Anche l’Europa ci richiama sul 41bis: è trattamento disumano di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 16 luglio 2016 È da almeno vent’anni che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) esamina lo speciale regime detentivo del 41-bis, muovendo raccomandazioni allo Stato italiano a seguito delle gravi violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti riscontrate nel corso delle visite ispettive più volte condotte in queste particolari sezioni carcerarie del nostro Paese. L’isolamento, interno al carcere e con l’esterno, protratto a lungo nel tempo, espone il detenuto ad una sofferenza tale da aver indotto il Cpt a chiedere che il legittimo interesse sociale a combattere la criminalità organizzata sia bilanciato con il rispetto dei diritti umani, con l’umanità di un trattamento che preveda il contatto umano anche per chi finisce in questo regime. Lo Stato italiano, di contro, ha ulteriormente inasprito le restrizioni, incurante del fatto che queste, cumulativamente, possano costituire un trattamento inumano e degradante. Per il Cpt, l’argomento avanzato dalle autorità italiane, quello per cui le ulteriori restrizioni introdotte nel 2009 sono necessarie per contrastare con maggior efficacia il fenomeno della criminalità organizzata così migliorando la protezione della società, è poco convincente. Si può infatti mantenere lo stesso livello di sicurezza indipendentemente dal fatto che detenuti in 41-bis possano "socializzare" per due, quattro o più ore al giorno. Il Cpt è quindi andato dritto al cuore del problema quando ha detto che, "stando così le cose, si può ritenere che l’obiettivo di fondo sia piuttosto quello di utilizzare le ulteriori restrizioni come strumento per aumentare la pressione sui prigionieri in questione, al fine di indurli a collaborare con la giustizia". Nel 2012, come nel 2008 e nel 2004 si è evidenziato che il regime di detenzione del 41-bis, come mezzo di pressione psicologica volto ad ottenere una collaborazione con la giustizia, lo può porre in conflitto con l’articolo 27 della Costituzione Italiana e gli strumenti internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte. Ed anche la richiesta del Cpt che la particolare afflittività del 41-bis sia limitata nel tempo, si è imbattuta nella prassi delle proroghe pressoché automatiche, con la conseguente negazione del concetto di trattamento penitenziario, fattore essenziale nella riabilitazione. Il permanere nel nostro ordinamento di questo regime, per come è venuto configurandosi in concreto nel caso emblematico di Bernardo Provenzano, è tanto intollerabile quanto lo è il permanere dell’assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento. Uno Stato che resta sordo, cieco e muto rispetto a quelli che sono i suoi stessi impegni nei confronti della Comunità internazionale e agli appelli degli organismi internazionali, rischia di perdere la forza necessaria a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata, perché ogni emergenza si combatte con un’estensione dello Stato di Diritto e di certo non con la sua abdicazione. *Rappresentante italiana al Comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d’Europa Reato di tortura: uno Stato non autoritario deve agire nella legalità di Giovanni Flora (Membro Giunta Unione Camere Penali) Il Dubbio, 16 luglio 2016 Le preoccupazioni sulla "paventata" introduzione del delitto di tortura, da un lato non hanno alcun fondamento né nel merito, né nelle pseudo argomentazioni usate; dall’altro sono a loro volta fonte di preoccupazione perché dovrebbero essere per primi i tutori dell’ordine a pretendere che chi ricorre a certi metodi, già equiparati quanto a barbarie alla pena di morte da Cesare Beccaria, venga severamente punito e, quanto meno, sospeso dal servizio. Proprio a garanzia del rispetto che i cittadini devono ai tutori dell’ordine e i tutori dell’ordine ai cittadini. L’agire secondo legalità è principio che deve connotare i caratteri dello Stato democratico e lo distingue dallo Stato autoritario. Tanto per essere chiari: la necessità della introduzione del delitto di tortura è richiamata da una pluralità di fonti internazionali: dall’art. 5 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 all’art. 3 della Cedu alla convenzione Onu del 1984, alla convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani del 2002. E la Corte Edu ha anche recentemente stigmatizzato l’assenza nel nostro sistema di una specifica fattispecie che incrimina la tortura. Altro che "distanti normative sovranazionali" "superficialmente ed erroneamente richiamate"! In conclusione, pochi discorsi: l’Italia è da decenni gravemente inadempiente nel perseguire fatti vergognosi, indegni di un paese democratico e di uno Stato di diritto. Certo esiste un problema di formulazione corretta della fattispecie che, secondo l’opinione più volte espressa dall’Ucpi, doveva essere formulata in termini tali da riservarla solo ai pubblici ufficiali. Sappiamo invece che il testo in approvazione configura la tortura come delitto comune, aggravato se realizzato da un pubblico ufficiale. La "scomparsa" del requisito della necessaria "reiterazione" non è né politicamente, né tecnicamente sbagliata, perché ciò che conta è l’idoneità del comportamento al risultato gravemente lesivo della integrità psichica e/o fisica della persona che lo subisce. E non si tema che basti la "parola di un criminale" ad "incastrare" un agente di polizia che con sacrificio, fa né più né meno che il suo dovere. Non solo l’esperienza giudiziaria insegna che ciò non è mai accaduto (e poi perché "criminale", a prescindere da un accertamento giudiziale?); ma non dubitiamo che la magistratura saprà fare corretta applicazione della norma, innanzi tutto interpretandola doverosamente alla luce delle Convenzioni Internazionali di cui essa è attuazione. In secondo luogo facendo valere, ove ne ricorrano gli estremi, la scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c. p.) quella dell’uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coercizione fisica art. 53 c. p.), quando non della legittima difesa. Dunque, proprio l’introduzione del delitto di tortura può invece contribuire a rafforzare la credibilità e la fiducia dei cittadini nelle forze di polizia (in senso ampio) come pilastri della legalità e della democrazia. Reato di tortura: salta il diritto di difendersi degli agenti di Gianni Tonelli (Segretario del Sap) Il Dubbio, 16 luglio 2016 Chi a gran voce invoca il reato di tortura, con pene maggiorate nel caso in cui a commetterlo siano dei Pubblici Ufficiali, fa riferimento erroneamente e superficialmente a "distanti" normative sovranazionali. E ancora una volta il partito dell’Anti-Polizia sta avendo la meglio grazie al Parlamento che ha approvato un emendamento diabolico: il reato di tortura da illecito di durata si è trasformato in reato istantaneo, con l’eliminazione della reiterazione della condotta. In pratica: verrà punita ogni singola azione degli agenti. Facciamo un esempio: se per effettuare l’arresto di un camorrista, un poliziotto è costretto a spintonare il delinquente, da oggi dovremo definirlo tortura e non più uso legittimo della forza. Ecco perché, con immensa preoccupazione e anche con un pizzico di rabbia, ci chiediamo a quali altre aberrazioni andremo incontro se venisse approvato, martedì prossimo, anche l’emendamento che slega le sofferenze psichiche derivanti dal reato di tortura alla loro concreta verificabilità. In quest’ottica sarebbero puniti quasi tutti quegli interventi delle Forze dell’Ordine che urtano la sensibilità dei criminali. Con quali prove? Nessuna, o quasi. Perché il concetto non sarebbe dimostrabile in giudizio. Tutto questo, oltre a rappresentare una becera violazione del diritto di difesa per gli agenti che ogni giorno lavorano con coraggio e determinazione, comporterà una punizione smisurata per qualsiasi affermazione, anche falsa, di un criminale qualunque. Un agente, dunque, non potrà più intimare ad un corriere della droga di fare il nome del narcotrafficante altrimenti passerà il resto dei propri giorni in galera, perché questo urterebbe la sensibilità del delinquente provocandogli sofferenze psichiche (e quindi tortura!). Ecco, questo da oggi diventerà un reato, punito severamente e con senza possibilità di appello. Perché siamo d’accordo nel voler punire i comportamenti di tortura, quelli che nell’ordinamento italiano sono già sanzionati - penso al sequestro di persona, quello di violenza privata, le lesioni dolose, l’abuso d’ufficio - ma questo reato di tortura no. Perché sotto mentite spoglie è un manifesto ideologico contro le Forze dell’ordine, che vengono esposte così al ricatto da parte della delinquenza. Al suo posto, come noi del Sap sosteniamo da sempre, andrebbe inserita nel nostro ordinamento una normativa che preveda le telecamere sulle divise di ogni agente, in tutte le volanti e in ogni cella di sicurezza, per assicurare la massima trasparenza e per garantire le giuste punizioni a chi realmente ha sbagliato. Le mele marce, si sa, sono ovunque. Ma non si può e non si deve inibire e impedire qualsiasi efficacia all’azione delle Forze dell’Ordine ad esclusivo vantaggio dei criminali. Perché il danno non sarebbe solo per noi agenti, ma ricadrebbe sulle spalle di tutta la brava gente che ha il pieno diritto alla sicurezza. Il presidente dell’Ordine degli avvocati: "10 mila presunti innocenti in carcere" di Salvatore Parlagreco siciliainformazioni.com, 16 luglio 2016 Detenuti in celle simili ad un pollaio, diecimila dei quali, stando ad un calcolo di probabilità, innocenti. Un numero elevato di extracomunitari, che non sono in grado di parlare e scrivere in italiano. Le carceri italiane, sono un