del 41 bis. "Relativamente ai diritti dei detenuti - spiega Migliore - si tratta di intervenire per capire qual è la finalità del 41 bis". Poi puntualizza: "Fermo restando che ci debba essere una piena applicazione del principio per cui il 41 bis è stato pensato, ossia l’interruzione dei rapporti e dei legami tra le organizzazioni criminali e i loro capi, bisogna fare una riflessione, così come è emerso anche dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, su come ci possa essere una maggiore flessibilità rispetto all’applicazione di determinati aspetti di questo regime detentivo". "Ci deve essere - prosegue Migliore - una riconsiderazione di quelli che sono anche i regolamenti, che talvolta sono afflittivi e non volti ad applicare il dettato costituzionale". Poi puntualizza: "Si tratta di valutare quali possono essere gli interventi sulla vita quotidiana di queste persone, ad esempio la garanzia che possano affrontare anche patologie e disagi psicologici e non solo psichiatrici". E sul 41 bis conclude: "Penso che ci sia bisogno di avere un’attenzione diversa nei confronti di questa condizione detentiva. Così com’è stato sollecitato anche all’interno di lunghissime riflessioni maturate negli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, deve esserci una maggiore flessibilità rispetto all’applicazione di determinati regimi". A fare la visita insieme a Migliore, c’è stata anche la sottosegretaria alla Giustizia e parlamentare abruzzese di Ncd Federica Chiavaroli la quale ha detto che sul tema del Garante dei detenuti regionale ha più volte sollecitato la regione Abruzzo: "Credo che non sia un tema politico ma istituzionale. Peraltro penso che la persona indicata per ricoprire l’incarico, cioè Rita Bernardini, sia una delle migliori figure del panorama italiano. Mi auguro, quindi, che il Consiglio regionale sia maturo e faccia questa scelta, dando una risposta adeguata". Quelle della Chiavaroli suonano anche come sollecitazioni indirizzate alla propria parte politica, il centrodestra e in particolare Ncd, che finora hanno remato contro l’elezione della Bernardini: "Ncd è pronta a votare per lei", ha tagliato corto la sottosegretaria. Ricordiamo che in Abruzzo la legge istitutiva del Garante è inapplicata da cinque anni. Tale ritardo non solo sta danneggiando le persone sottoposte a misure restrittive, ma l’intero sistema carcerario. Marco Pannella, ormai quasi un anno fa, aveva lanciato la candidatura di Rita Bernardini la cui competenza in materia è indiscussa e testimoniata da decenni di impegno concreto: nonostante l’appoggio del presidente della regione Luciano D’Alfonso, un appello che ha visto firmatari illustri e trasversali e oltre 2.000 adesioni sui social network, il Consiglio regionale non ha ancora provveduto ad eleggere il Garante dei detenuti. Cuffaro: "ci sono più suicidi nelle carceri italiane che pene di morte negli Usa" siciliainformazioni.com, 1 luglio 2016 Lo sciopero della fame dei detenuti a Palermo, la denuncia di Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia dopo una sua visita alle carceri di Pagliarelli, alcune rassicurazioni e promesse dalla direzione. Ma il problema della vivibilità delle carceri italiane non è né palermitano, né siciliano. Pino Apprendi si batte con tenacia. Una battaglia difficile. Una testimonianza viene da un detenuto-modello, che ha soggiornato a Rebibbia per quasi cinque anni, Totò Cuffaro, ex presidente della Regione siciliana ed unico politico ad avere scontato per intero la pena. Invitato dall’Associazione "Sentieri", che ha "riletto" il libro di Francesco ("Il nome di Dio è misericordia"), Cuffaro ha fatto toccare con mano la condizione del detenuto nelle carceri italiane. "Ci sono più suicidi in galera che pene di morte comminate negli Stati Uniti d’America", ha detto Totò Cuffaro. "L’ergastolo c’è, contrariamente a quanto si pensa, ed è ostativo. Il sistema carcerario si avvolge attorno a se stesso, e la politica se ne sta a guardare perché intervenire in queste questioni non porta voti, anzi li toglie". Eppure, ha osservato l’ex presidente della Regione siciliana, il carcere don dovrebbe essere un luogo dove si emarginano le persone che hanno sbagliato, ma dovrebbe aviare un processo di socializzazione, preparare il ritorno alla vita. Il fatto è, spiega Cuffaro, che abbiamo pregiudizi verso il carcere e coloro che vi sono rinchiusi. Ne avevo anch’io prima di entrare a Rebibbia. Ma ho visto, appreso, imparato, ed oggi posso affermare, senza ombra di dubbio, che questa esperienza ha messo ordine nella mia vita, mi ha rigenerato, mi ha indignato a parlare con me stesso, con la mia anima. Senza mentire, perciò, perché non si può mentire alla propria anima". Cuffaro crede che questa palingenesi sia avvenuta grazie alla misericordia di Dio. "A me la vita ha presentato il conto, ho appreso che il carcere non è il peggio che possa capitare. Prima che facessi conoscenza della prigione avevo cercato Dio ovunque, partecipando a tutti i pellegrinaggi, da Santiago de Campostela alla Madonna di Czestochowa, ad Assisi, ma è in carcere che ho trovato Cristo, è in carcere che ho visto l’uomo crocifisso. E con me l’hanno visto i miei compagni detenuti. Ecco per quale ragione la galera ha stravolto la mia idea di fede". L’ex presidente della Regione ha raccontato di avere scritto a Papa Francesco proprio sulla condizione carceraria, e di avere ricevuto un abbraccio dal Pontefice in visita a Rebibbia ("L’unico caso in cui non sono stati io a baciare…."). "È stato un episodio che non dimenticherò mai. Francesco si è fatto largo fra i detenuti, destando preoccupazione fra coloro che lo affiancavano. Qualcuno avrebbe voluto evitargli questo rischio, e lui ha detto: non vi preoccupate, mi proteggono loro. Si riferiva ai detenuti". Via alla legge Ue: aiuti alle vittime di violenza di Flavia Landolfi Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2016 Con 208 voti a favore e 103 contrari, la Camera ha approvato ieri la legge europea 2015-2016che dopo aver incassato a maggio il via libera del Senato diventa ora definitiva. Il provvedimento recepisce alcune direttive comunitarie e sana diverse procedure di infrazione a carico dell’Italia. Si va dalla libera circolazione delle merci e prestazione dei servizi alla libertà di stabilimento, giustizia e sicurezza, dogane e trasporti. Ce n’è anche per il gioco d’azzardo che esce dall’orbita del Fisco anche per le vincite riscosse da case da gioco autorizzate all’estero: incassare il premio da una casa da gioco autorizzata in un altro Paese dell’Ue, o dello Spazio economico europeo, sarà come incassare la vincita da una casa da gioco autorizzata in Italia e quindi l’intero importo non verrà tassato. La legge si incarica poi di modificare la disciplina sui cambi di appalto prevedendo la possibilità di disapplicare le regole sui trasferimenti d’azienda. Tra le novità più importanti introdotte dalla legge europea il diritto all’indennizzo in favore delle vittime di reati violenti, sul quale, peraltro, si è consumato uno scontro tra maggioranza e opposizione. Il provvedimento uscito dal voto della Camera prevede un risarcimento per le vittime a copertura delle spese mediche e assistenziali salvo che per i reati di violenza sessuale e di omicidio per i quali l’indennizzo è comunque dovuto. Per far fronte ai maggiori oneri, si attingerà anche al Fondo in favore delle vittime della mafia che sarà alimentato annualmente di 2,6 milioni a decorrere da quest’anno. La legge prevede però un accesso limitato agli indennizzi: il risarcimento è corrisposto solo nei casi in cui la vittima sia titolare di un reddito annuo, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a quello previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. E quindi di 11.528,41 euro l’anno. Per i deputati del M5S, che in una nota divulgata ieri non risparmiano critiche al governo anche sulle nuove disposizioni sull’olio extravergine d’oliva e sul gioco d’azzardo, si tratta di "uno schiaffo alla vittime". "L’asservimento del Governo Renzi all’Europa - scrivono i parlamentari - non si ferma nemmeno davanti alle vittime dei reati violenti, che non sono riuscite ad avere un risarcimento da chi ha commesso gravi reati. Queste persone vengono offese con un fondo che risarcisce solo le spese mediche e prevede condizioni difficili d’accesso, come ad esempio quella di avere un reddito inferiore a 11.528 euro". A difesa del provvedimento si schiera il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che parla di un’iniziativa che "colma un ritardo lungo quasi 10 anni". Il ministro assicura poi altri interventi su questo fronte: "Abbiamo intenzione di proseguire - ha detto - rafforzando la tutela delle vittime attraverso una sistematizzazione di tutte le forme di tutela previste nel nostro ordinamento per vari reati attraverso un’azione di coordinamento del ministero, delle associazioni, del mondo del volontariato costruendo un sistema di accesso più facile alle informazioni sui diritti delle vittime". Orfani di femminicidio senza diritti di Viviana Daloiso Avvenire, 1 luglio 2016 "Io esisto, la mamma no". La frase risuona nella stanza vuota, poi di nuovo il silenzio. Per alcuni orfani di femminicidio - la letteratura scientifica internazionale li chiama "special orphans", orfani speciali - la prima volta in cui hanno parlato del giorno che ha distrutto la loro vita è stato nel colloquio con la psicologa della Seconda Università degli studi di Napoli Anna Costanza Baldry. Che dal 2011, con un équipe di ricercatori, ha messo proprio loro al centro del suo studio: le vittime collaterali, i sopravvissuti. I bambini segnati per sempre. Che fine fanno? La cronaca li investe di luce soltanto per pochi giorni: è il caso della dodicenne di Pavia che appena due giorni fa è scampata all’efferato delitto della madre fingendosi morta. Il pensiero corre al trauma indelebile di quel che le accaduto, si sprecano commenti e indignazione. Poi, il buio. Questa coltre, negli ultimi dieci anni, è calata su 1.628 figli. Soltanto negli ultimi tre anni su 417, 180 dei quali minori: 52 sono stati testimoni dell’omicidio della madre da parte del padre, 18 sono stati uccisi insieme a lei. Nella metà dei casi tra le mura di casa è entrata una pistola, o un fucile, e la quotidianità è esplosa all’improvviso. Nello studio Switch-off, che è stato finanziato dall’Unione Europea, Anna Costanza Baldry ha intervistato 143 di questi orfani: alcuni di loro oggi sono adulti, hanno raccontato la loro storia da soli, con immane difficoltà; altri sono ancora minorenni, sono stati accompagnati dai loro affidatari. I dati raccolti saranno presentati alla Camera nelle prossime settimane ed entreranno in un documento di Linee guida di intervento che sarà a disposizione dei servizi sociali, dei magi-strati, degli insegnanti, delle forze dell’ordine. Obiettivo: "Seguire un protocollo di azione omogeneo e tempestivo - spiega Baldry. Capire che queste vittime meritano attenzione e cura". Diritti che oggi le istituzioni gli negano. Il primo dato allarmante emerso dalla ricerca della Baldry in effetti è proprio questo: la totale mancanza di un sostegno psicologico adeguato ai figli sopravvissuti ai femminicidi. "Significa - chiarisce l’esperta - che nemmeno nel 15% dei casi monitorati è stata seguito un percorso di psicoterapia". Quanto al supporto dei servizi sociali, che obbligatoriamente si attivano all’indomani di fatti simili, soltanto nella metà dei casi il sostegno è andato oltre l’affidamento: "Davvero troppo pochi". Così nell’Italia delle battaglie sul "bene superiore" dei minori, dove protocolli e percorsi pensati per chi sopravvive all’epidemia dei femminicidi (uno ogni tre giorni) non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e a gestire l’anno successivo al trauma - quello decisivo secondo i manuali di psicologia per evitare che scelgano di suicidarsi o che diventino a loro volta violenti - pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Cioè quelli che nella tragedia hanno perso una figlia. Trauma su trauma, lutto su lutto. Le montagne da scalare? "I funerali, i processi, l’affidamento". La quotidianità del lutto, il dire o no quel che è successo. E poi quel che resta, cioè moltissimo, del killer: "Tutti chiedono o hanno chiesto del padre", sottolinea Baldry. Perché il papà non si può cancellare, anche quando - e succede spesso - si chiede di veder cambiato il proprio cognome: "In 6 casi su 10, anche se non si è suicidato, è morto comunque. Troppo difficile gestire la sua presenza, le sue lettere, i contatti - continua Baldry. Soprattutto nel caso di bimbi molto piccoli, poi, gli affidatari preferiscono aspettare la maggiore età per far prendere questa decisione direttamente da loro". Per gli altri il desiderio di un incontro scatta, "qualcuno chiede persino di andare in carcere". E se chi era molto piccolo al momento dell’omicidio della madre non trova spiegazioni per quella inaudita violenza, "chi invece era adolescente costruisce delle ragioni: le liti, lo stress". Le ferite più grandi? "Più che psicopatologie particolari, che nello studio sono state riscontrate in meno casi di quelli attesi, a testimonianza della resilienza tipica dei minori, ci siamo scontrati con la vergogna". Il sentirsi diversi dagli altri e il non potersi sfogare con nessuno, perché i nuovi punti di riferimento spesso sono persone che hanno vissuto il lutto in prima persona, appunto i nonni o gli zii. Nel caso dei maschi, poi, c’è la piaga del senso di colpa: "Mi sono chiuso in camera, non l’ho salvata", è il racconto con cui Giorgio ha paralizzato gli esperti dell’Università di Napoli qualche mese fa. Nessuno, ancora, nemmeno adesso che ha vent’anni, riesce a fargli capire che un bimbo di 6 non può fermare la mano di suo padre. L’incubo che perseguita, il dolore infinito a cui sopravvivere: "Io esisto, mamma no". Giustizia, l’Unione camere penali si appella