"Partiamo da 20x20": Antigone lancia campagna per le misure alternative al carcere Askanews, 19 luglio 2016 "Partiamo da 20x20" è la nuova campagna promossa dall’Associazione Antigone. L’obiettivo è che, entro il 2020, il 20% del bilancio dell’Amministrazione penitenziaria venga speso per il sistema delle misure alternative. Oggi ci sono oltre 53.000 persone che stanno scontando la propria pena nelle nostre carceri. Nello stesso momento circa 23.000 persone la scontano fuori dal carcere, in misura alternativa, cui si aggiungono le oltre 8.000 che usufruiscono della nuova misura della messa alla prova. "Si tratta di misure che si scontano nella comunità - spiega Antigone - meno costose e più efficaci del carcere nel promuovere il reinserimento ed evitare la commissione di nuovi reati da parte di chi ha scontato la propria pena. Ma per queste misure l’amministrazione penitenziaria spende meno del 5% del proprio bilancio. La parte più avanzata del nostro sistema di esecuzione delle pene dunque è anche di gran lunga quella con meno risorse. I soldi servono tutti per il carcere. In molti paesi europei oggi il più grande ostacolo alla diffusione delle alternative al carcere è connesso alla carenza di riconoscimento pubblico, di risorse e di personale, spesso insufficiente ad espletare compiutamente il proprio mandato, e non a caso le European Probation Rules (CM/Rec(2010)1) insistono moltissimo su questi aspetti. Anche in Italia è così, e per questo chiediamo innanzitutto che l’Italia arrivi a spendere, entro il 2020, il 20% del bilancio dell’Amministrazione penitenziaria per il sistema delle misure alternative". "Dobbiamo dare forza alla parte più moderna ed efficace del nostro sistema penale, quella delle alternative alla detenzione" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Alla campagna hanno finora aderito: A Buon Diritto, Arci, Associazione 21 luglio, Gruppo Abele, Cittadinanza Attiva, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Forum Droghe, Funzione Pubblica Cgil, Medici Contro la Tortura, Naga, Progetto Diritti, Ristretti Orizzonti, Società della Ragione, Società Italiana di Psicologia Penitenziaria, VIC/Volontari In Carcere. Alfano affossa la legge sulla tortura di Andrea Colombo Il Manifesto, 19 luglio 2016 Con la scusa del terrorismo e il tacito assenso di Renzi, la mossa del guardasigilli, assediato da Forza Italia: il testo, a un passo dall’approvazione, torna alla Camera. Alfano affossa la legge sulla tortura, attesa da anni e invocata dall’Europa oltre che dalla civiltà giuridica, con il tacito assenso di Renzi e del ministro Orlando. Certo, il ministro degli Interni non confessa apertamente l’obiettivo della manovra quando, nel tardo pomeriggio dirama a sorpresa il suo comunicato: "La legge sulla tortura dovrà essere rivista alla Camera per evitare ogni possibile fraintendimento circa l’uso legittimo della forza da parte delle Forze di Polizia". Al contrario, giura che "non è in ballo, per quanto ci riguarda, il tema del reato di tortura bensì il rischio di una sua dilatazione per via giurisprudenziale che possa produrre compressioni alla operatività dei servizi". Dietro l’insopportabile fraseologia burocratico-leguleia si cela un intento chiaro: quello di cancellare la legge, che dovrebbe essere approvata dal Senato tra stasera e domattina, o almeno di ridurla a pura facciata. Dalla Camera la legge dovrebbe tornare al Senato. Il rinvio, con le incombenze dell’autunno, diventerebbe sine die. Il testo, in ogni caso, uscirebbe depotenziato al massimo livello. Già così, trattandosi di reato comune e non proprio, la fattispecie di reato risulta dimezzata. Una volta aggiunte le specifiche che ha in mente il ministro, a partire dalla reintroduzione del termine "reiterate" eliminato da un emendamento già approvato al Senato, la legge diventerebbe una freccia senza più punta. Forza Italia finge di non accontentarsi. Palma insiste perché la legge torni in commissione già al Senato, come da richiesta del senatore Ncd Sacconi. Ma anche gli azzurri sanno perfettamente che la manovra di Alfano raggiunge il medesimo obiettivo, con appena quel velo di ipocrisia in più che permette ai senatori del Pd di lavarsene le mani: "Noi approviamo la legge, poi la palla passa alla Camera". Se i forzisti strepitano è solo per non lasciare all’ex delfino di re Silvio il dubbio merito di aver affondato la legge. Loredana De Petris, presidente del Gruppo Misto, dopo aver denunciato la manovra chiede al governo, in particolare a Renzi e al guardasigilli Alfano, di non piegarsi al ricatto. Ma né da palazzo Chigi né da via Arenula arrivano segnali di vita, il che suona come un semaforo verde al dikat di Alfano. Difficile pensare che don Angelino avrebbe azzardato un affondo simile senza prima aver ottenuto l’ok di Renzi. L’assedio era iniziato in mattinata, nel corso del summit tra Renzi e tutti i capigruppo di Camera e Senato sui fatti di Nizza e Turchia. Aveva aperto il fuoco il capo dei deputati Fi Brunetta, insistendo sull’impossibilità di varare una legge contro la tortura in un momento simile, sotto lo scacco del terrorismo. I capigruppo di centrodestra gli erano andati dietro, chiedendo il ritorno del testo in commissione Giustizia. Zanda, capo dei senatori Pd, si era detto contrario. Tutto prevedibile sin qui. Non era invece previsto che Alfano, dietro una cortina di "bisogna stare attenti a non dare impressioni negative" si schierasse di fatto con gli ex compagni di partito e coalizione. Da quel momento è partito un martellamento che ha visto l’Ncd in prima fila. "Inutili gli sproloqui sul terrorismo se poi si indeboliscono le forze dell’ordine. Il sacrosanto ddl in questa formulazione non va bene", tuonava Cicchitto, già garantista. Per il Pd, però, tornare indietro e riportare il testo in commissione non era possibile. L’ipocrisia di Alfano, benedetta da Renzi e Orlando, dovrebbe permettere di salvare la situazione, eliminando il ddl senza far fare brutte figure al Pd. Oltre all’affondo contro la legge sulla tortura, la riunione di ieri mattina non era andata oltre la retorica. La linea sulla Turchia è quella indicata da Berlino: muro contro il ripristino della pena di morte. Unico intervento interessante quello di Minniti, sottosegretario con delega ai servizi. La Brexit, ha detto, potrebbe rivelarsi un vantaggio, dal momento che gli inglesi sono sempre stati un ostacolo per un vero lavoro comune delle intelligence. Poi ha segnalato come il massimo rischio arrivi dalla propaganda. Ma per fronteggiarlo bisognerebbe intervenire su Internet, perché è di lì che passa la propaganda jihadista. L’offensiva di Ncd: "c’è il terrorismo, no al reato di tortura" di Giovanna Casadio La Repubblica, 19 luglio 2016 Il ministro Alfano nel vertice con Renzi: "Evitiamo messaggi fuorvianti alle forze dell’ordine". Lega, destra e Ncd sulle barricate: vogliono bloccare l’ok alla legge prevista per domani al Senato. Il Pd: "Il provvedimento non si ritira, è atteso da vent’anni". Non solo la Lega non è andata al vertice sul terrorismo convocato da Renzi a Palazzo Chigi, ritenendolo un rito "inutile", ma minaccia l’ostruzionismo sul reato di tortura che il Senato dovrebbe approvare definitivamente martedì. Lo strappo del Carroccio di rifiutarsi di discutere delle misure di sicurezza con il premier, non è cosa da poco, dal momento che un leghista, Giacomo Stucchi, è presidente del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza. E si apre un "caso" sulla legge. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano interviene nel vertice a Palazzo Chigi con i capigruppo e avverte proprio a proposito del reato di tortura: "Evitiamo messaggi fuorvianti nei confronti delle forze dell’ordine". Fa capire che il testo va rivisto e che vuole personalmente parlarne con i capigruppo. Botta e risposta con Loredana De Petris, senatrice di Sinistra italiana: "Sono i parlamentari a decidere". Il centrodestra è sulle barricate e sostiene: "C’è il terrorismo, mettete in difficoltà le forze dell’ordine con questo provvedimento". Nella stessa maggioranza di governo, l’alfaniano Fabrizio Cicchitto interviene attaccando: "Sono inutili gli sproloqui sul terrorismo se si indeboliscono le forze dell’ordine e il sacrosanto disegno di legge sul reato di tortura non va bene in questa formulazione, no si devono accomunare le forze dell’ordine e i delinquenti". I Dem non vogliono sentire parlare di stop. "Il provvedimento non si ritira. E le norme sono equilibrate non c’è davvero nessuna messa in mora delle forze dell’ordine. Sarebbe da sconsiderati bloccare tutto", ribadisce Beppe Lumia. Attesa da sempre, con il fiato dell’Europa sul collo, il reato di tortura dovrebbe entrare definitivamente nell’ordinamento italiano dopo decenni di indifferenza e di rinvii. Trent’anni fa è stata approvata la Convenzione Onu contro la tortura che l’Italia ha ratificato nel 1989. Poi più nulla. Nell’ultima seduta, giovedì scorso, sul reato di tortura è stata bagarre. Un crescendo di accuse contro il Pd e i 5Stelle. Insieme infatti i dem e i grillini hanno eliminato un aggettivo - "reiterate" - attribuito alle violenze. "Non ce n’è alcun bisogno perché tanto si parla di violenze al plurale - ha detto il capogruppo dem, Luigi Zanda - noi difendiamo l’uso legittimo della forza. non l’abuso". Dalla destra bordate e la richiesta di rimandare in commissione il provvedimento. "Sono penalizzate le forze dell’ordine, si graziano i delinquenti". Il centrista Carlo Giovanardi si fa portavoce di alcuni sindacati di polizia: "Sono tutti d’accordo per l’altolà a questa legge. Noi siamo solidali con i sindacati di polizia e il Cocer dei carabinieri che si oppongono al disegno di legge sulla tortura, che è un provvedimento intriso di pregiudizi nei confronti delle forze dell’ordine". Controbatte il dem Luigi Manconi, da tempo impegnato sulle carceri, che c’è un ritardo dell’Italia non più sostenibile. E sempre Lumia richiama al testo della legge: "Sono certo che le stesse forze dell’ordine leggendolo si renderanno conto che sono norme equilibrate; è scritto che "chiunque" si macchi di violenze, minacce e lesioni gravi nei confronti di persone prelevate e private della loro libertà. Irrompono i fatti di cronaca. Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, aveva consegnato nei giorni scorsi al ministro della Giustizia, Andrea Orlando oltre 200 mila firme raccolte online per introdurre il reato di tortura. Lo scorso anno la Corte europea dei diritti umani condannando l’Italia per i fatti del G8 di Genova, ha criticato l’Italia per non avere una legge sulla tortura. Tortura, Alfano: tutto da rifare. Il governo impone lo stop di Wanda Marra Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2016 La legge, attesa da anni, di nuovo ferma: "Troppo punitiva nei confronti della polizia". La legge sulla tortura dovrà essere rivista alla Camera per evitare ogni fraintendimento riguardo l’uso legittimo della forza da parte delle Forze di Polizia". A metà pomeriggio il ministro dell’Interno Angelino Alfano dichiara se non morta, almeno moribonda, la legge sul reato di tortura. A spiegare perché è la capogruppo in Senato di Sinistra Italiana, Loredana De Petris: "L’accordo era che il testo fosse blindato. Invece, dovrà tornare in Senato". E dunque, tra le incertezze sulla durata della legislatura e quelle quotidiane sui numeri a Palazzo Madama, nessuno può scommettere sul destino di una legge attesa da anni. Nota ancora la De Petris: "Con le torture in Turchia sotto gli occhi di tutti, fa particolarmente effetto un’indicazione come questa da parte del governo". La presa di posizione di Alfano sulla tortura, sembra l’unico effetto immediato della riunione di ieri di Renzi con i capigruppo di Camera e Senato, convocata per parlare di terrorismo. Presenti anche il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, il sottosegretario con delega ai Servizi segreti, Marco Minniti e lo stesso Alfano. Il primo vertice di questo tipo c’era stato il giorno dopo il Bataclan. Obiettivo, richiamare le forze politiche a una sorta di concordia nazionale. Ieri si sono presentati tutti tranne la Lega. E Renato Brunetta, capogruppo di Fi alla Camera, non ha perso occasione per ribadire quello che dice da una settimana, ovvero che il reato di tortura rischia di mettere in difficoltà le forze dell’ordine in un momento particolarmente delicato della lotta al terrorismo. Il riferimento è all’emendamento (votato anche da SI e M5S) che la settimana scorsa ha modificato l’articolo 1 che prevede che per commettere il reato di tortura siano necessarie solo "violenze o minacce gravi" e non "reiterate violenze o minacce gravi". Alfano, durante il vertice, è stato ambiguo, dicendo che avrebbe parlato con i capigruppo del Senato. Contro la modifica si erano scagliati molti centristi. E anche alcuni del Pd: "Non l’ho votato - chiarisce il dem, Stefano Esposito - io difendo la polizia. Se poi c’è una mela marcia la punisco". Anche se il Pd adesso dichiara la volontà di andare avanti, il governo stava cercando una via d’uscita. Infatti aveva pensato di calendarizzare subito in Senato un’informativa sul golpe in Turchia, che avrebbe fatto slittare il voto. Non è neanche detto che oggi pomeriggio l’aula di Palazzo Madama non voti per un ritorno in Commissione della legge. E giovedì è in programma l’analisi del Ruby ter, ovvero l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni di quando Berlusconi era senatore. Un altro voto con incognita. Ieri a fare la relazione introduttiva al vertice è stato Renzi, che ha richiamato tutti alla responsabilità. La stessa a cui lo richiama anche l’opposizione: la De Petris gli ha chiesto di evitare affermazioni come quella del ministro Boschi, per cui se vince il Sì ci sarebbe più stabilità anche nella lotta al terrorismo. Mentre parlava, Renzi la guardava con espressione quasi stupita. Tanto è vero che lei ha chiarito: "L’abbiamo letto sui giornali. Se non è vero, il governo smentisca". Ma il premier non ha confermato, né smentito. È stata poi annunciata la costituzione di una commissione anti-radicalizzazione. Minniti invece ha parlato di fare un patto con i provider, che servirebbe ad arginare la propaganda dell’Isis. La parte più delicata quella sulla Turchia: si è trattato di un vero golpe, secondo il sottosegretario, ma "se Erdogan reintroduce la pena di morte, romperemo i rapporti". La stessa posizione della Ue. Ma l’Europa, in realtà, è in difficoltà a prendere una posizione forte: per la gestione dei migranti che arrivano dalla Siria, la Turchia è fondamentale, tanto è vero che riceve 3 miliardi. Un’arma di ricatto micidiale. Frode processuale e depistaggio fanno ingresso ufficialmente nel codice penale di Giovanni Galli Italia Oggi, 19 luglio 2016 La