inferno, secondo il presidente dell’Ordine degli avvocati, Francesco Greco, che ha compiuto tre visite, insieme ai suoi colleghi, nei due penitenziari di Palermo, l’Ucciardone e Pagliarelli. "Una cosa è sentirne parlare ed un’altra vedere come stanno le cose con i propri occhi", esordisce l’avvocato Greco. "È importante che coloro che fanno il mio mestiere escano dal ruolo del processo". Quali impressioni ha avuto, Presidente? "È una condizione incivile, la situazione è grave. Il nostro Paese ha già subito la condanna dell’Unione Europea a causa del degrado delle carceri e del superaffollamento, non ci sono standard minimi di vivibilità. Chi ha commesso un reato deve pagare per intero e senza sconti il suo debito con la giustizia, ma l’inciviltà no, le carceri sono un luogo di espiazione e non di tortura". Quali sono le carenze più gravi? "Ho parlato con detenuti che hanno smarrito il senso del tempo. Impressionante. Ad un detenuto dall’aspetto di un uomo anziano, vecchio in apparenza, trasandato, ho chiesto da quando tempo si trovasse in carcere. Mi ha risposto che non lo sapeva. Gli ho domandato quanto dovesse ancora rimanerci? Ha risposto di non saperlo. Aveva perso la dimensione del tempo: il passato, il futuro. E non gli interessava sapere niente, aveva abbandonato se stesso… questo è accaduto all’Ucciardone e si è ripetuto a Pagliarelli". Non tutti però stanno espiando una pena, ci sono detenuti in custodia cautelare o comunque, ancora imputati. "È vero, è l’altra faccia della medaglia, non meno grave. Si fa largo uso della carcerazione preventiva. Il quaranta per cento circa dei detenuti non ha subito una condanna definitiva, è in attesa di giudizio, coloro che hanno svolto delle rigorose indagini, affermano che la metà di loro verrà assolta. Se ne deve dedurre che ci sono degli innocenti che vivono in condizioni disumane una punizione che non meritano". C’è una presenza importante di stranieri nelle carceri italiane. "È un altro grosso problema, duemila tunisini, tremila marocchini, mille algerini ed egiziani, che stanno in cella con italiani e non possono parlare fra loro. E talvolta non riescono a spiegare le loro ragioni perché non capiscono le domande che vengono loro poste. Mancano mediatori culturali, psicologi, assistenti. Fra loro potrebbero esserci persone innocenti. O soggetti che avrebbero bisogno di grande attenzione, è il caso degli scafisti. Il consiglio nazionale forense si sta facendo carico di smuovere le acque, abbiamo un progetto che abbiamo chiamato "Lampedusa", per la formazione di mediatori culturali. Ma spetta allo Stato questo compito, non facciamo quel che è possibile". Buone pratiche nei tribunali, accordo tra avvocati e magistrati di Gabriele Ventura Italia Oggi, 16 luglio 2016 Avvocati e magistrati uniscono le forze per la diffusione delle buone pratiche negli uffici giudiziari. Con un protocollo di intesa siglato nei giorni scorsi tra il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, per sviluppare azioni sinergiche con l’obiettivo di favorire il miglioramento qualitativo dei servizi della giustizia italiana. Le parti, in particolare, si impegnano a concordare iniziative comuni per la promozione di una comune cultura della giurisdizione tra magistratura e avvocatura sui temi delle riforme della giustizia, dell’organizzazione giudiziaria, del processo civile e penale e del processo telematico. A questo scopo, Csm e Cnf si avvalgono della istituzione e del funzionamento di appositi tavoli tecnici paritetici, nonché delle attività della Commissione sui "Rapporti con il Csm e i consigli giudiziari" e dell’osservatorio nazionale permanente sull’esercizio della giurisdizione costituito presso il Cnf. Inoltre, le parti si impegnano a promuovere la valorizzazione del ruolo dell’avvocatura nell’ambito delle funzioni attribuite ai consigli giudiziari. Altro capitolo è dedicato alla diffusione di buone pratiche negli uffici, attraverso l’impegno a favorire lo studio e la più ampia condivisione di protocolli unitari. L’obiettivo è quello di incentivare la diffusione sul territorio nazionale della positiva esperienza di innovazione organizzativa e di miglioramento della qualità dei servizi. Il tutto, al fine di aumentare la qualità della giustizia civile e penale, di suggerire il funzionale utilizzo delle risorse economiche e di personale, di aumentare la capacità di informazione e di incrementare la responsabilità sociale degli uffici giudiziari in merito ai risultati conseguiti. Individuato, inoltre, il progetto "Pratica dei diritti", atto a coinvolgere le istituzioni di istruzione scolastica primaria e secondaria per la diffusione di una cultura dei diritti, attraverso percorsi di studio e apprendimento, anche a carattere multimediale volti ad approfondire gli strumenti e i mezzi a disposizione del cittadino per la tutela dei propri diritti. "Non sequestrò la Licheri", Pietro Paolo Melis libero dopo 18 anni di carcere di Cristina Nadotti La Repubblica, 16 luglio 2016 L’uomo, condannato a 30 anni perché ritenuto la mente del rapimento nel 1995 dell’imprenditrice, mai più tornata a casa, è stato assolto per non avere commesso il fatto. Si è sempre dichiarato innocente: "Il giorno più bello della mia vita". Dopo 18 anni di carcere ritorna a casa, a Mamoiada, Pietro Paolo Melis, condannato a 30 anni per il sequestro e l’omicidio di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 vicino ad Abbasanta, nel centro Sardegna. È stata la Corte d’Appello di Perugia, che ha riaperto il processo nel marzo 2014, a stabilire l’immediata scarcerazione di Melis, indicato come la mente di uno degli ultimi sequestri della stagione dell’Anonima sarda, e ora assolto per non avere commesso il fatto. Melis era stato condannato sulla base di intercettazioni telefoniche nelle quali avrebbe discusso con Giovanni Gaddone, condannato a 30 anni per il sequestro della Licheri e ad altri 30 per quello dell’imprenditore romano Ferruccio Checchi, i particolari organizzativi per la prigionia dell’imprenditrice di Abbasanta, rapita e mai più tornata a casa. I nuovi software usati per analizzare le registrazioni hanno stabilito che a parlare con Gaddone, che si è sempre dichiarato soltanto un "emissario" dei sequestri, non era Melis, che in tutti questi anni si è sempre dichiarato innocente. Nel corso del processo d’appello del 1998, Melis scoppiò in lacrime in aula, professandosi incapace di compiere un crimine così efferato, anche perché, sosteneva, la sua famiglia era stata vittima di un sequestro. Fondamentale per stabilire l’innocenza di Melis, la perizia sulla sua voce e sul suo accento, che secondo i suoi legali non rispondeva a quello di un sardo di Mamoiada. E nel paese di Melis non appena si è diffusa la notizia dell’immediata scarcerazione una folla si è radunata intorno alla casa dove vive la madre 74enne dell’ex detenuto. "È il giorno più bello della mia vita", ha detto appena arrivato in paese dopo essere stato liberato dal non lontano carcere di Badu ‘e Carros, a Nuoro. Il caso di Melis riporta alla cronaca uno dei periodi più drammatici della storia dei rapimenti in Sardegna. Il 14 maggio del 1995 un commando formato da quattro uomini armati e mascherati sequestra, nelle campagne vicino ad Abbasanta, Giovanna Maria Licheri, da tutti conosciuta semplicemente come Vanna, sposata con un pensionato e madre di quattro figli, mentre era a mungere il bestiame di prima mattina nell’azienda agro-zootecnica di famiglia. Il sequestro fa scalpore anche perché avviene a pochi chilometri di distanza dal centro di addestramento di Abbasanta, un distaccamento super moderno e dotato di sofisticate apparecchiature di pronto intervento nel quale vengono preparati ad agire gli agenti delle scorte di magistrati e politici e gli uomini delle squadriglie anti-sequestri. Proprio da qui, spesso, partono i rastrellamenti e le battute sul Supramonte contro i rapitori. Nei mesi successivi al sequestro della donna le forze dell’ordine mettono a segno alcuni colpi e in ottobre riescono a liberare l’imprenditore turistico romano Ferruccio Checchi, sequestrato 4 giorni dopo la Licheri e Giuseppe Vinci, che era stato rapito un anno prima. Ma Vanna Licheri non torna mai a casa e durante il processo del 1997 si svelano i particolari delle lettere che i sequestratori le facevano scrivere per fare pressioni sulla famiglia, l’ultima delle quali cominciava con "Vi prego, fate presto". I Licheri cercarono di mettere insieme i soldi per un riscatto, ma la trattativa venne ostacolata dalla legge che prevede il blocco dei beni e impediva i contatti dei familiari con i banditi. Molti e numerosi gli interrogativi, i dubbi e i misteri sui motivi reali che, nonostante i cinquecento milioni messi insieme dalla famiglia in risposta all’ultima richiesta dei banditi, condussero i fuorilegge a non contattare l’emissario che aveva in consegna i soldi e a non rilasciare la donna. Nel corso degli anni nelle montagne del Supramonte e in altri luoghi sono stati trovati resti di cadaveri, ma la famiglia Licheri non ha mai avuto un corpo da seppellire. La Cassazione annulla le condanne per 5 presunti jihadisti arrestati ad Andria di Gabriella De Matteis La Repubblica, 16 luglio 2016 Scarcerati quattro componenti di quella che gli inquirenti indicavano come una possibile cellula terroristica. In un caso un rinvio per rideterminare la pena per il reato di istigazione all’odio razziale. La Cassazione ha annullato senza rinvio "perché il fatto non sussiste" le condanne inflitte nei confronti di cinque presunti appartenenti alla cellula terroristica con base ad Andria, ordinando l’immediata scarcerazione dei quattro imputati detenuti accusati di associazione finalizzata al terrorismo islamico. Nei confronti di