al ministro Orlando di Beniamino Migliucci e Francesco Petrelli* Corriere della Sera, 1 luglio 2016 "Riorganizzi Procure e Tribunali, dia loro strutture e personale necessario, tolga ogni alibi a chi amministra e dirige gli uffici giudiziari, non consegni una via di fuga da quello che è il dovere di ogni stato civile: garantire la celerità dei giudizi". Caro Ministro, sarebbe un tradire la Sua stessa cultura, improntata al pragmatismo e all’indipendenza, il negare quello che Lei ha mostrato all’intero Paese, e che cioè la soluzione dei problemi della Giustizia penale in Italia è da individuare nella riorganizzazione degli uffici giudiziari, nella razionalizzazione delle risorse, nella implementazione del personale amministrativo. Che la disorganizzazione sia il problema strutturale del processo penale lo dimostrano da anni le ricerche curate da Ucpi e i dati statistici forniti dal Suo Ministero, dai quali risulta che a parità di risorse e di carico di lavoro, vi sono uffici giudiziari nei quali la prescrizione è pari a zero ed altri nei quali il fenomeno assume dimensioni preoccupanti. Lo confermano le Sue parole quando ha di recente ricordato che "non esiste un Nord e un Sud nell’ambito della giustizia" perché ci sono, nel meridione d’Italia, uffici giudiziari "che nell’arco di pochissimi anni sono risusciti a collocarsi nei primi posti dal punto di vista dell’efficienza a livello nazionale" e che "ancora una volta il tema torna alla capacità organizzativa". Non è sufficiente rispondere con la forza intrinseca di quei dati a chi invoca l’assoluta necessità di un allungamento dei tempi della prescrizione? Ricordando anche che la durata della prescrizione non è affatto breve e non lo è in particolare per i reati di corruzione, per i quali, attraverso il meccanismo dell’aumento delle pene edittali massime, si è giunti ad un termine complessivo di dodici anni e mezzo. Un periodo di tempo assolutamente congruo per lo svolgimento di un processo. Allontanare l’accertamento delle responsabilità dalla realizzazione dell’illecito moltiplica ed amplifica le situazioni di incertezza, con deformazione dell’intero sistema processuale e una inevitabile lesione della presunzione di innocenza. Allungare i termini di prescrizione sarebbe come modificare i gradi di un termometro per contrastare la febbre e cronicizzare un assetto patologico del nostro sistema che, come si è visto, determina un gravissimo danno economico all’intero Paese, perché una giustizia penale lenta è un grave ostacolo agli investimenti. Signor Ministro, riorganizzi Procure e Tribunali, dia loro strutture e personale necessario, tolga ogni alibi a chi amministra e dirige gli uffici giudiziari, non consegni una via di fuga da quello che è il dovere di ogni stato civile: garantire la celerità dei giudizi. Non vi sono norme che attuino in maniera diretta il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi. Solo norme che ne sanzionano le violazioni e che costano alla collettività milioni di euro al mese. La prescrizione è l’unica norma che di fatto attua la costituzione sorvegliando la durata dei processi. Non la vanifichi per rispondere alla demagogia di una magistratura intollerante di ogni limite. *Beniamino Migliucci - presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane *Francesco Petrelli - segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane Gli avvocati e l’appello contro la nuova prescrizione di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 luglio 2016 La riforma penale sì, ma la prescrizione lunga no. È una "lettera appello" quella recapitata ieri al ministro della giustizia, Andrea Orlando, dall’Unione Camere Penali. In vista dell’annunciata accelerazione sull’approvazione della riforma penale, ben vista dal Quirinale, gli avvocati tentano di segnare un limite invalicabile. "La prescrizione è l’unica norma che di fatto attua la Costituzione sorvegliando la durata dei processi", scrivono. "Non la vanifichi per rispondere alla demagogia di una magistratura intollerante di ogni limite", invocano. E invitando il ministro della Giustizia "a non tradire la sua cultura", chiedono: "Riorganizzi Procure e Tribunali, dia loro strutture e personale necessario, tolga ogni alibi a chi amministra e dirige gli uffici giudiziari, ma non consegni una via di fuga da quello che è il dovere di ogni Stato civile: garantire la celerità dei giudizi". Il problema è che l’attuale sistema lascia spesso impuniti i colpevoli di reati gravi perché la prescrizione scatta prima dell’arrivo della sentenza. "Certo, ma non si può confondere l’effetto con la causa. Sarebbe come "taroccare" il termometro invece di somministrare l’antipiretico a chi ha la febbre" replica l’avvocato Francesco Petrelli, segretario dell’Ucpi. E respinge con forza l’argomentazione più diffusa: a rendere lunghi i processi sono le tattiche dilatorie degli avvocati. "Le Camere Penali - sottolinea - fecero un’indagine a tappeto già nel 2006-2007, venne fuori che solo l’1,9% dei rinvii era dovuto alla difesa. Il resto era dovuto a una cattiva organizzazione degli uffici. Dieci anni dopo il dato è invariato. È lì che si deve intervenire". L’Anm di Piercamillo Davigo evidenzia come sia difficile punire i corrotti, con la prescrizione breve. "Allora cosa si vuole fare? - chiede Petrelli -. Con la prescrizione lunga si arriva a 18-20-21 anni di processo. Vogliamo lasciare l’imputato, ma anche le parti civili, convivere con il processo fino alla morte?". Il messaggio è inviato: "Si stralci la prescrizione, è materia troppo delicata da affrontare solo perché qualcuno ha detto "fate in fretta". Marcello Maddalena, ex pg di Torino: "il processo mediatico fa male ai magistrati" di Errico Novi Il Dubbio, 1 luglio 2016 "La violazione del segreto, la diffusione di notizie non rilevanti dal punto di vista penale, è un danno per la magistratura". Marcello Maddalena non esita a mettere i guardia i pm dalla tentazione del processo mediatico. Ma l’ex procuratore generale di Torino sa bene che non tutti i magistrati sanno resistere a quella tentazione. "Il pericolo c’è, non vederlo è segno di miopia e anche per questo credo siano sagge le norme che attribuiscono al procuratore capo l’esclusività dei rapporti con i mezzi di informazione". Esclusività che il capo della Procura di Palermo ha energicamente rivendicato in una nota rivolta ai magistrati del suo ufficio. Ha evocato il decreto del 2006 sulle prerogative dei capi delle Procure. E l’ipotesi di riforma della commissione Vietti ben si guarda dall’incidere su questo aspetto. Intanto se c’è una previsione legislativa va rispettata. Nel caso parliamo dell’articolo 5 del decreto legislativo 106 del 2006. Norma che non ammette equivoci: la competenza del rapporto coi media è del capo. Si tratta di una regola opportuna perché evita o riduce le tentazioni di protagonismo dei singoli sostituti e gli ulteriori pericoli che ne possono derivare. Quindi il procuratore di Palermo Lo Voi ha fatto bene a rivendicare i propri poteri. Sì, è non solo dovuto ma opportuno che i rapporti con la stampa siano tenuti da lui. Il singolo sostituto può affiancarlo di volta in volta in casi particolari, ma bisogna impedire un’indiscriminata e incontrollata proliferazione di notizie. A Palermo è diventata pubblica addirittura una circolare riservata con cui Lo Voi mette in guardia i pm da rischi per la loro sicurezza. Se un atto è riservato deve restare tale. A mio giudizio o si riduce l’area del segreto e della riservatezza o se ne deve pretendere il rispetto. Nel caso del rapporto con i media è doveroso rispettare i limiti di riservatezza legittimamente posti dal capo dell’ufficio nell’interesse di tutti i suoi componenti. Il discorso vale anche per le intercettazioni? Sì, è da molto tempo che sostengo la necessità di pubblicare e soprattutto di utilizzare nel procedimento solo le intercettazioni che hanno effettiva rilevanza penale. Certo, ci sono conversazioni non direttamente riferibili a reati ma che sono egualmente utili ai fini della ricostruzione dei reati per cui si procede. Si pensi alle conversazioni che possono fornire la prova del movente (anche privato o privatissimo) di un omicidio. Ma, quando non ricorrono questi requisiti, sono assolutamente contrario a rendere pubbliche le intercettazioni e a utilizzarle in ambiti diversi dal processo penale. Ambiti diversi come la divulgazione a mezzo stampa? L’articolo 15 della Costituzione garantisce la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. È da anni che quel principio viene frequentemente tradito. Crede alla storia degli avvocati che passano le intercettazioni ai giornali? Non escludo nulla, ma gli atti possono arrivare ai giornali anche in altri modi. Di sicuro in questo campo abbiamo assistito a uno stillicidio di notizie indebitamente fornite in qualche modo da qualcuno. Se si accertasse che intercettazioni coperte da segreto sono state diffuse da un pm, sarebbe giusto punirlo con sanzioni disciplinari? Con sanzioni disciplinari, certo: in ipotesi del genere per la verità ci si può trovare di fronte anche a veri e propri reati. Sicuramente l’obbligo del segreto vale anche per il magistrato. Parliamo di notizie davvero segrete: in caso di violazione è già prevista, tra l’altro, la sanzione disciplinare. Sarebbe opportuno ribadire queste norme nella riforma delle intercettazioni? Le ripeto: le norme esistono. Sono quelle che regolano in generale la divulgazione indebita di notizie. Così come ci sono già fattispecie disciplinari che, anche laddove non sussista specifico reato, regolano la divulgazione di atti coperti da segreto dovuta anche a negligenza, o la violazione del semplice obbligo di riservatezza. Mi riferisco ad esempio all’articolo 2 lettera ?ù del decreto legislativo 109 del 2006. Come si può estendere, diciamo così, l’osservanza di questi principi? Limitando, nella formazione del fascicolo per il dibattimento, l’ingresso nello stesso alle sole conversazioni che abbiano rilevanza ai fini della decisione sulle imputazioni contestate. Processo mediatico: dobbiamo rassegnarci o è una distorsione da superare? Sono contrario al processo mediatico durante le indagini preliminari. Credo non sia tollerabile che, mentre dei dibattimenti non si interessa più nessuno, l’attenzione si concentri tutta su una fase come quella della indagini in cui dovrebbe vigere il principio del segreto. Come ne usciamo? In questa situazione si è finiti anche per certi salti mortali del nuovo codice di procedura penale, in cui si è cercato di salvare capra e cavoli e si è arrivati a dire che gli atti sono segreti ma il contenuto degli atti no... Nell’opinione pubblica c’è voyerismo giudiziario? C’è, questo è vero, ma assecondarlo è pericoloso per il magistrato. Se si estendono le possibilità di utilizzazione degli atti, se si comincia a dire che certi atti hanno rilevanza politica e l’opinione pubblica ha il diritto di conoscerli, il magistrato finisce per essere trascinato in un agone politico in cui inevitabilmente il magistrato si espone all’accusa di politicizzazione. E la politicizzazione è la peggior accusa per un magistrato. Il processo mediatico è un danno innanzitutto per la magistratura, lei dice: ma è anche una tentazione a cui qualche pm cede? È un danno di sicuro. Quanto alla tentazione non mi permetto di dare questo tipo di giudizi. Ma mi rendo conto che si tratta di un pericolo e che non vederlo è segno di miopia. Anche per questo le norme che assegnano ai procuratori capo l’esclusività nei rapporti con i media, sono norme sostanzialmente sagge. Il procuratore capo di Palermo Lo Voi ai pm: adesso basta fare i velinari di Errico Novi Il Dubbio, 1 luglio 2016 Lite tra i magistrati di Palermo per una nota riservata finita sui giornali. Un procuratore capo che alza la voce con i suoi aggiunti: in fondo non ci sarebbe nulla di strano. Se non fosse che la comunicazione arriva sugli organi di stampa. E che non è certo il primo caso di fibrillazioni interne alla magistratura finite sui giornali. La questione riguarda la Procura di Palermo e in particolare il suo capo, Franco Lo Voi. Il quale lunedì scorso diffonde una circolare destinata ai propri "vice". Chiede di "astenersi dal rilasciare qualunque intervista o dichiarazione, con qualunque mezzo, agli organi di informazione o a singoli giornalisti, sia nazionali che esteri, su quanto possa comunque rientrare nell’attività giudiziaria dell’ufficio". Il casus belli risalirebbe a marzo, quando proprio uno degli aggiunti di Lo Voi, Maria Teresa Principato, rilasciò un’intervista a Radio Popolare, trasmessa via etere e pubblicata in versione testuale sul sito dell’emittente siciliana. Fece rumore soprattutto un passaggio in cui la dottoressa Principato spiegava l’eterna latitanza di Matteo Messina Denaro con il particolare sfondo criminale della provincia di Trapani, dove assai probabilmente il super boss continua a trovare coperture: "Quella trapanese è una Cosa Nostra molto diversa da quella palermitana", in quel "territorio" c’è "un intricato amalgama tra criminalità mafiosa, massoneria deviata e naturalmente imprenditori, professionisti, gente insospettabile". L’analisi del procuratore aggiunto fu in quella occasione ampia, distesa, penetrante. Forse troppo. A Lo Voi, secondo quanto trapela dalla Procura, l’episodio non piacque. Ma all’antefatto si aggiunge un detonatore più ravvicinato. Vale a dire la diffusione, non voluta da Lo Voi, di un’altra circolare, di poche ore precedente a quella sul rapporto con i media, riguardante la sicurezza di tutti i pm palermitani. In quella prima nota interna il capo dell’ufficio parlava di "fibrillazione in ambienti criminali anche legati a Cosa Nostra" che suggerirebbe "particolare attenzione ai profili di sicurezza" da parte dei magistrati. E perciò Lo Voi esortava a "evitare i luoghi affollati o ricorrenti presenze nei locali pubblici". Non solo: meglio stare lontani dai "social", che "permettono a un numero indeterminato di persone di ricavare abitudini che possono comunque costituire basi di conoscenza per eventuali malintenzionati". Raccomandazioni benevole. Che sollevano però un piccolo caso, a sua volta mediatico. Alcuni organi di stampa danno conto della missiva sul rischio attentati. In qualche caso la si accompagna con chiose del tipo "Lo Voi non aveva mai sollevato allarmi, nonostante le minacce al pm di Matteo". È lì che il procuratore si infuria. E scrive la seconda circolare finita sulle agenzie, è da presumere, senza disdoro da parte sua. Il capo dei pm palermitani ricorda che eventuali deroghe al divieto di interviste vanno "preventivamente comunicate" a lui. C’è dunque una "necessità di specifica approvazione delle richieste" di contatti con i media. Così prevede la legge. Lo Voi non gradisce che i rapporti interni alla Procura, e questioni come quelle legate ai rischi per la sicurezza, finiscano nel teatro aperto della comunicazione. Gli salta la mosca al naso (e ieri forse di più, dopo un attacco del Fatto proprio sul suo alert per il rischio sicurezza) per una questione in fondo annosa: il rapporto tra magistratura inquirente e giornali. Gli si potrebbe rinfacciare che è di questo, al limite, che si accorge in ritardo. Ma sarebbe ingiusto. Perché il nervosismo sul punto ormai attraversa l’intera magistratura. Dal caso dell’intervista, parzialmente smentita, di Morosini al Foglio alle più generali polemiche sull’impegno referendario delle toghe o sugli eccessi mediatici di Davigo. Con il corollario di richiami per lo più vani del vicepresidente del Csm Legnini e del guardasigilli Orlando. Il rapporto con l’opinione pubblica è l’anomalia del processo penale, è la sostanza del processo mediatico. Ma quel rapporto scricchiola: la fiducia dei cittadini nella magistratura cala. E quel nervosismo, che non è solo di Lo Voi, ha probabilmente radici troppo profonde perché un caso come quello palermitano possa essere ridotto a fatto locale. Processo Bossetti, il giorno della verità: la sentenza a sei anni dalla scomparsa di Yara di Paolo Berizzi La Repubblica, 1 luglio 2016 Prima del verdetto l’imputato, che rischia l’ergastolo, racconterà per l’ultima volta la sua verità. Attesa a Bergamo, fuori dal tribunale gente in coda già dall’alba. È il giorno della verità. Quella giudiziaria. Basta processi mediatici, chiacchiere, colpevolisti e innocentisti, veri (pochi) e presunti (molti) colpi di scena. Oggi i giudici della corte d’Assise di Bergamo decideranno se Massimo Bossetti, unico imputato, è colpevole oppure no per l’omicidio di Yara Gambirasio, 13 anni, scomparsa fuori dalla palestra di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e trovata cadavere tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Bossetti, 46 anni, tre figli, muratore, è accusato di omicidio volontario pluriaggravato e di calunnia (per avere cercato di depistare le indagini verso un collega di lavoro). Oggi sul suo destino giudiziario verrà posta la prima pietra. Dentro o fuori. Condannato o assolto. All’ergastolo - come chiede l’accusa - o a una pena inferiore? Sono passati cinque anni e sette mesi dalla scomparsa di Yara, un anno di processo, 45 udienze. Si inizia alle 9. Prenderà la parola l’imputato, per dichiarazioni spontanee. Le ultime, prima del verdetto. Cercherà di convincere la Corte presieduta da Antonella Bertoja (a latere Ilaria Sanesi e 6 giudici popolari, più un supplente) della sua innocenza, che va sostenendo dall’inizio del processo e, ancor prima, dalla data del suo fermo come presunto autore del delitto (era il 16 giugno 2014). "Sono innocente e la verità deve venire a galla", ha ribadito Bossetti anche al suo avvocato difensore, Claudio Salvagni, durante la visita in carcere di mercoledì mattina da parte del legale, l’ultima prima della sentenza. "Massimo parlerà con il cuore", ha detto l’avvocato Salvagni, che difende l imputato assieme al collega Paolo Camporini, specificando di non aver "in alcun modo influito sulle sue dichiarazioni, che ha messo per iscritto in questi giorni e leggerà alla Corte, per non rischiare di farsi prendere dall’emozione e perdere il filo del discorso". Dopodiché la Corte si ritirerà per deliberare e non uscirà dalla camera di consiglio se non a verdetto raggiunto (probabilmente entro la serata). La "pistola fumante" che inchioda Bassetti, secondo il pm Letizia Ruggeri, è il Dna trovato sugli slip di Yara. A questo si aggiungono altri indizi: il passaggio del furgone di Bossetti davanti alla palestra da dove è sparita la vittima (ripreso dalle telecamere), le fibre sul cadavere compatibili coi sedili del furgone; le sfere metalliche che rimandano al mondo dell’edilizia, l’assenza di alibi per l’imputato, i tabulati telefonici e il tentativo di fuga il giorno dell’arresto. Tutti elementi contestati dalla difesa, secondo la quale questo processo è "pieno di anomalie e tecnicamente non ha scoperto e dimostrato nulla". Enorme è l’attesa per la sentenza. Fuori dal Tribunale di via Borfuro gente in coda già dall’alba per accaparrarsi un posto in aula. Sono attesi giornalisti, fotografi e cameramen da tutta Italia, anche se per disposizione della Corte fotografi e teleoperatori non potranno entrare in aula. Gli agenti della questura, i carabinieri e la polizia locale, oltre alle guardie del Gsi Security Group che effettuano la vigilanza all’interno del Tribunale, si adopereranno per garantire l’ordine. Difese rafforzate sul mandato d’arresto europeo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2016 Schema di decreto legislativo sull’attuazione della direttiva 2013/48/Ue. Diritto di difesa rafforzato nel mandato d’arresto europeo. Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato in via preliminare lo schema di decreto legislativo che recepisce la direttiva 2013/48/Ue sul "diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale e nel procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo, al diritto di informare un terzo al momento della privazione della libertà personale e al diritto delle persone private della libertà personale di comunicare con terzi e con le Autorità consolari". La direttiva è stata adottata con l’obiettivo di rafforzare i diritti procedurali di indagati o imputati in procedimenti penali. Va segnalata, la disposizione secondo cui la direttiva si applica anche a chi acquista la qualità di indagato o imputato in sede di interrogatorio o, meglio, mentre rende sommarie informazioni come persona informata sui fatti. Particolare attenzione è, in effetti, posta proprio sul momento in cui sorge il diritto all’assistenza del difensore, visto che il valore rilevante da presidiare e quello di tutelare l’indagato/imputato dal pericolo della autoincriminazione inconsapevole e involontaria. Per quanto riguarda la definizione dell’ambito applicativo, questo comprende anche i procedimenti di esecuzione del mandato di arresto europeo, cui la direttiva dedica un articolo a sé, per tener conto delle particolarità che si riflettono sul diritto alla difesa tecnica; mentre con riguardo ai "reati minori", quelli per cui una sanzione, esclusa la privazione della libertà personale, può essere irrogata da un’autorità diversa dalla giurisdizione penale, la direttiva si applica solamente alla fase di impugnazione avanti a quest’ultima. Nel dettaglio, il decreto è costituito da 5 articoli. Vengono estese, attraverso la modifica dell’articolo 364, comma 1 del Codice di procedura penale, anche alla individuazione di persona disciplinata dall’articolo 361 dello stesso codice, svolta dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari nei confronti di persona già indagata, le garanzie difensive già previste in caso di interrogatorio, ispezione o confronto, cui deve partecipare la persona sottoposta alle indagini. Quanto al mandato d’arresto europeo, viene previsto tra le disposizioni di attuazione del Codice di procedura che l’autorità giudiziaria dello Stato membro di emissione, senza ritardo, dopo essere stata informata che una persona ricercata desidera nominare un difensore nello Stato membro di emissione, fornisca informazioni alla persona ricercata per agevolarla nella nomina di un difensore. Informazioni che potrebbero comprendere l’elenco aggiornato dei difensori oppure il nome di un difensore di turno nello Stato di emissione in grado di fornire informazioni e consulenza in casi connessi al mandato d’arresto europeo. Gli Stati membri potrebbero chiedere che questo elenco sia stilato dall’ordine degli avvocati competente. Va di conseguenza assicurato al soggetto nei cui confronti viene eseguito il mandato di arresto europeo l’avviso della facoltà di nominare un difensore anche nello Stato membro di emissione, il cui ruolo consiste nell’assistere il difensore nominato nello Stato membro di esecuzione, fornendogli informazioni e consulenza per l’effettivo esercizio dei diritti della persona ricercata. Applicabilità al convivente more uxorio della causa di non punibilità di cui all’art. 384 Cp Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2016 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Convivente more uxorio - Applicabilità della scriminante - Sussistenza. La causa di non punibilità prevista dall’articolo 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza n. 34147 del 4 agosto 2015. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Applicabilità della scriminante al convivente more uxorio - Esclusione. Non può essere applicata al convivente "more uxorio", resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli articoli 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente "more uxorio". • Corte cassazione, sezione V, sentenza 22 novembre 2010 n. 41139. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Convivente "more uxorio" - Applicabilità della causa di non punibilità - Esclusione. Al convivente "more uxorio", che abbia commesso il reato di favoreggiamento personale in favore del convivente, non si applica la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, comma primo, cod. pen. operante per il coniuge. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 18 maggio 2009 n. 20827. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità Convivente "more uxorio" - Applicabilità della scriminante - Esclusione - Prospettata questione di costituzionalità - Manifesta infondatezza. Non può essere applicata al convivente more uxorio resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli articoli 384, primo comma, e 307, ultimo comma, cod. pen.; il che non si pone in contrasto con i principi di cui all’art. 3 della Costituzione, avuto anche riguardo a quanto già affermato dalla Corte costituzionale con le pronunce nn. 124 del 1980, 39 del 1981, 352 del 1989, 8 del 1996, 121 del 2004. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 26 ottobre 2006 n. 35967. Si sono dimenticati di dirvi che il governo si è arreso definitivamente ai magistrati di Maurizio Tortorella Tempi, 1 luglio 2016 Il 21 maggio l’Associazione Nazionale Magistrati ha fatto una mossa clamorosa, ma passata sotto silenzio. Un silenzio sorprendente, visto che dal 9 aprile l’attenzione dei mass media sul "sindacato" della categoria è quasi spasmodica perché da quel giorno presidente dell’Anm è il tonitruante Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite, oggi giudice di Cassazione. Quel sabato l’Anm ha varato 14 "commissioni di studio", che nei prossimi anni impegneranno più di 300 magistrati, accuratamente scelti e mixati in base alla corrente ideologico-partitica di provenienza. Queste commissioni permanenti, simili a commissioni ministeriali, dovranno analizzare alcuni temi tecnici, come i carichi di lavoro dei magistrati o le loro condizioni di lavoro e di sicurezza, e si occuperanno di come sta avanzando il processo telematico o dovranno riformulare lo statuto interno. Fin qui nulla di anomalo: sono i compiti di qualunque sindacato. Altre commissioni, invece, affronteranno temi politicamente rilevanti, come "ordinamento giudiziario e progetti di riforma", "riforma del diritto e del processo penale", "responsabilità civile dei magistrati", e perfino le norme sulle pari opportunità, il diritto sovranazionale, il sistema carcere. Le scarne cronache sulla notizia hanno aggiunto che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, "ha accolto con favore l’offerta di collaborazione dell’Anm". Addirittura Orlando avrebbe "richiesto la sistematica partecipazione consultiva del sindacato togato nella fase di predisposizione delle norme". Sì, avete letto bene: partecipazione consultiva. Ed è una ben strana reazione, visto che la politica interloquisce con la magistratura attraverso il Consiglio superiore della magistratura (che è un organo costituzionale e non un’associazione privata, come l’Anm), che al Parlamento e al governo offre pareri legislativi, tanto frequenti e assertivi quanto non richiesti. In realtà, la mossa dell’Anm e il gradimento manifestato dal guardasigilli hanno una loro gravità, che però quasi nessuno ha colto. È come se il governo Renzi e il sindacato giudiziario, che anche nel recente passato hanno avuto qualche occasione di scontro (a volte puntuto), avessero concordato un armistizio. E il governo, in difficoltà, avesse ceduto su tutta la linea, offrendo all’Anm il diritto alla consultazione preventiva sulla formazione delle nuove norme. Il problema è che in Parlamento sostano da tempo disegni e proposte di legge importanti su intercettazioni, prescrizione, impugnazioni delle sentenze, sulla stessa riforma del Csm. L’intesa silenziosa (o forse "silenziata" dai media) annuncia che assisteremo presto a leggi preventivamente concordate con la magistratura? Leggeremo domani sui giornali che l’Anm e le sue 14 commissioni hanno dato il via libera a questa o a quella riforma? Domande inquietanti. Ma ce n’è una in più: è possibile che il potere di controllo della