La giustizia perde colpi, ogni anno mille innocenti dietro le sbarre di Marzia Paolucci Italia Oggi, 18 luglio 2016 Enzo Tortora, Gino Girolimoni: nomi noti che compaiono insieme a tanti altri in un archivio online dedicato agli sbagli giudiziari sulla pelle di esistenze personali e professionali distrutte nella loro reputazione e patrimoni aggrediti e spogliati da spese legali più che impreviste. Ogni anno mille innocenti finiscono in carcere senza colpa, in 24 anni dalla nascita dell’Istituto della riparazione per ingiusta detenzione, oltre 24mila persone sono state risarcite raggiungendo la cifra record di oltre 630 milioni spesi dallo Stato in risarcimenti. Dati allarmanti confermati a Italia Oggi anche dalle Camere penali. In tutto sono 675 le persone ingiustamente detenute, 675 casi di errori giudiziari e potenziali debitori dello Stato perché aventi diritto a essere risarciti per ingiusta detenzione. A tutti loro, due professionisti hanno dedicato un libro prima, "Cento volte ingiustizia - Innocenti in manette, una raccolta di errori giudiziari dal dopoguerra ai giorni nostri", un sito intitolato www.errorigiudiziari.com e ora anche un docu-film, "Non voltarti indietro", la cui notizia campeggia in primo piano sulla homepage del sito. Ma quali sono i valori medi di riferimento per le riparazioni? Risponde a Italia Oggi Beniamino Migliucci, avvocato penalista e presidente delle Camere penali: "La riparazione massima è di 516.456.90 euro ma si tratta di una cifra rara da ottenere. A questo tetto, comunque, la Cassazione si è attenuta, facendo un calcolo matematico che è dato dalla divisione dell’importo massimo per i sei anni di custodia cautelare in carcere: il risultato è di circa 250 euro al giorno. Se invece la custodia cautelare è trascorsa a casa, si arriva tendenzialmente a corrispondere giornalmente un indennizzo di un terzo di 250 euro". A scorrere i titoli di un archivio che va dagli anni 20 a oggi, in più di un caso, si scopre come talvolta l’ordinarietà della vita possa incrociare per abitudini e orari la straordinarietà di un atto criminale e rimanerne segnata per sempre. C’è chi si ritrova in stato di arresto per una perizia sbagliata o per aver offerto un caffè al rapinatore, chi sconta gli arresti domiciliari per un contatto Facebook con il rapinatore da incastrare, ci sono poi gli scambi di persona, le false dichiarazioni dei pentiti e persino chi si ritrova vittima di uno scambio di fattispecie di reato: dal più blando esercizio arbitrario delle proprie ragioni non punibile con il carcere alla tentata estorsione. Ma cosa trasforma un innocente in un accusato? Scambi di persona, errori di indagine e di valutazione delle prove in sede dibattimentale, testimoni inattendibili, se poi a queste tre variabili si sommano anche altri fattori come l’incuria di chi scorda di depositare una sentenza e nel frattempo la persona torna in carcere, ecco che tante situazioni inverosimili si trasformano in amara realtà. Per Migliucci, "occorreva modificare l’istituto della custodia cautelare che dovrebbe essere l’estrema ratio a cui ricorrere, modifica, questa, oggi presente nell’ordinamento grazie alla legge 16 aprile 2015, n. 47 intitolata "Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali" in vigore dall’8 maggio 2015. Altro elemento importante alla luce degli errori giudiziari - rileva il penalista - è l’appello: bisogna far capire all’opinione pubblica come sia giusto difenderlo visto che il 40% delle sentenze di primo grado vengono modificate in appello. L’errore esiste - conclude - e bisogna avere anticorpi e antibiotico per rilevarlo e l’appello ne fa parte. Il carcere crea recidiva ma chi ha una misura alternativa al carcere non delinque più o comunque in misura sensibilmente minore". Riforma del processo: magistrati e avvocati guardino dietro il sipario di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 luglio 2016 A giudicare dalla qualità delle norme che vengono poi approvate, per la verità, il duello tra Anm e Camere Penali sembra un "derby" tra poveri. "Non possiamo imporre di essere ascoltati in audizione, ma ci pare uno sgarbo non essere stati ascoltati, perché chi vive la macchina giudiziaria dall’interno la conosce perfettamente", ha lamentato ieri il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo a proposito dell’iter parlamentare del disegno di legge di riforma del processo penale (per la verità frutto anche di una Commissione ministeriale ampiamente nutrita di magistrati quanto di avvocati e professori), e il segretario Francesco Minisci ha rincarato: "All’Anm non è stato chiesto neanche un parere in forma scritta su una riforma definita epocale, che per alcune norme può paralizzare le Procure". Il bello è che gli avvocati delle Camere Penali storicamente protestano per l’esatto contrario, cioè perché sempre e solo i magistrati verrebbero ascoltati; perché monopolizzerebbero i ministeri negli uffici legislativi e di gabinetto; e perché - con il diplomatico commento del ministro alla recente formazione in seno all’Anm di 14 commissioni permanenti di studio - si sarebbe riconosciuto a un’indebita consultazione obbligatoria con la magistratura associata il potere di veto sulle leggi non gradite. A giudicare dalla qualità delle norme che vengono poi approvate, per la verità, il duello sembra un "derby" tra poveri: che sul palcoscenico si scornano, e invece farebbero meglio a guardare dietro il sipario dove sembrano essere altre "mani" meno visibili a orientare davvero i testi normativi. Nei quali, a volte e per caso, soltanto la forzatura magari di un emendamento a cui slitta la frizione tradisce l’impronta (ben più marcata di quelle di magistrati e avvocati) di qualche associazione imprenditoriale, o di mutevoli staff di "consiglieri" dal gassoso inquadramento governativo, o di compromessi parlamentari al ribasso tra segmenti di partiti seduti a collaterali tavoli politici. Giustizia, che cosa c’è dietro quel sipario di Francesco Petrelli (Segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane) Corriere della Sera, 18 luglio 2016 Luigi Ferrarella formula all’Anm (Associazione nazionale magistrati) e all’Unione delle Camere Penali Italiane un invito a "guardare dietro il sipario" del gran teatro ove si fanno le leggi perché, mentre magistrati ed avvocati inutilmente si azzuffano in una "guerra fra poveri", ben altri poteri decidono sul da farsi. L’Ucpi (Unione Camere Penali Italiane) dietro quel "sipario" ha già guardato da tempo denunciando come, al di là delle apparenze, quelle "altre mani meno visibili" che secondo l’immagine di Ferrarella agirebbero "dietro il sipario", sono le stesse mani di chi mette in scena il "pianto greco" di una presunta emarginazione dalle scelte legislative. Non può negarsi, infatti, che il Csm con i suoi esondanti e onnivori pareri, le Procure con i loro protocolli erga omnes, i magistrati che presidiano i Ministeri, l’Anm stessa con i suoi attacchi alla politica, condizionino direttamente i "fini" e i "mezzi" delle riforme. L’Anm ha sempre svolto un ruolo di primissimo piano nelle Commissioni nelle quali, peraltro, due noti magistrati prestati alla Politica (Ferranti e Casson) hanno formulato altrettanto noti emendamenti in materia di prescrizione. Non può certo dirsi una "guerra" quella dell’Ucpi che, convinta che poi le leggi le deve fare la Politica, ha solo chiesto di recuperare spazio nelle commissioni parlamentari e governative dove la proporzione fra magistrati, avvocati e accademici è sempre di 1 a 100. Non può dirsi una "guerra fra poveri" quella fra Ucpi e Anm se solo si consideri che il sindacato dei magistrati è una associazione che rappresenta di fatto un potere dello Stato che, esercitando in maniera creativa l’interpretazione delle norme, si pone spesso quale organo della legislazione (si veda il concorso esterno e la recente decisione sull’uso del cd. Trojan). Quando leggiamo che Anm, con il plauso del Ministro, ha organizzato oltre una dozzina di commissioni pronte a sfornare progetti di riforma, suggerimenti ready-made ad uso del Legislatore, la preoccupazione di uno squilibrio istituzionale aumenta. Cova, infatti, sotto le poco credibili lamentazioni del Presidente di Anm, una obsoleta idea proprietaria della giustizia, come fosse una cosa che non riguardi la collettività ma solo la magistratura. L’unica competente ad elaborare le alchimie del processo di cui sola conosce i vizi e le virtù e che sappia come raddrizzarla e dove condurla. Purché resti nel suo incontrastato dominio. Dietro il sipario non vi è che questo, e invece, oltre la siepe, solo l’infinito silenzio-assenso della Politica. Anti-tortura: meno chiacchiere, più fatti. Non indebolire una legge attesa da quasi 30 anni di Mario Chiavario Avvenire, 18 luglio 2016 Da quasi trent’anni si aspetta inutilmente che l’Italia introduca nel codice penale la previsione specifica di un reato di tortura, per colpire come si meritano dei fatti, oggi puniti troppo blandamente o addirittura destinati a rimanere impuniti nel contesto delle norme che in altro modo mirano a tutelare l’incolumità, la dignità o la libertà fisica o morale delle persone. Eppure si tratta, non solo di un imperioso dovere morale, ma anche di un preciso obbligo giuridico di carattere internazionale, derivante dalla Convenzione Onu di New York del 1984, ratificata dall’Italia nel 1987 e però lasciata senza il corollario di una legge ad hoc che vi desse compiuta attuazione. In queste settimane sembrava che una legge avente un tale scopo stesse finalmente per tagliare il traguardo conclusivo, ma tutto è tornato in forse per il persistere di forti contrasti tra le forze politiche; e uno dei nodi più controversi investe la stessa definizione legale delle condotte la cui messa in opera sia da considerare concretizzatrice di quel crimine. Tutti (o quasi) d’accordo, sì, sul dar rilievo a "violenze" o "minacce" che provochino "acute sofferenze fisiche o psichiche" in persone giacenti in condizioni di soppressa o ridotta autonomia comportamentale; ma - ecco il punto di discordia - perché si configuri quel delitto occorre altresì che le minacce siano "gravi" e le violenze "reiterate"? Nei vari passaggi parlamentari attraverso i quali il testo è transitato, le soluzioni si sono più volte contrapposte, e il contrasto è clamorosamente riesploso dopo l’ultimo passaggio dalla Camera al Senato. Data la rilevanza etica e civile dell’argomento, dispiace che il caso sia diventato l’occasione per una delle solite polemiche di non altissimo profilo sul modo in cui si fanno e si disfano le maggioranze parlamentari. Possono invece comprendersi le preoccupazioni manifestatesi nell’ambito delle forze dell’ordine, circa il rischio che tra le maglie di una descrizione priva di distinguo s’incuneino interpretazioni e applicazioni viziate da pregiudiziale avversione nei loro confronti, così da trasformare in crimini anche legittimi usi della coercizione contro altrui condotte violente. Però, come si può pretendere che, per aversi tortura, la violenza "di autorità" debba necessariamente esprimersi, sempre uguale a se stessa, in più momenti distinti (perché questo è il senso più naturale della "reiterazione")? Ne verrebbero, al contrario, vistosi margini di indulgenza, anche per vere e proprie ignominie. Si dovrebbe comunque tenere presente il tenore dell’art. 1 della Convenzione di New York, che nel dare la definizione basilare di ciò che deve intendersi per "tortura", fa riferimento a ogni "atto" - al singolare - che provochi le sofferenze di cui si è detto, lasciando, al diritto interno e a quello di ulteriori convenzioni internazionale, spazi per eventuali aggiunte integrative, ma soltanto se volte a reprimere maggiormente gli abusi contro le vittime, non a garantire maggiormente l’impunità a chi le abbia tra le mani. E l’Italia è stata più volte richiamata, dai competenti organismi dell’Onu e del Consiglio d’Europa, non soltanto a rompere la sua inerzia normativa, ma a farlo osservando scrupolosamente, nella legge tanto sollecitata pure in tali sedi, quanto stabilito in quella Convenzione; non senza che, almeno in un’occasione, di fronte a una versione del progetto di legge, che già faceva riferimento alla "reiterazione" delle violenze come condizione di