uno dei quattro detenuti, l’imam Hosni Hachemi Ben Hassen, la Suprema corte ha annullato la sentenza con rinvio per la rideterminazione della pena soltanto per il reato di istigazione all’odio razziale. Gli imputati furono arrestati dal Ros dei Carabinieri di Bari nell’aprile 2013.A febbraio 2015 era arrivata la sentenza di condanna: Il gup Antonio Diella aveva inflitto cinque anni e due mesi al presunto capo della cellula terroristica, l’imam tunisino della moschea di Andria, Hosni Hachemi Ben Hassem, accusato anche di istigazione all’odio razziale (arrestato in Belgio nell’aprile 2013). Condanne a tre anni e quattro mesi di reclusione ai presunti componenti dell’associazione, coloro cioè che, secondo l’accusa, "cooperavano nell’attività di proselitismo, di finanziamento, di procacciamento di documenti falsi, tenevano i contatti con altri membri dell’organizzazione, disponibili al trasferimento in zone di guerra per compiervi attività di terrorismo". Si tratta di Faez Elkhaldey, detto Mohsen, palestinese di 50 anni, Ifauoi Nour, detto Moungi, tunisino di 35 anni, Khairredine Romdhane Ben Chedli, tunisino di 33 anni, Chamari Hamdi, 24enne nato in Sicilia. Secondo i carabinieri del Ros, coordinati dai pm Renato Nitti ed Eugenia Pontassuglia, il gruppo terroristico islamico incitava alla jihad e al suicidio, rideva del crollo delle chiese causato dal terremoto dell’Aquila del 2009 (come emerge dalle intercettazioni) e aveva organizzato campi di addestramento militare lungo le pendici dell’Etna. L’inchiesta, basata su intercettazioni telefoniche e sull’acquisizione di materiale informatico, aveva permesso di documentare come a partire dal 2008, gli indagati si fossero associati tra loro "allo scopo di compiere atti di violenza con finalità di terrorismo internazionale in Italia e all’estero - si legge nel capo d’imputazione - secondo i dettami di un’organizzazione transnazionale, operante sulla base di un complessivo programma criminoso politico-militare, caratterizzato da sentimenti di acceso antisemitismo e antioccidentalismo e dall’aspirazione alla preparazione ed esecuzione di azioni terroristiche da attuarsi contro governi, forze militari, istituzioni, organizzazioni internazionali, cittadini civili e altri obiettivi - ovunque collocati - riconducibili agli Stati ritenuti infedeli e nemici". Firenze: nuovo suicidio a Sollicciano, trans peruviana si è tolta la vita di Luca Serrano La Repubblica, 16 luglio 2016 Ha vissuto le ultime ore in una cella di "transito", una di quelle celle destinate ai nuovi arrivati e a quelli messi in punizione. Un limbo in cui si era voluta rifugiare per sfuggire alla difficile convivenza con una detenuta. Giovedì sera, mentre gli altri carcerati stavano assistendo a una rappresentazione sul tema dei diritti e della giustizia, ha deciso di farla finita e si è impiccata. Un’altra tragedia tra le mura di Sollicciano. L’ultima vittima è una transessuale peruviana di 34 anni, che tra poche settimane sarebbe tornata in libertà dopo aver scontato una condanna a tre anni. Una morte che torna a far esplodere la polemica sulle condizioni della casa circondariale fiorentina: il mese scorso, a togliersi la vita era stato un uomo di 35 anni originario di Maddaloni (Caserta), trovato impiccato in una cella. "Tragedie come queste non devono più succedere - attacca il garante per i diritti dei detenuti della Toscana, Franco Corleone. Il suicidio è avvenuto nelle cosiddette celle di transito, che sono molto spoglie e che finiscono per isolare completamente i detenuti. Era stata proprio lei a chiedere di essere trasferita dalla sezione dedicata alle transessuali, probabilmente per essere più tranquilla perché aveva problemi di relazioni". Polemiche anche dall’associazione Pantagruel, che si occupa di diritti dei detenuti. "Resta troppa ambiguità su quelle celle - dice Antonia Ruggeri - dovrebbero essere usate esclusivamente per smistare i nuovi arrivati o quelli in attesa di cambiare sezione, ma invece negli anni si è consolidata la prassi di impiegarle anche per punire le persone più agitate. Chi ci è stato racconta di un luogo angosciante, dove è difficilissimo vivere anche solo poche ore". Nel mirino anche la gestione dell’area destinata alle transessuali. "Serve un approccio più articolato - conclude - in molti casi sono persone che vivono in modo traumatico la detenzione, che devono essere seguite e tutelate". Sulle cause del suicidio della giovane peruviana, le prime voci raccolte dall’associazione parlano di un profondo disagio maturato col passare degli anni, reso ancora più forte da alcuni screzi con una nuova arrivata. Chi la conosceva, non esclude che la richiesta di trasferimento fosse stata fatta proprio per ritrovarsi da sola e farla finita. Una tragedia della solitudine su cui interviene anche il coordinatore territoriale della Uil polizia penitenziaria Eleuterio Grieco: "Firenze in questo momento vive una fase di cambiamento con la nuova dirigenza pro-tempore, ma più delle volte ci accorgiamo che si parla solo ed esclusivamente di faraonici progetti, talvolta solo finalizzati a catalizzare fondi pubblici. Spesso parla di carcere chi non lo conosce. Anche sul versante sanitario, mancano strumenti, risorse finanziarie e figure professionali". L’Aquila: appello di Rita Bernardini "stop al carcere duro per Vincenzo Stranieri" abruzzolive.it, 16 luglio 2016 "Ventiquattro anni passati ininterrottamente al 41­bis non bastano a Vincenzo Stranieri per trovare la strada della libertà seppure il regime carcerario lo abbia ridotto con gravi problemi psichiatrici e con un tumore trattato da tempo con la chemioterapia. Alla teorica fine della carcerazione prevista per il 16 maggio scorso, a Stranieri erano stati aggiunti altri due anni di misura di sicurezza. Troppo poco per la Direzione Distrettuale Antimafia e così i due anni sono stati tramutati in un altro 41­bis in una casa di lavoro. Nel carcere dell’Aquila dove la casa lavoro è senza lavoro". Lo scrive la radicale Rita Bernardini, presidente onorario di ‘Nessuno tocchi Cainò, in una lettera al capo del Dap Santi Consolo al quale chiede di intervenire per porre fine a questa situazione "disumana". "Visitai l’istituto la scorsa Pasqua e rimasi basita. Vi trovai 5 internati letteralmente ristretti nel regime di carcere duro. Chiesi a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto rieducarsi e mi risposte che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno; uno che faceva il portavitto mi chiese "come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?". Un altro mi fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole", scrive Bernardini. "Questo regime di detenzione completamente illegale è riservato oggi a Vincenzo Stranieri gravemente malato e quasi impazzito per i degradanti trattamenti subiti. E le conseguenze prosegue la lettera rivolta a Consolo le patiscono anche i suoi familiari, in particolare la figlia Anna la quale fino a che suo padre era recluso a Terni se telefonava per chiedere come stava il padre si vedeva almeno rispondere in modo umano". Oggi nemmeno questo. "Chiederò lumi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria perché sono convinta che il suo Presidente Santi Consolo, uomo di legge e di umanità come pochi, come me non potrà tollerare che simili trattamenti siano a lungo riservati ad esseri umani che si trovano, seppure privati della libertà, nelle mani dello Stato", conclude Bernardini. Modena: il giudice di sorveglianza non va al carcere Sant’Anna da otto mesi di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 16 luglio 2016 A Modena ufficio vuoto da oltre due anni, da novembre non riceve in carcere Gli avvocati: "Insostenibile e ingiusto". Ma a Bologna negano: "È tutto ok". Dal maggio 2014, quando andò via il giudice Giovanni Mazza, Modena è priva dell’unico Magistrato di sorveglianza, il giudice che regola le detenzioni, i permessi, le liberazioni anticipate e tutto quanto riguarda il mondo carcerario e la riabilitazione dei detenuti. Un nuovo giudice è stato nominato più di un anno fa. Non si è mai visto a Modena, si è saputo soltanto che era in maternità e che forse prenderà servizio da agosto. Nel frattempo a coprire il suo lavoro solo per lo stretto necessario sono altri giudici che a turno fanno il possibile. "Una situazione insostenibile - spiega Enrico Fontana presidente delle Camere Penali di Modena che spiega i motivi dell’astensione dalle udienze per due giorni a Modena e in regione - che provoca gravissime ricadute sulle vite dei detenuti". Nel corso dell’assemblea tenuta ieri dai penalisti di Modena è stato sottolineato che la situazione a Sant’Anna è così grave che i sostituti del magistrato di sorveglianza "fantasma" non ricevono più in carcere da novembre. Un carcere che dopo un anno di riequilibrio fisiologico di detenuti, passati a circa 360 unità, oggi è tornato in emergenza con 30 detenuti in più del limite (alla Dozza di Bologna sono addirittura a +300) con un carico di pratiche aumentato per il magistrato sostituito e quindi tempi di attesa sempre più lunghi e incerti. Oltretutto oggi, come ha sottolineato l’avvocato Luca Brezigar delle Camere penali nazionali, dopo la sentenza della Corte europea, si aggiungono anche i reclami con altri tempi di attesa lunghissimi anche per casi drammatici o persino tragici, al limite della "tortura". Eppure, come proprio Brezigar ha sottolineato ieri, "il magistrato di sorveglianza dovrebbe essere il governatore del sistema carcerario locale. È lui che deve conoscere le storie dei detenuti e il loro fascicolo, lui deve decidere sulla detenzione. Ma oggi non è così. Per cui succede che chi lo sostituisce o concede permessi in modo errato oppure li nega per non sbagliare. Tutto