magistratura sulla politica avanzi senza incontrare alcuna resistenza? L’ultra potere. Già gli uffici di gabinetto, gli uffici legislativi e molti posti chiave di troppi ministeri, a partire da quello della Giustizia, sono occupati da magistrati. Se dovesse passare impunemente anche questa "nouvelle vague" concordataria, l’intero processo normativo e giudiziario rischierà di essere direttamente controllato dalla magistratura: dalla prima stesura di una legge fino alla sua applicazione in un tribunale. E allora dovremo dire un addio definitivo al principio della separazione dei poteri, che in questo anomalo paese è già stato percosso alle fondamenta. Proprio nessuno ha voglia di contestarlo? Davvero nessuno alzerà un dito? Il mio sì alla giornata maschile contro la violenza sulle donne. Vogliamo uomini consapevoli di Lucia Annibali Corriere della Sera, 1 luglio 2016 È rassicurante l’idea che alcuni uomini abbiano sentito la necessità di pensare ad una giornata dedicata alla violenza maschile nei confronti delle donne (leggi il post La proposta di 30 uomini: una nostra giornata contro la violenza maschile). La crudeltà con la quale gli uomini, oggi, decidono di spezzare la vita di una donna, oppure di controllarla o di gestirla, genera sconforto e tristezza. È la società intera, oggi più che mai, e non solo noi donne, ad aver bisogno di uomini illuminati, capaci di riflettere su se stessi, di interrogarsi sulle proprie mancanze ed assumersi, con onestà, le responsabilità delle proprie azioni. Serve una consapevolezza anche maschile. Noi donne passiamo una vita intera a lavorare su noi stesse, ad analizzare i nostri errori, a riflettere sulle nostre scelte sbagliate. È tempo che gli uomini facciano lo stesso lavoro su se stessi. La parità di genere deve passare anche attraverso una parità di coscienza e di consapevolezza. Oggi ho la fortuna di avere intorno a me amici uomini capaci di gesti gentili, di farmi sentire protetta, al sicuro, accolta per quella che sono. Si tratta di uomini profondamente risolti, e per questo in grado di valorizzare la donna che sta al loro fianco, facendola sentire completa. Troppo spesso invece le frustrazioni personali vengono fatte scontare alla propria compagna, che diventa così il luogo in cui l’uomo scarica la propria rabbia e la propria inadeguatezza. Spetta allora a quegli uomini illuminati dei quali ho parlato prima dare l’esempio - attraverso il proprio comportamento quotidiano - a chiunque hanno attorno, a cominciare dai propri figli. È tempo che gli uomini rappresentino una risorsa per le donne. Che dimostrino di essere capaci di stare al passo con la loro conquistata libertà e indipendenza, senza che queste vengano lette come un ostacolo alla loro vita personale e ai loro diritti acquisiti nei decenni. Se temono così tanto che la propria compagna li lasci comincino a coltivare l’amore con l’impegno nel diventare il miglior uomo possibile per lei. Che poi vuol dire anche il miglior uomo possibile per se stessi. E ancora: capita che le storie d’amore finiscano, imporre di essere amati non è mai una soluzione. Mai. L’amore non sta agli ordini di nessuno, nemmeno di chi lo vorrebbe tenere al guinzaglio usando la violenza. La sola soluzione se una persona dice "non ti amo più" è lasciarla andare. Se posso aggiungere un’ultima cosa è questa: vi prego smettiamola, tutti, di pensare e di dire che una donna che ha subito violenza in fondo se l’è cercata, perché non ha lasciato prima, perché non ha voluto vedere i segnali. Non c’è niente di più irrispettoso che non provare a capire, nemmeno per un minuto, le trappole che deve affrontare, anche senza volerlo, una donna che incontra un uomo violento. La banalità e la superficialità non sono più ammesse. L’unica verità accettabile è che la violenza subita da una donna dipende dall’uomo che quella violenza ha deciso di commettere. Ed è questa verità che, tutti, dobbiamo cominciare a sostenere, se vogliamo sperare in un cambiamento culturale. Mi auguro che le trenta firme dell’appello per una nuova giornata contro la violenza maschile diventino molte, molte di più di più. Perché anche una sola giornata, un solo minuto, se è occasione di riflessione onesta e condivisa, può diventare importante. L’Aquila: dal carcere delle Costarelle un grido "il regime del 41 bis sia più umano!" di Angela Baglioni Il Centro, 1 luglio 2016 I sottosegretari Chiavaroli e Migliore: "I detenuti chiedono di cucinare in cella". Le novità: Skype, se possibile, e contatti con le università per chi vuole studiare. Solo pasta cotta e non bucata, niente gnocchi, riso, minestre, paste ripiene. La carne? Solo cotta e non impanata, né infarinata; no a polpette, involtini, pesce con le spine, funghi, mozzarelle, ricotta. Neanche le ingenue sottilette sono permesse al carcere Le Costarelle di Preturo, che ieri ha ricevuto la visita dei sottosegretari alla Giustizia, Federica Chiavaroli e Gennaro Migliore. Ad accompagnarli la direttrice della casa di pena, Maria Celeste D’Orazio. Su 173 detenuti che si trovano nella struttura, ben 147, tra cui 7 donne, sono sottoposti al regime del 41 bis. E se lo chiamano carcere duro, un motivo ci dovrà pur essere. Una visita durata un paio di ore, al termine della quale Federica Chiavaroli si è detta "molto provata. Si avverte proprio questo clima da carcere duro. È una struttura assolutamente ordinata", ha detto all’uscita, "anche se qualche problema ce l’ha per quanto riguarda la carenza di personale, sul quale concentreremo la massima attenzione. È chiaro che poi la riflessione più profonda riguarda il 41 bis, un regime che ha lo scopo di recidere ogni legame con le organizzazioni dalle quali i detenuti provengono, obiettivo che nessuno mette in discussione. Stiamo riflettendo su come assicurare condizioni di vita dignitose anche a chi si trova in 41 bis. Anche il presidente della commissione diritti umani, Luigi Manconi, ha parlato dell’umanizzazione del 41 bis". Alcuni dei detenuti, ha detto il sottosegretario, hanno segnalato criticità per quanto riguarda le condizioni di salute. "Stiamo valutando tutte le misure", ha aggiunto, "per rendere il regime compatibile con la dignità della persona, il diritto a cure mediche e psichiatriche. Altri detenuti, invece, hanno segnalato questioni legate all’alimentazione, perché non hanno la possibilità di cucinare in cella, visto che la legge lo vieta". E le donne? "Le donne in carcere soffrono di più, soprattutto se sono mamme". Il diritto a ricevere visite, infatti, è limitato a poche ore al mese. "Ci terrei molto", ha concluso, "a ringraziare tutto il personale che lavora in questa struttura, che fa veramente un lavoro duro e straordinario". Anche il sottosegretario Migliore ha insistito sulla necessità "di valutare quali possono essere gli interventi sulla vita quotidiana di queste persone, con la garanzia che possano affrontare anche patologie e disagi psicologici. Pensiamo anche a innovazioni tecnologiche, come Skype invece della scheda telefonica, dove è possibile e a determinate condizioni, e a una maggiore collaborazione con le università per chi desidera formarsi". Tutto questo mentre il consiglio regionale, da mesi, non riesce a nominare il garante dei detenuti, anche se già da tempo circola il nome della radicale Rita Bernardini. Santa Maria Capua Vetere (Ce): detenuto tenta il suicidio in carcere, salvato dagli agenti di Sveva Scalvenzi vocedinapoli.it, 1 luglio 2016 Ancora una tragedia in carcere. Un detenuto straniero della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ha provato a togliersi la vita. Si tratta di un uomo straniero, che ha tentato di uccidersi, tagliandosi le vene. Gli agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere si sono accorti del gesto estremo e hanno immediatamente soccorso il detenuto. Quando l’uomo è stato portato in infermeria, ha provato a dimenarsi, non voleva essere salvato. Ha ferito anche gli agenti che l’avevano soccorso. Pare che urlasse di essere lasciato stare. Il medico dell’infermeria, però, è riuscito a salvarlo. L’intervento celere degli agenti ha evitato che il detenuto riuscisse nel suo intento. È questo l’ennesimo tentativo di suicidio in un carcere. Non si conosce il motivo per cui l’uomo si trova in carcere, si sa però, che è stato denunciato dai suoi famigliari. Modena: detenuti magrebini in sommossa, la protesta della Polizia penitenziaria modenatoday.it, 1 luglio 2016 Una nuova escalation di violenza ha creato scompiglio nella struttura di Sant’Anna. I sindacati lamentano la carenza di personale e di una guida autorevole all’interno della Casa circondariale. Presidio ai cancelli il 6 luglio. Mercoledì 6 luglio, a partire dalle ore 10, tutte le organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria protesteranno davanti al carcere di Modena. Il motivo? Per i rappresentanti dei lavoratori del Sant’Anna la situazione nel carcere modenese è "ormai ingestibile, a causa di una totale assenza di guide autorevoli, il personale è lasciato solo, senza adeguati punti di riferimento". A far traboccare il vaso è stato un episodio che si è verificato due giorni fa, lo scorso 29 giugno, verso le ore 18 e che è stato riferito da Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale. I due sindacalisti raccontano di gravi disordini, partiti quando un detenuto di origine magrebina si è auto-lesionato in maniera piuttosto grave e dieci suoi connazionali, dopo essersi rifiutati di rientrare nelle camere detentive, hanno danneggiato i beni dell’amministrazione, rompendo i vetri delle finestre e le plafoniere. È stata necessaria tutta l’esperienza e la professionalità del personale per evitare il peggio. Nello stesso momento un altro detenuto, ristretto nella sezione osservazione, perché ritenuto soggetto a rischio suicidario, ha messo in atto un tentativo di impiccagione, che fortunatamente è stato sventato dal pronto intervento della Polizia Penitenziaria. Nel carcere modenese episodi di questo tipo si ripetono con cadenza mensile, ma giovedì scorso i disordini sono stati amplificati dal fatto che l’organico della Penitenziaria è ulteriormente ridotto, a causa del piano ferie in atto. Pescara: accordo con il Comune di Montesilvano, detenuti al lavoro per strade e parchi Il Centro, 1 luglio 2016 Trenta detenuti l’anno potranno svolgere lavori di pubblica utilità a Montesilvano grazie al rinnovo della convenzione tra il Comune e il tribunale di Pescara. Il protocollo è stato sottoscritto ieri dal sindaco Francesco Maragno e dal presidente del tribunale Angelo Bozza. Il protocollo era già stato siglato nel 2011 e ieri è stato solo formalmente rinnovato per un ulteriore quinquennio. Il documento prevede che i condannati potranno prestare la loro attività non retribuita a favore della collettività all’interno del Comune o per l’Azienda speciale. Nel dettaglio i detenuti potranno svolgere attività che vanno dalla manutenzione delle strade, di beni del demanio e del patrimonio pubblico, all’assistenza a persone diversamente abili, passando per la tutela di flora e fauna, pulizia o uscierato. "Attraverso questa convenzione", commenta Maragno, "si fornisce una possibilità concreta a quanti devono scontare la propria pena di rendersi utili e riscattarsi ponendosi al servizio della collettività. Al tempo stesso il protocollo consente al Comune di Montesilvano di fronteggiare una carenza di organico ormai allarmante che caratterizza moltissimi enti pubblici, fornendo un ulteriore strumento per andare incontro alle esigenze dei cittadini che richiedono servizi efficienti e qualitativamente elevati". La convenzione, rivolta a un numero massimo di 30 unità all’anno, è aperta non solo ai residenti, ma anche ai richiedenti dei territori limitrofi, i cui Comuni non abbiano analoghe convenzioni. Dal 2011 fino al 2015 sono stati 51 i detenuti che hanno concluso il progetto a Montesilvano. Vercelli: corso di formazione per il reinserimento delle detenute infovercelli24.it, 1 luglio 2016 La Consulta Regionale delle elette del Piemonte finanzierà un corso di formazione e di reinserimento sociale per le donne detenute. Lo ha comunicato ieri la presidente, Stefania Batzella, nel corso di un incontro con il Garante dei detenuti di Vercelli, Roswitha Flaibani e la Direzione della Casa Circondariale di Vercelli. Il progetto, apprezzato e caldeggiato anche dal Garante Regionale dei detenuti, Bruno Mellano, prenderà l’avvio nel mese di settembre e riguarderà un percorso formativo di rilevanza sociale e culturale in ambito alimentare e culinario e coinvolgerà almeno 10 - 15 donne. La Casa Circondariale di Vercelli, unica struttura oltre a quella di Torino a ospitare una sezione femminile, ha accolto il progetto, mettendo a disposizione le proprie competenze e risorse umane per realizzarlo. La Garante dei detenuti di Vercelli, Roswitha Flaibani, si è detta entusiasta del progetto e si augura possa essere il primo di una futura collaborazione con l’organismo regionale. Gorizia: i Radicali in visita al carcere "spazi molto ridotti e condizioni igieniche precarie" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2016 I posti regolamentari - secondo gli ultimi dati del ministero - sono 60, i detenuti presenti 38, ma c’è il sovraffollamento. La spiegazione sta nel fatto che alcune celle sono inagibili. Si tratta del carcere di Gorizia e quindi dovrebbe essere un posto umano e non degradante, dove viene rispettata la dignità dei detenuti e con gli spazi a disposizione secondo le direttive europee. Ma tutto ciò è stato smentito categoricamente dall’esponente radicale Rita Bernardini durante la sua visita ispettiva. Nonostante i numeri, le celle risultano sovraffollate. "A causa dei letti a castello - denuncia la Bernardini - in alcune celle non riescono ad aprire le finestre". Ma non solo. Secondo l’esponente radicale, ci sono solo i bagni alla turca e quindi non adatti per le persone disabili e anziane. E come se non