legge, approvata il 5 luglio scorso dalla Camera dei deputati, è approdata ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 166 (legge 11 luglio 2016, n. 133, "Introduzione nel codice penale del reato di frode in processo penale e depistaggio"). L’articolo 1 della legge, in vigore dal 2 agosto prossimo, sostituisce l’art. 375 del codice penale (attualmente relativo alle circostanze aggravanti dei delitti di falsità processuale) per punire con la reclusione da tre a otto anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che compia una delle seguenti azioni, finalizzata a impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale: mutare artificiosamente il corpo del reato, lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone connessi al reato; affermare il falso o negare il vero ovvero tacere in tutto o in parte ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, ove richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale. La norma, spiega una sintesi messa a punto dai tecnici di Montecitorio, ha carattere sussidiario, essendo applicabile solo quando il fatto non presenti gli estremi di un più grave reato. Il nuovo reato è aggravato quando: il fatto è commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte, ovvero formazione o artificiosa alterazione, in tutto o in parte, di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta del reato o al suo accertamento (la pena da applicare è aumentata da un terzo alla metà); il fatto è commesso in relazione a procedimenti penali relativi ad alcun specifici gravi reati (si applica la pena della reclusione da 6 a 12 anni). La pena è diminuita dalla metà a due terzi se l’autore del fatto si adopera per: ripristinare lo stato originario dei luoghi, delle cose, delle persone o delle prove; evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori; aiutare concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto oggetto di inquinamento processuale e depistaggio e nell’individuazione degli autori. Alla condanna per il delitto di frode in processo penale e depistaggio consegue, in caso di reclusione superiore a 3 anni, la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. I termini di prescrizione per il delitto di frode in processo penale e depistaggio aggravato sono raddoppiati. L’articolo 3 modifica l’art. 376 c.p. per affermare, anche in relazione al nuovo delitto di frode in processo penale e depistaggio, la non punibilità del colpevole che entro la chiusura del dibattimento ritratti il falso e manifesti il vero. Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis La Repubblica, 19 luglio 2016 La terza corte d’Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste". Nuova assoluzione per i medici dell’ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d’assise d’appello di Roma ha scagionato dall’accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perché il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all’epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l’annullamento dell’assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall’ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell’ambito dell’inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell’inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm. Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all’ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti. Amianto, condannati i vertici della Olivetti di Marco Vittone Il Manifesto, 19 luglio 2016 Cinque anni ai fratelli Carlo e Franco De Benedetti, 1 anno e 11 mesi a Corrado Passera. Dieci operai morti di mesotelioma. La dirigenza degli anni 80 ha trascurato la sicurezza degli impianti. "Reati mai commessi", si difende il patron del gruppo Espresso. La lunga battaglia del sindacato. "Ma questo non cancella il valore del fondatore Adriano". Le morti dell’Olivetti si potevano evitare, i vertici dell’azienda trascurarono i problemi legati alla presenza di amianto e intervennero in ritardo o in modo insufficiente. Per questo il tribunale di Ivrea, rappresentato dalla giudice Elena Stoppini, ha condannato a 5 anni e due mesi di reclusione Carlo e Franco De Benedetti, a 1 anno e 11 mesi Corrado Passera e ha assolto Roberto Colaninno. Le imputazioni, a vario titolo, vanno dal concorso in omicidio colposo alle lesioni e si riferiscono ai decessi di 10 operai, fra il 2008 e il 2013, che fra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta lavorarono negli stabilimenti dell’azienda eporediese e si ammalarono di mesotelioma pleurico. I condannati in primo grado, 13 in tutto, sono dirigenti o top manager degli anni Ottanta, ovvero il periodo incriminato e sotto la lente degli investigatori. La procura aveva chiesto la condanna per 15 dei 17 imputati. Gli indennizzi (provvisori) alle parti civili ammontano a quasi due milioni di euro. L’inchiesta che ha portato al processo era stata aperta nel novembre del 2013 dalla procura di Ivrea. Carlo De Benedetti, presidente del gruppo Espresso, l’imputato più illustre, è stato chiamato in causa come amministratore delegato e presidente dal 1978 al 1996 ed è stato riconosciuto responsabile (a titolo colposo) di sette decessi e di due casi di lesioni. L’ingegnere ha subito annunciato ricorso in appello: "Sono stupito e molto amareggiato per la decisione del tribunale di Ivrea di accogliere le richieste manifestamente infondate dell’accusa". Ha aggiunto: "Sono stato condannato per reati che non ho commesso, come ha dimostrato l’ampia documentazione prodotta in dibattimento sull’articolato sistema di deleghe di gente in Olivetti e sul completo e complesso sistema di tutela della sicurezza e salute dei lavoratori, da me voluto e implementato fin dall’inizio della mia gestione". Le parti civili - familiari delle vittime, enti, associazioni, sindacati - hanno ottenuto il diritto a chiedere i danni in un procedimento separato. Il giudice ha però ordinato il pagamento immediato di una provvisionale alle persone fisiche (855 mila euro in tutto) e all’Inail (993 mila euro) da versare "in solido" con Telecom Italia, il gruppo che nel 2003 ha inglobato Olivetti, citata come responsabile civile. "Esprimiamo grande soddisfazione perché dopo un dibattimento molto duro e combattuto, soprattutto da parte delle difese, è emersa la verità ed è stata data giustizia alle vittime", ha sottolineato Laura D’Amico, avvocata della Fiom. Soddisfatto il segretario provinciale delle tute blu della Cgil, Federico Bellono: "Nulla può restituire ai propri familiari i lavoratori scomparsi ma almeno questo processo ha fatto giustizia ed è significativo che le pene più severe siano state comminate alle figure di grado più elevato, che avevano le maggiori responsabilità nel dirigere l’impresa. Questa sentenza è però solo la chiusura di un capitolo, non solo perché le statistiche dicono che purtroppo le persone continueranno ad ammalarsi e morire anche nei prossimi anni, non solo perché sicuramente le difese ricorreranno in appello, ma anche perché sono già in stato avanzato i lavori istruttori di processi per altre morti di amianto in Olivetti". L’Olivetti è storicamente un simbolo positivo, non solo a Ivrea. Si tratta di una sentenza che "fa chiarezza" ma che "non cancella la storia della Olivetti", ha voluto evidenziare il sindaco di Ivrea, Carlo Della Pepa. L’idea diffusa nel capoluogo eporediese è che sia stata processata un’altra Olivetti, non quella di Adriano e dei vecchi dirigenti. Anche i pubblici ministeri, nel corso del processo, avevano tracciato una cesura fra le due Olivetti. Da una parte l’impresa di Adriano Olivetti, creatrice di macchine per scrivere vendute in tutto il mondo, modello di "fabbrica umanista" dove il lavoratore veniva prima di ogni altra cosa, le paghe erano più alte, il profitto andava di pari passo con la solidarietà sociale e l’operaio poteva ritrovarsi a camminare fianco a fianco con l’artista, il poeta e lo scrittore. Dall’altra, l’azienda degli anni Ottanta, quella dei finanzieri, che trascurò la salute e la sicurezza dei propri dipendenti. Riciclaggio solo nel caso di sostituzione del denaro frutto di reato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2016 Corte di cassazione Seconda sezione penale, sentenza 18 luglio 2016 n. 30249. L’impiego diretto di denaro di provenienza illecita in attività economiche o finanziarie in grado di "ripulirlo" non costituisce riciclaggio e va sanzionato sulla base dell’articolo 648 ter del Codice penale. La sostituzione invece di questo denaro e il suo successivo reimpiego è punito per riciclaggio. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza n. 30429 depositata ieri. Certo, il lavoro di delimitazione tra le due diverse fattispecie di reato non è sempre facile e, nel caso approdato in Cassazione, non è stato svolto con efficacia dalla Corte d’appello. L’apparato argomentativo di quest’ultima, infatti, sottolinea la Cassazione, non offre elementi sufficienti per una corretta qualificazione del fatto. Fatto costituito nella ricostruzione effettuata dai giudici del tribunale di Pescara nell’impiego consapevole da parte degli amministratori di una società a responsabilità limitata di denaro proveniente dai reati di usura contestati ad altri in una pluralità di capi d’imputazione. La Cassazione, nell’affrontare il ricorso della difesa che contestava un’erronea applicazione della legge penale, ricorda innanzitutto che l’articolo 648 ter, che sanziona l’impiego di denaro o altre utilità di provenienza illecita, contiene una clausola di sussidiarietà che ne esclude l’applicabilità nei casi di concorso nel reato presupposto e nelle ipotesi in cui emerge la realizzazione di ipotesi di ricettazione o di riciclaggio. In questo modo riducendone la portata applicativa. In questo contesto, alla luce dei precedenti della stessa Cassazione, la soluzione del problema del rapporto tra l’una e l’altra fattispecie è stata fondata "sulla distinzione tra unicità o pluralità di comportamenti e determinazioni volitive: sono esclusi della punibilità ex articolo 648 ter del Codice penale coloro che abbiano già commesso il delitto di riciclaggio (o di ricettazione) e che, successivamente, con determinazione autonoma (al di fuori cioè della iniziale ricezione o sostituzione del denaro) abbiano poi impiegato quello che era già frutto di delitto a loro addebitato; sono invece punibili coloro che, con unicità di determinazione teleologica originaria, hanno sostituito (o ricevuto) denaro per impiegarlo in attività economiche o finanziarie". La linea di confine passa allora attraverso il criterio della pluralità oppure della unicità delle azioni e delle scelte a esse sottese. Nel primo caso, l’imputato risponde di riciclaggio con l’esclusione dell’impiego di denaro o utilità; nel secondo soltanto a titolo di articolo 648 ter, venendo assorbita in questa fattispecie anche la precedente attività di sostituzione o di ricezione. Questo sul piano giuridico. Su quello di fatto, la Cassazione mette nel mirino una ricostruzione almeno lacunosa. Non in grado cioè di chiarire a sufficienza la circolazione dei flussi finanziari e, anche, se i proventi di alcune attività illecite (come l’esercizio abusivo di attività finanziaria) siano poi state convogliate e impiegate nella gestione della società. Sequestro: riesame senza nuovo motivo di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 luglio 2016 n. 30410. Il Tribunale del riesame nel momento in cui decide su un appello cautelare non può individuare autonomamente una nuova esigenza di mantenimento del sequestro non rappresentata nell’originario provvedimento del giudice oggetto di impugnazione. Lo precisa la sentenza 30410/2016 della Cassazione, depositata ieri. La vicenda in estrema sintesi trae origine da un procedimento per presunti abusi edilizi e reati contro la Pa, commessi, secondo la tesi accusatoria, dagli amministratori di una società immobiliare. In tale contesto, il Gip, su richiesta del Pm, disponeva il sequestro preventivo dell’immobile della società. A seguito di un lungo contenzioso amministrativo, la società vedeva riconosciuta le proprie ragioni circa la regolarità delle opere compiute. Richiedeva il dissequestro dell’immobile rigettato dal Gip. Dopo la conferma del Tribunale del riesame, la società impugnava per Cassazione tale ordinanza e, tra i vari motivi, rilevava l’illegittimità del mantenimento del sequestro preventivo: i giudici in sostanza avevano addotto un’esigenza cautelare (consolidamento di un ingiusto vantaggio patrimoniale conseguente al reato di abuso di ufficio) diversa da quella sottesa alla originaria misura (evitare le conseguenze derivanti agli abusi paesaggistici ed edilizi) La Suprema corte ha accolto il ricorso, condividendo la tesi ritenuta più aderente al principio della domanda cautelare secondo cui l’applicazione di una misura (reale o personale) presuppone la domanda del Pm. A maggior ragione ciò vale allorché si tratta, come nel caso esaminato, di appello cautelare e non di riesame. Infatti mentre nel caso di riesame il tribunale, in base all’articolo 309, comma 9, del Codice di procedura penale, può annullare il provvedimento impugnato, o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati o ancora può confermarlo per ragioni diverse da quelle individuate nella motivazione del provvedimento, nel caso di appello la relativa norma (articolo 310) non richiama tale disposizione con la conseguenza che l’ambito cognitivo del giudice collegiale è determinato in modo più rigoroso. Quindi in sede di appello cautelare il tribunale non può individuare autonomamente un’esigenza cautelare non rappresentata nell’originario provvedimento di sequestro. Ricorso in appello da salvare anche se ripropone le stesse questioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 luglio 2016 n. 30388. Non é inammissibile il ricorso nel quale sono riproposte le stesse questioni sollevate in primo grado e disattese dal giudice di merito, se sono identificabili i punti a cui si riferiscono le doglienze. La Cassazione(sentenza 30388) consapevole di due contrapposti orientamenti sui criteri in base ai quali va valutata la genericità di un ricorso sceglie quello prevalente e meno rigoroso, che consente di "salvare" l’atto. Per la Suprema corte in appello è permesso usare parametri meno rigidi di quelli fissati per il ricorso in sede di legittimità: maglie più larghe giustificate dal carattere del mezzo. La particolarità del giudizio di appello è, infatti, proprio quella di avere ad oggetto la riproposizione delle stesse questioni prospettate e e respinte in primo grado e una nuova valutazione degli elementi probatori, essendo l’appello finalizzato ad una revisione della sentenza di prima istanza. Si possono dunque riprospettare le stesse questioni ignorate in primo grado purché