questo è contro il nostro ordinamento giuridico". Di questo profondo disagio si sono fatti carico anche i senatori Pd e M5S di Modena. E anche un detenuto, che a nome di tutti i "definitivi" di Sant’Anna ha scritto in una lettera pubblica che questa situazione di assenza di un giudice da due anni e mezzo "penalizza e mortifica sia i carcerati che i penalisti e con grave disappunto si chiede alle istituzioni di risolvere tale situazione". Ma a livello distrettuale la magistratura nega qualsiasi problema. Non risulta che ci siano stati, "quanto meno dal dicembre 2015 all’attualità, compromissione di diritti o omesse risposte dell’autorità giudiziaria nei confronti dei detenuti della casa circondariale di Modena". Si conclude così una nota dei magistrati in servizio al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che replicano alla lettera dei detenuti di Modena. Sarà. Resta il fatto che a Modena la situazione è stata stigmatizzata più volte anche dal Garante regionale dei detenuti Desi Bruno. In attesa che arrivi un magistrato in carne e ossa. Udienza in ritardo: sconta due mesi in più Sono tanti i detenuti che hanno avuto gravi problemi per i ritardi delle pratiche che permettevano loro di uscire dal carcere con pene alternative. Ci sono anche storie tragiche. Come quella di un uomo con problemi di salute mentale che si i è impiccato in cella poche ore prima che gli fosse notificata l’idoneità per scontare la pena ai domiciliari in una casa di accoglienza. O come un carcerato che aveva chiesto la libertà anticipata ma che per ottenere udienza la Tribunale del magistrato di sorveglianza ha dovuto aspettare e quando ha ottenuto ragione aveva già scontato due mesi in più di quanto doveva. Sono casi accaduti a Sant’Anna, ben noti anche gli operatori interni al carcere. Per il primo dei quali si sono anche impegnati prima perché non accadesse e poi perché non accada mai più. È la storia tristissima di un 53enne che, avendo precedenti per piccoli reati, aveva patteggiato un anno di carcere nel 2011 diventato definito nel 2015. Quello che è stato portato a Sant’Anna nell’aprile 2015 era un uomo minato nella salute dall’alcolismo, in cura al Centro salute mentale e ospite di una casa di accoglienza in montagna. In carcere tutti si sono accorti di quanto fosse fragile. I suoi avvocati avevano avanzato richiesta per fargli scontare i mesi restanti in quel centro in Appennino. Tutti lo controllavano sapendo quanto fosse depresso. Ma lui non ce l’ha fatta e a fine luglio si è impiccato. Senza morire: la sua agonia è durata in ospedale fino a gennaio. Il documento che aspettava è stato notificato poche ore dopo il suo suicidio. Una macabra coincidenza. Se fosse arrivato solo poche ore non si sarebbe ucciso in cella. Teramo: nel carcere troppi problemi irrisolti, il Sappe invia esposto alla Corte dei conti primadanoi.it, 16 luglio 2016 "Immobilismo, inerzia e carenza di organico". Esposto alla Corte dei Conti. Un articolato dossier da inviare alla Corte dei conti sulla situazione del carcere di Castrogno. Ad annunciarlo il segretario provinciale del Sappe, Giuseppe Pallini, che torna ancora una volta a denunciare "l’immobilismo del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise a fronte della gravissima carenza di personale del corpo di polizia Penitenziaria in forza presso l’istituto di Teramo". Carenza che per Pallini starebbe portando alla paralisi tutte le attività istituzionali. "Le uniche cose che registriamo in ambito regionale da parte dell’amministrazione e del Sottosegretario alla giustizia con delega alla polizia penitenziaria Federica Chiavaroli sono le convenzioni pro detenuti dimenticandosi delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria che da soli, sulla propria pelle, senza risorse economiche e con mezzi inadeguati sorreggono l’istituzione carcere" tuona Pallini, che sottolinea come a fronte di un organico stabilito di 215 unità, comunque insufficienti secondo il sindacato rispetto alla reali esigenze dell’istituto, ad oggi siano servizio solo di 172 unità. Una situazione insostenibile per il Sappe che denuncia come ogni giorno gli agenti si vedano "costretti a rinunciare al riposo settimanale e alle ferie (alla data di oggi sono circa 14.200 le giornate di ferie che devono recuperare, numeri questi impressionati) per garantire l’ordine e la sicurezza interna". Eppure lo stesso Sappe da tempo da tempo avrebbe presentato un progetto di ricollocazione delle circa trenta unità in servizio al Prap (provveditorato regionale), con l’organizzazione di un polo ospedaliero detentivo regionale presso l’ospedale civile di Pescara che "eliminerebbe tantissime criticità legate ai servizi di piantonamento dei vari istituti abruzzesi con recupero tangibile di tantissime unità e drastica riduzione di costi". Da qui la decisione di "preparare in tempi brevi un articolato dossier da inviare alla Corte dei Conti". Solo piccoli interventi di facciata per la sistemazione della mensa degli agenti presso il carcere di Vasto pertanto il personale continuerà ad astenersi dalla fruizione dei pasti. A segnalarlo le organizzazioni sindacali rappresentative della Polizia penitenziaria che denunciano "la totale disinvoltura con cui la Direzione dell’Istituto ha trattato l’annosa vicenda che riguarda la mensa agenti". In particolare si contesta "la decisione di non rinnovare le celle frigorifere, in funzione ormai da trent’anni con secchi a vista che raccolgono la condensa al loro interno, pregiudicando la conservazione delle derrate che l’espongono a possibili contaminazioni di varia natura". Le segreterie locali del Sappe, Uil, Osapp, Ugl, Cgil, Cnpp e Cisl segnalano che gli agenti nel carcere di Vasto "subiscono continue vessazioni, indecorose condizioni della caserma agenti, carenza di personale, la mancanza di un dirigente penitenziario in pianta stabile". Eboli (Sa): detenuti e cani alla riscossa con la Cooperativa Dog Park di Margherita D’Amico La Repubblica, 16 luglio 2016 Uomini e cani alla riconquista della libertà: è il cuore di un progetto che vede un gruppo di detenuti collaborare all’educazione di randagi in cerca di casa. Obiettivo è creare le condizioni per un inserimento migliore nella società, una volta lasciati carcere e canile. L’iniziativa porta la firma della Cooperativa Dog Park di Ottaviano (Napoli) in collaborazione con il Penitenziario di Eboli, la collaborazione della Fondazione Bocalan di Madrid, l’impegno in prima persona di Alberto Ayala, esperto in attività assistite, e prevede l’impegno di un’équipe multidisciplinare composta da psicoterapeuti, veterinari, addestratori cinofili. Si sta mettendo a punto un programma della durata di un anno, dopo il successo della giornata di prova che ha avuto luogo a giugno. La particolarità del progetto è l’impiego di cani inquilini del Canile Dog Park di Ottaviano in attesa di adozione, e già nella seduta pilota i detenuti hanno cooperato con successo a una serie di esercizi educativi. Per l’occasione, gli animali sono stati scelti sulla base di caratteri equilibrati, e hanno appreso, attraverso il gioco, piccole ma fondamentali nozioni. "Un cane sereno che non tiri al guinzaglio, non combini disastri in casa, sia sicuro di sé nell’ambito di regole fondamentali, ha molte possibilità in più di trovare casa, rispetto a soggetti confusi e fuori controllo cui un minimo di educazione può giovare moltissimo" spiega Michele Visone, presidente della Cooperativa Dog Park di Ottaviano. Del lavoro si gioveranno naturalmente anche i detenuti, i quali, contribuendo al riscatto dei meticci, guadagneranno in autostima. "I cani non giudicano, si rapportano con noi in modo spontaneo, sono figure determinanti in tante attività assistite" prosegue Visone. "Nello specifico, possono diventare un ponte fra il detenuto e mutamenti benefici, in un contesto, la prigione, dove l’espressione di sentimenti e emozioni positive è abitualmente difficile. Gli stessi rapporti interni al carcere non sono favoriti da regimi rigorosi e poco flessibili, che ingenerano pressioni psicologiche, difese e fatica nell’adattarsi all’ambiente. Progetti pionieri hanno già dimostrato con successo che l’interazione con gli animali può canalizzare cambiamenti significativi". "La giornata sperimentale è stata un successo a tutto tondo, anche grazie alla bravura dei venti detenuti coinvolti (avrebbero voluto partecipare tutti e settanta gli ospiti della struttura ma purtroppo non è stato possibile). Il progetto annuale offrirà a queste persone a rischio di esclusione sociale la possibilità di una formazione riconosciuta come addestratori cinofili". Addestratore o educatore? La prima definizione suscita comprensibile sospetto in chi ama gli animali e ne teme lo sfruttamento. "Il rispetto e il bene del cane sono sottolineati nel codice deontologico degli addestratori, che vieta, pena la radiazione, anche il collare a strangolo. Come in tutte le attività, c’è poi chi opera bene e chi male. Addestrare è un’attività specialistica che segue la fase educativa e non può prescinderne" chiarisce Visone. "Escludendo l’ambito venatorio, i cani impiegati in attività di ricerca, soccorso, terapia assistita e utilità sociale, vivono in famiglia o con il proprio conduttore. Gioco e divertimento sono indispensabili al successo delle attività che li vedono protagonisti". Alcune, molto delicate, si rivolgono addirittura al recupero psicologico di donne che abbiano subito uno stupro, oltre alle competenze in ambito sanitario di cani di assistenza in grado di individuare picchi di glicemia nei bambini diabetici: "Prestazioni che non si potrebbero ottenere, se non attraverso fiducia e divertimento. Di sicuro, per la tutela di questi animali, si può fare di più, come creare