bastasse gli scarichi non funzionano e i ristretti sono costretti ad utilizzare i secchi d’acqua. L’igiene per questo motivo scarseggia e anche le docce risultano impresentabili. Rita Bernardini ricorda che ogni anno lo Stato spende circa tre miliardi di euro: decisamente troppi visto i risultati. L’esponente radicale ha inoltre rilevato una grave mancanza nell’istituto penitenziario: non c’è il regolamento d’istituto, il che significa che i detenuti non sono informati sui propri diritti e sui propri doveri e che l’arbitrio regna sovrano. "Molti di loro - conclude Bernardini - non sapevano di poter avere (su prenotazione) i colloqui con i familiari anche di domenica; il che li ha portati a rinunciare a vedere i propri congiunti che lavorano oltre ai figli che vanno a scuola". La questione però non riguarda esclusivamente il carcere di Gorizia: secondo il Provveditore regionale, il regolamento non esiste nel 99 per cento delle carceri. Il quadro della situazione è uscito allo scoperto grazie alla visita di Rita Bernardini di giovedì scorso assieme ad altri esponenti radicali all’indomani del convegno "Uno di noi: la comunità carceraria in ricordo di Marco Pannella", organizzato dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Bernardini ha parlato di fronte al radicale Pietro Pipi e a numerose autorità del territorio - c’erano tra gli altri il sindaco Romoli, l’assessore provinciale Portelli, i senatori del Pd Fasiolo e Maran, e ai detenuti del carcere, che hanno portato le loro testimonianze. "È necessario coniugare sicurezza e vivibilità della struttura", ha ricordato il sindaco Romoli durante il convegno; mentre la senatrice Fasiolo ha rassicurato sulla disponibilità dei finanziamenti per proseguire i lavori di sistemazione del carcere e l’assessore Portelli ha auspicato che tutte le istituzioni sappiano "impegnarsi concretamente per risolvere i problemi di questo carcere". I filosofi Luca Taddio e Alessandro Tessari, e il provveditore Enrico Sbriglia, hanno poi allargato lo sguardo. Taddio ha ricordato che "discutere le idee di un uomo (si riferiva a Pannella ndr) significa dar loro una prospettiva futura". Tessari ha riflettuto sul fatto che "una società che produce carcerati è una società malata", e curarla diventa dunque ancor più importante che limitarsi a curare le carceri. Dal Provveditore regionale, invece, è arrivato un invito a non pensare di realizzare un carcere fuori città "perché vorrebbe dire che non lo si vuole più vedere, e sarebbe un ulteriore sconfitta per tutti". Il riferimento è chiaramente alle ultime proposte relative al nuovo piano carcere per il quale il ministro Orlando aveva fatto sapere che venderà le tre carceri storiche delle principali città per poi aprirne di nuove in periferia. Cagliari: disagi nella prenotazione dei colloqui fra detenuti e familiari castedduonline.it, 1 luglio 2016 Grosse difficoltà nella prenotazione del turno per poter effettuare i colloqui con i familiari nel carcere di Uta. "Le difficoltà nella prenotazione del turno per poter effettuare i colloqui con i familiari ristretti nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta costituiscono un grave disagio per i familiari e i detenuti. Ecco perché sono state poste all’attenzione del Direttore dell’Istituto Gianfranco Pala che ha immediatamente disposto un intervento per ridurre i problemi". Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che ha illustrato al responsabile dell’Istituto Penitenziario le lamentele di diversi parenti dei ristretti. "Nella sezione maschile del Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta esiste - afferma Caligaris - una carenza infrastrutturale nel senso che il numero dei posti disponibili per effettuare i colloqui è inferiore a quello del vecchio Buoncammino. È però molto più alto il numero dei detenuti che hanno superato abbondantemente 600 presenze giornaliere. Ciò comporta una oggettiva difficoltà nell’organizzazione degli appuntamenti riservati ai familiari o alle persone che chiedono di poter effettuare gli incontri con persone private della libertà". "Solo dopo numerose richieste da parte dell’Istituto, è stato nel frattempo modificato - sottolinea la presidente di Sdr - il telefono. Chi componeva il numero spesso riceveva il segnale di linea libera benché l’operatore stesse rispondendo a qualche chiamata. Ciò provocava un generale malcontento in chi chiamava per prenotare l’appuntamento. A causa delle carenze nell’organico, inoltre l’addetto al terminale telefonico è soltanto un agente penitenziario che si limita a prenotare un solo colloquio per volta. Tutti i familiari però hanno la possibilità, anche senza prenotazione, di incontrare i parenti detenuti. Occorre però aspettare". "È evidente la necessità di rendere il servizio - conclude Caligaris - più agevole attivando possibilmente più linee telefoniche e predisponendo anche un contatto via internet per velocizzare le prenotazioni per i colloqui. L’auspicio è che al più presto vengano adottati provvedimenti risolutori anche perché tra breve saranno ormai trascorsi due anni dal trasferimento nel Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta e il rodaggio dovrebbe concludersi positivamente". Napoli: nasce lo Spazio Giallo dedicato ai bambini nel carcere di Secondigliano corrierecaserta.it, 1 luglio 2016 Per la prima volta al Sud la rete di accoglienza per i figli di genitori detenuti. Viene inaugurato il 30 giugno lo Spazio Giallo all’interno del carcere di Secondigliano a Napoli: il percorso di accoglienza creato dall’associazione Bambinisenzasbarre che aiuta il bambino a orientarsi e ad attenuare l’impatto con un ambiente potenzialmente traumatico. Il progetto è stato sostenuto dall’Associazione Enel Cuore, Fondazione Banco di Napoli e Fondazione Banca delle Comunicazioni, e sarà a disposizione dei circa 5mila figli che entrano ogni anno nel carcere napoletano per incontrare il proprio papà. Lo Spazio Giallo è il luogo per i bambini all’interno del carcere. Qui gli operatori possono intercettarne i bisogni, accoglierli in uno spazio dedicato a loro dove si preparano all’incontro con il genitore. La Rete di accoglienza è attiva in Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. Lo Spazio Giallo di Secondigliano è il primo aperto al Sud. Sono due gli elementi che aiutano il bambino a orientarsi in uno spazio sconosciuto e potenzialmente traumatico: "Trovo papà", la mappa che mostra loro il percorso prima di raggiungere il proprio genitore, e "Aspetto qui", lo spazio fisico dove i bambini si preparano alla visita. L’inaugurazione dello Spazio Giallo di Napoli fa parte delle iniziative della Campagna europea "Non un mio crimine, ma una mia condanna", alla quale Bambinisenzasbarre partecipa per il settimo anno. Focus del 2016 è la richiesta delle ventuno associazioni europee di Cope (Children of Prisoners Europe) di portare la Carta italiana dei diritti dei figli dei detenuti in Europa. Le associazioni europee chiedono l’adozione del Protocollo d’Intesa, firmato in Italia nel 2014 dal Ministero della Giustizia, dall’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza e dall’Associazione Bambinisenzasbarre, una Carta "rivoluzionaria che riconosce formalmente il diritto dei bambini a mantenere la relazione con il genitore detenuto, e a quest’ultimo riconosce il diritto di essere genitore". "L’Italia è il primo Paese che ha siglato questa Carta - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione-. Una firma ed un segno forte per i 100mila figli di genitori detenuti, in sé è uno strumento radicale che ha trasformato i bisogni di questi minori in diritti, consentendo loro di non sentirsi più colpevoli e contrastando l’emarginazione sociale a cui sono esposti". Il Provveditore della Campania, Tommaso Contestabile, conferma l’attenzione al tema dei bambini in carcere e comunica alcuni dati relativi alla sua regione: "Questo Provveditorato in linea con la riforma penitenziaria ha sollecitato e predisposto che nei 15 istituti di competenza ci fosse un’attenzione ai colloqui con i familiari dei detenuti ed in particolare nei confronti dei minori. Ad oggi, risulta che in 5 Istituti vi sono delle Ludoteche e in 2 sono in fase di allestimento; inoltre in 9 Istituti vi sono degli appositi spazi dedicati all’accoglienza dei bambini. Spesso questa accoglienza è supportata grazie a gruppi di volontari che seguono i bambini nell’attesa dei colloqui con i propri genitori". Gli fa eco Liberato Guerriero direttore della Casa Circondariale di Secondigliano: "Il carcere di Secondigliano è uno dei più grandi delle terre meridionali e ospita circa 1300 persone. Siamo felicissimi di poter ospitare questo progetto di Bambinisenzasbarrre perché diamo un’attenzione importante ai bambini, ai figli dei detenuti". Sono oltre due milioni i bambini che hanno un genitore in carcere, considerando i paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa. In Italia i minori che ogni anno entrano in carcere per mantenere un legame con il papà o la mamma detenuti sono quasi centomila. La Campagna europea dà il via a sette mesi di iniziative che proseguiranno fino a novembre, in occasione del 25esimo anniversario della ratifica della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia dell’Onu. In Italia tutti gli istituti penitenziari sono coinvolti con il programma "Carceri aperte. Parliamone!", in collaborazione con il Ministero della Giustizia: in agenda dibattiti, incontri nelle aree verdi, iniziative a sostegno dei bambini figli di genitori detenuti. Verona: “Speratura”, i detenuti in scena raccontano il rischio della scelta di Vittorio Zambaldo L'Arena di Verona, 1 luglio 2016 La stanza d'attesa, le speranze, il gioco, l'azzardo della nascita e la certezza della morte, ideali sperati e sogni mai nati, tutto si è unito in Speratura, lo spettacolo messo in scena nella cappella del carcere da dieci attori detenuti, sette maschi e tre femmine del Teatro del Montorio, come saggio di fine corso del laboratorio condotto da Alessandro Anderloni e Isabella Dilavello per il progetto Teatro in Carcere, voluto dalla direzione della casa di reclusione ed organizzato da Le Falìe con il sostegno della Fondazione San Zeno. Davanti a un centinaio di spettatori ammessi dall'esterno per le due serate di replica i detenuti hanno raccontato l'anima, si sono calati non nelle parti ma nelle persone che sono: il re prepotente, il servo sottomesso e ribelle, i due soldati nemici, il fantasma della moglie, la bambina, il filosofo e il Pulcinella, il campione dello sport. Nove sedie vuote indicano i posti che ognuno deve cercarsi, riconoscere, far proprio e aspettare l'infermiera che con la sorte deciderà le nascite e le non nascite. “Tutto è partito dalla lettura del Mito della caverna di Platone, ma nessuno pensava che avremmo inconsapevolmente parafrasato un altro mito platonico, quello di Er, chiamato a raccontare la responsabilità morale nei confronti del proprio destino”, spiega l'autore e regista Alessandro Anderloni. Il testo è nato dal confronto reciproco nelle ore di laboratorio, “dal desiderio di sfuggire alle regole, partendo improvvisando su un mondo di morti e finendo per raccontare la condizione di non nati; pensavamo di ragionare sull’ineluttabilità della condanna, ma ci siamo ritrovati a interrogarci sul rischio della scelta”. Un speratura appunto, come l'atto di vedere con il riflesso della luce se la vita sta crescendo dentro l'uovo e che a Montorio non è solo un gesto meccanico ma un atto di fede e di speranza. La sorte designa il servo destinato ad entrare nel grande uovo di feltro lavorato dalle mani sapienti e consapevoli di Esther Weber e Marta Pagan Griso e l'effetto di filamenti e colori ha dato proprio l'impressione di una vita pulsante che si innerva. “È stato momento di liberazione”, racconta Mohammed, uscito dall'uovo della vita, “ho ceduto a me stesso cinque cose in cui credo: l'amore senza fine; i colori dell'autunno; la carezza del fuoco nel freddo dell'inverno; la vacanza dell'estate; la grazia di servire un padrone buono e generoso”. “Grazie alla direttrice del carcere per averci dato questa possibilità”, aggiunge il pugile Fation, “ci ha fatto capire il nostro passato e ci aiuta a crescere. Abbiamo mostrato che anche noi possiamo fare delle cose buone”. Lucia, la moglie fantasma è in un pianto irrefrenabile: “Piango per l'emozione di vedere tanta gente applaudire, per la fatica fatta, per il tanto lavoro, perché recitare mi ha aiutato a capire tante cose e il senso della vita”. Serigne Bamba è il filosofo, senegalese, che cede per testamento “la fortuna di conservare tutti i sensi fino alla fine, per godere della bellezza della vita. Per me questo laboratorio è stato come un'evasione dal carcere. Nelle ore di teatro ho pensato solo a questo ed è stato davvero un momento di libertà dalle sbarre e dalle catene dei pensieri”. Cristiano, il soldato che lascia il coraggio di vivere e morire lo ammette: “Sto in carcere da 21 anni, devo passarne ancora una decina, ma è la prima volta che mi sento così. Ero titubante e non volevo partecipare a questo laboratorio, ma sono contento del risultato”. “Abbiamo dato un senso di vita a noi stessi”, aggiunge Carlo, vera maschera del Pulcinella napoletano, sul palco e nella vita: “Lascio di nascere Masaniello senza odore di rivoluzione”, aggiunge sorridendo sornione. Valerio è il re sul trono e nel carcere anche il fornaio: “Dall'impasto al palcoscenico è stata un'esperienza nuova, che mi ha colpito tanto” e Sasha, il soldato riconosce: “A me ha aiutato molto a crescere, a voi spero abbia aiutato a liberarvi da qualche pregiudizio”. Udine: laboratori di musica e concerti per i detenuti Messaggero Veneto, 1 luglio 2016 La musica può servire ad abbattere le barriere tra il carcere e la società esterna, nell’ottica del progetto appena sbarcato nella casa circondariale di via Barzellini. Martedì infatti qui si sono esibiti