esistenza del reato in questione, si giungesse a bollarla come qualcosa che "restringe(va) in maniera eccessiva la nozione di tortura": così il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del 27 aprile 2006. Non dimentichiamo del resto un altro dato. Se fino a qualche tempo fa l’Italia era sempre sfuggita a condanne per violazione del perentorio divieto di tortura di cui all’art. 3 di un’altra Convenzione europea internazionale (quella europea dei diritti dell’uomo), questo vanto non può più essere esibito, dopo la sentenza della Corte competente che - sulla base, purtroppo, di una documentazione ineccepibile e di una rigorosa argomentazione - ha preso in esame quanto successo alla scuola Diaz in occasione del vertice genovese del G8 del 2001. E, in tale occasione, i giudici di Strasburgo non sono arretrati dalla censura più severa nei confronti del nostro Paese sol perché certe nefandezze furono compiute, con atti diversi e senza soluzioni di continuità, nell’unico contesto locale e temporale di quella tragica notte. Prescrizione e cannabis a rischio stop per i centristi di Carlo Bertini La Stampa, 18 luglio 2016 La giustificazione pratica, spiegata da chi ha in mano l’agenda dei lavori, è che materialmente non c’è tempo: di qui a fine luglio al Senato arriveranno dalla Camera tre decreti da convertire, poi c’è la legge sul bilancio dello stato, da varare per forza perché riforma la legge di stabilità con nuove regole; e infine c’è il disegno di legge sulla concorrenza da convertire, quello che impatta pure sulle tariffe assicurative. Basterebbe questo calendario per dire che la legge sulla prescrizione, se pur messa in calendario per fine luglio, verrà rimandata a data da destinarsi, dopo l’estate e forse ben oltre. Dunque se fosse così non sarebbero ragioni politiche ma solo di calendario a produrre il rinvio obbligato di una legge tanto attesa. Ma uno dei colonnelli renziani, in pieno Transatlantico pochi giorni fa, confermava la motivazione più politica di un rinvio che ancora non è una certezza, ma che il tempo si incaricherà di rendere tale: le sommosse in casa centrista, le minacce di appoggio esterno al governo di un manipolo di senatori producono come prima e forse unica conseguenza quella di far finire in un cassetto, almeno fino al referendum, leggi scomode e controverse: quelle oggetto da mesi di frizioni tra Pd e Ncd, come la prescrizione appunto; e anche forse quelle più difficili da far digerire come la legalizzazione della cannabis, promossa dall’ex radicale Della Vedova, che pure farà il suo esordio in aula alla Camera il 25 luglio. Ma al Senato i più smaliziati dirigenti del gruppo Dem, prevedono con buona dose di realismo che la legge sulla cannabis non approderà facilmente a Palazzo Madama per le troppe tensioni che innescherebbe; così come la norma con una stretta sulla prescrizione poco gradita a Ncd, più volte annunciata, se pur messa in calendario per l’aula a fine mese non avrebbe speranze di esser votata prima del referendum. Sono anche questi gli effetti di una rivolta, subito sedata, dei centristi esasperati e incerti sulla via da seguire: una fibrillazione permanente ormai, che dunque consiglia prudenza nello stilare l’agenda parlamentare e sconsiglia di mettere al fuoco carne che potrebbe risultare troppo indigesta alle sfarinate truppe degli alleati Pd. Associazione Nazionale Magistrati: pronti allo sciopero senza risposte su organici Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2016 "Una giornata di astensione totale entro gennaio 2017". In "mancanza di adeguate risposte" alla "carenza di risorse e di personale in cui versa la giustizia" i magistrati italiani sono "pronti" allo sciopero. La decisione è arrivata ieri dal Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. Una "giornata di astensione totale dalle udienze" che dovrebbe avvenire entro gennaio 2017. I malumori e i propositi della magistratura sono messi nero su bianco proprio dal documento del Cdc: "Il comitato direttivo centrale dell’Anm, in relazione all’intollerabile situazione di carenza di risorse e di personale in cui versa la giustizia, delibera all’unanimità di organizzare per il 1° ottobre 2016 un Cdc straordinario al quale sarà invitata a partecipare una rappresentanza dei capi degli uffici giudiziari del territorio nazionale, al fine di denunciare pubblicamente le gravissime criticità esistenti". Il comitato direttivo centrale dell’Anm "delibera, altresì, di attivare in tempi rapidi un’interlocuzione con tutte le componenti del settore giustizia (personale amministrativo, avvocatura, magistratura onoraria) al fine di elaborare una piattaforma comune di rivendicazioni da sottoporre al ministro della Giustizia nell’ambito di un incontro che sarà appositamente richiesto. In mancanza di risposte adeguate in ordine all’assunzione significativa e strutturale di personale amministrativo e agli altri interventi necessari, l’Associazione nazionale magistrati - chiude il documento - si riserva di indire una giornata di astensione totale dalle udienze entro il mese di gennaio 2017". "Non è tollerabile una carenza di 9.000 unità di personale amministrativo: questo mette a rischio la stessa apertura degli uffici", ha detto ieri il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, che ha poi affrontato anche il nodo della prescrizione: "Non dipende dai magistrati ma dal modo irragionevole con cui è disciplinata e dalla sproporzione tra mezzi a disposizione e obiettivi richiesti". In merito alla mancata audizione in commissione giustizia al Senato sul disegno di legge in materia penale, Davigo ha poi precisato: "Noi non possiamo imporre di essere ascoltati, ma ci pare uno sgarbo che non vogliano ascoltarci, visto che siamo portatori di sicura conoscenza del sistema dove lavoriamo". Droghe: disciplina più favorevole non solo in base al criterio aritmetico di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 8 giugno 2016 n. 23825. In tema di stupefacenti, il principio dell’applicazione della disciplina più favorevole determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, con riferimento al trattamento sanzionatorio relativo ai delitti previsti dall’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, in relazione alle droghe leggere, non impone al giudice di appello o del rinvio di rimodulare la sanzione seguendo un criterio proporzionale di tipo aritmetico correlato alla pena calcolata prima della declaratoria di incostituzionalità. Lo ha chiarito la sezione sesta penale della Cassazione con la sentenza n. 23825 del 2016. Il giudice - prosegue la Corte - può rideterminarla nell’ambito della nuova cornice edittale con il solo limite costituito dal divieto di sovvertire il giudizio di disvalore espresso dal precedente giudice (fattispecie in cui il primo giudice aveva fissato una pena base, indicativa di un non del tutto trascurabile giudizio di disvalore, pari a poco più del minimo all’epoca previsto, e la corte di appello, senza alcuna concreta sovversione del giudizio di disvalore effettuato dal primo giudice, aveva confermato la pena in precedenza inflitta, rispettosa dei nuovi limiti edittali: la Corte ha ritenuto corretta tale decisione e rigettato il ricorso). La corretta applicazione della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti - La Corte di cassazione continua a fornire le indicazioni operative sulla corretta applicazione della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti dopo la nota sentenza n. 32 del 2014 con cui la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale la legge Fini-Giovanardi, ha determinato, per le droghe leggere, il ritorno alla più favorevole previgente normativa contenuta nella legge Vassalli-Iervolino. Infatti, il recupero del previgente articolo 73, comma 4, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309 determina che, per le droghe leggere (tabelle II e IV), devono ora applicarsi le sanzioni della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 a euro 77.468, mentre il trattamento sanzionatorio previsto nel comma 1 dello stesso articolo 73, nel testo introdotto dalla Fini-Giovanardi, prevedeva le più gravi sanzioni della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 a euro 260.000. Ebbene, non è dubbio che coloro che siano stati condannati per fatti relativi a droghe leggere prima dell’intervento della Corte costituzionale, hanno diritto a vedersi applicata, ai sensi dell’articolo 2, comma 4, del Cp, la disciplina anteriore alla legge Fini-Giovanardi, senz’altro più favorevole. Però, il giudice chiamato a determinare la pena (anche a seguito di annullamento con rinvio da parte della Cassazione) non è vincolato nei propri poteri valutativi dall’apprezzamento del primo giudice (ergo, il giudice che, in precedenza, ha applicato la pena più grave prevista dalla disciplina dichiarata incostituzionale), nel senso che non è tenuto a procedere solo a una operazione di ricalcolo matematico e proporzionale della pena. I limiti che deve tenere presenti - L’unico limite che incontra il giudice, a ben vedere, è quello del divieto di reformatio in peius di cui all’articolo 597, comma 3, del Cpp, quanto alla pena complessiva. Ciò significa che il giudice ha certamente l’obbligo di applicare la normativa più favorevole che rivive, per le droghe leggere, dopo la richiamata sentenza della Corte costituzionale e ha anche l’obbligo di rispettare il divieto della reformatio in peius sulla pena in assenza di impugnazione della parte pubblica, da intendersi nel senso di non poter irrogare una pena superiore nel quantum finale a quella irrogata dal primo giudice. La quantificazione della pena - Peraltro, rispettati tali obblighi, il giudice ha una plena cognitio per quanto riguarda la quantificazione della pena, non essendo vincolato dalle determinazioni assunte in proposito dal primo giudice. Ne deriva che legittimamente il giudice di appello, nel rideterminare la pena complessiva in modo più favorevole all’imputato, applicando cioè i limiti edittali previsti dalla disciplina anteriore a quella introdotta dalla legge Fini-Giovanardi, potrebbe legittimamente determinarsi a non applicarli nel minimo, come magari aveva invece fatto il giudice precedente chiamato ad applicare la disciplina poi dichiarata incostituzionale. Tale ricostruzione è desumibile, del resto, dalle indicazioni fornite dalla sentenza delle sezioni Unite 26 febbraio 2015, Jazouli, laddove si è chiarito che compito del giudice, chiamato a rimodulare la pena, a seguito della declaratoria di incostituzionalità, è appunto quello di procedere, secondo le indicazioni di cui agli articoli 132 e 133 del Cp, a una nuova commisurazione della pena che assuma come parametro edittale quello stabilito dalla disciplina oggetto della reviviscenza determinata dalla declaratoria di illegittimità costituzionale. Il Pm può ordinare lo sgombero di un edificio sottoposto a sequestro preventivo di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2016 Il pubblico ministero è titolare del potere di ordinare lo sgombero di un edificio sottoposto a sequestro preventivo, laddove esso costituisca un’ineliminabile modalità di attuazione del sequestro, rappresentando tale ordine un atto di esercizio del potere di determinare le modalità esecutive della misura cautelare, come tale di competenza esclusiva del pubblico ministero. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 21945 del 25 maggio 2016. Sequestro preventivo - In questa prospettiva, peraltro, nel caso di sequestro preventivo disposto esclusivamente ai sensi del comma 2 dell’articolo 321 del Cpp, cioè a fini della futura confisca, lo sgombero non è indispensabile, essendo sufficiente a garantire la fruttuosa attuazione della misura ablativa la trascrizione del provvedimento impositivo del vincolo (da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza con cui il Gip aveva revocato l’ordine di sgombero impartito dal pubblico ministero in occasione dell’esecuzione del sequestro di un immobile oggetto di lottizzazione abusiva motivato con il rilievo che il sequestro era stato disposto al solo fine di garantire la fruttuosità della eventuale confisca, senza invece alcun riferimento anche al pericolo di protrazione o aggravamento delle conseguenze del reato, con la conseguente non indispensabilità dello sgombero disposto dal pubblico ministero, non essendovi pericolo concreto di dispersione o deterioramento dei beni). Il potere del Pm - Il pubblico ministero è pacificamente titolare del potere di ordinare lo sgombero di un edificio sottoposto a sequestro preventivo, laddove esso costituisca una ineliminabile modalità di attuazione del sequestro, rappresentando tale ordine un atto di esercizio del potere di determinare le modalità esecutive della misura cautelare, come tale di competenza esclusiva del pubblico ministero. Avverso tale provvedimento può attivarsi la procedura dell’incidente di esecuzione, nella quale non possono però contestarsi le ragioni stesse del sequestro (sussistenza del fumus delicti e del periculum in mora), in quanto in tal modo verrebbe posta non già una questione relativa al controllo delle modalità di attuazione del sequestro, propria della fase esecutiva, ma invece verrebbe sollevato un problema di rivalutazione della sussistenza dei presupposti di legittimità della misura di coercizione reale, che esula dalla sfera dell’esecuzione e per la cui risoluzione l’ordinamento appresta altri specifici rimedi; in sede esecutiva, piuttosto, è possibile solo censurare il provvedimento con cui il pubblico ministero ha dato esecuzione al sequestro preventivo, o deducendo l’inesistenza del titolo ovvero contestando le modalità dell’esecuzione, con particolare riguardo al profilo della loro indispensabilità ai fini dell’attuazione (sezione III, 13 dicembre 2006, Tortora e altro; nonché, sezione III, 9 ottobre 2013, Pm in proc. Speranza). Proprio in relazione al profilo dell’indispensabilità, risulta evidente la diversità della situazione a seconda che il sequestro preventivo sia stato disposto ai sensi del comma 1 ovvero del comma 2 dell’articolo 321 del Cpp: nel primo caso, lo sgombero è di regola indispensabile proprio per impedire la protrazione della commissione del reato (ciò che, per esempio, in caso di reati edilizi, può verificarsi per evitare l’ulteriore utilizzo a fini abitativi dell’immobile abusivo; mentre, in caso di occupazione abusiva, può verificarsi proprio per far cessare la condizione di illegittimità); nel secondo caso, invece, di regola, per la fruttuosità della confisca è sufficiente la trascrizione del vincolo ex articolo 104 delle disposizioni di attuazione del Cpp. Applicabilità al convivente more uxorio della causa di non punibilità Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2016 Reati e pene - Causa di non punibilità dell’aver agito per la necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore - Applicazione dell’esimente ai prossimi congiunti - Mancata estensione al convivente more uxorio - Discrimen tra convivenza more uxorio e vincolo coniugale - Orientamento ordinamento interno - Giurisprudenza della Corte Costituzionale - Impostazione della Corte EDU. La Corte costituzionale (Corte cost., sentenza n. 140 del 2009), con riferimento all’istituto di cui all’articolo 384 cod. pen. comma 1, ha ribadito che la convivenza more uxorio è fenomeno diverso dal vincolo coniugale. Il secondo ha aggancio costituzionale nella specifica previsione di cui all’articolo 29 Cost., mentre il primo ha rilevanza nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo ex articolo 2 Cost. Tale diversità giustifica che la legge possa riservare ai due istituti trattamenti giuridici non omogenei. Si tratta di impostazioni, tuttavia, non sempre in perfetta linea con quanto ha affermato la giurisprudenza della Corte EDU. Ai rapporti di fatto si ritiene, invero, che l’articolo 8 della Convenzione EDU cit. assicuri tutela piena (sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, ove si annota che la nozione di famiglia accolta dalla citata disposizione non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza). Il principio è stato ribadito (sentenza 13 dicembre 2007, Emonet ed altri contro Svizzera) anche affermando che possano essere indici rivelatori della stabilità del nucleo la durata della convivenza e l’eventuale nascita di figli. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 29 marzo 2016 n. 12742. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Necessità di salvare sè o un prossimo congiunto da un danno grave alla persona - Convivente more uxorio - Applicabilità della scriminante - Sussistenza. La causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 4 agosto 2015 n. 34147. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Applicabilità della scriminante al convivente more uxorio - Esclusione. Non può essere applicata al convivente "more uxorio", resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente "more uxorio". • Corte cassazione, sezione V, sentenza 22 novembre 2010 n. 41139. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità - Convivente "more uxorio" - Applicabilità della causa di non punibilità - Esclusione. Al convivente "more uxorio", che abbia commesso il reato di favoreggiamento personale in favore del convivente, non si applica la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma primo, cod. pen.operante per il coniuge. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 18 maggio 2009 n. 20827. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Casi di non punibilità Convivente "more uxorio" - Applicabilità della scriminante - Esclusione - Prospettata questione di costituzionalità - Manifesta infondatezza. Non può essere applicata al convivente more uxorio resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, primo comma, e 307, ultimo comma, cod. pen.; il che non si pone in contrasto con i principi di cui all’art. 3 della Costituzione, avuto anche riguardo a quanto già affermato dalla Corte costituzionale con le pronunce nn. 124 del 1980, 39 del 1981, 352 del 1989, 8 del 1996, 121 del 2004. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 26 ottobre 2006 n. 35967. La violenza non può essere la risposta alla violenza di Agnese Moro La Stampa, 18 luglio 2016 Sta diventando ormai evidente come la violenza quotidiana sia tornata ad essere uno dei temi cruciali della vita della umanità, compresi i Paesi più ricchi e la nostra vecchia Europa. L’elenco, purtroppo, è lungo e non riguarda solo i tanti tipi di terrorismo (tutti differenti, tutti da indagare e comprendere per poterli smontare) che insanguinano troppi Paesi, con decine e decine di morti di tante nazionalità, lingue e religioni diverse. La violenza è un modo diffuso di rispondere alla rabbia, alla frustrazione, all’impotenza, alle ingiustizie e ai soprusi, alla mancanza di rispetto, alla paura, alla rottura di vecchi privilegi grandi e piccoli, alla crescente limitazione delle risorse reale o indotta che sia, alla insicurezza, alla perdita di status e a tante altre cose che ci rendono deboli e insensibili all’esistenza e alla dignità degli altri. Purtroppo, dicevo, l’elenco è lungo; solo a titolo di esempio: bullismo, violenza contro le donne, contro i bambini; per le partite di calcio; quella della criminalità organizzata e quella della corruzione; quella razziale; quella omofoba; contro i migranti, i diversi; quella agita da persone comuni, o da servitori infedeli delle istituzioni; quella delle truffe, delle rapine; oltre a quella terroristica. La violenza è grave in sé, ed è grave perché ha un effetto moltiplicatore. Uno degli sforzi più belli ed eroici del secolo scorso è stato quello di cercare altre vie, non violente, per rispondere all’oppressione, ai conflitti, alla mancanza di libertà, alla sopraffazione. Tentativi difficili, ma vittoriosi. Pensate a Gandhi, a Martin Luther King, a Mandela. Vittoriosi, ma non per sempre. Se non vengono rinnovati, insegnati alle nuove generazioni, scolpiti dentro di noi, ricercati in ogni nostra azione e testimoniati l’inviolabilità delle persone e della loro dignità torna ad essere un obiettivo lontano, anziché un fatto acquisito. È per questo che trovo tanto importante il lavoro di coloro che cercano di arrivare prima che la violenza diventi l’unica risposta. Penso agli educatori di strada e non che si dedicano a curare lo spirito di tanti giovani feriti; a tante famiglie accoglienti, a insegnanti motivati che credono nella vita e nei loro allievi; a movimenti e associazioni che insegnano ad amare la giustizia. E a tutti coloro che aiutano chi è stato colpito dalla violenza a trovare una vita sana e buona. Veneto: il Provveditore "rispetto per l’islam e nessun allarme per chi lo professa" Il Mattino di Padova, 18 luglio 2016 Prego di rettificare, con la dovuta urgenza, quanto descritto nell’articolo "Due Palazzi, Corsi Anti-Isis per chi lavora in carcere", a motivo del fatto che vengono attribuite dichiarazioni non corrispondenti a quanto dichiarato dalla dottoressa Angela Venezia, nel corso della conferenza stampa tenuta presso l’Università di Padova in data 14 luglio 2016. La dirigente in questione, Direttore dell’Ufficio dei Detenuti e del Trattamento del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, non ha assolutamente affermato che eventuali preoccupazioni di natura penitenziaria possano pervenire da soggetti detenuti che dimostrino simpatia verso il mondo islamico. Si vorrà comprendere, infatti, quanto grande sia la differenza sostanziale tra il professare una fede e/o mostrarvi simpatia, termine quest’ultimo tra l’altro poco comprensibile a fronte di una religione, ed invece essere sostenitori, finanziatori e/o risultare attratti da forme di terrorismo che utilizzano e/o interpretano malamente, ad uso proprio violento, i dettami di una religione abramica. La nostra Costituzione, infatti, tutela ogni forma di espressione religiosa e non discrimina alcuna sensibilità. Il carcere, sia come luogo che come Comunità, non è sottratto da tale imperativo normativo. La ricerca che coinvolgerà l’Università di Padova ed il Provveditorato Regionale Penitenziario del Triveneto, grazie anche alle speciali competenze del professor Renzo Guolo, ha tra le sue finalità, principalmente quella di verificare l’effettiva attuazione di un diritto umano, costituzionalmente garantito, all’interno delle carceri del distretto. Enrico Sbriglia Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto Campania: Osapp; emergenza sicurezza in carcere, appello al ministro Orlando ottopagine.it, 18 luglio 2016 Emergenza sicurezza nelle carceri in Campania, l’Osapp scrive direttamente al Ministro della Giustizia Andrea Orlando. La lettera è a firma del segretario regionale Vincenzo Palmieri. "Diciamo basta al deserto di ascolto e al mare dell’indifferenza che connota l’azione Amministrativa e politica del Ministro Orlando e dei vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rispetto alle enormi difficoltà operative e logistiche che oberano da tempo la Polizia Penitenziaria e ancor di più in seguito all’evoluzione del sistema penitenziario della Campania e non solo, in particolare quello del carcere Arianese che da tempo nonostante i timidi sforzi messi in campo è abbandonato a se stesso e la Polizia Penitenziaria è sola a pagare un duro dazio. Crediamo fermamente che la civiltà della detenzione non si misura con i metraggi ad personam, vero è che il numero dei suicidi di detenuti nelle patrie galere Italiane si è ridotto notevolmente (nel 2016 sono 8 a fronte dei 12 del 2014 e dei 15 del 2013 rilevati nello stesso periodo); ma è anche vero che in questi primi 7 mesi del 2016 la polizia penitenziaria ha salvato in extremis ben 34 detenuti da tentati suicidi e, soprattutto, dal 1 Gennaio 2016 ad oggi sono più di 100 gli agenti penitenziari feriti a seguito di aggressioni da parte di soggetti detenuti e molti gli agenti intossicati a seguito degli incendi appiccati nelle celle o se volete potete pure chiamarle camere di pernottamento. Però, sempre secondo l’Osapp, questi numeri così allarmanti pare non destino alcuna preoccupazione nei vertici politici e dipartimentali. Si era deciso di attivare in tutte le regioni sezioni detentive dove allocare detenuti responsabili di aggressioni e violenze, ma come tante direttive anche questa è rimasta praticamente lettera morta a differenza del penitenziario di Ariano irpino unico contenitore per la misura dell’art. 42 L.354/75. L’Osapp, contesta le mancate promesse, tutti si sperticano a