Senato, battaglia estiva sulla prescrizione di Susanna Turco L’Espresso, 15 luglio 2016 Continua sottotraccia il braccio di ferro tra Pd e Ncd sulla riforma del processo penale. In Senato, il sì al ddl sugli enti locali fa tirare un sospiro di sollievo alla maggioranza. Ma una soluzione allo stallo non si è ancora trovata. E in commissione Giustizia ci sono da votare 700 emendamenti in una settimana. Settecento emendamenti da votare in una settimana, in commissione Giustizia al Senato. E un accordo politico da trovare in tempi brevi, tra il ministro Andrea Orlando ed il leader Ncd Angelino Alfano. Mentre ferve il dibattito sul referendum, e la maggioranza tira un sospiro di sollievo per l’approvazione del ddl sugli enti locali, in Senato si sta combattendo sottotraccia una battaglia che avrà il suo apice, e dovrà trovare una soluzione, prima della pausa estiva. È quella sulla riforma del processo penale, provvedimento-monstre che contiene molte e importanti novità, come quelle sul sistema penitenziario, ma anche temi da sempre divisivi nella maggioranza, come le intercettazioni e la nuova prescrizione. Prima dell’ultima tornata elettorale, dal governo è arrivata una spinta a far presto. Per evitare che quello che è uno dei principali biglietti da visita del governo Renzi sul fronte giustizia, la più imponente opera di ingegneria politica del Guardasigilli, finisca persa nei corridoi del parlamento. La spinta non è finora bastata. Il ministro Orlando confida, auspica, e naturalmente media. La soluzione a detta di molti è dietro l’angolo: tuttavia, non si è ancora trovata un formula che permetta di superare lo stallo che sin qui ha opposto il Pd al suo alleato di governo, l’Ncd, contrario fra l’altro alla formula del doppio stop (dopo il primo grado e dopo l’appello) della prescrizione, ma in fondo a troppe cose. Adesso però si entra nel vivo. Perché il calendario appena approvato dalla conferenza dei capigruppo, su richiesta del Pd, stabilisce che la riforma del processo penale andrà in Aula al senato il 26 luglio, anche se la commissione Giustizia non dovesse aver concluso i lavori, cioè votato i settecento e passa emendamenti che in questi giorni sono ancora in fase di illustrazione. È un modo per saltare l’ostruzionismo che sin qui hanno fatto i centristi: lo stesso, peraltro, che si escogitò ai tempi del ddl sulle unioni civili. Se, come è possibile, la commissione non dovesse farcela, significherà portare la riforma in Aula senza relatore, e nella versione originale della Camera. Per poi aggiungere, via emendamenti del governo, tutto ciò che serve, a partire appunto dalla nuova prescrizione. L’argomento, e la fase della legislatura, non consigliano ulteriori grossi strappi: per questo la faccenda resta sottotraccia, e nessuno alza i toni. Il sottobosco è il terreno migliore, per trovare un compromesso. Ddl prescrizione, un altro rinvio di Liana Milella Corriere della Sera, 15 luglio 2016 Sono tanti due anni per esaudire una promessa. Renzi e Orlando, il premier e il ministro della Giustizia, garantirono la riforma della prescrizione il 30 giugno del 2014. Sono passati 745 giorni e la notizia che arriva non è la certezza di un prossimo e definitivo passaggio parlamentare, ma quella dell’ennesimo rinvio. A settembre pare, solo per il voto del Senato, poi toccherà ancora alla Camera. Hanno speso la loro autorevolezza due presidenti, quello della Repubblica Mattarella e quello del Senato Grasso. Hanno strappato una data nel calendario di palazzo Madama, il 26 luglio. Già troppo in là, visto che il disegno di legge sul processo penale, che contiene al suo interno la prescrizione, "pesa" oltre 40 articoli e già in commissione Giustizia ha prodotto 800 emendamenti. Tra quegli articoli c’è anche la riforma delle intercettazioni - una delega molto contestata per la sua singolare sinteticità - che certo non può essere discussa e licenziata in pochi minuti. Come racconta un’informata "radio Senato" la data del 26 sarà rispettata, il ddl "incardinato", ma poi l’onda dei decreti legge in scadenza - Ilva, processo telematico, misure di finanza territoriale - prenderà di necessità il sopravvento, visto che il Senato chiude i battenti il 5 agosto e i decreti scadono prima che riapra. Non c’è magistrato autorevole in Italia che non abbia chiesto decine di volte la riforma della prescrizione, ridotta da Berlusconi nel dicembre 2005 con la legge ex Cirielli a una norma "ammazza processi", soprattutto quelli di corruzione. Ogni