per i detenuti i Green Waves, gruppo composto da artisti vicini alla musica etnica e irlandese. L’appuntamento fa parte delle nuove attività artistiche e educative in corso nelle carceri di Tolmezzo, Pordenone e Gorizia, inserite nelle attività socio-culturali promosse dal Css - Teatro stabile di innovazione del Fvg, nell’ambito del "Progetto di contrasto all’esclusione sociale, alla devianza e alla criminalità". L’iniziativa vede il sostegno della Direzione centrale salute, integrazione sociosanitaria e politiche sociali della Regione Friuli Venezia Giulia, dell’Azienda per i Servizi sanitari n. 3 "Alto Friuli" e dell’ente gestore del servizio sociale dei Comuni dell’Ambito 3.2. A condurre il progetto sono Michele Budai e Michele Pucci, musicisti e docenti dei laboratori che nascono dall’esigenza di fornire ai reclusi momenti di crescita culturale, socializzazione e rieducazione attraverso l’uso delle arti. Firenze: la comunità cinese in rivolta "vogliamo più sicurezza" di Marco Menduni La Stampa, 1 luglio 2016 I fantasmi tirano pietre. La rivolta dei cinesi di Toscana accende i riflettori su una comunità declassata a livello di ectoplasma sociale, economico, culturale. Poi la scintilla all’improvviso. Un controllo dellaAsl in un capannone mercoledì pomeriggio, un’operazione contro il lavoro nero. Un alterco che degenera tra i carabinieri e un imprenditore. Benzina su una tensione esasperata dal caldo. Non passa mezz’ora che sulla strada ci sono più di trecento cinesi ed è battaglia. Scagliano pietre e bottiglie contro le forze dell’ordine, partono le cariche, volano le manganellate. Tra gli stranieri, ci sono i genitori. Ma soprattutto i figli, la seconda generazione, molti nati in Italia: i più incattiviti. È violenza fino a tarda notte. Rione Osmannoro: la zona commerciale e artigianale di Sesto Fiorentino, periferia nord del capoluogo. Il capannone vicino a Ikea è un enorme spazio aperto, diviso da un muro che nasconde i servizi igienici. Da un lato lavorano 21 ditte artigiane, dall’altro 17. Micro imprese familiari, ognuna di 2, 3 persone. La formula funziona così e si ripete tal quale in altri quattro capannoni circostanti. Ci sono basse paratie che suddividono gli spazi. Le famiglie cinesi li affittano ("paghiamo 700 euro al mese"), installano i loro macchinari, le macchine da cucire professionali, e iniziano a produrre. Una borsa dopo l’altra. Ognuna viene venduta a 10 euro. Irene ha 19 anni, è arrivata in Italia nel 2011 con i genitori. Lavoravano a Napoli, sempre nel manifatturiero, lei dava una mano ai tavoli di un ristorante. Un mese fa la decisione. Il trasferimento, un’attività in proprio: "Vendiamo agli ambulanti dei mercati". Non è un lavoro redditizio: "Su ogni pezzo guadagniamo 3 euro". Il caldo è soffocante. All’ingresso un pacco di pan carrè, una confezione di pannolini, sotto il tavolo giochini di plastica. È l’area dove i bambini giocano. Qui arrivano l’altro pomeriggio i carabinieri, sbarrano le porte di accesso. Vogliono evitare il fuggi fuggi di lavoratori non in regola. Un anziano, che ha un bimbo di 10 mesi in braccio, tenta di andarsene: "Qui fa caldo per il bambino". L’uomo perde il controllo, posa il bebè su un tavolo, aggredisce un militare, lo morde. Quattro colleghi del ferito bloccano l’aggressore a terra. Arriva un’ambulanza, ma un altro lavoratore chiude i cancelli, bloccando all’interno i militi e gli uomini dell’Arma: "Nessuno soccorreva il nostro connazionale, pensavano solo al carabiniere". Entrambi sono stati arrestati, il 26 luglio saranno processati. La chiamata alle armi passa per i telefonini. "Non c’è cinese, di ogni età - racconta Angelo Hu - che non sappia utilizzare lo smartphone, è l’unico modo per restare collegati alle radici". Usano tutti WeChat. Le informazioni corrono sulla messaggeria istantanea, in meno di mezz’ora arrivano in 300 dalle fabbriche vicine. È l’inizio della battaglia. Hu fa politica: è consigliere comunale nel vicino Comune di Campi Bisenzio, tra le fila di Sinistra Italiana. A Campi, 47 mila abitanti, i suoi connazionali sono 5 mila. Nell’area nord di Firenze 10 mila. Tutti lavorano all’Osmannoro. Numeri diversi da Prato, 10 chilometri di distanza: 20 mila regolari, 15 mila no, che dormono nelle fabbriche dormitorio. Qui è diverso, tutti vivono negli appartamenti. Di notte i capannoni chiudono. Meglio, chiudevano. Perché emerge l’altra faccia della realtà: "Questa non è una rivolta verso lo Stato. È una rivolta per più Stato, che non sia però solo esattore e controllore, ma garantisca la sicurezza". Negli ultimi 6 mesi due fabbriche sono state svuotate: i criminali arrivano indisturbati con i camion e portano via tutto: macchine tessili, prodotti, materie prime. Quasi ogni sera chi rincasa a piedi viene rapinato. "Siamo gente che lavora, non vogliamo solo controlli e vessazioni, ma più sicurezza". Le case: c’è tanta richiesta e gli affitti sono alle stelle. Wang vive nel vicino sobborgo di Peretola. Ci schiude la porta del suo appartamento. Una cucina, un bagno, tre stanze da letto, una per i genitori, due per i figli grandi. L’affitto? "Mille euro al mese". La sala? "Non c’è, quelli con la sala costano ancora di più, viviamo in cucina". C’è un quadretto con la Muraglia, una tv: "Non la guardiamo mai. Quando rincasiamo c’è solo il tempo per riposare e tornare al lavoro". I confini della nostra umanità di Luciana Castellina Il Manifesto, 1 luglio 2016 "Rifugiati. Conversazione su frontiere, politica, diritti" di Filippo Miraglia con Cinzia Gubbini, per il Gruppo Abele. In genere, interrogati sulle possibili soluzioni di questo problema - quello dell’immigrazione - i competenti si affrettano a precisare: non ho la ricetta pronta; oppure: non ho la bacchetta magica. E invece, l’Arci, la sua ricetta ce l’ha, e il merito di questo libro è soprattutto quello di illustrarla. E se assumiamo questo punto di vista per leggere il libro di Filippo Miraglia, coglieremo immediatamente tutte le virtù della ricetta Arci". Così Luigi Manconi nella prefazione (scritta assieme a Alessandro Leogrande) al libro che Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci e da anni impegnato sul problema, ha scritto in un face à face con Cinzia Gubbini. È appena uscito per le edizioni del Gruppo Abele, nella - tutta interessante - serie "Palafitte": Rifugiati. Conversazione su frontiere, politica, diritti. Manconi ha ragione: fra le tante parole che ogni giorno vengono spese sul tema questo volume ha il pregio di dire cose molto concrete e fattibili, quelle che già ora cercano di fare molte associazioni, in particolare l’Arci, la Comunità di sant’Egidio, le Chiese Valdesi (queste utilizzando il 5 per 1.000 previsto nella cartella delle tasse) e tante altre ancora. Un grande impegno della società civile, che certo resta indicazione esemplare ma non può, con ogni evidenza, supplire alla totale cecità e inefficienza delle istituzioni. Ma è un "fare" per nulla inutile: non solo intanto aiuta in concreto persone in carne ed ossa, ma soprattutto serve a far capire cosa si dovrebbe e potrebbe fare. E che non si fa. Non si fa innanzitutto non, o almeno non solo, per via delle reazioni emotive che l’arrivo di tanti individui diversi da noi - per storia cultura comportamenti valori abitudini - produce. È che queste reazioni sono innanzitutto il frutto di una ben organizzata campagna promossa da chi ha interesse a suscitare paure. E cioè di chi sa bene di aver bisogno degli immigrati, ma li vuole illegali e perciò ricattabili appena cercano di far valere i loro diritti. Se non fosse così non si capirebbe come mai chi possiede imprese dovrebbe rifiutare gli immigrati sebbene tutti i dati ci dicano che, senza di loro, un continente come l’Europa (e ancor più l’Italia), in drammatica decrescita di popolazione, non ha speranza di veder aumentato il proprio Pil e nemmeno di colmare le casse dei fondi destinati al welfare. Forse, oltreché di reazioni psicologiche, bisognerebbe parlare di più di interessi di classe, vetusta locuzione ormai quasi illegale. Con pacatezza, Filippo Miraglia ci spiega che la spesa per il brutale respingimento è inutile e produce enormi sprechi; che sarebbe meglio generalizzare una cosa così sensata come l’allestimento di corridoi detti umanitari, anziché trasformare il Mediterraneo in un campo di battaglia e in un cimitero; che il flusso migratorio verso l’Europa non è poi così massiccio, una proporzione minima rispetto ai sessanta milioni di rifugiati che esistono nel mondo; che i paesi dell’Ue potrebbero assorbirla senza gravi problemi se solo, anziché ammucchiare i nuovi arrivati in luoghi ignobili sotto minaccia di rimpatrio, fossero decentrati sul territorio e affidati agli enti locali così come alle associazioni che operano sul territorio (come spesso già avviene) sì da facilitarne l’inclusione sociale ed evitare i guasti della logica concentrazionista gravemente dannosa per tutti. È quanto l’Arci e le associazioni con cui collabora (c’è ormai una stretta unità di intenti e di azione concreta fra organismi laici e religiosi che si muove in questo senso ) sta facendo fra mille difficoltà ma con ottimi risultati. E invece la logica governativa è di affidare questa materia così delicata e complessa in gran parte alle prefetture. come se si trattasse di disastri più imprevedibili di un terremoto. (Come stupirsi di "mafia capitale" e di tutto il malaffare che accompagnano gli appalti per la gestione delle strutture previste? Se la gestione non viene affidata alla collettività locale, a una rete sociale e politica, è naturale che prevalga il malaffare). Il testo contiene una quantità di informazioni e riflessioni su una materia di cui a tutti capita di discutere per via del peso acquisito nel contesto politico europeo, ma senza avere cognizione dei suoi precisi aspetti. Oltretutto, per via della giungla di norme in cui è immersa - a livello dei progetti Ue - apparentemente bellissime, se non fosse per il fatto che esse vengono puntualmente contraddette dalle pessime misure dell’emergenza. Ma il libro non si limita alla pur preziosa descrizione di quanto in concreto si fa e non si dovrebbe fare e su quanto di buono si riesce a realizzare nonostante tutto. È anche un testo denso di riflessione politica: sulla sinistra e come ha finito per marginalizzare il discorso sul tema: perché non può sbraitare come Salvini, ma non ha nemmeno il coraggio di proporre soluzioni. Finisce per tacere, accantonando il problema che viene abbandonato alla più becera propaganda. Ma c’è anche un riflessione, in larga parte nuova, sulla debolezza in Italia di una rappresentanza politica collettiva dei migranti come c’è invece i altri paesi europei. E uno scarsissimo ruolo attribuito dalle istituzioni alle associazioni che operano nella società civile. Nel libro si parla molto anche dell’Arci stessa, con molti accenti critici e autocritici, senza auto-referenzialismo. Informazioni preziose, perché l’Arci, con i suoi un milione e 100mila iscritti e i suoi 4.700 circoli distribuiti su tutto il territorio nazionale, non è solo la più grande organizzazione laica esistente nel nostro paese, è un pezzo stesso di questo paese. Prezioso per chi vuole ancora far politica. Nuova strage nel Canale di Sicilia, morte dieci migranti di Francesco Viviano La Repubblica, 1 luglio 2016 Ad Augusta arriva il relitto del maxi naufragio con 700 vittime. Il barcone affondato nell’aprile 2015 recuperato dalla nave Ievoli Ivory nella rada del porto siciliano. Stamattina un gommone si è rovesciato al largo delle coste libiche: 107 persone tratte in salvo. Renzi: "Restituito alle vittime il diritto alla memoria, monito all’Europa su quali sono i veri valori". Un gommone carico di migranti si è rovesciato a venti miglia circa dalle coste della Libia: almeno dieci donne sarebbero annegate, mentre 107 superstiti sono stati tratti in salvo dalla guardia costiera. Una nuova strage che avviene nel giorno in cui arriva in Sicilia il relitto del peschereccio affondato il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia che ha provocato 700 vittime, e che sarebbe la più grave tragedia avvenuta nel Mediterraneo. "Ho ordinato il recupero perché noi italiani conosciamo il valore della parola civiltà", ha commentato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Secondo quanto si è appreso, la centrale operativa di Roma della Guardia Costiera, ricevuta una richiesta di soccorso, ha inviato la nave Diciotti: l’equipaggio, giunto sul posto, ha trovato il gommone semiaffondato e molti naufraghi in acqua. Sono stati tratti in salvo 107 migranti, tra cui donne e bambini e sono stati anche recuperati i cadaveri delle 10 donne che erano morte in mare. Il naufragio è avvenuto con condizioni meteorologiche pessime, mare forza 3, vento a 30 nodi e onde alte due metri. Nave Diciotti è ancora in zona alla ricerca di eventuali dispersi e poco lontano dal luogo del naufragio ha soccorso un’altra imbarcazione salvando i 117 migranti che erano a bordo. Lo ha comunicato con un tweet la Guardia Costiera. Intanto il relitto del barcone affondato nell’aprile 2015 è giunto nella rada del porto di Augusta, in provincia di Siracusa: a bordo ci sono ancora diverse centinaia di cadaveri, che per oltre un anno sono rimasti a una profondità di 370 metri. Il peschereccio è stato recuperato e trasportato dalla nave Ievoli Ivory con l’ appoggio delle navi della Marina militare. La carcassa del barcone sarà adesso caricata su una chiatta che la trasporterà nel porto della cittadina siracusana. Lo scafo è stato sollevato dal fondale marino verso la superficie attraverso il modulo di recupero installato a bordo della Ievoli Ivory. Sulla nave San Giorgio della Marina Militare, che sta fornendo la protezione a tutto il dispositivo navale, è imbarcata, oltre al personale del gruppo operativo subacquei della Marina, una squadra di vigili del fuoco che ha il compito di effettuare i primi rilievi sul