siano identificabili i punti a cui si riferiscono e le ragioni essenziali che le muovono. E il giudice non può bollare il ricorso come inammissibile, aderendo all’indirizzo più rigoroso secondo il quale l’ammissibilità dell’appello è subordinata ad una critica puntuale delle argomentazioni poste a base della sentenza impugnata. Notifiche, imputato irreperibile: senza ricerche sentenza nulla di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2016 Corte d’Appello di Palermo - Sentenza 4 maggio 2016 n. 2010. Con riguardo alla mancata notifica del decreto di citazione in giudizio, nei casi in cui il destinatario risulti non reperibile, se non vengono espletate le ricerche nei luoghi indicati dal codice di rito, va dichiarata la nullità di tutti gli atti compiuti, compresa la sentenza. Lo ha stabilito la Corte d’appello di Palermo, con la sentenza 4 maggio 2016 n. 2010, accogliendo il ricorso dell’imputata. La vicenda - In primo grado, il tribunale di Palermo aveva dichiarato la ricorrente colpevole del reato di danneggiamento condannandola alla pena di sei mesi di reclusione. Nel ricorso il difensore aveva chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto, prospettando che non vi fosse alcuna certezza in ordine alla riconducibilità all’imputata dei danneggiamenti di alcune autovetture parcheggiate nella pubblica via. In via preliminare, inoltre, il difensore ha eccepito la nullità della sentenza per omessa notifica del decreto di citazione. La motivazione - Per la Corte il rilievo è fondato, posto che, "effettivamente, non risulta notificato il decreto di citazione a giudizio e l’imputa è stata, erroneamente, dichiarata "regolarmente citata e non comparsa, contumace" posto che, nelle precedenti udienze, si era dato atto che non aveva ricevuto il decreto di citazione". Questo perché, prosegue la sentenza, "a seguito della mancata notifica per irreperibilità, non avendo l’imputata provveduto all’elezione di un domicilio, si sarebbero dovute disporre le opportune ricerche nel luogo di residenza e negli altri luoghi indicati dal codice di rito". Infatti, a mente dell’articolo 157 del Cpp, spiega la sentenza citando la giurisprudenza di Cassazione (n. 7594/1999), "nel caso in cui la notifica non possa essere effettuata mediante consegna a mano dell’interessato, essa va eseguita nella casa di abitazione del suddetto ovvero nel luogo nel quale costui esercita l’attività lavorativa". E in mancanza degli accertamenti prescritti dal codice di procedura civile, "la notificazione nelle mani del difensore non è ritualmente effettuata". Ne consegue, conclude la Corte, che va dichiarata la nullità degli atti compiuti all’udienza del 27 gennaio 2012 e di quelli successivi, compresa la sentenza, a mente dell’articolo 178, lettera c), del Cpp, concernente l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato. Escluse scriminanti culturali: via da casa il marito violento di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2016 Nel contesto familiare non possono essere tollerate compressioni dei diritti inalienabili della persona con la "giustificazione" di logiche culturali o sociali. Per il tribunale di MIlano (ordinanza del presidente facente funzioni Giuseppe Buffone del 30 giugno 2016) anche un solo schiaffo del marito alla moglie, ove venga invocata la scriminante del fattore culturale é un intollerabile atto di violenza, che giustifica l’adozione del provvedimento di allontanamento dalla casa coniugale, con l’obbligo di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla moglie. Al fine di affermare con chiarezza un principio interpretativo di assoluto rilievo, il giudice della famiglia ricorda come "ciò va chiarito al fine di escludere che una determinata consuetudine o determinati costumi culturali, possano condurre ad accettare pratiche violente, al fine di rispettare l’altrui patrimonio culturale o sociale" di più "l’integrazione culturale presuppone l’esaltazione dei diritti e non la loro rinuncia. Per tali ragioni il fattore culturale non ha alcuna valenza scriminante". Nell’ordinanza si ricorda come la stessa "Costituzione italiana funge da "filtro" rispetto ad abitudini culturali che vogliano far ingresso nel Paese, nel senso di non tollerare e soprattutto ammettere quelle (abitudini) che violino i diritti fondamentali". Nel caso esaminato, premettendo come la "fase presidenziale" della separazione assorba in se, la tutela che l’ordinamento appresta contro le violenze familiari "mediante l’estensione del fascio dei provvedimenti che il presidente può adottare" il Tribunale di Milano ha rilevato la concorrenza di tutte le condizioni, richieste dalla norma, per l’emissione dell’ordine di allontanamento, coordinato con l’ordine di non avvicinamento. Si è riconosciuto come, nei fatti, il marito fosse "proclive ad atteggiamenti violenti, sia fisicamente che psicologicamente, senza cura del fatto che i figli possano assistere agli agiti aggressivi" e come tale condotta si fosse protratta nel tempo, con il requisito, quindi, della abitualità. In particolare il certificato del Pronto soccorso ha consentito di rilevare come fosse stato diagnosticato "un trauma al volto determinato da aggressione perpetrata dal marito ubriaco; in quella occasione la moglie ha raccontato agli operatori sanitari di esser stata aggredita al volto dal coniuge con schiaffi e quindi di esser stata inseguita dal marito con un coltello". Con l’ordinanza urgente è stato stabilito l’immediato allontanamento del marito dalla casa familiare, delegando la Polizia Locale ad eseguire la disposizione in forma coattiva ta. Con il provvedimento è stato ordinato all’uomo di cessare, immediatamente, da ogni condotta violenta, prescrivendogli di "non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla moglie". Sono stati, infine, previsti sia un "contributo" per il mantenimento dei figli, sia una modalità "protetta" per gli incontri dei figli con il padre, delegando contestualmente i servizi sociali del comune competente, a dare assistenza ed a prendere in carico il nucleo familiare, disponendo la redazione di "brevi resoconti degli interventi, da trasmettere al giudice all’esito degli stessi". Licenziabile il tossicodipendente in aspettativa che lascia la comunità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2016 Scatta il licenziamento per giustificato motivo soggettivo per il lavoratore tossicodipendente che, posto in aspettativa per seguire un percorso di riabilitazioni, abbandoni la comunità di recupero pur continuando a seguire una terapia presso una diversa struttura. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 14621/2016, rigettando il ricorso di una dipendente di Poste italiane. La vicenda - La donna nel gennaio 2009 aveva interrotto il programma riabilitativo, per il cui espletamento l’azienda le aveva concesso un’aspettativa di un anno (dall’ottobre 2008 all’ottobre 2009) senza riprendere il lavoro. La Corte di appello di Milano, accogliendone parzialmente l’impugnazione, aveva riqualificato il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, riconoscendole, di conseguenza, il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso. Nel ricorso in Cassazione la donna aveva sostenuto che "non le si poteva imputare un’assenza dal servizio in quanto il suo status giuridico era quello di dipendente in aspettativa, per cui il rapporto di lavoro era a tutti gli effetti sospeso, mancando un preciso obbligo di presenza in servizio". Inoltre, proprio in virtù della sua tossicodipendenza non si poteva attribuirle "la volontà piena di porre in essere una assenza arbitraria", anche considerato che aveva continuato a curarsi. Le motivazione - La Suprema corte ricorda che l’articolo 124 del Dpr 309/1990 (T.U. sugli stupefacenti) prevede per che "i lavoratori di cui viene accertato lo stato di tossicodipendenza, i quali intendono accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi sanitari delle unità sanitarie locali o di altre strutture terapeutico- riabilitative e socio- assistenziali, se assunti a tempo indeterminato, hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per il tempo in cui la sospensione delle prestazioni lavorative è dovuta all’esecuzione del trattamento riabilitativo e, comunque. per un periodo non superiore a tre anni". La ratio della diposizione, spiega la Corte, è quella di "agevolare l’accesso dei lavoratori tossicodipendenti ai programmi di disintossicazione, garantendo ad essi il mantenimento del posto già occupato sul presupposto che la concreta esecuzione del trattamento riabilitativo previsto da quei programmi è materialmente incompatibile con l’espletamento dell’attività lavorativa". Dunque, il diritto alla conservazione del posto "compete al lavoratore tossicodipendente allorquando (e per il tempo in cui) egli sia materialmente impedito a rendere la prestazione lavorativa". Logico corollario è che "il definitivo volontario allontanamento" dalla struttura "fa venir meno il presupposto di fatto costitutivo del diritto alla conservazione del posto". "E, con il venir meno del diritto alla conservazione del posto, correlativamente e automaticamente, si ripristina - come è evidente - l’obbligo del lavoratore di riprendere servizio e di eseguire la prestazione cui è contrattualmente tenuto". In questo senso, prosegue la sentenza, il giudice d’appello ha correttamente ritenuto che "l’abbandono volontario della comunità terapeutica di (omissis), determinò il venir meno del suo diritto alla conservazione del posto di lavoro, a nulla rilevando la circostanza che la ricorrente avesse comunque continuato il percorso terapeutico presso il (omissis)". "Situazione soggettiva, quest’ultima, non avente invero alcuna incidenza né rilevanza, ai sensi della esaminata normativa legale, in ordine alla sussistenza del diritto alla conservazione del posto". Del resto, "la dedotta prosecuzione del percorso terapeutico, avvenuta peraltro solo attraverso sporadici colloqui, non comportava alcun obiettivo impedimento alla ripresa della già sospesa attività lavorativa". Con riguardo poi alla contestata sproporzione della misura adottata, la Cassazione afferma che "i giudici d’appello hanno evidenziato che anche se la condotta contestata alla lavoratrice non poteva ritenersi sufficiente ai fini dell’adozione della massima sanzione disciplinare in considerazione della particolare situazione personale in cui la medesima si trovava all’epoca dei fatti, stante i disturbi di carattere psichico dai quali era affetta, per cui la stessa poteva essere valutata con minor rigore, tuttavia il comportamento fortemente scorretto rivestiva il carattere di grave negazione degli elementi fondamentali del rapporto fiduciario, idoneo a giustificare il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente diritto della medesima al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso". Semi di canapa, istigazione alla coltivazione di stupefacenti per la vendita con istruzioni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione 1 penale - Sentenza 23 maggio 2016 n. 21186. Per la Cassazione, sentenza n. 21186/2016, la pubblicizzazione e l’offerta in vendita di semi di canapa indiana dalle quali è ricavabile sostanza drogante, accompagnata dalle indicazioni delle modalità di coltivazione, se non integra il reato di cui all’articolo 82 del Dpr n. 309 del 1990, può integrare, ricorrendone i presupposti, il reato di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti ex articolo 414 del Cp. Una condotta che istiga alla coltivazione - Ciò che nella specie era stato correttamente ravvisato dal giudice di merito, relativamente ad una condotta di pubblicizzazione e di offerta in vendita realizzata, sia telematicamente sia attraverso un esercizio commerciale, essendosi in proposito valorizzata a conforto dell’idoneità istigatoria la circostanza che i messaggi pubblicitari possedevano connotazioni informative di tale univocità da incentivare la coltivazione della canapa tramite i semi offerti in vendita, e ciò anche attraverso la fornitura di tutte le informazioni necessarie a realizzare una produzione efficiente. Una motivazione in linea con le sezioni Unite - La decisione è in linea con i principi affermati in proposito dalle sezioni Unite. Infatti, sul trattamento sanzionatorio da riservare a chi pubblicizzi e metta in vendita semi di canapa indiana, utilizzabili per la coltivazione di piante da stupefacente, con l’indicazione delle modalità di coltivazione e della resa di prodotto, sono intervenute le sezioni Unite, con la sentenza 18 ottobre 2012, affermando che l’offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, corredata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti di cui all’articolo 82 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, salva la possibilità di sussistenza dei presupposti per configurare il reato previsto dall’articolo 414 del Cpcon riferimento alla condotta di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti. Più in dettaglio, secondo le sezioni Unite: il fatto, laddove non ci si limiti ad una propaganda "asettica" e "neutra", sanzionabile ex articolo 84 del Dpr n. 309 del 1990, può integrare il reato di cui all’articolo 414 del Cp, ossia il reato di istigazione a delinquere, in relazione alla condotta illecita di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti. Non sarebbe ravvisabile, invece, il reato di cui all’articolo 82 del dpr n. 309 del 1990, che punisce l’istigazione all’uso di sostanze stupefacenti, per difetto di tipicità della condotta e per l’impossibilità di estendere l’applicazione della norma in via analogica. L’articolo 82, secondo il ragionamento della Corte, punisce l’istigazione all’uso di stupefacenti, che sarebbe condotta diversa da quella di interesse, dove l’istigazione riguarda la condotta di coltivazione di piante, dalle quali, solo "con determinati procedimenti chimici neppure menzionati nella pubblicità", è poi ricavabile la sostanza drogante vietata. Non sarebbe così consentito estendere analogicamente l’articolo 82 ad una condotta - quale appunto quella della coltivazione delle piante - che solo indirettamente ed eventualmente conduce al consumo di sostanze droganti. Milano: non solo carcere, le storie dei volontari che assistono i detenuti di Paolo Foschini Corriere della Sera, 19 luglio 2016 Un esercito di persone che fornisce ogni tipo di assistenza e crea un ponte con l’esterno costruendo percorsi di speranza e di vita (nuova). "Visitare i carcerati" (Matteo 25) è una delle opere di misericordia che, come papa Bergoglio non manca mai di ricordare, consente addirittura il perdono integrale dei propri peccati. E magari non sarà per quello: ma è un fatto che il numero delle associazioni e dei volontari nelle carceri è da qualche anno