parole ad elogiare gli effettivi meriti della polizia penitenziaria, ci definiscono angeli blu ed eroi civici. Però il nostro Corpo è l’unico costretto a subire le conseguenze di incapacità gestionali riconducibili a precise responsabilità politiche che hanno fatto fallire il sistema e saltare tutti i meccanismi di sicurezza nell’interesse della collettività sia intera che esterna. Si abbia consapevolezza della frustrazione, della stanchezza, della demotivazione, della rabbia dei poliziotti penitenziari in servizio nel carcere di Ariano Irpino, ormai il vaso e colmo e la pazienza esaurita". I fatti: "Giorno 08 luglio 2016 si è perpetrato presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino, l’ennesimo episodio di violenza ed aggressione ai danni del Personale di Polizia Penitenziaria, un detenuto di Nazionalità Italiana, giovane trentacinquenne di origine Napoletana, ristretto presso il nuovo padiglione detentivo a custodia aperta, si è scagliato gratuitamente al momento della consegna della corrispondenza contro l’unico Agente di Polizia Penitenziaria presente sul piano, il quale successivamente è ricorso alle cure sanitarie riportando una prognosi di sette giorni. Da rilevare che, l’utente attore era consueto in tali comportamenti aggressivi, tanto è vero che in tutti gli Istituti Penitenziari della Campania dove era stato precedentemente ristretto è stato trasferito in seguito a condotte aggressive nei confronti del Personale di Polizia Penitenziaria turbando ordine e sicurezza, nonostante la carenza di personale vengono assegnati continuamente in gran numero presso l’Istituto in questione, dove l’area detentiva e organizzata a tre sezioni regime aperto e una a custodia chiusa non sufficiente per ospitare soggetti che dovrebbero essere ristretti in un regime ordinario per l’applicazione della misura della sorveglianza particolare di cui all’art. 14 bis, ovviamente senza escludere i collaboratori di giustizia di prima fascia. L’escalation di aggressione ai danni della Polizia Penitenziaria si è manifestata anche in data 14 luglio nel penitenziario del tricolle, oramai ci stanno decimando, addirittura per ristabilire la calma si è ricorso a caschi e scudi perché dopo aver distrutto una cella, il detenuto lanciava oggetti verso il personale di vigilanza e il personale sanitario chiamato per soccorrerlo a causa ferite che si era procurato, il collega intervenuto è stato visitato in infermeria ed esonerato dal prosieguo del turno per botte subite e inviato al pronto soccorso per le cure del caso. È giunto il momento di fare una seria riflessione e rivedere la riorganizzazione delle sezioni e/o del loro regime, prevedere metà istituto a regime ordinario e l’altra metà a custodia aperta o vigilanza dinamica, filtrando e selezionando i detenuti da destinare al cosiddetto regime aperto, dopo un importante e significativo periodo di osservazione, al fine di evitare che episodi simili possano ripetersi ed aumentare nel tempo, considerato che l’Istituto attualmente non è ancora a pieno regime per lavori in corso, fermi per mancanza fondi, ma vi è la presenza di poco più del 50% della capienza regolamentare prevista rispetto anche in seguito alla cosiddetta sentenza Torreggiani, attualmente ristretti ne sono circa 300 di ogni tipologia. L’organizzazione sindacale, sottolinea Palmieri, una delle maggiori rappresentative del Corpo, avverte una grave e profonda preoccupazione da parte del Personale di Polizia Penitenziaria, che mai come adesso si sente sola ed abbandonata da parte dei superiori Uffici, che nonostante i continui episodi di aggressione al Personale di Polizia, fino ad oggi sembrerebbe distante e disinteressata dalle sorti del sistema e tutto ciò che è in esso, atteso che, non ha mostrato alcun interessamento e vicinanza ai poliziotti penitenziari arianesi per arginare le criticità attraverso azioni concrete come la rivisitazione degli organici con aumento del personale, lo stanziamento di maggior fondi sui capitoli per adeguamenti strumentali, tecnologici, strutturali, manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, caserma, mensa, cucina detenuti, attivazione ascensori nel reparto infermeria poiché situata al 4 piano detentivo, sistemi di video sorveglianza in remoto, reparti detentivi presso strutture ospedaliere per piantonamenti, automezzi, indispensabili per far funzionare il sistema e raggiungere lo scopo finale, obiettivo del mandato istituzionale a cui è chiamata l’Amministrazione Penitenziaria e garantire soprattutto maggiore sicurezza "attualmente compromessa" e serenità al personale che vi opera, perché siamo sempre più convinti che il verificarsi di episodi critici come le aggressioni, i suicidi, autolesionismi, sia la sconfitta di tutti e non solo della Polizia Penitenziaria. Noi dell’Osapp continueremo con ferma intenzione a richiedere immediate iniziative agli organi del Dap, alla Politica e alle istituzioni tutte, per rendere in maggior misura, sicuro il sistema penitenziario arianese e tutto ciò che è in esso, atteso la diversità di soggetti pericolosi ristretti, al fine di rendere più agibile il lavoro delle donne e uomini Polizia Penitenziaria, fin quando persisteranno i gravi rischi per gli operatori in un sistema obsoleto e desueto nella forma e nella sostanza". Firenze: diritti calpestati nelle celle, mobilitarsi per Sollicciano di Giuseppe Matulli (Associazione Pantagruel) Corriere Fiorentino, 18 luglio 2016 Un altro detenuto si è suicidato a Sollicciano. È il secondo in meno di un mese. La frequenza con cui i suicidi si susseguono nel carcere di Firenze toglie importanza alle ragioni specifiche che stanno dietro a ciascuno di questi tragici eventi. La frequenza ci spinge a considerare in termini più generali la condizione carceraria. Non crediamo che si possa archiviare questa considerazione con la solita battuta sul "buonismo sterile", con cui si liquidano, respingendole, le ricorrenti proposte di amnistia e di indulto. Gradualmente l’alibi del "buonismo" ha portato la pubblica opinione a non preoccuparsi del carcere se non per invocarlo per i comportamenti più odiosi magari con l’invito a "buttare la chiave". Sembra anche che non sia più di moda citare la Costituzione (essendo prevalente l’interesse a cambiarla comunque), e meno che mai gli articoli 13 e 27 della Costituzione italiana, che sono più presenti alla "Corte Europea dei Diritti dell’Uomo", che non alla pubblica opinione italiana. È stata infatti quella Corte a condannare due volte l’Italia imponendole provvedimenti per attenuare i "comportamenti contrari al senso di umanità" nelle carceri italiane. Ma i Costituenti non erano "buonisti" e, come dimostrano anche recenti pubblicazioni sia dell’onorevole Manconi, che da tempo si occupa del pianeta carcere, la funzione rieducativa è la sola che possa aumentare i margini di sicurezza della società (e questo sulla base di osservazioni statistiche e dunque scientifiche, e non di opinioni personali o politiche) ma la stessa preoccupazione viene espressa da un dirigente di alto grado della amministrazione penitenziaria, (Piero Buffa, Umanizzare il carcere ed. Laurus, con prefazione dello stesso Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). La pubblica opinione, spesso sollecitata alla paura del diverso (e dunque a maggior ragione del detenuto) è spinta a voltare la testa dall’altra parte rispetto alle violazioni, colpose o dolose, dei diritti umani. E questo atteggiamento trova un sostegno nei media che al massimo si preoccupano del degrado fisico del carcere di Sollicciano e magari delle vicende di corruttela, vere o presunte, attorno alla costruzione dell’enorme immobile, ma raramente si occupa di quanto accade dentro la struttura, delle condizioni funzionali, organizzative e umane di una struttura che dovrebbe rieducare chi ha commesso reati. Se un giornale affrontasse questo problema non sarebbe un modo per esprimere umana pietà alle vittime, che arrivano al suicidio perché vinte dalla disperazione (dunque la morte peggiore), ma nel non voltare la testa dall’altra parte, renderebbe un contributo reale alla sicurezza dei cittadini anche se all’inizio dovrebbe scontare l’impopolarità, in una opinione pubblica che pensa che voltare la testa e invocare il carcere e buttare la chiave sia un atto coerente con la civiltà di una società "sicura". Ma il coraggio della impopolarità prima o poi (talvolta più prima che poi) viene riconosciuto e premiato. Rimini: la Garante dei detenuti "condizioni inaccettabili nella Sezione Vega" di Simona Mulazzani newsrimini.it, 18 luglio 2016 Dopo la nostra intervista di qualche giorno fa la garante Ilaria Pruccoli racconta i suoi primi mesi di lavoro. Torna a sottolineare la latitanza del magistrato di sorveglianza che da un anno e mezzo non visita il carcere, parla della situazione inaccettabile della sezione dove stanno i detenuti transessuale (unica di questo tipo in regione) affermando che, se le cose restassero così, si potrebbe pensare alla sua chiusura. Parla, poi, della possibilità grazie ad una parte di fondi di un mercatino di artigianato realizzato dai detenuti di acquistare zanzariere per le finestre delle celle. Lo scritto di Ilaria Pruccoli - Era marzo 2016 quando sono stata nominata dal consiglio comunale di Rimini, Garante dei diritti delle persone private delle libertà personali del Comune di Rimini. Non ho perso un secondo di tempo, visitando immediatamente la struttura e prendendo subito in carico quanto i detenuti della Casa Circondariale lamentavano, anche attraverso una lettera inviata agli organi locali di stampa. La questione più gravosa che mi è stata subito segnalata dai detenuti definitivi era, e purtroppo lo è ancora, la "latitanza" del Magistrato di Sorveglianza, che non si reca in visita alla Casa Circondariale da circa un anno e mezzo. Non solo, non raramente si assiste ad un ritardo eccessivo o in alcuni casi anche ad una mancata risposta da parte sua verso provvedimenti o richieste da parte dei detenuti. Per fare solo un esempio: è stato attivato insieme ad Enaip un percorso formativo per Panificatore, che dà la possibilità ad otto detenuti di apprendere un mestiere attraverso un corso suddiviso in una parte teorica (lezioni frontali da svolgere in carcere) e una parte pratica consistente un tirocinio retribuito da svolgersi fuori dal carcere. Una bella opportunità per ricominciare dopo aver scontato la pena! Purtroppo però ad oggi (il tirocinio inizierà fra poche settimane) il Magistrato non ha ancora risposto alle istanze di due detenuti sulla possibilità di poter partecipare alla parte di corso pratica. Ci auguriamo che questi detenuti possano avere nel più breve tempo possibile una risposta. Proprio per condividere utili informazioni e per cercare di trovare strumenti importanti al fine di vigilare sull’annosa questione "magistratura di sorveglianza" è nata fin da subito una stretta collaborazione con il Garante Regionale Desi Bruno. L’ultimo incontro risale a qualche giorno fa, in vista anche della sospensione delle attività da parte delle Camere Penali di tutta la Regione (il 13 e 14 luglio) per protestare contro le difficoltà riscontrate da parte degli avvocati verso la Magistratura di Sorveglianza. Le carenze strutturali tutt’ora persistono nella struttura ma vi è stato un evidente miglioramento soprattutto per quanto riguarda le sezioni che hanno concluso la ristrutturazione. Le criticità rimangono significative e allarmanti però nella sezione 6, Vega (unica sezione penitenziaria dedicata ai transessuali in Emilia Romagna) che presenta insufficiente illuminazione dovuta a finestre piccole, mancanza di un adeguato sistema di riscaldamento e umidità alle pareti. Inoltre le persone qui recluse hanno momenti scarsi di socializzazione in cui possono condividere insieme agli alti detenuti, le attività organizzate all’interno del carcere. Se le cose persistessero in questo modo, credo non sarebbe peregrina l’ipotesi di arrivare alla chiusura di quella sezione. Certo, le condizioni attuali sono inaccettabili. Una delle insufficienze di ordine strutturale più volte segnalata da parte dei detenuti è l’inesistenza di zanzariere nelle celle delle sezioni. Data la mancanza di fondi pubblici necessari a rispondere a questo bisogno