risorse e obblighi a garanzia della loro vecchiaia". Il Penitenziario di Eboli attende dunque il ritorno dei randagi per guardare al futuro con maggiore ottimismo. "Siamo tutti prigionieri" ha osservato un detenuto durante i lavori "solo che loro non hanno fatto niente per meritarselo". La strage di Nizza, noi liberi (e incerti) di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 16 luglio 2016 Il terrorismo della nostra epoca non è quello ai cui siamo abituati. Il punto è che non colpisce in modo mirato. La strage del 14 luglio a Nizza conferma che siamo entrati nell’età dell’incertezza. La guerra che abbiamo di fronte non è un conflitto tradizionale, con un inizio e una fine; è un’epoca, che sarà lunga e dolorosa. E nessuno, da nessuna parte, ne è al riparo: perché la prima linea può essere il posto più sereno al mondo, la Promenade des Anglais nella notte dei fuochi d’artificio e del compleanno della libertà. Il terrorismo della nostra epoca non è quello che siamo abituati a pensare. Non colpisce in modo mirato. Non usa soltanto gli aerei. Commette stragi indiscriminate. Con un vecchio camion. Non possiamo più cavarcela sostenendo che le vittime "se la sono andata a cercare"; è il terrore che è venuto a cercare loro. Parlare di guerra non è fuori luogo: nel 2015 i caduti negli attentati sono stati quasi 30 mila, spesso nell’indifferenza generale: le stragi pressoché quotidiane in Iraq e in Siria non sono considerate neppure più notizie. Ma parlare di guerra nello stesso tempo è riduttivo: perché si può fronteggiare un esercito, non si può fronteggiare un lucido folle capace di colpire in qualsiasi momento qualsiasi bersaglio, anche il più innocente, anche i passeggini dei neonati. L’elemento della pazzia e del nichilismo - "Dostoevskij a Manhattan" titolò il suo libro sull’11 Settembre André Glucksmann, un grande europeo che ci manca molto - non esclude che il terrore abbia una strategia. Purtroppo i fondamentalisti, anche quando usano pedine isolate, hanno dimostrato di saper fare politica, alla loro turpe maniera. L’11 marzo 2004 cambiarono la storia spagnola sovvertendo l’esito delle elezioni con la bomba di Madrid. Ora gli assassini della Jihad fanno il gioco di Marine Le Pen e lavorano per la distruzione dell’Europa; così come in America alimentano la rabbia e la paura su cui Trump ha costruito la sua campagna. Questo accade anche perché i politici tradizionali si mostrano particolarmente imbelli: come Hollande, che ha annunciato la fine dello stato d’emergenza poche ore prima del massacro. La Francia è nel mirino perché ha sfidato l’Isis in Siria e in genere il fondamentalismo in Africa, con interventi a volte efficaci (come in Mali), a volte velleitari: dopo ogni attentato l’Eliseo ripete che l’Isis sarà distrutto e Raqqa liberata, e ogni volta suona meno credibile. Parigi paga il fallimento della sua politica assimilazionista e il rigetto delle seconde generazioni di immigrati maghrebini. La Francia rappresenta inoltre la fucina delle libertà occidentali, di cui il 14 luglio è la festa: il Paese che si sentiva sollevato dopo la fine degli Europei ha realizzato che i terroristi islamici odiano sì il calcio, ma odiano più ancora la libertà. L’Italia si illuderebbe se pensasse di essere al sicuro; e non solo perché la passeggiata di Nizza è un luogo non meno italiano che francese, come conferma il tributo di sangue che abbiamo versato. L’autista torinese di autobus in pensione ucciso a Tunisi al museo del Bardo e presentato al mondo su Internet come "un crociato"; il sorriso di Valeria Solesin; l’atroce fine dei nove connazionali a Dacca, torturati e sgozzati in quanto italiani senza suscitare la dovuta indignazione in patria; e ora i morti di Nizza. È evidente che la questione ci riguarda, né potrebbe essere altrimenti: è l’epoca data in sorte anche a noi. Ne possiamo uscire se sapremo fare buon uso della nostra libertà culturale. Badando a non perdere la testa, a non confondere terrorismo e immigrazione; ma anche a reagire con coraggio, a superare i ricatti ideologici per cui chi chiede un’immigrazione sotto controllo diventa xenofobo e chi pretende l’impegno dei musulmani di casa nostra contro il terrore diventa islamofobo. Se i fondamentalisti violenti alla fine saranno sconfitti, e lo saranno, non accadrà per la loro crudeltà; in passato è accaduto che le guerre fossero vinte dai più crudeli. E neppure per la loro miseria morale: la miseria morale di Hitler non gli impedì di sfilare a Parigi. I terroristi saranno sconfitti per la loro povertà culturale. Perché non hanno avuto l’illuminismo e di conseguenza non hanno avuto un 14 luglio, la data simbolica che sancisce che gli uomini nascono liberi e uguali: una novità recente e dirompente nella storia. Tocca a noi ora esercitare la nostra libertà non con spensieratezza, pensando che tanto non potrà accaderci nulla; ma con consapevolezza, sapendo che le vittime di Nizza alla fine si riveleranno più forti dei loro carnefici. Rispondere alla paura di Mario Calabresi La Repubblica, 16 luglio 2016 Le nostre vite sono cambiate e in questo momento storico è difficile rifugiarsi nell’illusione, nella certezza di potersi chiamare fuori. La strage dei bambini, il terrorismo contro le famiglie, la festa, la passeggiata sul lungomare, i fuochi d’artificio. Siamo stati colpiti quando si era abbassata la guardia, quando si era insinuata, leggera e rassicurante, la speranza che avendo superato indenni gli Europei di calcio potessimo sentirci più sicuri. Invece le nostre vite sono cambiate e in questo momento storico è difficile rifugiarsi nell’illusione, nella certezza di potersi chiamare fuori. La nostra percezione non può più essere quella di prima, questa strage va talmente a fondo del nostro modo di vivere da lasciare un segno psicologico difficilmente riparabile. I terroristi avevano cambiato il nostro modo di viaggiare, costringendoci a toglierci le scarpe e le cinture, a svuotare le tasche, ad alzare le braccia sotto il metal detector, ad abbandonare le bottigliette d’acqua, gli accendini, le creme e i profumi, a metterci in fila pazientemente. A considerare gli aerei il luogo del pericolo, permettendoci però di credere che evitarli avrebbe azzerato il rischio. Poi sono arrivati il treno, la metropolitana, il concerto, lo stadio, il bar, il ristorante e infine la festa popolare e la passeggiata a mare. Sono arrivati a violare un’intimità familiare che ci parla di gelati, occhi alzati al cielo, bambini sulle spalle, un momento in cui il massimo incubo è non trovare un parcheggio e la paura è quella di perdere un figlio nella folla. Ma non è solo questo che cambia ogni parametro. È anche il terrorista solitario, imprevedibile, che non arriva dalla Siria o dall’Iraq addestrato e armato fino ai denti, ma dalla periferia e che per uccidere non usa proiettili o esplosivo ma un camion preso in affitto. Un uomo che aveva problemi di soldi, precedenti penali, un divorzio in corso e che non sembra neppure aver fatto il Ramadan o essersi radicalizzato in moschea. Un uomo che ha abbracciato una simbologia che ha sempre più successo sulle menti malate, sui fanatici o semplicemente sui disperati in cerca di una identità forte e finale. Una situazione difficilmente prevedibile, immaginabile o intercettabile. Non ci sono luoghi dove potremo dirci con certezza al sicuro, questo terrorismo definito "molecolare", cioè non organizzato e fuori da reti e strategie, ci atterrisce perché lascia ampio spazio al caso, al fato, perché limita le possibilità di difendersi, di prevenire. L’Europa sempre di più scivola verso un modo di vivere che è stato per decenni quello della popolazione civile israeliana, attenta ad insegnare ai propri bambini l’importanza delle precauzioni e del sospetto. Quando un paio di anni fa è cominciata l’intifada delle auto, attentati portati avanti da singoli palestinesi che per uccidere lanciano la loro macchina sulla folla, un amico che vive a Gerusalemme mi spiegò come aveva insegnato ai figli a non aspettare mai l’autobus sulla pensilina, ma di mettersi sempre dietro, al riparo; di camminare vicino ai negozi e mai sul bordo del marciapiede e di aspettare ad attraversare finché la strada non era completamente sgombra. Allo stesso modo per molti anni dopo l’11 settembre su ogni mezzo pubblico di New York era ben evidente uno slogan che diceva: "Se vedi qualcosa, denuncialo". Al numero di telefono fioccavano le segnalazioni di pacchi o persone sospette. Già oggi, in questa Italia che finora ha pagato il suo tributo di sangue solo all’estero, si moltiplicano le situazioni di allerta: non appena ci si accorge di una borsa o di uno zainetto abbandonati su un treno o un tram, non appena ci si trova vicino ad una donna con il velo che copre il volto (la scorsa settimana a Fiumicino ho assistito alla denuncia di alcuni passeggeri che non volevano saperne di salire in aereo con una signora che aveva la faccia coperta dal niqab). E i dibattiti nelle famiglie, nelle scuole e negli uffici si sono moltiplicati: è il caso di aderire alla gita scolastica? Di andare al museo? Al concerto? All’inaugurazione? Alla partita? Le risposte già si vedono, il crollo di presenze di turisti e pellegrini nei primi mesi del Giubileo della Misericordia ne è stata una prova. Abbiamo perso un pezzo importante della nostra libertà, della nostra innocenza, nel senso di poterci permettere di vivere con spensieratezza in mezzo agli altri, vivremo vite sempre più dominate dal sospetto, con una soglia di attenzione alta e in un sottile stato d’allerta. Continuo a credere che dobbiamo caparbiamente difendere i nostri spazi, la nostra cultura, la nostra civiltà, che è fatta di apertura e condivisione, e il nostro diritto se non alla felicità