in crescita esponenziale. Le 33 sigle ufficialmente censite a livello regionale sono una piccola parte di un totale che solo a Milano - nei tre istituti di San Vittore, Bollate e Opera - coinvolge centinaia di persone. Le otto storie di questa pagina sono gocce nel mare, ma dimostrano che proprio il carcere sarà il vero banco di prova della misericordia 2.0: con il passaggio dalla pietas alla professionalità. "I volontari - riassume Gloria Manzelli, che San Vittore lo dirige - sono una colonna delle carceri da sempre. Ancor più con la crisi, garantendo servizi, materiali e non, che le istituzioni non potevano mantenere. Per questo i volontari dovranno essere sempre più qualificati. Non alternativi, soprattutto, ma in rete con le istituzioni". E Massimo Parisi, direttore di Bollate, aggiunge: "Insostituibile. Non più solo come assistenza ma come ponte. Volontariato che crea lavoro, percorsi". Perché oggi l’obiettivo è più alto della puro a assistenza a chi sta in carcere: e cioè far sì che quando ne esce non ci torni più" La sartoria - Cooperativa Borseggi Non è una sarta, non sa tenere un ago in mano e non ha competenze manageriali (arriva dal mondo della comunicazione). Elisabetta Ponzone ha però fantasia e si è inventata, da volontaria, un laboratorio di sartoria nel carcere di Opera. È partito nel 2012 come progetto laterale di un’associazione già presente e oggi, a distanza di quattro anni, è una realtà imprenditoriale indipendente. Piccola ma efficiente. Dieci sarti-detenuti (ogni anno qualcuno esce e si aggiunge un nuovo apprendista), alcune professioniste che seguono la formazione. Due volte la settimana Elisabetta fa la spola fra la città e il carcere: corre a recuperare stoffe e commesse. Il laboratorio, chiamato Cooperativa Borseggi, taglia e cuce per piccole aziende, ristoranti, e a volte per importanti realtà. Ha confezionato shopping bag per il Museo Bagatti Valsecchi; un gioco di stoffa per il Museo Scienza e Tecnica; una linea di borse per Eurid, la banca dati della Cee. "Un’emozione indescrivibile, mia e loro", dice lei. La cucina - Abc Sapienza in Tavola Ha sempre lavorato nel mondo dell’alta finanza. Fino alla pensione, due anni fa. Racconta di non avere mai avuto contatti con il mondo carcerario. "Avvertivo una sorta di barriera: io di qui, loro di là", dice con franchezza. Un amico, l’anno scorso, gli parla della cooperativa sociale Abc Sapienza in Tavola. Un progetto rivoluzionario, con cuochi e camerieri detenuti che lavorano all’esterno del carcere con un catering di alta qualità, e ora anche nel ristorante aperto dentro alla prigione di Bollate. Marco Tincati si fa avanti, mette la sua professionalità a disposizione. La cooperativa ha bisogni di bilanci attivi per assumere più detenuti e offrire così formazione che garantisca possibilità lavorative una volta scontata la pena. Lui si mette al lavoro: investimenti, bandi e concorsi, rapporti con i fornitori. Non è in cucina, ma gli uffici sono nella parte di reclusione, lui quindi ha contatti diretti anche con i detenuti. "Non avrei mai immaginato - commenta sincero - un percorso personale di grande valore". Gli stranieri - Naga Alessandro Pandolfi è un docente di Filosofia Politica. Inizia il racconto della sua esperienza di volontario a San Vittore con il Gruppo Carcere della Onlus Naga, parlando di sé. "Pensavo di avere una pellaccia dura, gli anni passati in collegio mi avevano temprato agli ambienti chiusi e alle situazioni costrittive", dice. "Invece il mio primo ingresso in piazza Filangieri, sei anni fa, è stato uno choc. Inerme di fronte al degrado, all’abbandono, alla fatiscenza, ho perfino avvertito paura". Il Naga segue i detenuti stranieri. La popolazione carceraria più numerosa (a San Vittore sono il 70%) e più fragile. Molti i clandestini, incapaci di far valere i loro diritti. "Il nostro è un contatto diretto, concreto, di segretariato sociale", spiega. Colloqui individuali settimanali: "Ascoltiamo i bisogni e aiutiamo". Chiedono scarpe e vestiti. Informazioni legali e incontri con l’avvocato. Visite mediche. Di avvertire i familiari all’estero: "Diventiamo il loro trait d’union con il mondo all’esterno e la loro spalla dentro". I figli - Bambini senza Sbarre Una psicologa giovane, fresca di laurea, con le idee chiare. Non è interessata al lavoro clinico, ma al risvolto sociale della professione. Così Martina Gallon, dopo un anno di servizio civile e un approdo lavorativo in una cooperativa, bussa alla porta di Bambini senza Sbarre. "Mi interessava un’esperienza dentro al carcere", dice. Una volta la settimana Martina varca la soglia di Opera ed entra nello Spazio Giallo, la grande stanza colorata creata dalla onlus per accogliere le madri che vanno in visita a mariti o parenti reclusi insieme ai figli. Spiega: "Ci occupiamo delle donne. I bambini sono come specchi, reagiscono a seconda dello stato d’animo dell’adulto. Se c’è tranquillità, giocano e disegnano, se invece avvertono tensione, anche il loro comportamento sarà inquieto". Il rapporto con le madri non è facile, la fiducia non è immediata, si costruisce nel tempo. "È un impegno forte ma che regala momenti intensi, soprattutto quando aiutiamo una mamma, che lo vuole, a raccontare la verità". Giardinaggio - Il Vivaio Racconta che quando parla del suo volontariato nel vivaio del carcere di Bollate, si sente chiedere sempre le stesse cose. Prima domanda: ci sono i detenuti? "Certo, sono liberi e lavorano insieme a me". Seconda: ma ci sono anche le guardie, vero? "No, non ci sono", dice lei e si diverte a vedere le reazioni di stupore. Milena Navone è architetto. È arrivata al carcere per esclusione. Ama le piante e la natura, e avendo curato a lungo genitori malati, aveva escluso un volontariato di tipo assistenziale. L’esperienza di Susanna Magistretti, che ha dato vita a un laboratorio verde interno alla prigione, l’aveva colpita. È andata a vederlo e si è fermata. "Aiuto in serra, anche se quando sono arrivata, cinque anni fa, non sapevo fare nulla", racconta: "Sono stati i detenuti a insegnarmi i trapianti, le semine, i lavori di pulizia". Parla con entusiasmo di giardinaggio e del rapporto con i detenuti. "Il loro passato, le loro colpe non mi interessano. Cerco lo scambio umano, a volte è meraviglioso". La lettura - Gruppo Cuminetti Quando ha iniziato, undici anni fa, lo stato delle biblioteche interne a San Vittore era deprimente. Luoghi bui, poco frequentati, scaffali vuoti o con libri poco interessanti. Oggi la situazione si è ribaltata. Ogni reparto ha una sua biblioteca, piena di testi di autori contemporanei e di volumi in lingua straniera, adatti a chi non conosce bene l’italiano. Inoltre in queste stanze luminose e allegre si tengono gruppi di lettura e letture collettive ad alta voce. "Che soddisfazione", dice Paola Rauzi del Gruppo Carcere Mario Cuminetti. È stata questa associazione, fra le prime a entrare nelle carceri con progetti culturali agli inizi degli anni Settanta, a spingere perché l’oggetto libro assumesse un ruolo di primo piano per i detenuti. "La lettura arricchisce, aiuta a sopportare la quotidianità faticosa e apre scenari inaspettati", assicura Paola e conclude: "Ancora oggi, a distanza di così tanti anni, mi stupisco sempre della profondità dei dialogo che nascono durante i gruppi di lettura. Momenti magici, anche per me". L’assistenza - Sesta Opera San Fedele Siamo entrati a San Vittore nel 1923 e non siamo mai usciti". Al presidente Guido Chiaretti piace presentare così la Sesta Opera San Fedele, una delle più antiche associazioni attive nelle carceri, che oggi conta oltre 200 volontari in tutti gli istituti milanesi. "Il nostro obiettivo - racconta - è prestare assistenza morale e materiale ai carcerati e alle loro famiglie, promuovere la loro dignità e tentare di rimuovere le cause di emarginazione per facilitarne il reinserimento nella società". Anche per questo la Sesta Opera San Fedele ha lanciato il primo progetto europeo di "mediazione tra pari" nel reparto femminile del carcere di Bollate e un lavoro sul tema di un convegno dal titolo volutamente provocatorio: "Buttare la chiave conviene davvero?". Perché in fondo il carcere in sé è solo un costo e, ricorda Chiaretti, "solo con un reale ed efficace processo di accompagnamento è possibile abbattere la recidiva, e quindi rendere più sicura la nostra società, come dimostra l’esperienza di Bollate". Lo studio - Bambini in Romania La società è chiusa e ostile verso chi ha commesso un reato. Io ho sempre creduto nella possibilità di un cambiamento, di una svolta anche dopo una caduta, un grave errore. Soprattutto nei giovani". È la motivazione che ha spinto Sole Barbaglia ad avvicinarsi al carcere minorile Beccaria. Ha iniziato a 18 anni, a Natale del 2012, e da allora non ha più smesso: "La mia giovane età mi ha facilitato, l’essere coetanea permette uno scambio molto diretto". Sole è volontaria dell’Associazione Bambini in Romania (Onlus fondata da don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, ndr) ed entra in carcere una volta la settimana. "Affianchiamo i professori durante i laboratori di lettura e scrittura, arte e fotografia", spiega. E aggiunge: "Manca la motivazione allo studio, noi cerchiamo di coinvolgere. Inoltre siamo presenti nei giorni di vacanza, per tenere compagnia ai ragazzi durante le ore libere". Bilancio? "Parla per me la mia carriera universitaria: ero iscritta a Biologia, sono passata a Educazione Professionale". Bari: detenuti assistono i compagni disabili "così ho imparato ad aiutare gli altri" di Teresa Valiani superabile.it, 19 luglio 2016 Il racconto di Pasquale e Oronzo, detenuti del carcere di Bari che hanno deciso di seguire un corso che offre un lavoro dentro e una carta da spendere fuori. "Bisognerebbe iniziare dalle scuole inferiori a insegnare a prendersi cura degli altri"- "Il momento più brutto è stato quando Paolo è arrivato al Centro diagnostico: aveva avuto un ictus. Per non farlo rimanere sempre a letto e non fargli prendere le piaghe, ho iniziato a massaggiargli la gamba destra e il piede. Il momento più felice? È arrivato un mese dopo: lui era seduto sulla sedia e a un certo punto si è alzato e riusciva a stare in piedi. È stata la cosa più bella che mi potesse capitare. Tutt’ora continuo ad aiutarlo. È vero che zoppica, però adesso cammina da solo!". "Il corso di caregiver è stata un’esperienza utilissima. Bisognerebbe fin dalle scuole inferiori fornire nozioni basilari di primo soccorso ed educare all’altruismo e a relazionarsi in modo corretto con i più deboli e i più bisognosi". Pasquale ha 34 anni e ha riscoperto in carcere il significato profondo della parola solidarietà. Per il grande aiuto offerto al compagno disabile, che anche grazie alle sue cure ha ricominciato a camminare, ha avuto un encomio. Oronzo è italiano come lui, ha una storia diversa ma una passione e, probabilmente, un futuro comune. Sono entrambi detenuti nella Casa circondariale di Bari dove invece di bruciare le giornate in cella hanno deciso di impegnare il tempo della pena investendolo in un corso che offre un lavoro dentro e una significativa carta in più da spendere nel delicato momento della liberazione. Un anno fa hanno colto al volo l’opportunità offerta dalla direzione dell’istituto, condotto da Lidia de Leonardis, e si sono iscritti al corso per caregiver: una figura professionale che dietro le sbarre sostituisce il vecchio "piantone", specializzata nell’assistenza ai compagni detenuti disabili. Prima esperienza in Italia, il progetto "Caregivers" era decollato a maggio 2015 nel carcere di Bari, sede di un Centro clinico o Sai (Servizio di assistenza integrata). Già nel settembre successivo erano stati consegnati i primi 80 attestati ad altrettanti detenuti che avevano partecipato alle lezioni. Nelle fondamenta del progetto, una convenzione quinquennale con l’Azienda ospedaliera universitaria consorziale Policlinico di Bari per la formazione di base che rilascia attestati formativi spendibili all’esterno. Al momento sono 71 i detenuti caregivers professionisti al lavoro nell’Istituto di pena pugliese. Pasquale e Oronzo sono due di loro. In una lettera scritta a mano, rispondono alle nostre domande e raccontano l’esperienza, la fatica e le conquiste del complesso mestiere di assistente. "In passato mi è capitato di trovarmi in situazioni di emergenza sanitaria e non sapevo come prestare soccorso alle persone colte da malori improvvisi o non autosufficienti. - racconta Oronzo - Così, appena ho saputo del corso per caregiver, mi sono subito iscritto. Avevo già svolto mansioni di piantone ma solo con persone con lievi inabilità". E la situazione di Pasquale è analoga, piantone anche lui in altri isituti. "L’assistente del piano un giorno mi dice che c’è un corso per aiutare i compagni disabili e io mi iscrivo subito". Il corso prevede due moduli, il primo sull’allertamento d’emergenza sanitaria, sulle tecniche di primo soccorso e sulle esercitazioni pratiche. Il secondo su elementi fondamentali sull’igiene personale, degli alimenti e dei luoghi, sulle modalità di relazione con l’assistito e le tecniche per l’assistenza ai soggetti non autosufficienti per gli spostamenti e il movimento. "Mi fa paura sentire parlare di malattie e infarti, - spiega Pasquale - ma il corso è stato molto interessante, anche se non sono riuscito a seguire tutte le lezioni. Ho anche imparato come si trasmettono le malattie tipo Aids o epatite C". Per Oronzo le azioni "sono state tutte interessanti. Sono stato maggiormente interessato alle lezioni di primo soccorso, alle modalità di relazione con l’assistito e alle esercitazioni pratiche di emergenza sanitaria e assistenza al movimento". Il rapporto con gli insegnanti, spiega, è stato "molto collaborativo e teso al giusto apprendimento degli argomenti trattati. Il loro obiettivo non è stato quello di elencare tecniche e meramente nozionistico, ma di assicurarsi che ciascuno dei partecipanti avesse appreso gli elementi teorici e sapesse metterli in pratica in maniera corretta". Il corso è utile ad apprendere competenze professionali, ma anche a capire il valore di aiutare l’altro. "Ho imparato ad aiutare gli altri nel momento del bisogno, fisicamente e moralmente. - racconta Pasquale - Provo emozione, ma nello stesso tempo fa male guardare persone che soffrono e cerco di capire in che modo posso aiutare un compagno che sta male". "Il corso mi ha arricchito molto a livello professionale e ancor di più a livello umano perché, oltre ai casi prospettati dagli insegnanti, ogni partecipante ha portato alla conoscenza di tutti il rapporto che si instaura tra assistito e "piantone": è venuto fuori che, oltre all’assistenza materiale, risulta molto importante l’assistenza psicologica". La sensazione è che l’esperienza è