dell’Istituto, grazie anche alla stretta collaborazione con il Direttore, il personale penitenziario e gli educatori, si è riusciti a trovare una soluzione: una parte del ricavato di prodotti artigianali realizzati da un gruppo di detenuti durante i laboratori organizzati dall’Associazione Madonna della Carità, è stato utilizzato per l’acquisto di zanzariere. Anche Papillon, associazione da sempre vicina ai detenuti, ha deciso di contribuire a realizzare questo progetto. Ringrazio vivamente l’azienda "Druma" e la ferramenta Donati di Rimini per la fornitura di materiale. Da parte mia, c’è la consapevolezza che molto altro rimane da fare per migliorare le condizioni di vita dei detenuti a Rimini e continuerò a lavorare in questa direzione, forte degli obiettivi raggiunti finora. Ruolo fondamentale nel raggiungimento di obiettivi comuni lo hanno tutti i volontari e tutti gli operatori esterni al carcere che attraverso gli enti di formazione, la scuola e le associazioni di volontariato sono impegnate all’interno del carcere e vi dedicano ore, giorni, mesi della loro vita per creare insieme ai detenuti percorso educativi, formativi, socializzanti e perché no, anche divertenti. È parte integrante del progetto educativo che sta dietro ogni detenuto e dietro il lavoro di ogni educatore dell’Istituto e che ha un ruolo fondamentale nella rieducazione, nella possibilità di cambiare vita oltre le sbarre. È anche grazie alla sensibilità mostrata dal Comune di Rimini che mette fondi a disposizione per il carcere, che queste attività possono svolgersi. Il mio ringraziamento più sentito va a tutte quelle persone della società civile che hanno deciso di dedicare parte della loro vita ad aiutare quelli che spesso vengono considerati "gli ultimi". Ivrea (To): posti di lavoro per i detenuti con due progetti sociali quotidianocanavese.it, 18 luglio 2016 Sono state presentate martedì 12 luglio due iniziative che hanno la finalità di facilitare l’inclusione socio lavorativa di persone che stanno scontando una pena. Il primo progetto "Liberi di Lavorare", finanziato dalla Fondazione CRT, vede la partecipazione della Fondazione Ruffini in qualità di soggetto capofila, oltre ad un ampio partenariato comprendente anche il Comune di Ivrea e prevede di realizzare un’attività di inserimento lavorativo per soggetti in esecuzione penale o che abbiano finito di scontare una pena da non oltre sei mesi. Il secondo progetto è realizzato, invece, dal Comune di Ivrea con un contributo regionale, con l’avvio di un cantiere di lavoro: due persone ancora detenute vengono impiegate in lavori di cura e manutenzione di aree pubbliche. Progetto "Liberi di lavorare" - Le persone detenute al momento della scarcerazione sono esposte a un forte rischio di esclusione sociale: nella maggior parte dei casi infatti, una volta liberi, non solo non hanno un’occupazione, ma non sanno nemmeno muoversi in modo autonomo per reperirne una. Spesso non hanno un posto in cui abitare e necessitano di aiuto, ma non conoscono i servizi a disposizione. Sono in sostanza disorientati e spesso soli. Queste condizioni fanno sì che, al momento della scarcerazione, i detenuti siano esposti ad un forte rischio di esclusione sociale e di recidiva: non sapendo come mantenersi e non potendo contare sull’aiuto di nessuno, vedono come unica alternativa il commettere nuovi reati. La ricerca evidenzia come il lavoro abbia una funzione rilevante nella costruzione dei percorsi sociali d’inclusione e di prevenzione della recidiva: il lavoro permette all’ex detenuto sia di costruire nuovi legami interpersonali, sia di potersi mantenere in modo lecito. Ente finanziatore: Fondazione CRT. Partner: Città di Ivrea, Casa Circondariale di Ivrea, Ciss 38, In.Re.Te., Asl To4, Ufficio di Esecuzione Penale Esterna. Durata del progetto: 12 mesi (aprile 2016 - aprile 2017). Beneficiari. Sei persone aventi uno dei seguenti requisiti: essere in prossimità di scarcerazione, usufruire di misure alternative alla carcerazione, aver terminato la pena da non oltre 6 mesi. Cantiere di lavoro - L’inserimento di lavoratori in cantieri non costituisce rapporto di lavoro ed è integrato da interventi di politica attiva finalizzate a favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti. L’individuazione delle persone è a cura dell’Amministrazione Penitenziaria, dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, in raccordo con gli Enti ospitanti, il Ser.D. e i Consorzi socio assistenziali. I lavoratori possono svolgere attività forestale e vivaistica, di rimboschimento, di sistemazione montana e costruzione di opere di pubblica utilità. I progetti possono avere una durata da due a dodici mesi. Per coloro che partecipano all’iniziativa è previsto un sostegno al reddito. L’indennità giornaliera, i servizi al lavoro e i costi per la sicurezza sono a carico della Città Metropolitana, che riceve le risorse dalla Regione. Il trattamento previdenziale, assistenziale ed assicurativo dei lavoratori inseriti nei cantieri di lavoro è invece a carico degli Enti utilizzatori. Il Comune di Ivrea ha presentato un progetto che prevede l’inserimento di due persone per 6 mesi (130 giornate lavorative) a tempo pieno. Il Comune di Borgiallo ha invece presentato un progetto di cantiere intercomunale che prevede l’inserimento di 4 persone a tempo parziale per un anno (260 giornate lavorative). I due progetti sono stati entrambi finanziati e sono attualmente in essere. Avellino: bimbi in carcere con le madri, Bellizzi caso irrisolto avellinotoday.it, 18 luglio 2016 Un appello esteso a tutte le istituzioni locali, affinché qualcosa cambi davvero. Troppi appelli, troppe promesse. Tutto è restato inalterato. La visita della Uil ha confermato il lento e inesorabile degrado della struttura del carcere di Bellizzi ad Avellino. Sovraffollamento di detenuti e carenza di agenti. Non c’è da stare allegri. Questa mattina erano presenti 458 detenuti ( 433 uomini - 25 donne, 428 adulti e 30 giovani adulti) in una struttura che ne potrebbe contenere al massimo 308. I detenuti in attesa del primo grado di giudizio sono 65, 242 i detenuti con sentenze definitive, 151 i detenuti in attesa di sentenza definitiva. I detenuti stranieri sono 64 (60 uomini e 4 donne). Ma il dato che colpisce maggiormente è la presenza di cinque piccoli reclusi con meno di tre anni. Un appello di risolvere la questione ma che resta inascoltato da tutte le Istituzioni che dovrebbero intervenire. Eugenio Sarno subito dopo la visita nel carcere avellinese ha annunciato: "Tra gli innumerevoli impegni disattesi dal Governo e dal parlamento - continua Sarno - c’è anche la mancata legiferazione in materia di bimbi detenuti. Gli sguardi di quei cinque angioletti chiusi nel nido di Bellizzi hanno rappresentato delle vere stilettate al cuore. Ho sentito l’umiliazione della coscienza e la rabbia di essere inerme di fronte a tale inciviltà. Faccio un appello ai politici perché questa barbarie dei bimbi in carcere abbia immediatamente a cessare. Un Paese non può considerarsi civile se costringe i bambini ad una ingiusta detenzione. Mi appello - continua Sarno - con fervore agli amministratori di Avellino: al sindaco, al presidente della Provincia, al vescovo, alle associazioni di volontariato perché possano individuare con l’amministrazione penitenziaria una soluzione che liberi quegli innocenti dall’affronto delle sbarre. Le norme consentono di delocalizzare in ambienti esterni, sebbene protetti, le mamme detenute. Già a Milano è stato sperimentato con successo una iniziativa per la quale un appartamento messo a disposizione dagli Enti è stato trasformato in locale di detenzione per alcune mamme detenute. Auspico che ciò possa avvenire anche per la mia città. Sarebbe bello che in questi giorni di festa ci si possa ricordare anche di questa sofferenza imposta". Un quadro nerissimo. "Visitare un qualsiasi istituto penitenziario della Penisola - dichiara Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari -, rappresenta di per se una vera sofferenza per le degradanti e incivili condizioni di detenzione e per le infamanti condizioni di lavoro. Visitare un carcere che ospita sezioni per mamme-detenute, con annessi nidi, è poi uno strazio". Lanciano (Ch): protesta del Sappe "in carcere troppi detenuti, poca Polizia penitenziaria" Il Centro, 18 luglio 2016 Sovraffollamento dei detenuti, carenza d’organico, accorpamento posti e mancato rispetto livelli minimi di sicurezza. Ancora: automezzi Ntp (nucleo traduzioni e piantonamenti) inadeguati, servizio mensa scadente e mancato rispetto degli accordi sindacali. È crisi nel carcere di Villa Stanazzo e a denunciare la situazione e a promettere interventi drastici se la situazione non dovesse migliorare è il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. Il problema del sovraffollamento è noto a Lanciano, ma ora si rischia di tornare ad avere tre detenuti in ogni stanza; una situazione invivibile. "La segreteria generale Sappe ha denunciato più volte il sovraffollamento, ma non si è fatto alcunchè per risolverlo e anzi sono aumentate le aggressioni al personale", sottolinea Piero Di Campli, responsabile locale Sappe. "Abbiamo abbondantemente superato i posti disponibili ma evidentemente Provveditorato e Dipartimento hanno numeri diversi visto che continuano ad assegnare detenuti al circuito media sicurezza di questo carcere". Più detenuti e meno personale di polizia. "Mancano 25 unità", sottolinea Di Campli, "quindi chi c’è ha ferie drasticamente ridotte e fa ore e ore di straordinario. Ormai l’accorpamento dei posti di servizio è consuetudine così come lavorare ben al di sotto dei livelli minimi di sicurezza e questo istituto ospita detenuti ad alta pericolosità". Ma i guai non sono finiti. I mezzi Ntp sono obsoleti, non manutenuti e malfunzionanti e la mensa è scadente. "All’indomani dell’astensione per 5 giorni per mancanza apparecchiature refrigeranti", chiude Di Campli, "ci troviamo di fronte ad una fornitura di carne avvenuta il 12 luglio scaduta il giorno prima senza che nessuno se ne sia preoccupato". L’Europa alla prova sulla sicurezza comune di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 18 luglio 2016 Bisogna costituire un corpo di polizia di frontiera e varare norme per "ritirare dal mercato", trattandoli come criminali di guerra, i combattenti jihadisti di ritorno (anche i nostri Stati liberali hanno il diritto/dovere di proteggersi). C’è da regolare il rapporto con le comunità musulmane. Prima della disgregazione di Siria, Iraq e Libia, prima dello Stato Islamico, prima che i "crociati" europei finissero nel mirino del terrorismo jihadista, prima che cominciasse la mattanza (ma anche prima - va ricordato - che una grande potenza, la Russia, mangiandosi la Crimea, dichiarasse morto il principio, fondamento della pace in Europa, dell’inviolabilità dei confini statali), insomma ancora pochi anni fa, soltanto qualche raro cultore di storia e di politica internazionale poteva immaginare come sarebbe andata a finire: le sorti dell’Unione non si sarebbero decise sul governo della moneta, l’Unione bancaria, le politiche fiscali, ma sulle questioni della vita e della morte, sulla capacità o meno dell’Europa di dare una efficace risposta collettiva sulla sicurezza. Primum vivere, deinde philosophari. Se non si sopravvive, il resto non ha importanza. Sfortunatamente, finita la lunga pace, storicamente anomala, che abbiamo conosciuto dopo il 1945, siamo tornati alla "normalità". E la normalità consiste nel fatto che è sulla sicurezza (e solo sulla sicurezza), sulla capacità o meno di contrastare la violenza, che si decidono le sorti delle aggregazioni politiche, già esistenti o in cantiere. È sempre stato così. Solo un abbaglio collettivo ha fatto credere, per lungo tempo, che, nel caso dell’Europa, le cose sarebbero andate diversamente, che sarebbe bastata l’integrazione economica per generare l’unità politica. Poiché i vecchi riflessi sono duri a morire, ancora pochi giorni fa (prima della carneficina di Nizza) si discuteva di Brexit in termini quasi esclusivamente economici. Ma le conseguenze di Brexit sono gravi, prima di tutto, sul piano geopolitico: l’Unione perde la sua principale potenza militare, si allarga il fossato con gli Stati Uniti, si rafforza la