perlomeno allo svago e alla socialità. Ma è chiaro che non lo possiamo fare semplicemente rimuovendo il problema o comportandoci in modo naif, ma con consapevolezza, serietà e senso civico. Qualcosa che dobbiamo chiedere a chi ci governa. La consapevolezza e la serietà innanzitutto, che significa lavorare per prevenire, per controllare e per proteggere, che significa mettere in atto politiche di intelligence e di sicurezza ma anche di educazione e inclusione. L’Italia non ha le banlieue francesi, faccia in fretta ad agire prima che la situazione si incancrenisca anche nelle nostre periferie, lavorando all’emersione delle moschee - per evitare l’illegalità e per impedire che centinaia di migliaia di musulmani vadano a pregare in quei garage che sono moderne catacombe - e lavorando sulla scuola e sulla cittadinanza per impedire che le seconde generazioni non si sentano italiane e europee ma crescano nel rancore. Niente di tutto ciò è risolutivo da solo, ma una politica di sicurezza accompagnata da una politica di inclusione possono risultare medicine importanti. Serietà significa anche non fare sciacallaggio, non sfruttare il sangue per provare a lucrare qualche consenso in più e non fare della paura mercato. Abbiamo bisogno di concretezza, non di altra paura da spargere nel vento estivo. No all’isteria demagogica e securitaria di Johan Hufnagel Il Dubbio, 16 luglio 2016 "L’union sacrée" che la Francia ha dedicato alle vittime di Nizza non ha retto più di qualche minuto. Lasciamo che sia il lettore a giudicare la dignità di alcune affermazioni guidate da piccoli calcoli politici e pronunciate poche ore dopo la morte di 84 persone. Di questo sentiamo tutta la collera, sempre più collera. Charlie Hebdo, il Bataclan, Saint Denis. Ma anche Bagdad, Istanbul, Bruxelles, Orlando, Tel-Aviv, DAcca, Tunisi... La scia di sangue è davvero troppo lunga e per questo siamo arrabbiati. Ma la rabbia, seppur comprensibile, date le circostanze, è cattiva consigliera. Di certo è una cattiva consigliera politica. È vero, il bilancio delle vittime, l’arma del delitto, il simbolismo della data, tutto sembra richiamare l’identità di uno sponsor politico: lo Stato Islamico o un qualche "cantiere" di Al Qaeda. Ma per il momento non abbiamo alcuna rivendicazione di gruppi terroristici. Nel frattempo possiamo decidere se prendere misure sempre più forti, come chiede la destra. Eppure siamo di fronte a un fallimento dello Stato d’emergenza. Ciò nonostante qualcuno pensa che abbiamo bisogno di misure sempre più rigide, che dovremmo passare alla legge marziale. Eppure si vede benissimo come la trappola dello Stato di emergenza stia schiacciando il governo. Che fare dunque? Nizza dimostra che ci sono attacchi non prevendibili dai Servizi di sicurezza ma di certo non possiamo mettere un soldato o un poliziotto dietro ogni francese. Sarebbe un rimedio che contradice i valori di libertà, uguaglianza e fratellanza che abbiamo celebrato il 14 luglio. E se siamo in guerra, come non si stanca di ripetere il governo, allora dobbiamo avere il coraggio di dirci la verità, di fare una diagnosi dei fatti senza dimenticare le nostre vittorie e i nostri fallimenti. Ma l’esagerazione, l’isteria demagogica e ultra-sicuritaria non rendono un buon servizio a nessuno. Credevamo che il progresso cancellasse il male ma abbiamo scatenato l’inferno. La strage di Nizza, le premesse per perdere di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 16 luglio 2016 Tutto lascia credere che il killer abbia agito sotto l’influenza della "retorica jihadista". Ammettiamo che si tratti di un "lupo solitario". Perfino che si tratti, ancora più banalmente - se si può usare questo termine per un evento di tale smisuratezza sanguinaria - di una persona affetta da disturbi psichici. Resta il fatto che la nazionalità d’origine dell’autore della strage di Nizza, le modalità e l’obiettivo della strage stessa, il suo contesto simbolico, tutto lascia credere che Mohamed Lahouaeij Bouhlel abbia agito perlomeno - perlomeno - sotto l’influenza di quella "retorica jihadista" che, come ha scritto Le Monde, "chiama alla lotta contro gli infedeli, gli ebrei e i crociati, gli Occidentali: un discorso totalitario che predica la guerra con tutti i mezzi contro i miscredenti e altri non credenti". Come dubitare che proprio tale retorica, diffusa a piene mani nei Paesi del Medio Oriente così come nelle comunità islamiche in Europa e in America attraverso Internet e altri mille canali, rappresenti il problema cruciale della lotta contro il terrorismo? Come dubitare che se non si fanno i conti con una tale retorica essa finirà inevitabilmente per alimentare sempre nuova e ancora nuova violenza? E infine: come credere che la retorica jihadista di cui sopra non abbia nulla a che fare con la religione islamica? Qui si tocca un problema di fondo quanto mai delicato. Ogni volta infatti che si prova a dire quello che ho appena detto, e magari ci si azzarda anche a indicare - con tutta l’approssimazione del caso, ma i giornali non sono gli Annali dell’Accademia delle Scienze - i motivi di questa implicazione tra la religione islamica e il radicalismo politico dagli esiti terroristici, immediatamente ci si espone alle opportune correzioni, all’invito ai debiti distinguo e ai necessari approfondimenti da parte di chi pensa di saperne o effettivamente ne sa di più. Il tutto accompagnato alla messa in guardia contro il pericolo di aprire le porte a una guerra di religione. E fin qui sta bene. In una materia così scottante i politici, tra l’altro - e non solo italiani ma di tutta l’Europa che conta - sono sempre d’accordo con tali messe in guardia, con questi appelli alla cautela. Per la buona ragione che così essi possono evitare ciò che più temono: e cioè, Dio non voglia, prendere decisioni nette e quindi necessariamente impegnative (per esempio tirare in ballo finalmente le responsabilità dell’Arabia Saudita o intervenire con efficacia contro il mercato delle armi). Il fatto è, però, che in tutti i casi che conosco gli inviti di cui ho appena detto, sia pure sacrosanti, evitano però, a me pare, di pronunciarsi poi, a propria volta, nel merito. Cioè di dirci quale sia allora il reale rapporto che intercorre tra religione islamica e radicalismo islamista. E chi, e in che modo, possa eventualmente fare qualcosa. Sicché alla fine, nella ridda delle obiezioni e delle smentite, si finisce per trarre l’impressione che un tale rapporto in realtà non esista per nulla, e che quindi ci sia ben poco da fare. Con la conseguenza di non poter fare altro che ripiegare su soluzioni mitico-consolatorie tipo "più intelligence", "più dialogo", "più tolleranza", "più integrazione": che come si capisce è difficile che risolvano qualcosa. La sconfitta che incombe sull’Europa appare insomma come una sconfitta prima di tutto intellettuale. Non riusciamo a metterci d’accordo su chi sono e da quali territori della mente e del cuore vengano i nostri sterminatori. Addirittura molti tra noi pensano, e più o meno ad alta voce dicono anche, che dei morti di Nizza come di quelli di altri cento luoghi la colpa alla fine sarebbe solo nostra. Del nostro orribile passato di conquistatori (come se le altre civiltà non lo fossero state quanto la nostra) così come del nostro altrettanto orribile presente di "globalizzatori". O magari, per addolcire la pillola, degli americani e delle loro inconsulte guerre. È consentito chiedersi come con tali premesse sia possibile che vinciamo? Quando gli unici scontri a cui riusciamo a pensare sono quelli di tipo diciamo così spionistico-polizieschi; quando crediamo che conti poco o nulla la religione, cioè la cosa che alla maggior parte dell’umanità appare come la più importante; quando siamo convinti che l’identità culturale sia solo un’invenzione dei reazionari per vincere le elezioni. Il terrore ci ha cambiati. E siamo tutti più crudeli di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 16 luglio 2016 La morte si aggira per l’Europa. Per le strade d’occidente. Questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda. Ha bisogno di un niente per ghermire e falciare le sue vite, un esplosivo fatto in casa come quello lasciato in un pentola alla maratona di Boston, un’arma qualunque come quelle usate al Bataclan - quante armi ci hanno lasciato queste guerre, un coltellaccio come nelle intifada in Israele, un tir lanciato tra la folla come a Nizza, una preghiera suicida come ovunque. Non abbisogna di squadroni, la Morte, di armate delle tenebre inquadrate a schiere; chiunque può essere posseduto, fino ieri l’altro un uomo qualunque, che d’improvviso sente la chiamata per dar un senso alla propria fine, cercando la gloria del martirio. Le nostre vite stanno cambiando checché ne dicano i nostri governanti - They will don’t change our way of life, disse la regina Elisabetta dopo le bombe di Londra; Nous ne céderons pas au terrorisme en suspendant notre mode de vie, disse Hollande dopo il Bataclan. Invece cambiano, eccome. Rinunciamo a libertà di movimento in nome di maggiore sicurezza, non andiamo più in vacanza sereni, guardiamo in tralice e allarmati ogni pacco ogni valigia ogni uomo; ogni volta che prendiamo la metro ogni volta che saliamo su un autobus ogni volta che ci raduniamo nella folla. Ogni volta che torniamo a casa. Conosciamo anche noi il terrore, conosciamo, anche noi, il dolore. Raccontiamo ai nostri bambini favole orribili, l’uomo nero - the boogeyman - ha i colori e i vestiti e i capelli di chi si incontra per strada. È questo, soprattutto, che va cambiando: il nostro discorso, il nostro racconto del mondo. E se cambia questo, tutto cambia. La peste nera del terrorismo fondamentalista non può fermarsi - adotteremo misure di igiene, lavarsi