relitto e anticipare le informazioni utili alle squadre pronte a terra. Il peschereccio sarà collocato all’interno di una tensostruttura refrigerata, lunga 30 metri, larga 20 e alta 10. Inizierà, quindi, il recupero delle salme da parte dei vigili del fuoco con la collaborazione successiva del personale del corpo militare della Croce rossa italiana. Un’operazione che nel complesso ha sfiorato il costo di 10 milioni di euro. Renzi: "L’Italia salva vite e rispetta i valori della sua cultura". "Nel mese di aprile 2015, gli scafisti condussero alla morte settecento persone stipate in una carretta del mare e chiuse a chiave nella stiva. Quell’evento colpì molto tutte le persone di buona volontà. L’Italia chiese allora la convocazione di un Consiglio europeo straordinario. E da lì abbiamo iniziato a cambiare la politica continentale sui migranti, un passo alla volta". Lo scrive su Facebook il premier Matteo Renzi. "Quella nave contiene storie, volti, persone, non solo un numero di cadaveri. Ho dato disposizione alla Marina Militare di andare a recuperare il relitto per dare una sepoltura a quei nostri fratelli, a quelle nostre sorelle che altrimenti sarebbero rimasti per sempre in fondo al mare - prosegue il premier. L’ho fatto perché noi italiani conosciamo il valore della parola ‘civiltà’. E ci hanno insegnato fin dai primi giorni di scuola che il rispetto per la sepoltura è uno dei grandi valori della nostra cultura". Il premier prosegue: "Dare una tomba a ciascuno di loro significa restituire il diritto alla memoria. E significa ammonire l’Europa su quali siano i valori che contano davvero. Continuiamo tutti i giorni a cercare di salvare vite umane, anche oggi. Il relitto è stato recuperato ieri, quattordici mesi dopo: qui ci sono alcune foto. Grazie alla Marina Militare, fiero di essere italiano. Lavoriamo tutti i giorni perché l’Europa sia all’altezza dei valori che l’hanno fatta grande". Operazione di recupero da 9,5 milioni di euro. È di 9,5 milioni di euro il finanziamento fin qui disposto dalla Presidenza del Consiglio per l’intera operazione di recupero del relitto. Lo ha detto il contro-ammiraglio della Marina militare italiana Pietro Covino nel corso della conferenza stampa al pontile Nato di Melilli. "Nella prima fase, relativa all’ispezione del relitto, sono stati spesi un milione e 400 mila euro; nella seconda, legata alla progettazione del recupero, il finanziamento è stato di 1 milione e 600 mila euro, nell’ultima fase che comprende la mobilitazione dei mezzi, il costo è stato di 6 milioni e mezzo di euro". Le autopsie e le identificazioni delle salme sono coordinate dell’equipe guidata da Cristina Cattaneo, della sezione di Medicina legale dell’Università di Milano, saranno gratuite. Il contro-ammiraglio ha stimato che il relitto dovrebbe contenere tra i 250 ed i 300 migranti. Sbarchi a Trapani e Reggio Calabria. A Trapani i 578 migranti di cui SOS Mediterranee si è preso cura dal giorno del soccorso. A bordo della nave sono presenti 111 migranti salvati dai soccorritori di SOS Mediterranee e 467 trasbordati da una nave della Marina Militare italiana. I soccorsi sono avvenuti martedì durante una intensa attività di migrazione nel Mar Mediterraneo. Il primo soccorso è avvenuto la mattina del 28, mentre le unità navali del dispositivo EunavforMed operavano altri salvataggi. Nel primo pomeriggio dello stesso giorno sono state trasbordate su nave Aquarius, come richiesto dalla Centrale Operativa delle Capitanerie di Porto, 81 persone e a seguire altre 118 e successivamente ulteriori 268 per un totale di 467 persone affidate alla Ong dalla Marina Militare. Al termine del trasbordo SOS Mediterranee ha ricevuto disposizioni dalla stessa Centrale Operativa per condurre le persone salvate nel porto siciliano di Trapani. "Tra i migranti a bordo di nave Aquarius risultano 62 minori non accompagnati. Più del 10% del numero complessivo di migranti. Singolare anche il numero di nigeriani: 420 su 578. Circa il 73% di essi proviene da un Paese attualmente dilaniato da conflitti interni e dal dilagante Boko Haram. Quest’ultima, organizzazione criminale priva di scrupoli, sarebbe la causa principale della migrazione di giovani nigeriani - si legge in una nota. Come testimoniato da una coppia di sorelline a cui sarebbero stati uccisi entrambi i genitori, l’unica via per la salvezza da Boko Haram sarebbe appunto quella di lasciare il paese come loro dichiarano di aver fatto. Sui 79 minori a bordo della Aquarius ben 63 risultano senza genitori o parenti adulti. Oltre alla massiccia componente nigeriana, risultano sempre in notevole percentuale cittadini del Mali, del Ghana, del Gambia e della Costa d’Avorio. I dati statistici sulle nazionalità di provenienza evidenziano i Paesi attualmente esposti a grave rischio umanitario". Nel porto di Reggio Calabria è attraccata la nave offshore "Bourbon Argos", battente bandiera lussemburghese, con 430 migranti a bordo. Sono 370 uomini, 39 donne e 21 minori tutti accompagnati. Le loro condizioni sono buone. Le operazioni di sbarco degli immigrati inizieranno non appena saranno completati i controlli di Polizia a bordo. Centro nazionale per le vittime dei cyber-bulli: sarà dedicato a Carolina, morta a Novara di Filippo Massara La Stampa, 1 luglio 2016 Paolo Picchio, padre della ragazza suicida nel 2013, ha incontrato Papa Francesco. Il 10 ottobre a Milano apre il centro di prevenzione e contrasto, in attesa del ddl Ferrara. Nel nome di Carolina Picchio, giovane vittima del bullismo in rete, nascerà un centro per curare le vittime di cyber-bullismo. Porterà il nome della ragazza di Novara che non è riuscita a sopportare il peso di tutti gli insulti ricevuti sul web: nella notte tra il 4 e il 5 gennaio 2013 si lanciò dal balcone di casa, "le parole fanno più male delle botte" scrisse nella sua lettera d’addio. Quel messaggio è diventato uno slogan nella battaglia ad un fenomeno denunciato dal 6% dei ragazzi, anche se il dato non tiene conto del mondo sommerso, di chi non denuncia né chiede aiuto. Il 10 ottobre aprirà a Milano il primo centro nazionale per la prevenzione e il contrasto al cyber-bullismo e ai fenomeni illegali della rete. Il progetto si basa su un protocollo d’intesa firmato dal ministero dell’Istruzione, dell’università e della Ricerca (Miur) e dall’azienda ospedaliera Fatebenefratelli. Ieri è arrivata anche la benedizione di Papa Francesco: il pontefice ha incontrato Luca Bernardo, direttore della struttura sanitaria, e Paolo Picchio, il padre di Carolina che lotta per evitare tragedie come quella della figlia. "Il Santo Padre è al passo con i tempi - racconta Picchio -. Ad aprile aveva detto che la felicità non è un’app che si scarica sul telefonino. Conosce il disagio adolescenziale e sa affrontare questo problema. Parlarci assieme è stata un’emozione unica". Il Papa ha benedetto una foto di Carolina e il progetto del presidio che sarà intitolato all’adolescente. L’invito per un confronto davanti alla basilica di San Pietro era arrivato proprio dal Vaticano. "Speriamo serva per dare una scossa ulteriore - auspica Picchio -. Il Parlamento non deve mettersi a dormire: c’è una proposta di legge che aspetta di essere approvata, altrimenti perdiamo un altro anno scolastico senza reagire come si deve". Il papà di Carolina sostiene i principi riassunti nel ddl presentato da Elena Ferrara, senatrice Pd, originaria di Oleggio, che era stata insegnante della ragazza alle scuole medie. Il testo promuove attività di prevenzione negli istituti e percorsi di recupero anche per i responsabili delle violenze virtuali: non vuole reprimere, ma educare. "Il Papa è sensibile a questi temi e riconosce tutto il lavoro che Picchio ha svolto nonostante la sofferenza per la morte di Carolina - osserva Ferrara. Approvare la legge e aprire una struttura specializzata significa dare risposte alle famiglie. La discussione alla Camera è in calendario a luglio. Speriamo che prima della pausa estiva, o all’immediata ripresa dei lavori, ci sia il tempo per la terza lettura definitiva". Foggia: braccianti e camerieri trattati come schiavi dai caporali, arrestati in tre di Maria Grazia Frisaldi La Repubblica, 1 luglio 2016 In manette due italiani e un romeno che individuavano i lavoratori sottopagandoli e facendoli alloggiare a pagamento in una struttura degradata. Il blitz è stato messo a segno dalla guardia di finanza. Lavoratori sottopagati, sfruttati e costretti a vivere nel totale degrado. E caporali organizzati come in una vera e propria azienda: dal reclutatore della manodopera al direttore dei lavori, passando per il contabile. È l’organizzazione scoperta e smantellata dall’operazione della guardia di finanza di Foggia che ha portato tre persone - due italiani e un romeno - accusate a vario titolo di intermediazione e sfruttamento del lavoro. Si tratta di Fausto Saracino, di 54 anni, e della figlia Francesca, di 28. Con loro collaborava il 45enne Cornel Ion. Quest’ultimo, secondo gli investigatori, era la pedina mobile dell’organizzazione, in grado di reclutare la forza lavoro direttamente in Romania o in altri Paesi dell’Est. Fausto Saracino era il regista dell’organizzazione e sua figlia la contabile. Le indagini, coordinate dalla Procura di Foggia, sono partite nel novembre del 2015, in piena campagna di raccolta delle olive, e terminate nel mese di aprile. Attraverso pedinamenti, riprese video, intercettazioni ambientali e telefoniche, gli inquirenti hanno accertato le condizioni in cui era costretta la manovalanza sfruttata: erano alloggiati in un dormitorio comune in agro di Troia. Si tratta di una struttura comunale occupata abusivamente dai Saracino e ora posta sotto sequestro. All’interno, nella più totale precarietà ambientale e igienica, trovavano accoglienza 25 lavoratori romeni, tra i quali sei donne: erano impiegati nei campi come braccianti, oppure nel campo della ristorazione e nell’assistenza agli anziani. Uomini e donne erano costretti a vivere, nella totale promiscuità, in un locale di circa 40 metri quadrati, con un unico bagno alla turca posto all’esterno del dormitorio e impianto elettrico fatiscente, costituito da allacciamenti volanti. Il terminale di scarico della cucina era a cielo aperto anziché confluire nella rete fognaria. Le Fiamme gialle hanno sequestrato tutta la documentazione relativa alla contabilità del gruppo: ogni lavoratore pagava un canone di 60 euro mensili per l’alloggio. La paga oraria era di 3 euro all’ora: una somma dalla quale venivano decurtati volta per volta il canone per l’alloggio, il costo per il trasporto da e per il luogo di lavoro e le spese per le sigarette e altre necessità personali. Al termine delle operazioni, ai lavoratori rimanevano davvero pochi spiccioli. Il carico di lavoro era di otto ore in media al giorno, fino a sfiorare le 16 ore continuative registrate nei libri contabili del 31 dicembre scorso, a Capodanno, per la manodopera impiegata nella ristorazione. Nel corso delle indagini è stata accertata la responsabilità di tre imprenditori agricoli della zona per il reato di favoreggiamento. I tre arrestati sono stati condotti in carcere: rischiano dai cinque agli otto anni di reclusione. Nei loro confronti è stato disposto anche il sequestro preventivo dell’immobile-dormitorio e di quattro furgoni con targa bulgara utilizzati per il trasporto dei braccianti nei campi. Assolto Dottor Cannabis: "continuerò a curare con la canapa indiana" di Corrado Zunino La Repubblica, 1 luglio 2016 Un giudice di Lucca ha sentenziato che il medico Cinquini, storico antiproibizionista, non ha commesso reati coltivando piante in Versilia. Lui ha appena scritto un libro e continua la sua battaglia: "È un farmaco di prima scelta, abbattiamo i divieti". Dottor Cannabis è andato assolto. Il fatto non sussiste: non ha commesso reato. La sua canapa indiana ibrida, fatta crescere nella campagna versiliese, è a basso principio attivo. Non può coltivarla, la legge non lo consente, ma un tribunale ora riconosce che non l’ha fatto per arricchirsi. Lui lo fa - si sa, da trent’anni - per curare pazienti e consentire a una battaglia culturale, l’uso della cannabis a fini terapeutici, di far breccia in un paese farmaco-dipendente. La sentenza di assoluzione è di tre giorni fa, firmata da un giudice per le indagini preliminari di Lucca, e fin qui è rimasta in sordina. Le autodenunce e gli arresti del dottor Fabrizio Cinquini, ora 52 anni, chirurgo vascolare nato a Viareggio, i suoi ricoveri coatti all’ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino, invece, hanno fatto sempre grande rumore. L’ultimo fermo era stato lo scorso 5 maggio, un giovedì sera. I carabinieri di Forte dei Marmi, allertati da una villeggiante impaurita, avevano trovato il dottor Cinquini piegato a innaffiare le sue piante: sedici in vaso, otto a terra. Ibridi di cannabis di quarta generazione. Un paio di chilometri lontano dalla casa della madre, dove era stato mandato da un precedente giudice in dimora coatta "perché lì non avrà terreno a disposizione". Il terreno se l’è trovato due chilometri lontano. Il Dottor Cannabis aveva già obbligo di dimora e quel 5 maggio lo aveva violato (un altro reato) andando ad innaffiare tra la città e la campagna di Forte dei Marmi. "Temo una pena esemplare", si era confidato il medico, "una pena che scoraggi tutti i malati che vogliono coltivare la cannabis a scopo terapeutico". Lunedì scorso, dopo le perizie che avevano accertato la bassa presenza di principio attivo nella gran parte delle piante sequestrate, è arrivata l’assoluzione. E il suo avvocato ha scritto su Facebook: "Una persecuzione è finita". Già. Il curriculum giudiziario del dottor Fabrizio Cinquini è lungo. Nel dicembre del 2013 l’uomo era stato condannato a sei anni: si era autodenunciato invitando troupe televisive nel suo primo campo, a Pietrasanta (lì le piante coltivate erano 277). La sentenza di primo grado si basava sulla legge