capacità di condizionamento degli Stati europei da parte della Russia. Nello stesso momento in cui, direttamente coordinati, o comunque sempre ispirati, dall’estremismo mediorientale, jihadisti europei prendono le armi contro gli altri europei. Basta guardare in faccia Juncker e gli altri responsabili delle istituzioni europee (Merkel è ancora, da questo punto di vista, un enigma) per capire che non sono questi i Churchill che servirebbero ora all’Europa. D’altra parte, sarebbe anche ingiusto pretenderlo. Vengono da un passato confortevole e pacifico. Sono stati politicamente allevati in un’altra stagione. Non appartengono al futuro. E sono inadatti al presente. Qualche azzeccagarbugli potrebbe dire che, a norma dei trattati, le istituzioni europee possono fare poco. Ma nelle situazioni di emergenza i trattati vanno forzati. Sono le norme che devono essere adattate alla vita e non il contrario. Il problema, nella sua drammaticità, è semplice: o l’Unione riesce a dimostrare agli europei che è in grado di agire collettivamente per innalzare i livelli di sicurezza oppure i topi scapperanno dalla barca che affonda; i cittadini cercheranno (illudendosi) nei vecchi Stati una risposta ai problemi della sicurezza, ascolteranno le sirene degli antieuropeisti che dicono che la salvezza consiste nel rinserrarsi dentro i confini nazionali. O l’Unione riuscirà rapidamente a trasformare la sicurezza in un "bene pubblico" (in quanto tale indivisibile) oppure chiuderà i battenti. Che la sicurezza non sia, in Europa, un bene pubblico indivisibile, tale per cui le minacce a un membro dell’Unione siano avvertite da tutti gli altri come una minaccia all’Unione nel suo insieme, è provato da tante cose: ad esempio, dalla insofferenza con cui gli europei-occidentali trattano la paura, storicamente giustificata, che ispira la Russia agli europei dell’Est (la collaborazione con la Russia è necessaria ma senza ignorare quelle legittime paure). È provata, ancora, dall’ostilità di quegli stessi Paesi dell’Est (e non solo) per la ricerca di soluzioni condivise sull’immigrazione. O dalle opposte posizioni odierne di Francia e Italia sulla questione libica. O anche dalla solidarietà solo di facciata di molti europei per una Francia aggredita molto più di altri (fino a ora) dal terrorismo islamico. Il problema della sicurezza europea ha due facce. La prima riguarda il modo in cui evolverà la situazione là dove l’infezione è nata, il Grande Medio Oriente, il mondo islamico (dove il terremoto turco ha appena reso ancora più confusi e imprevedibili i giochi). Ma su questo c’è poco che gli europei possano fare almeno finché non saranno chiare le scelte della prossima amministrazione americana: siamo appesi alle decisioni che prenderanno a breve gli elettori statunitensi. Ma c’è una seconda faccia della questione sicurezza su cui l’Europa può prendere decisioni autonome. C’è da costituire un corpo europeo di polizia di frontiera. C’è da varare norme comuni per "ritirare dal mercato" trattandoli come criminali di guerra, i combattenti jihadisti di ritorno in Europa (anche i nostri Stati liberali hanno il diritto/dovere di proteggersi). C’è poi il problema di regolare, con decisioni collettive europee, il rapporto fra l’Europa e le comunità musulmane. La loro solidarietà, dopo ogni attentato, non serve. Dobbiamo imporre loro, come Unione, una quotidiana azione pedagogica contro il jihadismo e la denuncia di coloro che appaiano in odore di radicalizzazione jihadista. Di sicuro, ne conoscono parecchi. Certo, c’è poi la questione del fondamentalismo, l’ambiente culturale che genera i mostri. Ma qui le norme servono a poco. Servirebbe di più legittimare e aiutare le minoranze musulmane liberali in conflitto con il fondamentalismo, anziché raccontarsi la bugia secondo cui anche i fondamentalisti, purché non prendano le armi, sarebbero dei "moderati". L’Unione e il suo Stato-guida, la Germania, potrebbero ancora una volta scegliere l’inerzia. Fino alla prossima strage e oltre. Dando agli europei altre dimostrazioni di inutilità. Non è necessario, per contro, gettare il cuore oltre l’ostacolo, immaginare un impossibile "Stato federale". Basterebbe una confederazione flessibile, rispettosa delle autonomie nazionali, ma che sapesse trasformare, almeno in parte, la sicurezza europea in un bene indivisibile. L’onda dei migranti investe i Comuni: "sono troppi, non ce la facciamo più" di Roberto Giovannini La Stampa, 18 luglio 2016 Dal governatore del Veneto (Lega) alla sindaca di Alessandria (Pd) il grido d’allarme: "Ora basta: senza risorse il fenomeno è diventato ingovernabile". La situazione, a leggere le prese di posizione di molti politici locali, sembra fuori controllo. Da Alessandria a Gorizia, da Fiuggi a Fiumicino, da Messina alla Val d’Aosta, da Ventimiglia a Treviso si lancia l’allarme per l’arrivo di immigrati, rifugiati e richiedenti asilo. Di ieri è il "grido di dolore" del governatore leghista del Veneto Luca Zaia, secondo cui con 10.576 immigrati sul territorio della regione, "il punto di rottura è stato raggiunto: abbiamo dato con i 514mila stranieri regolari che il Veneto ha accolto negli anni e con questi 10.576 immigrati ospitati, due terzi dei quali in realtà sono finti profughi. Ora basta". Sulla stessa linea c’è la sindaca di Alessandria, Rita Rossa (Pd) che al ministro Alfano che gli spediva 92 migranti in più ha scritto che i nuovi arrivi "pongono la nostra comunità in una situazione di grande disagio, perché ci troviamo impossibilitati a gestire una situazione che è divenuta ingovernabile". Protesta duramente con il prefetto al Sud il sindaco di San Marzano sul Sarno (Salerno), Cosimo Annunziata, che usa toni e parole simili a quelle adoperate dal sindaco di Magenta (Milano) Marco Invernizzi. Sintetizza tutti Piero Fassino, ex sindaco di Torino: "Finora - ha detto - in Italia l’immigrazione è stata governata tutto sommato bene, ma in termini di numeri stiamo arrivando al superamento della soglia che è governabile. Se non lo vediamo per tempo, questo problema rischia di travolgerci". Un futuro incerto - Una tesi molto preoccupata, condivisa anche da autorevoli esponenti delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Che temono il combinato disposto dell’aumento degli sbarchi sulle coste italiane, del blocco delle frontiere terrestri del nostro Paese voluto dai nostri vicini settentrionali, e della crescita delle tensioni generate dall’arrivo di migliaia di migranti. Tutti gli addetti ai lavori confermano che per un rifugiato attraversare la frontiera è diventato molto più difficile. Per ora però - nonostante sia stata chiusa la via di accesso attraverso la Turchia e i Balcani - dal punto di vista numerico gli sbarchi non sono molto aumentati. Ma intanto dopo lo scontro sul caso Regeni risultano riprese le partenze di barconi dalle coste egiziane, ed è aumentata la percentuale di profughi di nazionalità irachena, siriana e afghana che cercano di passare via mare. Numeri sostenibili - Insomma, il modello italiano di accoglienza diffusa è davvero condannato a franare sotto il peso della "pressione insostenibile" delle nuove ondate di migranti? Può darsi, dicono gli esperti: ma perché è un sistema che non funziona, e non per un afflusso esagerato di profughi e rifugiati. L’Italia ha meno stranieri rispetto ad altri paesi (l’8,3% dei residenti, contro il 9,3 della Germania e il 9,6% della Spagna); gli sbarchi sono assestati più o meno ai livelli del 2015 (erano stati 79.618 al 15 luglio 2015, ora siamo a 79.533). Il numero dei rifugiati gestiti dal sistema di accoglienza, pur se aumentati rispetto al 2015, è decisamente modesto per un Paese di 60 milioni di abitanti: in tutto sono 135.785 persone, poco più di due ogni mille residenti. Meno della media europea, cinque o sei volte meno di Paesi come Austria o Svezia, dove ci sono 11 o 15 rifugiati ogni 1000 abitanti. Non siamo nemmeno particolarmente generosi con la concessione dello status di rifugiato: nel 2015 ci sono state 83.200 richieste, ne sono state accolte 29.630. Sprar ed emergenza - Un sistema di accoglienza che nel nostro Paese è spaccato a metà: da una parte il nuovo "Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati", lo Sprar, nato con la riforma del 2015. Dall’altra il sistema di emergenza gestito dai prefetti: strutture "temporanee" ma eterne, e centri di prima accoglienza. Nel primo caso i Comuni - sono 800 ad aver aderito volontariamente - sanno sempre chi arriva e dove viene collocato, e forniscono servizi per l’integrazione di discreta qualità che aiutano l’inserimento dei rifugiati. Nel secondo caso la procedura è straordinaria: i prefetti, se necessario, possono liberamente inviare rifugiati in una città senza chiedere il permesso, la qualità del servizio è scarsa, le strutture sono gestite da privati o coop che si limitano spesso a fornire solo alloggio e vitto. E arricchendosi, come abbiamo visto con la vicenda di "Mafia Capitale". Come spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di Solidarietà di Trieste e uno degli "inventori" dello Sprar, il modello italiano di integrazione "in realtà non esiste". "Non c’è programmazione né coordinamento - afferma - e così si arriva a una distribuzione delle persone in accoglienza del tutto ineguale: da una parte ce ne sono troppi rispetto alle possibilità, in altri posti praticamente non ce ne sono. Il risultato è il caos". Basti pensare che il sistema Sprar oggi ospita solo 20.347 rifugiati; le strutture "temporanee" e di "prima accoglienza" (considerati a volte dei lager, o nella migliore delle ipotesi fucine di noia e rabbia) ben 113.622. E anche lo Sprar, peraltro, sta entrando in sofferenza: l’ultimo bando ha visto adesioni insufficienti da parte dei Comuni. E, unici in Europa, restiamo senza misure per l’inclusione sociale delle persone a cui è riconosciuto il diritto di asilo. Appena arriva lo status cessa l’accoglienza, spiegano gli operatori sociali; e puoi finire subito in mezzo alla strada. Serve programmazione - Come uscirne, come ripartire sul territorio i rifugiati nel modo più razionale? Per Schiavone la strada da percorrere è l’estensione del sistema Sprar, cui tutti i Comuni devono obbligatoriamente aderire ricevendo in cambio risorse e incentivi, "per poter gestire le presenze sul territorio in modo intelligente ed equo. Questo - spiega - è il metodo per fare vera inclusione sociale, smontare le paure dei cittadini e gestire bene il problema, con cui dovremo confrontarci a lungo in futuro". Dello stesso avviso è Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia per immigrazione e asilo: "Va esteso Sprar - afferma - e ridotto il sistema "straordinario". E da subito occorre un monitoraggio serio e indipendente del funzionamento dei centri d’accoglienza che ricevono soldi pubblici, a volte come sappiamo fornendo servizi pessimi". Il piano del Ministero dell’Interno: 3 migranti ogni mille abitanti di Grazia Longo La Stampa, 18 luglio 2016 Dopo le proteste dei sindaci Alfano studia una redistribuzione dell’accoglienza. Ai Comuni che aderiranno 50 centesimi per ospite e sblocco delle assunzioni. Una distribuzione più equilibrata dei migranti e richiedenti asilo, con una media di due o tre per ogni mille abitanti, via libera a nuove assunzioni comunali, più soldi nelle casse degli Enti locali e meno nelle tasche degli extracomunitari. Eccolo il piano del ministro dell’Interno Angelino Alfano, d’intesa con i Comuni, per affrontare l’emergenza immigrazione. Un progetto ancora in via di definizione per quanto riguarda i dettagli, ma già strutturato per risolvere questioni importanti che hanno finora scatenato malumori e polemiche tra sindaci e governatori di qualsiasi colore politico. Nonostante la percentuale di stranieri in Italia sia inferiore a quella nel resto d’Europa: 8,3% contro il 9,3% della Germania o il 9,6% della Spagna. I punti chiave del piano Alfano hanno l’obiettivo di migliorare la gestione e l’integrazione di profughi e migranti - che al momento sono quasi 136 mila - ma anche quello di sostenere i Comuni che li accolgono. Anche attraverso un allentamento del Patto di Stabilità. Lo scopo è quello di favorire una maggiore adesione alla programmazione dello Sprar, il "Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati" in