spesso le mani, seppellire i morti lontano, bruciare i loro vestiti; controllare gli ingressi ai nostri confini più severamente, spiarci l’uno con l’altro, diffidare di ogni cosa. Inutili saranno le nostre processioni - la fede non ha mai fermato nulla, semmai è servita solo a conquistare; inutili le nostre razionali e scientifiche misure. Inutile il nostro cercare un riparo lontano da tutto - separarsi dal mondo; inutile ogni vendetta, ogni rancore. Saremo sommersi dal dolore e dal lutto. È questo che ci tocca, il dolore e il lutto. Come dovesse, questa umanità, pagare un conto salato al Male, alla Storia, a Satana, qualunque sia la forma assunta - ce ne siamo distratti convinti che il progresso potesse estirparlo, oppure abbiamo scatenato l’inferno. Eppure, lacrime dolore e sangue ci potrebbero fare più forti. Ogni volta, nel lutto, sento più fratello il vicino - francese spagnolo inglese. Ogni volta, nel dolore, sento d’essere europeo - sento quanto sia vanitoso questo accapigliarsi di confini e nazioni, di bandiere e denari, e quanto sia radicato in me, a volte contro me stesso, l’amore per l’Europa. Per la libertà, per la democrazia, per la tolleranza, per il conflitto. Anche se a cantare la canzone d’Europa oggi non si intonerebbe l’Inno alla Gioia di Beethoven ma una Messa di Requiem. Il nemico è crudele. Il nemico è sempre crudele. Per vincere bisogna essere crudeli. Non pensare alle vite. Lives No Matter. Crudeli furono gli algerini per conquistare l’indipendenza, mandavano donne a farsi esplodere nei bistrot d’Orano. Crudeli furono i vietnamiti per conquistare la libertà, mandavano donne a farsi esplodere nei bar dove soldati americani festeggiavano un qualche bombardamento al napalm. Noi stessi lo siamo stati, nel tempo. Noi stessi lo siamo, ancora oggi. Ma essere crudeli serve a poco e nulla contro la peste nera. Se arriveranno i bravi e i briganti a garantirci la protezione, saremo perduti. La peste muore da sola. Imperversa sulle nostre città, sulle nostre strade, sulle nostre case, poi muore. Muore perché se continuasse a mietere vite all’ammasso non avrebbe più posto nel mondo, il Male. Muore acquattandosi, sembrando ritrarsi nel nulla da cui è venuto. Per tornare, dopo, un giorno. La peste morirà. Questa non è l’apocalisse. Non ci servono profeti; ci saranno parole di sventura, parole di colpa, parole di sferza. Ma le loro lingue sono biforcute, e i loro piedi sono caprini, e i loro corpi puzzano di zolfo lontano un miglio. Dobbiamo solo resistere. Piangere e accompagnare i nostri morti. Non stanno cadendo invano. La morte è sempre senza senso, sempre. È la dannazione che ci accompagna nel mondo. Chi cade, cade per noi, per quelli che rimangono. Perché quelli che rimangono - noi, oggi, chiunque sia, domani - continuino a essere se stessi. Siano migliori. Dobbiamo provare a essere migliori. Essere noi stessi, essere uomini d’Europa, d’occidente. Cadiamo, oggi, perché siamo uomini liberi, perché siamo uomini tolleranti, perché amiamo le democrazie e il conflitto. Per questo cadiamo. Certo, potremmo essere diversi, uomini al rovescio - violenti, totalitari, guerreschi. Sceglierci un Califfo, incoronarlo, consacrarlo. Saremmo come il Male - uguale a lui, sarebbe il suo trionfo. Sarebbe la fine del mondo, del mondo che abbiamo costruito combattendo più volte, nei secoli dei secoli, il Male. È questa la speranza. Nel dolore, nell’assurdità di ogni cosa, possiamo capire questo: a ogni uomo è data oggi una incredibile potenza. La usiamo per distruggere. Chiunque può falciare vite a decine - è il modo delle nostre città, della nostra civiltà, quello di essere esposti incredibilmente alla Morte. Non è un prezzo necessario, questo orrendo obolo, non è un costo obbligato. Quale straordinario mondo potremmo avere se questa potenza che ognuno - anche il più infimo, il più stupido, il più reietto, il più negletto degli uomini - ha tra le mani, venisse curvata verso gli altri, per essere migliori, più liberi. L’altro giorno, ai funerali dei poliziotti uccisi da un cecchino a Dallas, il presidente Obama ha ricordato quanto è scritto nella Lettera ai Romani [5: 3-10]: "We also glory in our sufferings, because we know that suffering produces perseverance; perseverance, character; and character, hope / Anche nelle sofferenze noi sentiamo la gloria, perché sappiamo che la tribolazione produce perseveranza; e la perseveranza, costanza; e la costanza, speranza". Ci fosse una Costituzione d’Europa, dovremmo iniziarla così. Noi speriamo. Relitto ripescato. Recuperati i corpi di 700 migranti di Alessandro Ricuperato Avvenire, 16 luglio 2016 Era probabilmente sbagliata la stima iniziale. I migranti morti nel naufragio verificatosi nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2015 erano più di 700. I superstiti furono 28. Su quel barcone da 150 tonnellate erano ammassati ovunque, anche dentro la sala macchine. I vigili del fuoco hanno calcolato che in una superficie di un metro quadrato dovevano stare almeno in cinque: uomini, donne, tanti minorenni, anche bambini. L’operazione di recupero del relitto "Melilli 5" voluta dalla Presidenza del Consiglio, in collaborazione con il commissario straordinario per le persone scomparse Vittorio Piscitelli, la Prefettura di Siracusa e la Procura di Catania, fornisce alcuni numeri precisi. Si è conclusa la fase del recupero dei corpi, o meglio dei resti umani, dal barcone. Per i prossimi due mesi saranno impegnati i medici legali provenienti da diverse università di tutta Italia, coordinati dalla professoressa Cristina Cattaneo dell’università di Milano, per gli esami autoptici. Fino ad ora sono stati esaminati 267 cadaveri: "Ma abbiamo già la segnalazione di 57 scomparsi dalla regione di Tambacounda nel Senegal e stiamo raccogliendo già i moduli e i prelievi per attività genetiche. E poi c’è una segnalazione di una famiglia della Guinea Conakry che risiedono negli Stati Uniti che sa che i loro cari erano sul barcone", spiega la prof. Cattaneo. "Possiamo dire che si trovavano migranti di diverse nazionalità: dall’Etiopia, Eritrea, Bangladesh, Sudan, Somalia, Mali, Gambia, Senegal, Costa D’Avorio, Guinea Bissau e Guinea Conakry. Lo deduciamo dai diversi documenti trovati, passaporti, richieste di passaporti, tessere Unhcr, ma anche pagelle di scuola. Molti ragazzi l’avevano portata. E dall’esame autoptico ci siamo accorti che ci sono ragazzi di 12, 13 anni", continua con gli occhi lucidi la prof. Cattaneo abituata certo ad immagini drammatiche, ma anche lei già provata. Dalla Polonia intanto è arrivata una tac mobile, tramite l’università di Palermo, che servirà per capire come sono decedute le vittime. Il relitto, recuperato dalla Marina Mi-litare, per il momento resterà al pontile nella rada di Augusta. Le prime tre fasi dell’operazione sono costate 9 milioni e mezzo di euro. Per quest’ultima fase bisognerà attendere l’ultimazione. Ogni amministrazione avrà una sua spesa e sarà chiesto un rimborso alla Presidenza del Consiglio. Per esame autoptici e di genetica prevista una spesa di circa 200-300 mila euro. In totale sono stati recuperati dal relitto 675 tra cadaveri e body bags, sacche dentro le quali sono stati depositati i resti umani ritrovati che spesso appartengono a più di una persona. "Nel complesso sono 675 i body bags rinvenuti – ha riferito il contrammiraglio Nicola De Felice, comandate di Marisicilia – rinvenuti perché oltre a quelli scovati nel relitto occorre inserire 169 salme rinvenute attorno al relitto nei fondali del Canale di Sicilia tra giugno e dicembre 2015 e 48 corpi scovati dalla nave Tremiti". Nelle operazioni di recupero nel relitto i 348 vigili del fuoco hanno scoperto resti umani in ogni zona dell’imbarcazione. "L’aspetto più impressionante – ha spiegato Giuseppe Romano, direttore centrale soccorso ed emergenza dei vigili del fuoco – è che nella stiva erano stipate 5 persone per metro quadro. In particolare nei 120 metri quadrati del ponte di coperta del peschereccio sono stati recuperati 102 body bags; dentro la stiva per una superficie di 45 metri quadrati ben 203; nei 54 metri quadrati della sala macchine, per la maggior parte occupata dai motori, ben 73 body bags; nei 14 metri quadrati a prua 51 body. Un impegno di grande coinvolgimento emotivo". L’ultimo giorno un gruppo di vigili del fuoco di Siracusa si è fermato per recitare la preghiera di San Francesco: "fa di me uno strumento della tua pace". Presenti anche gli atei. Sul relitto qualcuno ha lasciato un rosario. Golpe tentato in Turchia, la scommessa dei generali ribelli è fallita di Gianluca Di Feo La Repubblica, 16 luglio 2016 L’appello di Erdogan e l’appoggio di Germania e Usa al presidente turco, insieme al fatto che i militari si sono rifiutati di sparare sui civili, hanno determinato la sconfitta. La prima battaglia si è scatenata tra i reparti scelti della polizia e quelli dell’esercito. Seguendo le regole classiche del colpo di stato, i militari hanno prima preso il controllo delle reti di comunicazione: la tv pubblica, le centrali che gestiscono le telecomunicazioni e internet. Poi si sono concentrati sulle roccaforti del potere di Erdogan. A partire dalla sede dell’alto comando, che formalmente dirige le forze armate ma che da circa otto anni viene designato dal presidente e quindi non gode della fiducia dei comandi intermedi. I generali ribelli hanno tentato una lotta contro il tempo, cercando di espugnare le postazioni del Sultano prima che la popolazione a lui fedele scendesse nelle piazze. Ma hanno fallito l’obiettivo più importante: la cattura o l’isolamento del presidente, che è riuscito a mobilitare il suo partito contro gli insorti e ottenere il sostegno delle potenze mondiali. Nell’ossessione per il pericolo di un colpo