riuscita a migliorare la qualità della vita in carcere. Per Oronzo "ha avuto conseguenze molto positive, sia dal punto di vista pratico in rapporto all’assistito, sia per le relazioni interpersonali e per la maggiore attenzione all’igiene della persona e dei luoghi in cui viviamo". A Pasquale "ha insegnato ad aiutare gli altri nel momento del bisogno". "Io sono fatto così, - dice - mi piace ridere, scherzare e cerco di non far pesare questa agonia che passano: non è piacevole, sono chiusi 24 ore in cella". Il rapporto con i compagni disabili da assistere "è molto rispettoso e di reciproca fiducia. Riuscire a immedesimarmi nelle loro condizioni mi rende molto disponibile e mi dà la forza di affrontare qualsiasi situazione. Inoltre, l’essere disponibile al confronto dialettico e al conforto morale rende possibile un legame affettivo e una fiducia incondizionata", spiega Oronzo. "I momenti belli sono di gran lunga superiori ai momenti difficili – racconta. Quello che ricordo con piacere è stato quando il compagno che assistevo mi ha detto che per lui non ero un assistente o un compagno di cella ma il fratello che avrebbe voluto avere. Un momento difficile è stato quando un compagno che ho assistito mi ha rivelato di essere affetto da una grave malattia: questo mi ha messo a dura prova perché oltre alla paura per la mia salute mi faceva sentire inadatto. Ma per fortuna dopo un primo momento di smarrimento ho superato l’ignoranza legata alla malattia. La più grande difficoltà, invece, è stata non riuscire subito a capire le esigenze del compagno che assistevo: inizialmente mi è pesato moltissimo e non riuscivo ad assolvere completamente al mio compito" Per Pasquale invece "la difficoltà più grande l’ho incontrata quando sono arrivato al Ctd perché a causa del mio reato non mi voleva nessuno. Poi però grazie a un compagno piantone sono stato accettato e ora sono rimasto qua". Una volta fuori dal carcere la specializzazione acquisita può diventare una risorsa. "Potrei trasformarla in eventuale mia professione, - spiega Oronzo - in ogni caso sarà molto utile in possibili situazioni di emergenza o per l’assistenza alle persone care nel caso in cui ce ne fosse bisogno". E pasquale è sicuro: "continuerò a fare il piantone, so che sarà difficile. Ma mai fermarsi alla prima difficoltà". Bari: Antonio, detenuto disabile "più sezioni dedicate, per stare vicino alla famiglia" di Teresa Valiani superabile.it, 19 luglio 2016 Ventiquattro ore in una cella di pochi metri. Per mesi, anni. In attesa di un fine pena che raddoppia di intensità quando ad aspettarlo è un detenuto disabile. Parla Antonio, 62 anni, paraplegico, che avanza la proposta. "La giornata più bella è quella dei colloqui con i miei familiari". Ventiquattro ore in una cella di pochi metri. Per settimane, mesi, anni. In attesa di un fine pena che raddoppia di intensità quando ad aspettarlo è un detenuto disabile. Sono 628, secondo l’ultimo censimento del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e non sempre hanno attrezzature e stanze idonee al loro stato fisico le persone con disabilità ristrette nelle carceri italiane. Ma il Dipartimento ha già lanciato la sua sfida: "Un carcere a misura di disabile - spiegava alla nostra agenzia Paola Montesanti, direttore dell’Ufficio IV, Servizi Sanitari del Dap - è possibile e passa attraverso interventi personalizzati, territorialità della pena e formazione di detenuti in grado di prendersi cura dei compagni di cella disabili (caregiver). Tra i primi passi in questa direzione la definizione di sistemi di informazione tempestiva sugli ingressi in carcere e di monitoraggio permanente delle presenze". E una circolare del Dap che detta le linee guida per garantire anche ai detenuti con disabilità una permanenza dignitosa negli istituti di pena. A Bari, più di un anno fa, il lancio del primo progetto sulla formazione professionale dei caregivers: detenuti specializzati nell’assistenza e nel sostegno ai compagni con disabilità. Ma cosa cambia nella vita di un detenuto disabile quando ad assisterlo non è il ‘piantonè ma un compagno formato professionalmente? Risponde Antonio, 62 anni, italiano, paraplegico. Come trascorrono le tue giornate in carcere? Male, perché non riesco ad andare all’aria (nel cortile del passeggio per l’ora d’aria concessa a tutti i detenuti due volte al giorno ndr) e per il resto rimango a letto. Quali sono le maggiori difficoltà che deve affrontare quotidianamente una persona detenuta con disabilità? Tantissime, perché non posso fare le attività (corsi culturali, sportivi e ricreativi destinati ai detenuti negli appositi spazi interni agli istituti ndr) e penso sempre alla mia condizione. Quale tipo di assistenza offre il compagno caregiver? Ti dà una mano per vestire, andare in bagno, pulire la cella e lavare i vestiti. Qual è il rapporto che si instaura con il compagno caregiver? Di amicizia e di rispetto. Quali vantaggi hai trovato nell’essere assistito da un compagno professionalmente specializzato? Insomma, non è come essere assistito in una casa di cura. Che succede quando il compagno care giver viene trasferito o esce dal carcere? Ci si abitua subito a un altro assistente? In carcere ci abituiamo a qualsiasi situazione. Cosa dovrebbe fare il carcere, oltre a progetti come la formazione dei caregivers, per diventare più vivibile per i detenuti disabili? Fare in modo che ci siano sezioni per detenuti disabili in più, per essere vicini alla famiglia. La giornata più bella e quella più difficile che hai trascorso da quando sei in carcere? La giornata più bella è quella dei colloqui con i miei familiari. La più difficile è quando ho preso la condanna e di sapere che oltre il carcere avrei subito la mia disabilità, perché mi auguravo di poter rimare agli arresti domiciliari. Genova: Adele, la ginecologa delle detenute che "apre" le carceri di Sara Mauri Corriere della Sera, 19 luglio 2016 Il nome di sua figlia tatuato sulla pelle, capelli neri lucidissimi e mani curate con tanti anelli d’argento. Un paio di tacchi alti in salotto dicono che Adele è una donna. Lei è cresciuta a Montesarchio, un piccolo paese in provincia di Benevento. A 19 anni si è spostata a Napoli, per studiare. Una laurea in medicina al Policlinico Federico II di Napoli e una specializzazione in ginecologia e diagnosi prenatale presa a Milano. Ogni tanto fa una battuta in dialetto napoletano ed è sempre elegantissima. Sulle sue mani, ogni anello ha una storia: nulla entra nella sua vita per caso. Quello che avrebbe fatto nella vita, Adele, l’aveva deciso già in quinta elementare: della medicina la affascinava "alleviare sofferenze". Le case delle persone parlano sempre per le persone che ci abitano. La casa milanese di Adele Teodoro racchiude l’ospitalità del sud, il bianco, l’arte, i richiami a quel mare che lei ha lasciato tanto tempo fa. A Adele manca Napoli, quella terra che sente sua e che sua lo è ancora. Genova, 2011: Maria Milano d’Aragona, la direttrice del carcere di Pontedecimo, invita Adele a visitare quell’edificio chiaro, sbiadito dal tempo e dalle vite di tutte le donne che ci sono passate. Nella testa di Maria e Adele inizia a prendere forma un progetto che poi realizzano insieme: la loro voglia comune di fare qualcosa per gli altri aspettava solamente di trovare un canale per esprimersi. Un pensiero, si sa, può muovere mondi. Ma se esistesse solo il pensiero, nessuno scalerebbe alte vette. Ed ecco, allora, che serve un’altra cosa: la volontà. La volontà di spostare montagne, di unire argini. Fondamentale, però, è l’azione. L’azione è il perno su cui muovono rivoluzioni, battaglie e grandi imprese. L’azione misura la fattibilità di qualcosa, trasforma il realizzabile in realizzato. Senza azione l’immaginato non può diventare reale. Visite ginecologiche, screening, ecografie transvaginali, diagnosi precoce, pap-test. Tutte queste cose, Maria e Adele le vogliono portare in carcere. Adele compra un ecografo, lo paga di tasca sua, a rate. Maria apre le porte del carcere. Le detenute aspettano le visite di Adele come si aspetta un appuntamento speciale. Adele le convince che le deve visitare tutte, una per una. La dottoressa di Milano non si ferma, ritorna. Una, due, tre, tante volte. Maria e Adele lottano insieme e trovano un modo per trasformare il loro sogno in azione e ci riescono: l’ambulatorio è una cella, il progetto diventa reale. Le detenute iniziano a curarsi del loro aspetto, si scambiano gli orecchini, riscoprono il piacere di avere un corpo e di essere donne. Ritrovano la femminilità: una cosa che avevano dimenticato. L’esperienza ligure continua, Adele si occupa di prevenzione e diagnostica: in pratica, si occupa della malattia prima che questa si manifesti. "Le detenute capiscono cosa è la prevenzione" e sanno quanto è importante. Hanno storie difficili e le "raccontano perché sentono il bisogno di essere ascoltate". Hanno bisogno di essere curate e non giudicate. In un lavoro così intimo è importantissimo essere "delicati con il prossimo". Tocchi parti molto intime, conosci anime e "hai un approccio diverso se sei a tua volta mamma". Sì, perché, Adele è una donna, un medico, ma è soprattutto la mamma di Gaia. "Io per Gaia voglio un mondo migliore, da quando ho lei, ho ricominciato a sognare di nuovo. Per me l’amore è avere a cuore la sua felicità: l’amore per un figlio è l’amore per tutta la vita". Con Adele le donne si aprono, si confidano, imparano ad amare il loro corpo recluso. La vita nelle carceri è difficile: i bambini e le donne non sono sempre insieme, non ci sono specchi e cosmetici. Il carcere è stato pensato come un mondo maschile. Molte sono in isolamento. La percentuale di malattie sessualmente trasmissibili è elevata e per questo, secondo Adele, serve "un’educazione sanitaria". "Il carcere può essere un’occasione di riscatto, non deve togliere la dignità", dice Adele. Queste donne hanno voglia di uscire dalle celle e parlare al mondo. L’Associazione gravidanza Gaia è la Onlus fondata da Adele per sviluppare il progetto di screening ginecologico nelle carceri. Il progetto, sviluppato in collaborazione con Aogoi (Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani) e con l’aiuto del Professor Chiantera, offre a tutte le carceri italiane la possibilità di effettuare lo screening ginecologico gratuito per le detenute e apre le porte affinché altre ginecologhe possano collaborare alla realizzazione delle visite su tutto il territorio nazionale. Dal 2011, il progetto è attivo a Genova e continua ancora oggi. Nel 2012 è stato realizzato nel carcere di Bollate, nel 2015 a San Vittore. L’esperienza di Genova e Milano ha fatto sì che il carcere di Torino facesse richiesta affinché le visite di prevenzione possano essere offerte anche alle detenute torinesi. Adele vuole portare l’arte dove la bellezza viene negata e sta lavorando con gli artisti Maurizio Galimberti e Roxy in the Box (una poliedrica e eclettica artista napoletana) affinché vengano aperte le porte delle carceri per far conoscere al mondo la realtà delle carceri femminili italiane. A Montesarchio, il paese d’origine di Adele, sono tutti molto solidali: se un abitante raggiunge un traguardo, quel traguardo diventa la gioia di tutti. Due anni fa, spontaneamente, il gruppo Pro Loco del paese si è riunito per una tombolata e ha donato il ricavato all’Associazione Gaia, l’associazione di Adele Teodoro. Per l’attività di volontariato ginecologico, Adele Teodoro è stata nominata Cavaliere al merito dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e ha ricevuto l’Ambrogino d’Oro, la massima onorificenza della città di Milano. Ma c’è una cosa bellissima che Adele dice a sua figlia, durante la nostra intervista: "Non sono io che ti ho dato la vita, sei tu che l’hai restituita a me". Eh, sì. Perché, Adele senza Gaia non sarebbe Adele. Cagliari: dramma a Uta, detenuto cardiopatico ricoverato per un infarto castedduonline.it, 19 luglio 2016 "Un detenuto cardiopatico è stato ricoverato d’urgenza ed è rimasto 24 ore sotto osservazione nell’Utic (Unità Terapia Intensiva Cardiologica) dell’Ospedale "San Giovanni di Dio" prima di approdare nel Reparto, dov’è da quattro giorni. L’uomo, che finirà di scontare la pena il prossimo 27 settembre, aveva avuto in precedenza altri due infarti". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento a Giambattista Carrusci, 43 anni, cagliaritano, diabetico e cardiopatico con cinque stent coronarici, tornato in carcere a febbraio per scontare un residuo di pena. "Negli ultimi cinque mesi, da quando è ristretto nell’Istituto "Ettore Scalas", l’uomo è entrato e uscito dall’ospedale diverse volte. L’altro giorno ha avuto un improvviso malore subito dopo i colloqui con i familiari. Le sue condizioni nel Nosocomio sono migliorate, tuttavia restano precarie per la tipologia della patologia. Carrusci era tornato dietro le sbarre - sottolinea Caligaris - in seguito alla relazione del perito del Tribunale di Sorveglianza che, dopo una visita di routine a 6 mesi dall’assegnazione agli arresti domiciliari per incompatibilità con la detenzione, ne aveva rilevato un miglioramento delle condizioni generali di salute tanto da indurre il Magistrato di Sorveglianza a sospendergli la misura alternativa". "Sottoporre a controllo sanitario chi fruisce delle pene alternative per motivi di salute è corretto e indiscutibile soprattutto quando si tratta di patologie sensibili alle cure mediche e farmacologiche. È evidente però che in alcuni casi, quando ci sono disturbi non curabili, le mutate condizioni ambientali e la vicinanza dei familiari di per sé favoriscono una ripresa del paziente-detenuto. In questi casi non appare ispirato al buon senso sospendere i benefici specialmente quando c’è il rispetto delle prescrizioni e mancano appena sei mesi al completamento dell’espiazione della pena. Ora non resta che sperare in una soluzione positiva anche perché il maggior peso degli ammalati ricade - conclude la presidente di SFR - sugli Agenti, gli Infermieri e i Medici in una situazione peraltro di sovraffollamento dal momento che a Uta ci sono oltre 600 ristretti". Cosenza: i Radicali denunciano il ritorno del sovraffollamento nel carcere di Paola calabriapage.it, 19 luglio 2016 Nei giorni scorsi, la Casa circondariale di Paola in Provincia di Cosenza, è stata oggetto di una visita da parte di una Delegazione autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, guidata da Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani. Della delegazione facevano parte anche Valentina Moretti, esponente di Radicali Italiani, Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus e Mediatore Culturale, Manuel Pisani e l’Avvocato Natalia Branda del Foro di Paola. La delegazione visitante, stante l’assenza del Direttore Caterina