vigore esclusivamente su base volontaria. Ripartizione sul territorio - Più di un sindaco ha sollevato la questione: alcune città sono più caricate di altre per l’elevato numero di immigrati da ospitare. Tanto da spingere il presidente Anci ed ex primo cittadino di Torino Piero Fassino a ribadire che "finora l’immigrazione è stata governata bene, ma i numeri stanno superando la soglia governabile. Se non lo vediamo per tempo questo problema rischia di travolgerci". Ma il nuovo piano fissa dei paletti insormontabili: non più di due o tre persone ogni mille residenti. Alfano, in collaborazione con l’Anci, cercherà dei correttivi per le grandi città. In modo da attenuare i numeri delle metropoli e puntare sui piccoli centri più desertificati. Su quei piccoli centri che tra l’altro avrebbero maggiori opportunità nell’indotto occupazionale e sarebbero comunque tutelati dai vincoli della media numerica di presenze di profughi da rispettare. Nuove assunzioni - I Comuni che aderiranno allo Sprar (attualmente sono 800) saranno premiati con la deroga al divieto di assunzioni. Potranno cioè procedere a reclutare nuovo personale (cittadini italiani) da impiegare nei progetti di assistenza e integrazione dei migranti e richiedenti asilo. In questo modo si potrà attribuire maggiore consistenza al sistema pubblico. L’incentivo prevede una revisione della Legge di Stabilità e costituisce uno degli aspetti più determinanti, seppur spinosi, del prospetto al vaglio del ministro Alfano e dell’Anci. 50 centesimi a migrante - Tra gli altri incentivi di carattere economico per le casse comunali c’è la possibilità di foraggiare con 50 centesimi a migrante a titolo di spese generali. La quota verrà detratta dai 2,50 euro attualmente previsti quotidianamente per le spese spicciole - il cosiddetto pocket money o argent de poche - dei profughi. Finora ai Comuni che partecipano allo Sprar non vengono elargite somme per spese generali a fondo perduto, ma solo quelle relative alle spese sostenute per il progetto di accoglienza di strutture ad hoc o appartamenti. E che devono essere rendicontate e documentate minuziosamente proprio a garanzia del rispetto della legge (giusto per evitare casi di malaffare come Mafia Capitale). Stop all’emergenza - La fotografia del fenomeno accoglienza fissa solo al 15% la quota di migranti gestiti dallo Sprar. Il resto è di competenza dei prefetti che intervengono in emergenza e senza chiedere permesso inviando i profughi ai Comuni i quali provvedono - quando è possibile - a sistemarli in pensioni e hotel. Per ogni migrante all’hotel spettano 35 euro da cui vanno decurtati i 2,50 euro del pocket money. Ma con il piano che Alfano sta mettendo a punto con l’Anci, le città che sposeranno il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati verranno esonerate dall’obbligo di ubbidire alle gare d’emergenza dei prefetti. Norvegia: il carcere senza sbarre di Fabio Beretta interris.it, 18 luglio 2016 Elevato numero di decessi e suicidi, mancanza di opportunità di lavoro e formazione, persone con problemi di consumo (o abuso) di droghe e sostanze stupefacenti, problemi igienici e sanitari, disagi psichici, discriminazione razziale. È questo il ritratto delle carceri italiane. Un quadro al quale, purtroppo, siamo ormai abituati. Così come non ci fanno più effetto le proteste di chi denuncia una situazione al limite della civiltà, come il rapporto dell’associazione Antigone. Dietro le sbarre viene violata non solo la dignità umana, ma anche la Costituzione italiana, che all’articolo 27 afferma: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Un obiettivo non ancora raggiunto in diverse nazioni del Vecchio Continente. Forse è per questo che in molti hanno sorriso quando nel 2010, il vice ministro della giustizia norvegese disse che la punizione di un detenuto consiste nell’essere in carcere e non nel perdere i suoi diritti di cittadino. Nel Paese dei fiordi questo intento etico è divenuto una realtà concreta, applicata ogni giorno nelle strutture penitenziarie esistenti e seguita alla lettera nella progettazione di quelle nuove. Nel carcere di massima sicurezza di Halden non ci sono sbarre. Agli occhi di chi lo osserva da fuori potrebbe sembrare un campus universitario o un ospedale. Non ci sono guardie armate a pattugliare il perimetro della struttura. Tutt’attorno immense distese di betulle. Sullo sfondo, i fiordi. Nessun detenuto ha mai cercato di fuggire. Ciascuno di loro ha una stanza privata con televisione a schermo piatto, una doccia, un frigo e mobili in legno. A differenza di quello che accade nelle carceri italiane, i prigionieri trascorrono la maggior parte della giornata fuori dalla loro cella giocando a baseball, allenandosi sulle pareti da arrampicata. Vivono in comunità, si prendono cura dell’ambiente tagliando la legna necessaria ad alimentare le caldaie, coltivano orti e allevano animali. Tra di loro non ci sono solo piccoli criminali, ma anche killer, stupratori e rapinatori. La durata massima delle sentenze in Norvegia, anche per gli omicidi, è di 21 anni. Quindi, le prigioni cercano di preparare i detenuti al ritorno nella società e per questo ricreano un ambiente simile a quello delle città. Halden, ribattezzata come "la prigione più umana del mondo", è costata oltre 187 milioni di euro. Per ogni singolo prigioniero norvegese, lo Stato spende circa 80 mila euro all’anno: il triplo rispetto agli Usa. Non solo. Il sistema giudiziario, identificato con la massima "meglio fuori che dentro", evita di incarcerare i cittadini. A finire in carcere sono circa 75 persone ogni 100 mila abitanti. Quasi un decimo rispetto ai 707 che si registrano negli Stati Uniti, o i 103,8 in Italia. La grande sorpresa è che il sistema nordico sembra funzionare: nel Paese scandinavo c’è un tasso di recidività del 20 per cento, uno tra i più bassi al mondo. Tutto il contrario di quello che accade nella civilissima America, dove il 75 per cento dei detenuti vengono arrestati nuovamente dopo la scarcerazione. L’Italia non se la passa meglio. Nel Bel Paese, infatti, la percentuale di recidiva media è del 68,45 per cento. "Se trattiamo le persone come fossero animali quando sono in prigione, è probabile che si comportino come animali. Per questo qui cerchiamo di trattare i detenuti come esseri umani", ha riferito Arne Nilsen, ex direttore di una prigione norvegese, in un’intervista al The Guardian. Quando i detenuti vengono scarcerati, lo Stato interviene facendo in modo che riescano a trovare un lavoro e una casa. Inoltre, per evitare che la povertà e la disoccupazione li inducano a tornare a frequentare i circoli viziosi della criminalità, a tutti gli ex galeotti sono garantite le cure pubbliche e una pensione minima. "La vera giustizia è rispettare i prigionieri: in questo modo insegniamo loro a rispettare gli altri - prosegue Nilsen -. Ma continuiamo a tenerli d’occhio. È importante che quando siano scarcerati siano meno propensi a commettere altri crimini. Così si crea una società più giusta". Ovviamente, non mancano le critiche a questo sistema, soprattutto per il fatto che sembra attirare criminali stranieri, spinti a "emigrare" nei fiordi visto il trattamento di lusso dei suoi penitenziari. Ma ciò non accade. Merito anche, dicono alcuni esperti, delle alte spese per il welfare stanziate ogni anno. In aggiunta a ciò, la mancanza quasi totale di sensazionalismo dei mass media nel riportare i crimini più efferati aiuta a diffondere quel senso di tolleranza necessario per gestire un sistema di questo tipo. Tutto l’esatto contrario di quello che accade in Italia, dove se si pensa alle carceri vengono in mente i reati di mafia e quelli legati all’immigrazione. Secondo il Time gli investimenti nella rieducazione dei carcerati producono esternalità positive, valutabili anche in un risparmio monetario sul lungo periodo. Per fare un esempio, le guardie carcerarie, in Norvegia, godono di uno status elevato e si guadagnano il rispetto dei detenuti non con le armi e la violenza, ma chiamandoli per nome, mangiando con loro e facendosi coinvolgere nelle loro attività ricreative. Dopotutto, ne era convinto anche Fedor Dostoevskij: "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni". Turchia: arrestati seimila militari, sale la tensione tra Turchia e Usa di Giulia Cimpanelli e Salvatore Frequente Corriere della Sera, 18 luglio 2016 "Gli arresti potrebbero raddoppiare", assicura il governo. Arrestato anche il capo della base militare di Incirlik e ordinato l’arresto anche per i 2.745 giudici. Con il passare delle ore sale la tensione anche tra Turchia e Stati Uniti mentre il governo di Erdogan prosegue quella che lo stesso presidente turco ha definito "pulizia del virus all’interno di tutte le istituzioni dello Stato". La Turchia continua a rivendicare con forza agli Usa l’estradizione del leader islamico moderato Fethullah Gulen, che viene ritenuto il regista del tentato golpe. Ma il segretario di Stato americano, John Kerry, sottolineando che nessuna richiesta ufficiale è arrivata agli Stati Uniti, replica in maniera secca: "È irresponsabile accusare un coinvolgimento americano". Nuovi scontri tra le forze di sicurezza turche e i sostenitori del golpe per resistere a un tentativo di arresto si sono tenuti al secondo aeroporto di Istanbul, Sabiha Gokcen, nella parte asiatica della città e in una base dell’aviazione nel centro del Paese. Secondo una fonte ufficiale, le forze speciali della polizia hanno sparato colpi di avvertimento vicino allo scalo e i golpisti non hanno risposto al fuoco. Arrestati quasi 3.000 giudici e capo base militare - Ad aumentare la tensione le continue operazioni di polizia che al, momento, hanno portato all’arresto di almeno 6.000 militari. Un numero che "crescerà e potrebbe anche raddoppiare", ha sottolineato il ministro della giustizia, Bekir Bozdag. Tra gli arrestati vi è anche il capo della base militare di Incirlik, il generale Bakir Ercan Van, accusato di complicità nel tentato golpe in Turchia. Si tratta della base militare utilizzata anche dagli Stati Uniti per le incursioni anti-Isis in Iraq e Siria. Tra l’altro, proprio domenica, gli Usa hanno ripreso i raid dalla base turca che erano stati sospesi venerdì notte a causa della chiusura dello spazio aereo sull’area, decisa dalle autorità turche dopo il fallito golpe. Poco dopo l’annuncio dei 6.000 arresti è stato comunicato l’ordine d’arresto anche per 2.745 giudici: gli stessi che sabato erano stati rimossi dal loro incarico perché ritenuti fedeli a Gulen. Mandato d’arresto anche per il colonnello Ali Yazici consigliere militare personale dello stesso presidente Recep Tayyip Erdogan: secondo le accuse, come riporta l’agenzia statale Anadolu, il colonnello Yazici avrebbe tradito Erdogan la notte del tentato colpo di Stato confermato ai golpisti che il presidente si trovava quella sera nella località costiera egea di Marmaris, favorendo così anche il sequestro del suo segretario generale, Fatih Kasirga, poco dopo la fuga del presidente. E mentre il presidente Turco annuncia di proseguire nell’attività dei "pulizia" durante i funerali delle vittime la folla presente ha risposto intonando slogan come "Fethullah la pagherà" e "vogliamo la pena di morte". Tensione con gli Usa: "Ridateci Gulen" - "Invito il presidente degli Stati Uniti a consegnarci Fethullah Gulen perché implicato nel tentativo di golpe", aveva detto venerdì notte Erdogan. "Stati Uniti, dovete estradare questa persona", ha aggiunto. Gulen, che vive in Pennsylvania, ha negato di essere coinvolto nel tentativo di golpe. "Sto chiedendo all’America e al presidente Obama di estradare o consegnarci questa persona che vive su 400 acri di terreno in Pennsylvania", ha affermato Erdogan senza ma citare il nome di Gulen, "Vi ho detto che è coinvolto nell’organizzazione di colpi di Stato ma non sono stato ascoltato. Ora ancora dopo il golpe vi chiedo ancora di darci questo uomo". Ma il segretario di Stato americano, John Kerry aveva confermato che gli Usa assisteranno la Turchia nell’inchiesta sul fallito golpe ma ha chiesto ad Ankara di fornire prove concrete sul coinvolgimento di Gulen. Erdogan: "Usare pena di morte" - Durante i funerali delle vittime, il presidente Erdogan ha detto che la Turchia non dovrebbe