di mano, da anni Erdogan ha potenziato la polizia, dotandola di autoblindo in nome della lotta al terrorismo, ma rendendola di fatto un corpo di pretoriani. Agenti selezionati, vicini alle idee del partito presidenziale, motivati con buone paghe. E pronti a resistere per il loro capo. La stessa attenzione è stata dedicata ai servizi segreti, epurandoli dagli elementi meno sicuri e forniti di mezzi in grado di fronteggiare ogni evenienza. I reparti migliori sono posizionati nell’aeroporto di Istanbul, nel palazzo presidenziale e in prossimità dei ministeri di Ankara. Per colpirli, i golpisti hanno usato gli elicotteri Cobra, armati con cannoni a tiro rapido: equipaggi addestrati negli Stati Uniti, abituati a combattere nell’oscurità e contro i quali gli agenti non hanno difese. Sono gli stessi elicotteri che hanno mitragliato la centrale dell’intelligence, uccidendo 17 agenti. Carri armati invece hanno aperto il fuoco nella zona del parlamento, dove ha sede uno dei gruppi speciali della polizia che ha protetto l’assemblea dei deputati. I golpisti sin dall’occupazione dei ponti sul Bosforo sembrano avere contato sulla gendarmeria, l’unità di polizia militare simile ai nostri carabinieri creata da Ataturk e che è stata custode delle istituzioni repubblicane prima dell’avvento di Erdogan. Sono 170mila uomini, disposti in tutte le città chiave del paese, con uno spirito di corpo molto alto. Hanno mezzi blindati e squadre di commandos. Non si capisce quanti reparti dell’esercito abbiano partecipato al putsch. Nella capitale ci sono una divisione meccanizzata e due brigate di commandos, che sembra abbiano lanciato il primo assalto del golpe. Intorno a Istanbul c’è un’intera armata, con il 3rzo comando integrato nella forza di reazione rapida della Nato: sono uomini abituati ad agire insieme agli americani e agli europei. Erano loro i carri armati Leopard che si sono posizionati nei luoghi chiave dell’antica capitale, senza aprire il fuoco. Nessuna notizia sul comportamento della maggioranza delle brigate, che formano le due armate schierate sulla frontiera siriana e iraniana. L’impressione è che siano rimaste in attesa degli eventi, cercando di capire chi fosse il vincitore. Alle due di notte infatti il comandante del 7mo corpo d’armata, che a Dyarbakir controlla un nucleo potente di unità impegnate nella lotta alla guerriglia curda, ha dichiarato la sua lealtà al governo. Ambiguo l’atteggiamento dell’aviazione. All’ora X caccia hanno sorvolato la capitale, facendo sentire minacciosamente il rombo dei motori. Ci sono state voci non confermate di un bombardamento del parlamento. Ma un’ora dopo testimoni hanno descritto la distruzione di un elicottero golpista sul cielo della capitale, centrato dal missile di un F-16. E alle due di notte il premier ha annunciato una no-fly zone su Ankara: il segno che il governo aveva ripreso il controllo dei cieli. Alla marina militare è stato attribuito un comunicato di distanza dai golpisti, che ha avuto un impatto limitato sugli eventi perché l’unica divisione di marines si trova a Smirne, lontano dal cuore del confronto. Due sono stati i punti di svolta. L’appello di Erdogan trasmesso attraverso lo smartphone, prima di imbarcarsi su un aereo. E la condanna dei leader mondiali, da Obama alla Merkel fino al vertice della Nato: un segnale chiaro per tutti gli ufficiali che avevano oscillato tra la tentazione di schierarsi al fianco dei ribelli. A Istanbul, la città di cui è stato per anni sindaco, il messaggio di Erdogan ha spinto la folla a scendere in piazza, circondando i carri armati. La polizia ha scortato i cortei, dirigendosi verso i ponti del Bosforo. Dopo un confronto a distanza, i blindati del putsch hanno fatto retromarcia. L’aeroporto internazionale è stato riaperto. Più confusa la situazione nella capitale. I golpisti si sono ritirati dalla sede della tv nazionale, rilasciando i giornalisti che hanno ricominciato a trasmettere. Tutti i ministri chiave sono riusciti a comunicare e nonostante i combattimenti, anche il vertice dell’intelligence pare rimasto attivo. La scommessa dei generali ribelli è fallita. Hanno tentato una mossa anacronistica, ignorando il cambiamento del paese. Il 70 per cento dei soldati sono ventenni di leva: non si tratta più dei figli di contadini ignoranti, che trent’anni fa hanno obbedito ciecamente agli ordini dei superiori. Sono giovani d’oggi, che difficilmente avrebbero aperto il fuoco sulla folla. Turchia, dai curdi ai profughi: le molte incognite del futuro di Guido Olimpio Corriere della Sera, 16 luglio 2016 Il golpe in Turchia ripropone un lontano passato quando i militari uscivano dalle caserme per imporre le loro regole ad un Paese dilaniato. Le condizioni oggi non paiono troppo diverse e la sfida dei generali porta molta interrogativi. Intanto le truppe dovranno prima imporsi, quindi avranno la non facile missione di piegare quella parte di popolazione che, pur tra pressioni e manovre, ha appoggiato Erdogan. Una presenza importante, ramificata. Il secondo aspetto riguarda i curdi, da sempre il nemico principale di Ankara. Il conflitto civile è già in una fase acuta, cosa accadrà adesso? Lo Stato Maggiore lancerà una campagna totale? Tra i separatisti c’è chi teme una nuova spallata. Quindi il terrorismo. Il Paese, da lungo tempo, è sottoposto ad una triplice minaccia, con attentati di grandi proporzioni. Attacchi condotti dagli stessi curdi, da alcune formazioni di estrema sinistra e dall’Isis. Ognuna di queste entità ha molto da perdere da un potere gestito dagli uomini in divisa. Se ad Ankara comanderanno i soldati potrebbe esserci un controllo reale alle frontiere e i jihadisti vedrebbero svanire una retrovia preziosa. Sempre che i turchi non vogliano proseguire con il doppio gioco di questi anni: usare gli estremisti islamici come contrappeso alla nascita di un Kurdistan libero. Infine l’elemento internazionale. La Turchia è un Paese membro della Nato e riveste un ruolo nella gestione dell’emergenza profughi. Un Occidente sconvolto dalle stragi rinuncerà alla difesa di un governo eletto in nome della realpolitik? Non sarebbe poi una sorpresa. Quanto avvenuto in Egitto ne è la prova: con molti silenzi e tanta ipocrisia abbiamo accettato al Sisi. Una situazione complessa per l’amministrazione Obama, stretta tra la tutela dei diritti umani e le esigenze strategiche. L’onda lunga ha ulteriori implicazioni. I turchi sono coinvolti nel conflitto siriano, per mesi Erdogan ha vagheggiato un’azione più decisa, ma si è sempre fermato perché - sostenevano - lo Stato maggiore era contrario. Vedremo se è proprio così. E non meno interessante il rapporto con la Russia. Sono stati sull’orlo di una guerra, solo di recente hanno avviato un lento disgelo. Vietnam, quelle prigioni dove i detenuti spariscono e sono torturati di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 luglio 2016 Un nuovo rapporto pubblicato da Amnesty International denuncia la tortura e altri sconvolgenti trattamenti di prigionieri di coscienza nella rete segreta delle prigioni del Vietnam, uno dei paesi più impenetrabili dell’Asia ai controlli internazionali sulla situazione dei diritti umani. Il rapporto si basa su un anno di ricerche, comprese più di 150 ore di interviste con 18 ex-prigionieri di coscienza, alcuni dei quali hanno passato anche 10 anni in carcere. Tutti hanno riferito di aver trascorso periodi di tempo da un mese a due anni in detenzione non riconosciuta dalle autorità: ossia di essere stati dei "desaparecidos". Cinque di loro hanno raccontato di aver passato lunghi periodi di tempo in isolamento completo e al buio, in celle fetide prive di servizi igienici, ventilazione e acqua potabile. A due degli ex-prigionieri non è stato comunicato che le loro madri erano decedute. Un’altra madre si è immolata di fronte alla sede del governo per protestare contro il divieto di vedere sua figlia, Ta Phong Tan, blogger e attivista per i diritti umani, che ha trascorso quattro anni in carcere. L’isolamento è, paradossalmente, la condizione migliore di detenzione. Molti ex detenuti hanno riferito di essere stati assegnati alle cosiddette "antenne", prigionieri costretti a collaborare con la direzione del carcere e spinti ad aggredite i compagni di cella. C’è poi il capitolo delle torture: pestaggi fino a perdere coscienza, diniego di cure mediche, iniezioni di droghe o altre sostanze sconosciute che causavano perdita temporanea della memoria o della capacità di parlare o pensare correttamente. Una delle storie più toccanti contenute nel rapporto di Amnesty International è quella di "Dar", appartenente alla minoranza etnica montagnard, che ha passato cinque anni in carcere a causa del suo attivismo in favore dei diritti umani e della libertà di religione. Per 10 mesi dei 60 mesi di prigionia, "Dar" è stato tenuto in isolamento totale, in una minuscola cella, al buio e nel silenzio completo. Nei primi 60 giorni, è stato trascinato fuori dalla cella quotidianamente per essere interrogato e torturato: pestaggi con bastoni, tubi di plastica, calci e pugni; scariche elettriche, obbligo di rimanere in posizioni dolorose anche per otto ore di seguito. A volte, gli addetti agli interrogatori accendevano un pezzo di carta che veniva poi messo a contatto con le sue gambe, provocando ustioni. Una volta è stato appeso al soffitto per 15 minuti e picchiato selvaggiamente. In questo periodo il parlamento vietnamita sta esaminando una serie di proposte di modifica al codice di procedura penale e al codice penale. Un’occasione da non perdere per allineare la legislazione interna agli standard internazionali, per introdurre il divieto di tortura nella legge e farlo rispettare nella prassi e per punire i responsabili di sparizioni e torture.