Arrotta e del Comandante di Reparto Maria Molinaro, è stata accolta ed accompagnata dagli Ispettori del Reparto di Polizia Penitenziaria Ercole Vanzillotta ed Attilio Lo Bianco. Nella Casa Circondariale di Paola, al momento della visita, erano presenti 195 detenuti (dei quali 129 italiani e 66 stranieri), a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti (13 in esubero), aventi le seguenti posizioni giuridiche : 145 condannati definitivi, 50 giudicabili (10 imputati, 18 appellanti e 22 ricorrenti). Per quanto riguarda le ulteriori "posizioni" dei detenuti è stato riscontrato che erano presenti : 29 tossicodipendenti, 45 con patologie psichiatriche (a questi vanno aggiunti altri 16 detenuti, appena trasferiti dalla CC. di Catanzaro insieme ad altri 3 detenuti) ed 1 con problemi di disabilità motoria; 18 sono, invece, quelli che lavorano ex Art. 21 O.P., 17 dei quali all’interno ed 1 all’esterno dell’Istituto; 1 detenuto era sottoposto, all’interno della sua camera, al regime di sorveglianza particolare ex Art. 14 bis O.P. Nell’occasione, 3 detenuti, si trovavano in permesso premio ex Art. 30 ter O.P. fuori dall’Istituto. Le condizioni generali dell’Istituto sono apparse, come al solito, sostanzialmente buone (anche) dal punto di vista igienico - sanitario. A tal proposito, la Delegazione, è venuta a conoscenza che proprio nelle scorse settimane, l’A.S.P. di Cosenza, ha effettuato la visita ispettiva semestrale ex Art. 11 c. 12 O.P. Questa volta, a differenza delle altre occasioni, la Delegazione, ha visitato anche il locale cucina - adibito alla preparazione del vitto della popolazione detenuta - recentemente ristrutturato, abbastanza grande e spazioso e dotato di attrezzature moderne, trovandolo ordinato e abbastanza pulito. Stessa cosa, dicasi, per gli altri locali destinati ad attività trattamentali (teatro, laboratori informatici, aule scolastiche, etc.). È stato riscontrato che sono in corso i lavori di rifacimento della Palestra e dei relativi servizi igienici, locali che a breve saranno accessibili e fruibili dalla popolazione detenuta, migliorando e valorizzando la vita detentiva. La delegazione ha preso atto che, finalmente, dopo tanto tempo, è stata dissequestrata dal Tribunale di Paola la lavanderia dell’Istituto. Erano stati proprio i Radicali, nel corso delle visite precedenti, a denunciare il mantenimento del vincolo giudiziario sul locale, senza alcuna motivazione visto che i lavori prescritti dall’Autorità Giudiziaria erano stati regolarmente effettuati. Per il momento, la lavanderia, non sarà utilizzabile poiché i macchinari, non essendo stati per lungo tempo utilizzati, abbisognano di essere rimessi in funzione. Relativamente al lavoro penitenziario, la Delegazione, è venuta a conoscenza che, proprio di recente, l’Amministrazione Penitenziaria, ha ridotto il fondo mercedi costringendo la Casa Circondariale di Paola a ridurre le ore lavorative dei detenuti da 4 a 3 (fatta eccezione per i lavoranti alla M.O.F. Manutenzione Ordinaria Fabbricati). Tale situazione, non consente ai lavoranti nemmeno di ottenere una retribuzione dignitosa per poter soddisfare le proprie esigenze personali fondamentali, specie per coloro che non hanno famiglia e/o per gli stranieri, creando ulteriori problematiche nell’Istituto. Pertanto, la Delegazione, ha invitato l’Amministrazione Penitenziaria a rivedere la propria determinazione sulle mercedi, auspicando che il relativo fondo venga aumentato o quantomeno ripristinato anche in virtù del fatto che presso detto Istituto non vi sono altre opportunità lavorative se non quelle alle dipendenze dell’Amministrazione. Nel corso dell’ispezione, numerosi sono stati i detenuti che hanno lamentato, per l’ennesima volta, di non essere adeguatamente curati ed assistiti dal Servizio Sanitario Penitenziario. La Delegazione ha riscontrato che ci sono detenuti che attendono, da oltre 6 mesi, di essere trasferiti in una struttura sanitaria esterna per visite oncologiche o neurochirurgiche o per interventi chirurgici anche abbastanza delicati. Alcuni detenuti hanno già rappresentato tali problemi al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente che ritenendo inaccettabili e non giustificati tali ritardi, ha provveduto a sollecitare le Autorità Sanitarie competenti affinché vengano soddisfatte le legittime richieste dei detenuti. Ulteriori lamentele provenienti dai detenuti hanno riguardato l’impossibilità di vedere la televisione nelle celle, il guasto dei surgelatori in alcuni Reparti detentivi e che l’Istituto di Paola, contrariamente ad altri, non disponga di freezer per raffreddare le bevande consentite, specie durante la stagione estiva, per rendere meno afflittiva la detenzione. Denunciata, altresì, l’inattuazione della "sorveglianza dinamica" che costringe i detenuti a restare per molte ore della giornata all’interno delle proprie camere di pernottamento. Nella Casa Circondariale di Paola, infatti, con esclusione del Reparto a custodia attenuata, ci sono solo le "celle aperte" per 8 ore al giorno ma non la "sorveglianza dinamica" che prevede un tipo di regime custodiale "aperto" e non "chiuso". La Delegazione, ritiene che gli spazi per la socialità esistenti nei Reparti, siano insufficienti e non accessibili a tutti e che, invece, attuando la "sorveglianza dinamica", potrebbero essere utilizzati i grandi e spaziosi corridoi dei Reparti detentivi, senza alcun problema per l’ordine e la sicurezza dell’Istituto. In modo particolare, i Radicali, hanno proposto che la "sorveglianza dinamica" venga praticata anche solo nelle Sezioni adibite a "Reclusione" (3° e 5° Reparto) visto che all’interno delle stesse vi sono condannati di "lieve pericolosità" e con regolare condotta intramurale, lasciando immutata la situazione nelle Sezioni adibite a "Circondariale" (1°, 2° e 4° Reparto). Infine, gli stranieri, hanno chiesto il ripristino del servizio di mediazione culturale, precedentemente assicurato dall’Associazione Alone Cosenza Onlus tramite propri volontari; istanza che la Delegazione ritiene giusto fare propria e sostenere con forza. I Radicali, preso atto del sovraffollamento dell’Istituto, determinato anche con il recentissimo trasferimento di 19 detenuti dalla Casa Circondariale di Catanzaro disposto dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, ha chiesto che vengano bloccati ulteriori trasferimenti di detenuti e che, diversamente, la popolazione detenuta venga ridotta fino alla capienza regolamentare. Tutto quanto emerso nell’ambito della visita ispettiva è stato dettagliatamente relazionato al Capo ed al Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria presso il Ministero della Giustizia, Santi Consolo e Massimo De Pascalis, al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Catanzaro Salvatore Acerra, al Direttore della Casa Circondariale di Paola Caterina Arrotta, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente ed all’Ufficio del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti presso il Ministero della Giustizia presieduto da Mauro Palma. Emilio Enzo Quintieri Movimento Nazionale Radicali Italiani Rimini: M5S; in carcere poco personale e problemi col Magistrato di Sorveglianza altarimini.it, 19 luglio 2016 "Poco personale, e ciò lede i diritti di polizia e detenuti, e problemi col magistrato di Sorveglianza che fanno venire meno la fiducia nello Stato". È quanto hanno affermato l’europarlamentare Marco Affronte e la consigliera regionale Raffaella Sensoli, esponenti del Movimento 5 Stelle, dopo l’odierna visita alla casa circondariale di Rimini. "Abbiamo ricevuto alcune richieste per un nostro interessamento e ci è sembrato il momento di entrare per la prima volta nella casa circondariale della nostra città - hanno affermato gli esponenti pentastellati. Rispetto alla situazione documentata qualche anno fa ci sono dei miglioramenti, ad esempio non siamo più nelle condizioni di sovraffollamento che erano tipiche del nostro sistema carcerario ma non sono tutte rose e fiori". "I due problemi principali sono legati alla scarsità di personale e al cattivo rapporto con il magistrato di Sorveglianza" - dice Affronte. "Nel carcere di Rimini mancano 34 uomini della polizia penitenziaria rispetto alla pianta organica. Si tratta di un numero considerevole se pensiamo che attualmente lavorano all’interno della struttura 110 persone. Significa che il carcere è sotto organico per un buon quarto. Questa mancanza di personale, ormai cronica, si traduce in una minore sicurezza e in una situazione di maggiore stress per il personale, che è costretto a turni più impegnativi, a lavorare con procedure non regolamentari e a ridurre ferie e permessi. Ma non dimentichiamo" - sottolinea l’Europarlamentare - "che poco personale significa anche una riduzione dei diritti dei detenuti e quindi una situazione di maggior stress anche per la popolazione carceraria." "Per tutti, operatori e ospiti, è poi un problema serio quello del rapporto con il Magistrato di Sorveglianza. Ci è stata denunciata una grande lentezza nel rispondere alle istanze presentate. A volte persino una totale assenza, con completa mancanza di risposte. È chiaro che questo ponga in serio pericolo il rapporto di fiducia che detenuti e personale debbano avere con la magistratura" - denuncia Affronte. "Il carcere è del 1975, e la struttura andrebbe rimodernata. Come vicepresidente della Commissione Sanità ho notato che particolarmente vetuste risultano le strutture dell’infermeria" - dice Sensoli, che denuncia anche un altro problema - "Il Direttore è un direttore part-time, perché intanto è a capo anche del carcere e dell’Opg di Reggio Emilia. Svolgere questo doppio incarico è fisicamente molto faticoso, anche per la distanza fra le due strutture. Ci è stato denunciato che, in situazioni ad esempio di infortunio serio, la sua assenza possa tradursi nel mancato tempestivo trasferimento del detenuto ad un ospedale per i casi più gravi. Queste, oltre a quelle segnalate da Marco, le criticità principali. Ma vogliamo anche spendere una parola positiva per Andromeda, un progetto di reinserimento che consente ai detenuti di svolgere piccole attività lavorative e di gestirsi in una condizione di privazione delle libertà attenuata in attesa dell’uscita. Certo, una volta usciti. però, è necessario che la società sia disposta ad accogliergli senza pregiudizi". Cremona: sopralluogo della Commissione carceri "abbiamo trovato un clima più disteso" Askanews, 19 luglio 2016 Sopralluogo per i componenti della Commissione Speciale Carceri della Regione Lombardia alla Casa Circondariale di Cremona. La visita, dedicata soprattutto ai lavori di manutenzione alla nuova organizzazione del personale e dei detenuti (450 persone in tutto, l’85% dei quali stranieri) ha incassato il commento positivo del presidente della Commissione, Fabio Fanetti (Lista Maroni), che si è detto soddisfatto degli interventi di manutenzione nelle aree più critiche, esprimendo apprezzamento anche per il nuovo assetto organizzativo impostato dalla direttrice, sia per il personale di sorveglianza che per la gestione ordinaria dei detenuti. "Abbiamo riscontrato migliorie strutturali ma anche un clima più disteso all’interno del carcere, e questo si deve in buona parte alla svolta impressa dalla nuova direttrice - ha commentato - Questo si è tradotto, ad esempio, in un calo delle assenze per malattia degli agenti penitenziari". Torino: "Lavori in Corto 2016", giovani registi sulle carceri 12alle12.it, 19 luglio 2016 È al via "Lavori in Corto 2016", concorso rivolto a giovani registi che si interessano al tema delle carceri. È questa la quinta edizione dell’iniziativa, realizzata dal Museo Nazionale del Cinema con l’Associazione Riccardo Braghin. Obiettivo, accendere la riflessione sui diritti e le condizioni di vita in carcere. Il bando riguarda cortometraggi e documentari al massimo di 30 minuti ed è rivolto ad autori under 35 residenti in Italia. Coordinato da Valentina D’Amelio, resterà aperto fino al 30 settembre. "Oltre il muro" è il sottotitolo di questa edizione: in un mondo di frontiere sempre più invalicabili, Lavori in Corto si interroga sul vero significato della libertà. "L’iniziativa - commenta Vittorio Sclaverani, presidente dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema - è un progetto che cresce grazie alla collaborazione dei partner che sostengono il concorso, a partire da Rai Cinema Channel". Fermi contro il terrore, come negli anni 70 di Errico Novi Il Dubbio, 19 luglio 2016 Il ministro Orlando: risposte analoghe a quelle che vinsero la strategia della tensione. Contro il terrorismo serve "la fermezza di quarant’anni fa". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando rompe uno schema e lo fa con uno sguardo al passato. Agli anni in cui "alla strategia della tensione il Paese diede una risposta di grande maturità: quella sfida fu vinta senza sacrificare le garanzie costituzionali dello Stato di diritto". Sembrerebbe un passaggio concettuale inevitabile. E invece il guardasigilli introduce una chiave di lettura sulla posizione del governo italiano che in realtà è nuova e anche simbolicamente "pesante". L’intervento di Orlando arriva non a caso durante la cerimonia di intitolazione a Vittorio Occorsio della Biblioteca della Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. Occorsio, il magistrato ucciso appunto quarant’anni fa dal terrorismo nero, è una delle più immediate immagini dell’Italia che affrontò il terrorismo politico con disponibilità al sacrificio. Alla cerimonia interviene anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella, e con lui, oltre al ministro della Giustizia, il presidente del Senato Pietro Grasso e il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. La coincidenza dell’evento con i tragici fatti di Nizza è, questa sì, un caso. Ma la scelta comunicativa di Orlando non era evidentemente scontata: quel passaggio sulla "fermezza" è la scelta di una figura del governo attenta alla tradizione di sinistra del Pd, e dunque al valore culturale e identitario che il richiamo agli anni di piombo può avere. "I tragici fatti di questi giorni, l’insensatezza delle stragi, con il terribile carico di vittime fra persone del innocenti e in festa, dimostrano purtroppo che non possiamo lasciare che appartengano solo al passato le risorse politiche e morali necessarie per sconfiggere il terrorismo", dice il ministro. È necessario dimostrare, aggiunge, che la fermezza degli anni Settanta "è la stessa che ci accompagna oggi" e che "abbiamo la convinzione e la forza necessarie per nutrirla anche in futuro". La risposta netta contro chi "eccita sentimenti di paura e di odio" è una scelta da governo di centrosinistra che vuol presidiare il campo altrimenti occupato, con la retorica della paura, dalla destra. L’intervento del guardasigilli acquisisce valore proprio in funzione del rapporto con le opposizioni. L’esempio dei grandi partiti popolari, Dc e Pci, che negli anni Settanta usarono lo stesso linguaggio contro il partito armato, sarebbe la chiave per superare il populismo, di destra o grillino che sia. Segnali che arrivano in una giornata in cui il governo riunisce nel vertice di Palazzo Chigi anche i capigruppo di opposizione. Alla riunione decide di non partecipare la Lega, cioè uno dei partiti più inclini a quel linguaggio della paura su immigrati e islam che il discorso di Orlando punta a disinnescare. Nel corso della riunione il ministro dell’Interno Alfano riferisce dell’attività svolta dal Comitato per l’analisi strategica antiterrorismo, delle oltre 250 segnalazioni valutate. L’Italia è un Paese senza rischi specifici "ma resta alta l’attenzione", dice il capo del Viminale. Vigilanza che deve essere attuata sul piano investigativo ma anche in termini di conoscenza scientifica dei fenomeni. Lo conferma l’annuncio, fatto sempre da Alfano, di una "commissione nazionale indipendente, formata da tecnici ed esperti, per studiare il fenomeno della radicalizzazione dell’Islam". E tra gli studi chiesti dal ministro dell’Interno ce ne sarà uno finalizzato a "individuare le iniziative possibili rispetto alla italianizzazione delle moschee". Proprio questo passaggio conferma la visione proposta dal guardasigilli: il governo si muove in una direzione opposta rispetto a quella islamofobica proposta da alcune opposizioni, a cominciare proprio dalla Lega. Che ribadisce il concetto per voce del presidente della Lombardia Roberto Maroni: "Rendere la vita impossibile a chi vuole ammazzarci". Significa il probabile inasprimento della legge regionale sui luoghi di culto: "Faremo così la nostra parte", dice il governatore leghista. Che dimostra ancora una volta la distanza, almeno sul piano comunicativo, tra la destra e il governo. La Nato e il "golpe" turco di Manlio Dinucci Il Manifesto, 19 luglio 2016 Erdogan in fuga che vola sull’Europa alla ricerca di un governo che gli conceda l’asilo politico, i golpisti ormai al potere perché occupano la televisione e i ponti sul Bosforo, Washington e le capitali europee, perfino la Nato, colte di sorpresa dal golpe: queste le prime "notizie" dalla Turchia. Una più falsa dell’altra. Emerge anzitutto il fatto che, pur nella sua tragicità (centinaia di morti e migliaia di arresti), quella in Turchia si presenta come la messinscena di un colpo di stato. I golpisti non cercano di catturare Erdogan, ufficialmente in vacanza sul Mar Egeo, ma gli lasciano tutto il tempo per spostarsi. Occupano simbolicamente la televisione di stato, ma non oscurano le emittenti private filogovernative e Internet, permettendo a Erdogan di usarle per il suo "appello al popolo". Bombardano simbolicamente il parlamento di Ankara, quando è vuoto. Occupano i ponti sul Bosforo non in piena notte, ma in modo plateale la sera quando la città è affollata, mettendosi così in trappola. Non occupano invece le principali arterie, lasciando campo libero alle forze governative. L’azione, pur destinata al fallimento, ha richiesto la preparazione e mobilitazione di migliaia di uomini, mezzi corazzati e aerei. Impossibile che la Nato fosse all’oscuro di ciò che si stava preparando. In Turchia c’è una rete di importanti basi Nato sotto comando Usa, ciascuna dotata di un proprio apparato di intelligence. Nella gigantesca base di Incirlik, da cui opera l’aviazione statunitense e alleata, sono depositate almeno 50 bombe nucleari Usa B-61, destinate ad essere sostituite dalle nuove B61-12. A Izmir c’è il Comando terrestre alleato (Landcom), ossia il comando addetto alla preparazione e al coordinamento di tutte le forze terrestri della Nato, agli ordini del generale Usa Darryl Williams, già comandante dello U.S. Army Africa a Vicenza. Il quartiere generale di Izmir è stato visitato alla fine di giugno dal nuovo Comandante supremo alleato in Europa, il generale Usa Curtis Scaparrotti. Oltre ai comandi e alle basi ufficiali, Usa e Nato hanno in Turchia una rete coperta di comandi e basi costituita per la guerra alla Siria e altre operazioni. Come ha documentato anche un’inchiesta del New York Times, nel quadro di una rete internazionale organizzata dalla Cia, dal 2012 è arrivato nella base aerea turca di Esenboga un flusso incessante di armi, acquistate con miliardi di dollari forniti dall’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo, che sono state fornite attraverso il confine turco ai "ribelli" in Siria e anche all’Isis/Daesh,. Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), migliaia di combattenti islamici sono affluiti nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. È quindi del tutto falsa la "notizia", diffusa in questi giorni, che Washington non gradisce un alleato come Erdogan perché questi sostiene sottobanco l’Isis/Daesh. Ancora non ci sono elementi fondati per capire se c’è, e in quale misura, una incrinatura nei rapporti tra Ankara e Washington e soprattutto quali nei siano i motivi reali. Accusando Fethullah Gulen, residente negli Usa dal 1999 e alleato di Erdogan fino al 2013, di aver ispirato il golpe, e richiedendone l’estradizione, Erdogan gioca al rialzo, per ottenere dagli Usa e dagli alleati europei maggiori contropartite per il "prezioso ruolo" (come l’ha definito Stoltenberg il 16 luglio) della Turchia nella Nato. Intanto Erdogan fa piazza pulita degli oppositori, mentre la Mogherini avverte che, se usa la pena di morte, la Turchia non può entrare nella Ue, poiché ha firmato la Convenzione sui diritti umani. Europa e Usa ora non devono tollerare il cinismo di Erdogan di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 19 luglio 2016 Adesso che ha in pugno il Paese, il presidente è pronto ad osare quello che qualche settimana fa avrebbe esitato a compiere. Quel che vediamo in Turchia è inquietante. Dopo il golpe inventato probabilmente dai circoli vicini al presidente-sultano, come ormai spiegano le evidenze non inquinate dal pregiudizio ideologico, è cominciata una campagna persecutoria del regime contro tutti gli oppositori di Recep Tayyip Erdogan. È come se l’incendio avesse costretto gli avversari a uscire allo scoperto. Erdogan è un duro, con livelli di cinismo e di ferocia inimmaginabili. Ora che ha in pugno il Paese è pronto ad osare quello che qualche settimana fa avrebbe esitato a compiere. Sarà pronto persino a mostrarsi tollerante con i nemici. Il ripristino della pena di morte forse è solo una minaccia, e con la stampa e i social si potrebbe persino immaginare una tregua fredda. Il sultano è capace di tutto. Tuttavia per ora la scure repressiva è spietata: arresti di massa, trasferimenti, licenziamenti, ferie abolite, ci mancano solo i campi di rieducazione. Che cosa fa l’Unione Europea? Come ci comporteremo con il dittatore? La realpolitik della cancelliera tedesca Angela Merkel si era manifestata con la generosa offerta di riprendere in fretta le trattative per l’ingresso di Ankara nella Ue per risolvere il problema-migranti. Ho però un’impressione: non soltanto l’Europa è restia a riaprire il dossier, ma neppure i turchi lo desiderano ardentemente, come invece accadeva anni fa. Con la Turchia, è bene confessarlo, la Ue ha giocato sporco, alzando l’asticella delle condizioni a gara in corso. Scorretta e offensiva, per un Paese orgoglioso e soprattutto nazionalista. Un Paese che, a un certo punto, si è avvitato su se stesso, orgogliosamente: "Se non ci volete, percorreremo altre strade". La nomina di Ahmet Davutoglu a ministro degli esteri e poi a capo del governo, dopo il sacrificio dell’europeista Egemen Bagis (coinvolto in scandali finanziari, chissà quanto veri o presunti) ha segnato la svolta: da zero problemi con tutti i vicini al poco allettante traguardo di problemi con tutti i vicini. Erdogan, amico di Assad, Mubarak e Gheddafi, diventa nemico mortale di Assad, amico di Morsi e nemico di Al Sisi, complice degli estremisti che impedivano una recuperata stabilità alla Libia. Qualche settimana fa, svolta di 180 gradi: via Davutoglu, nomina a primo ministro del fedele Yildirim e cambio radicale in politica estera: pace con Israele e soprattutto con la Russia di Putin dopo l’abbattimento del caccia di Mosca; mano tesa al regime siriano (quindi ad Assad); e infine conferma del legame con gli Usa e con la Nato, impegnandosi a lottare contro il terrorismo, quindi anche contro l’Isis e Al Nusra, gruppi terroristi che la Turchia armava e con cui faceva affari (petrolio di contrabbando). Ankara si ritrova con un presidente più forte, con un’immagine più debole, ma pronta a riprendere il ruolo che il megalomane presidente aveva sminuito. E l’Unione Europea? La concatenazione degli eventi rivela un ampio disegno geostrategico che la Ue, per adesso, può solo osservare. Certo, Bruxelles non può tollerare che un Paese, formalmente ancora candidato al club, continui ed accentui la politica repressiva, minacciando il ripristino della pena di morte, cancellata al processo contro quello che la Turchia riteneva il più pericoloso terrorista al mondo, il capo del Pkk Abdullah Ocalan, che sconta l’ergastolo. L’unico dossier che impone prudenza è sempre quello degli immigrati. Se la situazione in Siria si componesse, almeno parzialmente come gli ultimi mesi hanno dimostrato, la generosità europea con la Turchia, sostenuta per ragioni interne dalla Merkel, si attenuerebbe. Come ha detto il sottosegretario italiano Mario Giro, dei sei miliardi promessi, finora sono stati versati poco meno di 400 milioni di euro. Certo, l’Ue non può accettare che la repressione in Turchia si intensifichi. Deve alzare una voce alta e forte, esattamente come hanno fatto gli Stati Uniti e persino il più grande partito dell’opposizione turca, il Repubblicano del popolo, cioè i laici che si richiamano a Kemal Ataturk, che ne fu il fondatore. La notte di venerdì i primi e i secondi hanno dichiarato subito d’essere con il governo democraticamente eletto dal popolo. Gli Usa per calcolo geostrategico (meglio Erdogan che avventure al buio), il partito turco di opposizione perché forse aveva odorato i subdoli piani del sultano. Dall’Europa, invece, silenzio. Fino alla positiva soluzione della crisi, quando tutto è diventato più facile. L’Occidente, il "sultano" e lo "zar": attenti a quei due di Fulvio Scaglione Avvenire, 19 luglio 2016 "Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta", fa dire la cancelliera Merkel ai suoi portavoce. Per aggiungere di persona che la reintroduzione della pena di morte "significherebbe la fine delle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea". Il dopo-golpe della Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai si contano a migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e magistrati. Ma anche dai moniti e, come si vede dal caso tedesco, anche dalle minacce che arrivano da Occidente. Angela Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento nella Ue. Lo hanno fatto anche Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni. Al coro europeo si è unito il solista d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato John Kerry, hanno addirittura legato "il mantenimento dei più alti standard di rispetto per le istituzioni democratiche e per l’applicazione della legge" alla permanenza della Turchia nella Nato. Tutto questo avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui Erdogan deciderà di varare il nuovo atto del suo regno sulla Turchia: il terzo, quello del potere assoluto, dopo il primo del consenso conquistato con il decollo economico e il secondo dell’avventura imperialista neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela tutto il disagio con cui l’Occidente, e non da oggi, maneggia il caso Turchia. Certo, la gigantesca purga che Erdogan vuole varare, agitando su golpisti veri e presunti la spada della pena capitale, lo porterà ben lontano da ciò che, in termini di applicazione della democrazia e amministrazione della giustizia, si richiede a un Paese dell’Ue. Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto vicina. Negli ultimi anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno regalato ai servizi segreti (nei giorni scorsi il suo vero baluardo) poteri insindacabili, tolto alla magistratura gran parte dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto alla libera espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato fortemente i diritti civili. Non si sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto dei sacri princìpi. Allo stesso modo, nel recente passato né gli Usa né la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo, parla come di una proprietà privata) si preoccupavano degli "alti standard" che ora invocano, nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla benevolenza della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di foreign fighters che attraversavano il suo confine per andare a sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi, allora la Nato degli "alti standard" si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a stendere il proprio velo militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non mille anni fa. Finché la Turchia faceva comodo per intercettare, ben pagata, i profughi che tanto inquietano gli europei o per smembrare la Siria di quell’Assad tanto inviso agli americani e ai loro alleati in Medio Oriente, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile. Oggi sì. Ma oggi forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan da tempo non risponde alle redini dell’Occidente ed è difficile che lo faccia, sia che abbia superato un golpe vero (che comunque non può avere mandanti solo interni alla Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto. Comunque, dopo aver ottenuto un potere quasi assoluto. In questo clamoroso riposizionamento collettivo, c’è un personaggio che bada bene a non farsi notare, ma potrebbe intascare un ottimo dividendo economico e politico: Vladimir Putin. Il signore del Cremlino è stato uno dei primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto golpe e i due si sono promessi di incontrarsi al più presto. La crisi seguita all’abbattimento del caccia russo nel novembre del 2015 aveva mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45 miliardi l’anno e un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore dell’energia. Lo zar e il sultano si erano rappacificati poche settimane fa e rilanciare l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della Turchia, se vorrà proseguire nel duro confronto con l’Europa e gli Usa. Della Russia, che in quel confronto è da tempo impegnata. Meglio non staccare gli occhi da quei due. Turchia: l’Europa resta unita almeno sul "no" al ritorno della pena di morte di Giovanni Maria Del Re Avvenire, 19 luglio 2016 Dura condanna del tentativo di golpe in Turchia, ma anche un chiarissimo messaggio all’autoritario presidente Recep Tayyip Erdogan: non usare il fallito colpo di Stato come scusa per sovvertire la democrazia, con un no netto alla reintroduzione della pena di morte. Un messaggio giunto ieri dai ministri degli Esteri dei Ventotto, in allarme rosso per la situazione in un Paese assolutamente chiave per controllare i flussi migratori ma anche per la lotta al Daesh e la stabilizzazione di Siria e Iraq. Un tema che inevitabilmente ha dominato un Consiglio Affari Esteri che, per la prima volta, ha accolto nel suo seno (alla prima colazione), il segretario di Stato Usa John Kerry. I ministri avrebbero dovuto concentrarsi sulla questione della Brexit con la prima del neo-ministro degli Esteri di Londra Boris Johnson, ma la settimana scorsa, con la strage di Nizza e il fallito golpe in Turchia, hanno stravolto l’agenda. Sul fronte di Nizza, si è registrata la riaffermazione del sostegno dei partner Ue alla Francia, "l’unità è la migliore risposta" ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera Ue Federica Mogherini, che ha presieduto la riunione. Ma a tener banco è stata la preoccupazione per il pugno di ferro di Erdogan. "L’Ue - si legge nelle conclusioni del Consiglio - condanna con forza il tentativo di colpo di Stato", ma "esorta le autorità turche a mostrare moderazione", e "a rispettare a pieno l’ordine costituzionale", perché "è necessario il rispetto della democrazia, dei diritti umani e delle libertà fondamentali". "Certamente - ha detto per parte sua Kerry - sosterremo (la Turchia n.d.r.) nell’assicurare alla giustizia gli autori del golpe, ma vigileremo contro azioni che vadano ben al di là di questo". Allarme rosso ha provocato la questione della pena di morte. La prima a insorgere è stata la Germania: la cancelliera Angela Merkel, in una telefonata a Erdogan, ha avvertito che reintrodurla "non sarebbe in alcun modo compatibile" con il pro- cesso di adesione all’Ue della Turchia. "L’Ue - si legge anche nelle conclusioni del Consiglio di ieri - ricorda che il rifiuto inequivocabile della pena di morte è un elemento essenziale dell’acquis (il corpo giuridico n.d.r.) dell’Ue. "Voglio essere molto chiara - ha detto Mogherini: nessun Paese che reintroduce la pena di morte può essere membro dell’Ue". Erdogan non se ne preoccupa, ieri anzi in un’intervista alla Cnnha rincarato la dose, affermando che approverà la reintroduzione della pena di morte se la misura verrà varata dal Parlamento (da lui controllato), che deve però modificare la Costituzione. Solo poche ore prima Merkel gli aveva chiesto "di rispettare i principi della proporzionalità e dello stato di diritto" definendo "oggetto di grave preoccupazione la recente ondata di arresti e licenziamenti in Turchia", soprattutto di migliaia giudici. L’Europa non fa mistero di aver capito come stanno le cose. "Il fatto che le liste (dei giudici n.d.r.) fossero disponibili subito dopo l’evento - ha detto a chiare lettere il commissario europeo al Vicinato, Johannes Hahn - indica che erano state preparate per essere utilizzate in un momento determinato". "Sembra che Hahn sia lontano dal capire a fondo cosa sta succedendo in Turchia - ha replicato via Twitter il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu - la Turchia non farà mai compromessi su diritti umani, stato di diritto e democrazia". In realtà, però, vari ministri la pensano come Hahn. "Obiettivamente - ha detto il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni - immaginare che in dodici ore si sia appurato che ci sono alcune migliaia di giudici complici del tentativo di colpo di Stato rischia di apparire un po’ stridente con i principi dello stato di diritto". Eppure l’Europa si aggrappa, nonostante tutto, alla speranza che alla fine Erdogan torni a miglior consiglio. "In questo momento - ha detto Mogherini - siamo concentrati nello sforzo di accompagnare la Turchia in un momento difficile, noi continuiamo a considerare Ankara un partner. Per il futuro si vedrà". Se Erdogan continuerà il suo corso sempre meno democratico, sarà impossibile concedere la fine dell’obbligo di visti per i cittadini turchi diretti nell’Ue. Ankara ha già minacciato: se entro ottobre i visti non saranno tolti, salterà l’accordo sui migranti. "Non rinunciamo ai principi dell’Ue - ha detto Gentiloni - solo perché c’è un accordo con la Turchia sui migranti". Se però salta, nessuno sa che cosa succederà. Turchia: la vendetta del comandante e l’assenza delle donne di Dacia Maraini Corriere della Sera, 19 luglio 2016 L’enorme purga voluta da Erdogan è iniziata. Ma nelle foto che mostrano l’umiliazione di soldati e giudici non vi è traccia di figure femminili. Soldati che si coprono la testa con le braccia mentre un uomo, che sembra uscito dall’Inferno di Dante, li picchia con un lungo bastone, giudici che camminano a testa bassa, mentre la folla urla e sputa, ragazzi seminudi dalle mani legate dietro la schiena che aspettano il colpo, corpi accartocciati per terra che vengono frustati senza pietà. L’enorme purga è cominciata. La vendetta sacra si erge a giustiziera. Ma la vendetta può chiamarsi giustizia? È questo che vorremmo chiedere al grande comandante Erdogan. Crede davvero che la vendetta purifichi il Paese, rimetta a posto la sua autorità calpestata, e costituisca un atto nobile di esemplare punizione? Non si rende conto che i suoi metodi assomigliano molto a quelli dell’Isis, che fanno spettacolo di una violenza che si dichiara voluta da un dio feroce e sanguinario ? Un dio che non conosce pietà, non conosce comprensione, non conosce pudore e non ha neanche un poco di rispetto per gli esseri che ha creato? Sta tutto in quel sottile confine la differenza fra storia antica e storia moderna: nell’avere imparato a separare la giustizia dalla vendetta. La vendetta è gratificante, lo sappiamo, la vendetta è dolce, la vendetta fa bene al cuore e al sangue che scorre più rapido nelle vene. Tutti siamo affascinati dalla vendetta: il modo più rapido di rivalersi sull’altro, il modo più bruciante per ricostruire il nostro "onore" offeso. La Bibbia e il Corano offrono la stessa arma a chi si considera tradito e oltraggiato. Ma per l’appunto, sia il Corano che la Bibbia ci raccontano, come in una bellissima epopea, i sentimenti più nobili del momento. Sentimenti che oggi risultano intollerabili, come ci risulta intollerabile la crocifissione, l’impalamento, il rogo, la lapidazione. Non so se possiamo chiamarlo, con presunzione, progresso, ma certo evoluzione sì: le tante troppe guerre fatte in nome di vendette nazionali, l’avere riconosciuto l’insensatezza del razzismo ideologico e religioso, il rifiuto e la condanna della schiavitù, l’avere separato lo Stato dalla Chiesa, l’avere stabilito i diritti dell’uomo, ci hanno portati a un punto in cui la giustizia si è dovuta separare dalla vendetta, e prendere una strada più vicina alla legge, al codice, all’umana presunzione che un colpevole possa avere le sue ragioni, abbia il diritto di difendersi e chiedere giudici imparziali che non sono lì per vendicarsi ma per applicare la legge. E invece sento parlare del ripristino della pena di morte. È questo il suo pensiero, comandante Erdogan? Il suo segreto, sensualissimo desiderio di vendetta? Una cosa che colpisce guardando le fotografie che mettono in evidenza l’umiliazione dei soldati e dei giudici è l’assenza totale di figure femminili. Immagino che la vendetta sia, per il comandante Erdogan, una questione squisitamente maschile, che riguarda chi combatte, chi protesta, chi congiura e chi tradisce. Ma dove sono le donne turche in tutto questo? Io sono stata di recente in Turchia: Ankara e Istanbul sono città moderne, dove le donne studiano, si laureano, lavorano, guidano la macchina, prendono la parola. Possibile che siano state messe tutte a tacere? Non ne ho vista una nella folla che inveiva contro i soldati fedifraghi presi a bastonate, quei giovani figli e fratelli che probabilmente ubbidivano a degli ordini, oppure avevano in mente un progetto di libertà dalla tirannia. C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico in queste punizioni plateali che debbono servire da esempio. Per quanto si condanni il "diabolico mondo moderno" con la sua libertà di critica, la sua libertà sessuale, la sua libertà di religione, quando si tratta di diffondere la propria parola e raccogliere consensi, non ci si fa scrupolo di usare ciò che prima si è disapprovato. Il massimo della spregiudicatezza tecnologica si sposa con il massimo dell’arcaismo storico. Sono proprio le contraddizioni che l’Isis ci propone tutti i giorni quasi fosse una grande conquista. Per chi crede nei diritti dell’essere umano sono forme di schizofrenia storica. Una malattia della fede e della memoria, una peste della ragione. Ma allora, che fare? Mi sembra chiaro che il solo modo di combatterla questa peste consista nel difendere e proteggere e tutelare quelle conquiste che tanto sono costate. Smettere le risse e unirsi contro chi si è innamorato della morte e vuole uccidere la vita. Stati Uniti: da Guantánamo in Italia per "motivi umanitari" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2016 Trasferito uno yemenita, prigioniero dal gennaio del 2002. Il trasferimento in Italia di un prigioniero yemenita rinchiuso dal 2002 nel carcere di Guantánamo viene considerato dalla Farnesina un’azione umanitaria. Il detenuto che nei prossimi giorni verrà trasferito in Italia, si chiama Fayiz Ahmad Yahia Suleiman ed è uno dei tanti prigionieri accusati di terrorismo e reclusi a Guantánamo senza che siano state formulate accuse ufficiali o che vi sia stato un processo. Questo trasferimento si inserisce nel lungo processo di definitivo svuotamento del carcere di Guantánamo voluto da Obama. La decisione del governo italiano non era inattesa: è in linea con la dichiarazione congiunta Ue-Usa del 15 giugno 2009 a sostegno della chiusura del campo di detenzione e con la Dichiarazione della Commissione Europea dell’aprile 2013. Dai cablogrammi "segreti" e reperibili su Wikileaks si ha la possibilità di approfondire meglio e viene spiegato che a cercare di aiutare gli Usa in questa missione è stato, in modo particolare, l’ex ministro degli Esteri del governo Berlusconi, Franco Frattini. Quest’ultimo intavolò un fitto dialogo con la diplomazia Usa, offrendo la possibilità di ricollocare nel nostro Paese alcuni dei prigionieri. Agli americani, Frattini suggerì soluzioni per reintegrare i detenuti, limitandone però la possibilità di viaggiare all’interno delle stesse frontiere europee, un compromesso che permetteva anche di rassicurare politici come Roberto Maroni, completamente ostili all’idea di accogliere i prigionieri di Guantánamo in Italia, come nota la diplomazia Usa, che sottolinea come questa ostilità di Maroni funzioni bene a livello elettorale per la Lega. È dal 2009 che ben 30 Paesi del mondo si sono resi disponibili per ospitare i detenuti di Guantanámo. Ad oggi però ne sono ancora rimasti 76. Tutte persone ristrette senza essere processate. Per questo gli Stati Uniti stanno cercando di convincere le altre nazioni ad accogliere nei loro territori i prigionieri di Guantánamo dal momento che questi ultimi potrebbero non essere accettati dalla popolazione statunitense se venissero trasferiti nelle carceri di massima sicurezza del paese. Il governo sa che il carcere di Guantánamo, tristemente noto per le torture inflitte al suo interno, non potrà mai essere chiuso senza il trasferimento di alcuni prigionieri, misura a cui il Congresso si oppone dal 2010. L’amministrazione di Obama, quindi, per far fronte a questa opposizione sta per adottare una strategia vincente: vuole denunciare l’insostenibilità dei costi di Guantánamo, dove un detenuto costa 2,7 milioni di dollari l’anno contro i 78.000 dollari di un carcere americano di massima sicurezza. Questa denuncia, si spera, porterà al definitivo trasferimento dei reclusi e quindi all’inevitabile chiusura del super carcere. Potrebbe essere l’ultima mossa e sarebbe il maggiore atto di forza del Presidente Usa in questo suo secondo mandato oramai prossimo alla scadenza. Quello di Guantánamo è un caso singolare, perché la struttura sorge in territorio cubano. Nello specifico Guantánamo è una baia in cui sorge una base militare e, all’interno di questa, c’è una angusta struttura carceraria chiamata Camp Delta, ex Camp X Ray. La baia prende il nome dal popolo che vi abitava, i nativi Taìno, e ad essa è dedicata la famosa canzone "Guantanamera". Ma l’allegro motivo musicale non si addice al clima che si respira nella baia, dove dal 2001 si trovano i prigionieri con l’accusa di terrorismo di stampo islamico. La base nacque nel dicembre del 1903, dopo la fine dell’occupazione militare dell’isola di Cuba da parte dell’esercito americano. I cubani avevano, nei fatti, vinto la guerra, ma la diplomazia statunitense ebbe la meglio nella gestione del dopoguerra. Nel gennaio del 1899 era arrivata l’indipendenza cubana, ma con la presidenza di Tomás Estrada Palma, questa era fortemente condizionata dagli Stati Uniti, soprattutto i virtù del famigerato Emendamento Platt, contenuto all’interno del Cuban-American Treaty. L’emendamento prevedeva, tra le altre cose, un controllo sulle tariffe doganali, il divieto per il governo cubano a stipulare trattati internazionali senza l’approvazione statunitense e la concessione agli gli Stati Uniti di basi militari nel territorio cubano. Tra queste c’è, appunto, Guantánamo. La base si estende su un centinaio di chilometri quadrati di costa e dispone di un porto e due piste di atterraggio. Vi sono circa diecimila soldati statunitensi. Oggi, come in passato, la convivenza tra l’elemento locale e la presenza straniera è problematica: sono stati numerosi e ben documentati gli atti provocatori dei soldati statunitensi verso i civili cubani. In relazione al difficile vicinato, venne approvata (con referendum del 24 febbraio 1976) all’interno della Costituzione cubana una parte un cui si affermava che Cuba, come nazione ripudiava qualsiasi trattato, concessione o patto che fosse stato stipulato in condizioni di disuguaglianza o che avesse sminuito la sovranità cubana sul suo territorio. Ma sono questioni venute meno: da ormai più di dieci anni quel che accade nella base navale di Guantánamo Bay è la detenzione illegale, come denunciato dalle associazioni per i diritti umanitari, di centinaia di presunti nemici, spesso pescati tra civili che nulla c’entrano col terrorismo e, soprattutto, il sistematico ricorso a pratiche disumane di detenzione, spesso sconfinate nella tortura.