attendere nell’usare la pena capitale dopo il fallito colpo di stato, perché "non possiamo ignorare questa richiesta" dei cittadini. Un’ipotesi che sarà discussa con l’opposizione in Parlamento. La Turchia aveva abolito la pena capitale nel 2004, per adeguarsi ai criteri di adesione all’Unione europea. Gli F-16 golpisti che avevano davanti l’aereo del presidente - Intanto la Reuters aggiunge nuovi elementi che amplificano i tanti dubbi sul "minigolpe" durato solo quattro ore. Secondo una fonte militare informata sui fatti due F-16 dei golpisti avrebbero agganciato in volo, in pieno colpo di stato, il jet del presidente turco Erdogan che aveva da poco lasciato Marmaris diretto a Istanbul. "Stranamente" i due F-16 non hanno né aperto il fuoco né dirottato l’aereo del presidente costringendolo ad atterrare in un aeroporto da loro controllato: ma avrebbero lasciato serenamente proseguire il velivolo senza alcun intervento. Un fatto che, se confermato, solleverebbe altri dubbi. La telefonata tra Erdogan e Putin - In questo clima di tensione arriva la notizia che Erdogan e Putin, nel corso di una telefonata, hanno deciso di incontrarsi personalmente tra una settimana. "Mosca desidera una Turchia stabile - ha detto Putin -. Atti di violenza come quelli di sabato notte sono del tutto inaccettabili nella vita di uno Stato". Il capo del Cremlino ha augurato a Erdogan il "veloce ripristino di un robusto ordine costituzionale e della stabilità". Inoltre, Putin ha detto all’omologo di Ankara di sperare che i turisti russi siano protetti dalle conseguenze del fallito golpe. Il colloquio telefonico è avvenuto su richiesta russa. Gli otto golpisti in Grecia - Compariranno domenica o lunedì davanti a un giudice greco gli otto militari golpisti fuggiti in elicottero e atterrati sabato mattina all’aeroporto greco di Alexandroupolis. Il giudice ne esaminerà la richiesta di asilo con una procedura accelerata. Sabato, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusosglu, si era detto convinto di una rapida estradizione dei golpisti, dopo averne parlato con il suo omologo greco Nikos Kotzias. È intanto rientrato in Turchia l’elicottero militare turco Blackhawck con cui i golpisti erano fuggiti. Turchia: il concetto di democrazia e i capogiri della "realpolitik" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 luglio 2016 Il regime di Erdogan è forse legittimo perché per difenderlo sono scese in strada migliaia di persone? Se così fosse, non si capirebbe perché le coalizioni internazionali siano andate a rovesciare dittatori che all’inizio erano sostenuti dalle loro popolazioni. Da Londra la Brexit fa la domanda e, in assenza di risposte, dalla Turchia la ripropone l’apparente tentato golpe. Sembrano, e ovviamente sono, eventi diversissimi tra loro. Accomunati, però, dal marcare un’estate 2016 che passerà alla storia come quella che ha messo in tensione, fin quasi a strapparlo in qualche punto, il tessuto del concetto di democrazia. Con il referendum inglese vinto da 17,4 milioni di fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea contro 16,1 milioni di contrari, i destini di un intero continente e gli interessi di 508 milioni di cittadini dell’Unione Europea sono stati stravolti dalla scelta di una ultra-minoranza nella Ue, nel contempo però maggioranza relativa di una libera consultazione diretta convocata dal premier del proprio Paese e risoltasi sul filo del 51,9 contro il 48,1 per cento. E il margine risicato, l’abbuffata di bugie e dati falsi che (specie sull’immigrazione) hanno alimentato la campagna referendaria, il quasi-pentimento del giorno dopo, e in precedenza la sensazione (e a volte l’esplicita dichiarazione) di un voto non consapevole sul merito ma ritorsivo in chiave di politica interna, sono stati tali da ridare persino un qualche fiato alle teorie che vorrebbero "pesare" i distillati diritti di voto dei supposti "saggi", anziché "contare" i diritti universali di voto degli asseriti "ignoranti". Ora arriva il tentato golpe turco. Di un regime che non ha certo cominciato adesso a fare piazza pulita degli oppositori politici, a chiudere i giornali sgraditi, a buttare in galera avvocati e giornalisti, e che con l’occasione o il pretesto di un tentato golpe militare arresta un giudice costituzionale, incarcera 53 magistrati e ne rimuove altri 2.745, solitamente nessuna Cancelleria occidentale saluterebbe "il ripristino delle istituzioni democratiche". E invece è quello che succede al regime di Erdogan. Dipende forse dal fatto che lo si ritenga legittimo in quanto frutto di votazioni (relativamente) libere e regolari? Se fosse questo il criterio, allora non soltanto ci sarebbe da camminare sulle uova nel giudicare ad esempio in gli atteggiamenti verso gli interventi militari in Egitto nell’altalena Mubarak-Morsi-Al Sisi dal 2011 a oggi; ma bisognerebbe spiegare perché nel 1992 furono salutati con favore i militari che in Algeria cancellarono con un sanguinoso colpo di Stato il successo del Fronte Islamico di Salvezza che aveva appena vinto le elezioni amministrative e il primo turno di quelle politiche, strappo che poi per anni ha gettato benzina sul fuoco del terrorismo di matrice estremista islamica. Senza contare che l’esclusivo parametro della legittimità elettorale finirebbe con il definire ed esaurire una democrazia soltanto nel suo momento genetico nelle urne, e non anche nel successivo rispetto delle regole (poste a presidio delle minoranze) da parte delle maggioranze uscite dal voto: quasi che la democrazia fosse solo un lancio di dadi non truccati sul tavolo verde delle elezioni, e poi però lasciasse ai vincitori mano libera sulla sorte successiva dei birilli collocati su quel tavolo da un (più o meno) regolare voto. Il regime di Erdogan è invece forse legittimo perché per difenderlo venerdì notte si sono mobilitati i muezzin dalle moschee, e in strada sono scese migliaia di persone? Se questo fosse il criterio, allora non si capirebbe perché le coalizioni internazionali siano andate a militarmente rovesciare dittatori, come Saddam in Iraq e Gheddafi in Libia, che all’inizio delle loro parabole, e in parte ancora persino al crepuscolo dei bombardamenti dei loro Paesi, godevano del sostegno esplicito di consistenti settori delle loro popolazioni. Più sincero suona l’argomento della "realpolitik": la Turchia è dopo gli Stati Uniti il secondo più importante esercito della Nato, è (al netto di tutte le sue ambiguità con lo Stato Islamico) un bastione della guerra al terrorismo, da una base turca partono per la Siria i bombardieri dell’alleanza; e dando ad Ankara sei miliardi di euro, l’Europa ha appena concluso un accordo (che grida vendetta per quanto straccia il diritto internazionale sui profughi) volto a fermare la partenza dei migranti verso la Grecia e a tenerne parcheggiati nei campi turchi due milioni e settecentomila. La "realpolitik" è un argomento che può anche avere una sua (per quanto spregiudicata) dignità. A condizione che non lo si condisca con la retorica del "rispetto delle istituzioni democratiche", per giunta magari nel medesimo momento in cui dopo ogni strage terroristica si leva l’altro coro retorico: quello secondo il quale l’Occidente dovrebbe con maggiore decisione riconoscere la ragione per cui é odiato dagli jihadisti, e quindi difendere con i denti i valori delle proprie democrazie presi d’assalto dai camion rivolti contro i passanti, dagli aerei lanciati contro i grattacieli, dalle bombe messe sui treni e nelle metropolitane. Ma se facciamo fatica a "crederci" per davvero noi, perché mai dovrebbero "crederci" i terroristi? Stati Uniti: dal disagio sociale agli omicidi, così è nata la guerra agli agenti di Flavio Pompetti Il Messaggero, 18 luglio 2016 La guerra è iniziata alle cinque di mattina del quattro dicembre 1969 a Chicago, quando la polizia in borghese fece irruzione nell’abitazione del 21enne leader delle Pantere Nere Fred Hampton e lo freddò nel corso della perquisizione in cerca di armi illegittime. Quattro giorni dopo le teste di cuoio della polizia di Los Angeles fecero irruzione nella sede nazionale delle Black Panters e ferirono in una sparatoria tre degli attivisti del gruppo. Nel corso dei dodici mesi successivi il conto delle vittime salì a 28 per i militanti neri, e a 15 per le forze dell’ordine, prima che il programma di repressione Cointelpro (Counter Intelligence Program) ordinato dal capo della Fbi smantellasse l’organizzazione tra arresti e pressione investigativa. La violenza tra neri e il corpo di polizia di quegli anni faceva parte di un movimento di sommossa che ha attraversato tutti i paesi occidentali, dall’America all’Europa con diverse connotazioni etniche e sociali, e che ha avuto sviluppi ed esiti paralleli in ognuno dei teatri insurrezionali. La radicalizzazione della deriva razziale negli Usa è venuta invece solo a metà degli anni 80 con l’avvento della "guerra alla droga" dichiarata da Ronald e Nancy Reagan. Plotoni di agenti assunti in fretta e poco addestrati sono stati inviati in aree sempre più lontane da quelle di provenienza, nell’occhio del ciclone di comunità dominate dalla presenza di crack e della calibro 9. Il loro compito non era quello di capire dove si trovavano, ma di reprimere. E la repressione ha dato i suoi frutti. In un decennio il numero di detenuti per traffico e uso di droga è passato da 44.000 a 500.000. Gli ultimi venticinque anni di guerra alla droga, prima della liberalizzazione degli ultimi anni, hanno sottratto dalle strade, dai quartieri e dalle famiglie di colore, un milione e mezzo di padri di famiglia, figli, fratelli. Il fenomeno ha avuto conseguenze enormi sulla formazione mentale dei poliziotti. Molti si sono abituati a equiparare i neri americani alla figura del criminale, altri hanno addirittura contribuito a rafforzare questa identità. Un’inchiesta presso il dipartimento di Chicago tre anni fa ha mostrato che in alcuni ghetti i poliziotti erano ormai abituati a provocare i ragazzi di colore fino dalla più tenera età, addirittura ad istigarli a commettere piccoli reati. L’importante era riuscire a schedarli da piccoli, in modo da poterli ricattare e trasformarli in collaboratori, o anticiparne le mosse se avessero deciso di arruolarsi nella mono-economia imperante del crimine. Fuori dalle grandi città questa oppressione sistematica è stata operata dalle pattuglie che controllano il traffico. Abbiamo scoperto negli ultimi giorni che Philando Castile, l’uomo ucciso in macchina a fianco della fidanzata che lo riprendeva con il telefonino, aveva alle spalle 52 controlli stradali e 6.500 dollari accumulati in multe. Il poliziotto che gli ha sparato lo aveva fermato per una lampadina dello stop guasta. In ogni periferia americana il numero dei controlli su automobilisti di colore è tre-quattro volte superiore a quello dei bianchi, così come nelle città l’abitudine allo "stop and frisk" (fermo e perquisizione immediato in strada), dove è ancora legittimo, colpisce con proporzione esponenziale i cittadini neri. L’11 di settembre del 2001 non ha aggiunto un ulteriore peso sul piatto di questa giustizia disuguale, ma indirettamente ne ha aggravato i termini. Tolleranza zero, sospetto e maggiori poteri di controllo, hanno inciso in modo più profondo tra la comunità più debole e già soggetta a discriminazione. La sfiducia si è radicata, e la tensione è salita di tono. Il resto del paese se ne è reso conto solo quattro anni fa con le proteste per la morte del 17enne Trayvon Martin, abbattuto dalla pistola del vigilante George Zimmerman, e poi con la valanga di video che la stessa comunità di colore ha iniziato a filmare e a trasmettere sistematicamente ad ogni incontro con la polizia. Il quadro che ne sta venendo fuori è desolante e le misure di correzione sono già state prese da molti distretti americani. Ma il pregiudizio è profondo da entrambe le parti e la soluzione, ammesso che possa essere disgiunta da una parallela riappacificazione razziale nel resto della società americana, richiederà tempi lunghi. Intanto l’anno scorso in tempi di alta tensione ma di relativa pacificazione nazionale, una vittima su quattro delle pistole della polizia è un giovane uomo di colore. Nell’anagrafe del paese questo gruppo conta appena uno su 15 cittadini.