Fini-Giovanardi, due mesi dopo sarebbe stata dichiarata incostituzionale dalla Cassazione. In appello la pena è scesa a due anni e otto mesi. Per le sue battaglie Cinquini è già stato nel carcere di Lucca, il San Giorgio, quindi l’hanno ricoverato all’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, dove è stato dichiarato sano di mente, e ancora in una cella del carcere di Massa. Il chirurgo si convertì alla cannabis medica durante il servizio (sanitario) militare, in Sardegna, fatto nell’Aeronautica: scelse di curare con la canapa indiana una ragazza fortemente anoressica ottenendo il suo ritorno a un regime alimentare sano. A 34 anni Cinquini contrasse l’epatite C, nel corso di un’operazione in urgenza a bordo di un’ambulanza. Era il 1997, si auto-curò con la cannabis. Ricorda adesso al telefono: "Dopo 18 mesi di chemio ero senza forze, dovevo trovare un trattamento diverso. Ho messo a punto una terapia nutrizionale a base di canapa, aloe e papaia. Ebbe successo: il peso tornò, i miei anticorpi salirono". Da allora il medico ha fondato associazioni e battezzato eventi, "Cannabis tipo forte", organizzato congressi con esperti internazionali e scambiato semi e informazioni con colleghi, pazienti, ricercatori in tutto il mondo. Lo hanno attaccato in molti, e difeso politici di opposti schieramenti. Pd e Sel, Cinque Stelle e Pdl. Mai i centristi di Giovanardi, Alfano, Lorenzin. Cinquini ha appena dato alle stampe un libro per l’editore Dissensi, "Dottor Cannabis", appunto, curato da Matteo Provvidenza. Scrive raccontando la sua tumultuosa storia: "Non abbiamo scoperto tutto sul sistema cannabinoide, ma quel poco che sappiamo ci obbliga a restituire a questa sacra pianta il rispetto che pochi malfattori, per i loro biechi interessi, le hanno tolto. Libertà di terapia, di ricerca, di culto oggi in Italia sono parole prive di fondamento pragmatico". Ha una moglie e una figlia, il medico Cinquini. Esercita tra l’Italia e la Comunità Valenciana (anche lì la coltivazione di cannabis è vietata). Ed è convinto, sostenuto da una letteratura medica ormai antica, che con la canapa si possa curare una dozzina di malattie, alcune gravissime. Per ora, grazie anche alla sua spinta, in Toscana si è ottenuto di portare avanti il progetto per una produzione terapeutica attraverso lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. "Continuerò a coltivare e a studiare la cannabis, non riesco a rinunciare a questo sogno. Se me lo impediranno in Italia andrò a Valencia, se me lo impediranno a Valencia percorrerò migliaia di chilometri per trovare luoghi adatti. Ho scelto di essere illecito per non essere criminale, non voglio curare pazienti con medicinali inadatti, pericolosi. Qualcosa sta cambiando, anche da noi. L’Università di Pisa ha un centro per le terapie antidolore che ha già trattato 800 casi con i cannabinoidi, l’Università di Modena si sta muovendo in questa direzione. La cannabis è un farmaco di prima scelta per l’anoressia e la bulimia nervosa, è dimostrato dai ricercatori francesi. Riusciremo, coltivando e sperimentando, a togliere divieti che non stanno più in piedi". Liberalizzazione della cannabis. Se prevarrà il sì la proposta diventa legge entro il 2016 di Carlo Valentini Italia Oggi, 1 luglio 2016 Il D-Day sarà il 25 luglio. Per la prima volta la camera affronterà una proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis, che arriva dopo una serie di depenalizzazioni decise dal governo e dopo l’ok alla coltivazione e all’uso per ragioni terapeutiche. Certo, non è che a ferragosto si potrà camminare per strada fumando marijuana. Ma l’avvio dell’iter parlamentare non è cosa da poco. Si tratta di un déja vu rispetto alla legge sulle unioni civili: anche in quel caso si arrivò in parlamento dopo tanti assaggi e col supporto di associazioni e di partiti, o correnti di essi. Ma la legge pro unioni civili era del governo ed è stata cavalcata da Matteo Renzi. Sulla cannabis invece il premier sembra voglia lavarsene le mani, anche perché il governo è spaccato e nel Pd ci sono opinioni difformi. È però il senatore (sottosegretario agli Esteri) del Pd Benedetto Della Vedova, a guidare la battaglia parlamentare per la cannabis libera: "Il voto della camera - dice - è previsto per il 26 luglio e potrebbe essere una data storica, con l’Italia che ha la possibilità di diventare un paese europeo all’avanguardia nello smantellamento del crimine legato alle droghe leggere". Il sottosegretario viene però bacchettato da un ministro, quello degli Affari Regionali, Enrico Costa (Ncd): "Il governo non può legittimare la tossicodipendenza con la scusa di recuperare le risorse per combatterla e prevenirla". Della Vedova è il profeta italiano della cannabis, se i radicali da tempo si danno da fare sulle strade con banchetti e raccolte di firme, lui ha organizzato un intergruppo parlamentare, composto da esponenti di quasi tutti i partiti, con l’obiettivo di marciare compatti verso la legalizzazione, raggiungendo il primo successo, la calendarizzazione alla camera. La proposta di legge è bipartisan. I firmatari sono 85 deputati del Pd, 86 del M 5S, 24 di Sel, 7 di Sc, 15 del Gruppo misto, 2 di Fi. Se la camera voterà sì, la legge passerà all’esame del senato entro la prima metà del prossimo anno. Il dibattito si preannuncia infuocato. Da un lato i sostenitori: più sicurezza e meno decessi perché le sostanze saranno controllate, minori reati legati allo spaccio, soldi allo Stato anziché ai trafficanti. Dall’altro i contrari: aumenterà il consumo, il messaggio non proibizionista facilita il passaggio dalle droghe leggere a quelle pesanti, si verificherebbe una sorta di turismo della droga dai paesi che non consentono il fumo libero. Per ovviare a quest’ultima obiezione i Radicali italiani e l’Associazione Luca Coscioni hanno presentato una petizione all’Unione europea affinché "promuova e adotti una politica per la legalizzazione della marijuana e per la decriminalizzazione del consumo di tutte le droghe". Dice Riccardo Magi, segretario dei Radicali: "Il mercato europeo delle droghe è già unico, è tempo che le istituzioni europee facciano fronte comune". In attesa del 25 luglio, favorevoli e contrari affilano le armi. Dice Enrico Rossi, presidente della regione Toscana: "Il primo risultato della legge sarebbe stroncare immediatamente il mercato oggi in mano alla criminalità organizzata. La legalizzazione porterebbe ad avere una filiera interamente controllata e censita, com’è per l’alcol e il fumo. E come per l’alcol e il fumo potremo anche avviare progetti di scoraggiamento all’uso ed abuso di cannabis". Gli risponde il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: "Anche se si arrivasse a legalizzare la marijuana si avrà sempre un mercato illegale, perché chi vuole vendere la droga cerca l’adolescente. La liberalizzazione, che è fallita in Olanda, è solo un nuovo business sulle nostre vite. Io non sono un’estremista, non direi mai che la marijuana è uguale all’eroina, ma vedere oltre 200 parlamentari che dicono che vogliono legalizzare fa pensare alle persone che non faccia male. Il messaggio deve essere invece che drogarsi fa male". Non così la pensa un ex ministro della Salute, oltre che oncologo di fama, Umberto Veronesi: "Perfino l’Oms ha invitato i governi a depenalizzare l’uso personale di marijuana, consapevole su dati scientifici che l’uso di spinelli non fa male. È infondata anche la credenza che la marijuana dia dipendenza e apra la strada all’uso delle droghe pesanti, come cocaina e morfina. Liberalizzare lo spinello non è malinteso permissivismo, ma una posizione realistica che punta alla riduzione del danno. Risulta che metà dei nostri giovani e molti adulti fanno uso di marijuana. Ha senso criminalizzarli? Ma Veronesi è messo sotto accusa dalla comunità di San Patrignano: "Veronesi lancia un messaggio di pericolosa superficialità alle famiglie italianee ignora deliberatamente le evidenze emerse da numerose ricerche scientifiche. Le canne, tanto più è alto il Thc (Tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis. ndr) tanto più istupidiscono gli adolescenti, li allontanano dai loro interessi, fanno calare il rendimento scolastico e pregiudicano il futuro. Basta anche parlare di riduzione dei danni. Chi ama i propri figli vuole per loro una vita fatta di passioni, interessi, motivazione. Non di annebbiamento, sballo e fuga dalla realtà". Tra i contrari, anche lo psichiatra telegenico Paolo Crepet: "Chi fa il mio mestiere ha visto anche molti ragazzi che per uno spinello sono usciti di testa". Oggi sulla materia vi è una sorta di vuoto normativo. Infatti nel 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge Fini-Giovanardi del 2006 che equiparava droghe leggere e pesanti. In pratica si è tornati alla legge Iervolino-Vassalli del 1990 che stabilisce delle pene di minore entità (da 2 a 6 anni) per l’utilizzo delle droghe leggere. La legge che sta per arrivare al parlamento prevede che i maggiorenni possano detenere una quantità di marijuana (e hashish) per uso ricreativo (per i minorenni continua il divieto), che possa essere coltivata per uso personale sia nel proprio terrazzo che in forma associata tramite onlus, e l’apertura di appositi negozi sotto il controllo dei Monopoli. Non si potrà fumare in luoghi aperti al pubblico né ci si potrà mettere alla guida di un’auto dopo avere fumato. Il 5% degli introiti dello Stato (la tassazione prenderà esempio da quella su tabacco e alcool) dovrà finanziare progetti per la lotta alle droghe pesanti. Lo spaccio rimane un reato. Secondo l’Istat, ogni anno in Italia si vende droga per circa 10 miliardi di euro, 2,5 dei quali spesi per acquistare prodotti derivati dalla cannabis. In caso di liberalizzazione e di tassazione al 75% (come per le sigarette) l’introito per lo Stato sarebbe di circa 1,5 miliardi. Oltre a un risparmio sui costi di repressione e sistema carcerario che in totale (droghe leggere e pesanti) ammontano, secondo i dati del Dipartimento antidroga, a poco più di un miliardo e mezzo l’anno. Più ottimistico sulle cifre è uno studio di Ferdinando Ofria e Piero David, docenti di Politica economica dell’Università di Messina, secondo loro tra minori spese e maggiore gettito fiscale, le casse pubbliche intascherebbero tra i 5,8 e gli 8,5 miliardi di euro l’anno. C’è chi in vista della legge ha bruciato i tempi e brevettato il marchio "Nativa, fatta per essere buona". L’obiettivo è esplicito: "anticipare altri player ed entrare così per primi nell’immaginario dei consumatori con un brand forte, elegante e legato alla tradizione di eccellenza agroalimentare che da sempre caratterizza il nostro Paese agli occhi di tutto il mondo". "Nativa" è pronta ad aprire tramite il franchising negozi monomarca nelle principali città italiane oltre "a organizzare coltivazioni anche all’aperto", Microsoft ha appena ufficializzato la propria partnership con una start-up statunitense per lanciare sul mercato un software che tenga traccia delle piante di marijuana dal seme fino alla vendita all’interno del mercato legale. In Italia entro la fine di agosto sarà pronta la prima marijuana per uso terapeutico. A produrla è lo Stato, attraverso l’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze, l’unico ente, insieme al Consiglio della ricerca e sperimentazione in agricoltura (Cracin) di Rovigo, autorizzato a coltivarla. Più di seimila senzatetto, a San Francisco parte il "Progetto Homeless" di Francesco Semprini La Stampa, 1 luglio 2016 Non più solo sbandati: nell’esercito degli invisibili ora c’è anche l’ex classe media. Cittadini, istituzioni e onlus insieme per contrastare il fenomeno. Almeno 6.600 senzatetto. Sono queste le dimensioni del popolo degli invisibili di San Francisco, quell’esercito sempre più numeroso di homeless che si ritrovano a vivere per strada e cercano rifugio in caso di necessità nei sovraffollati centri di accoglienza. Un esercito sempre più trasversale che non comprende più solo sbandati o persone che hanno fatto della strada una scelta di vita, ma anche tanta gente comune, lavoratori e lavoratrici un tempo appartenenti alla cosiddetta classe media, che la crisi prima e le sperequazioni di una ripresa zoppa dopo, hanno fatto naufragare. Prima con la perdita del lavoro, poi con quella della casa e alla fine con la disgregazione delle famiglie. Col rischio che questo porti a una disintegrazione della comunità civile. È questa la denuncia che arriva dal San Francisco Homeless Project, un progetto frutto dell’azione volontaria di cittadini, istituzioni e organizzazioni senza scopo di lucro della città americana, e volto proprio a contrastare il dilagare del fenomeno. "Utilizzeremo tutte le nostre risorse per raccontare storie ed esplorare possibili soluzioni, il loro costo e la loro eventuale attuazione", spiegano i coordinatori del progetto al San Francisco Examiner. E proprio il giornale della città diventa il vettore di questa forma di azione di rinascita: "L’obiettivo è fare in modo che ciò che avviene sempre più di frequente per le nostre strade non sia etichettato come la "nuova normalità". Il progetto inaugurato gli ultimissimi giorni di giugno cerca l’interazione con il pubblico e cittadini di San Francisco ai quale offre strumenti e opzioni per impedire che il numero di senza tetto continui a crescere. Tra le iniziative in programma c’è l’ampliamento degli shelter, i ripari temporanei per chi non ha un’abitazione. Biglietti del pullman gratuiti per raggiungere aree fuori città dove ci sono posti letto disponibili. Spazi e visibilità più ampi ai senzatetto attraverso gli organi di informazione locali, con l’obiettivo di individuare le problematiche legate al fenomeno e le possibili soluzioni. "Questo è uno sforzo comune, dobbiamo parlare con un’unica voce ma sempre più forte - proseguono i coordinatori del Progetto. Frustrazione e rassegnazione non siano sintomo di cattiva salute per la città".