volta, a inizio d’anno, è il leit motiv delle cerimonie che aprono l’anno giudiziario. Il Pd ne ha fatto per anni un cavallo di battaglia. E adesso che succede? Presto detto. Il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, che per la cronaca conta numerosi inquisiti, ne fa una questione di principio. Il ministro della Famiglia Enrico Costa è "l’avvocato difensore" della prescrizione breve di berlusconiana memoria. Il braccio di ferro va avanti da un anno. Il Guardasigilli Orlando media, ma lo subisce. La riforma, nella versione votata alla Camera tra le urla dei centristi, come ha detto e scritto l’Anm prima di Sabelli e poi di Davigo, è proprio un pannicello caldo. Prescrizione solo sospesa, e non definitivamente bloccata, dopo il primo grado. Due anni di bonus per l’appello e uno per la Cassazione in cui l’orologio resta fermo. Un ulteriore bonus per i reati di corruzione, prescrizione misurata sul massimo della pena più la metà (anziché solo un quarto). Ma Ncd fa fuoco e fiamme e blocca il provvedimento in commissione. Parte una trattativa estenuante, piena di trucchetti. Gli anni di bonus s’invertono, solo un anno in Appello (troppo poco) e due in Cassazione (inutili). Orlando spunta 18 mesi per parte. Netto stop al trattamento speciale per la corruzione, su cui Costa è durissimo ("non passerà mai"). Poi l’ultima invenzione, il bonus in Appello e in Cassazione "muore" se il processo sfora i tempi. Qui pure il dialogante Orlando s’infuria. Lo sentono dire: "Ncd sarà pure determinante al Senato, ma io non perdo la faccia. Questa norma non passerà mai". Ncd sembra quasi cedere, ma il rischio del voto segreto al Senato intimorisce il governo. La fiducia, pur vagheggiata, pare impraticabile. Un accordo al ribasso su una materia come la prescrizione mette in allarme la sinistra del Pd. Il relatore Felice Casson è già pronto a dire: "Se passa il testo di Ncd io non ci sto più... preferisco lasciare". Se ne parlerà a settembre. Nonostante l’impegno di Mattarella che pure aveva chiesto espressamente un voto al Senato prima dell’estate. I processi di corruzione continueranno inutilmente a morire. Sulla riformicchia continueranno a litigare Pd ed Ncd. Alfano e Costa, memori di quando stavano con Berlusconi, continueranno a chiedere il processo lungo e la prescrizione breve. La giustizia a orologeria? È solo italiana di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 15 luglio 2016 Nessuno grida allo scandalo per l’inchiesta sull’uso improprio delle e-mail di Hillary Clinton: è ora che i nostri politici imparino la lezione. "Ancora giustizia a orologeria". "Ecco un’altra inchiesta politica": non c’è una sola volta nella quale una indagine giudiziaria non venga messa in correlazione con qualche pagina del calendario politico e dunque tacciata di voler influenzare surrettiziamente una tornata elettorale, un voto referendario, un passaggio governativo. Misurata con questa propensione tipicamente italiana, che cosa allora si dovrebbe dire negli Stati Uniti dell’inchiesta sull’uso delle email da parte di Hillary Clinton quand’era segretario del Dipartimento di Stato e cioè responsabile della politica estera americana? Il caso è davvero istruttivo per gli spunti di confronto che suggerisce. Tanto per cominciare, nessuno lì si sogna di dire che l’inchiesta che imbarazza la candidata del partito democratico sia un assist al suo rivale Donald Trump nella corsa alle prossime elezioni presidenziali: anche perché a innescare l’indagine non sono stati gli avversari del partito repubblicano ma proprio il Dipartimento di Stato guidato dal democratico Kerry succeduto a Hillary Clinton, dopo che una indagine interna di 78 pagine aveva segnalato al Congresso "la debolezza protratta e sistemica" nella sicurezza informatica di Hillary. Poco conciliabile con gli standard italiani è poi proprio l’oggetto di questa contestazione alla Clinton: se infatti in Italia basta non essere trovati proprio con un sorcio tangentizio in bocca per sentirsi autorizzati a festosamente pontificare sulla non rilevanza penale di qualunque altro comportamento istituzionalmente improponibile ma "graziato" dal non essere ricompreso in qualche fattispecie del codice, Hillary Clinton è sulla graticola perché per sua comodità tra il 2009 e il 2013 ha dirottato 30.000 email di lavoro su un suo server personale nella cantina di casa a New York, senza chiedere l’autorizzazione o quantomeno senza discutere le procedure d’uso di un suo indirizzo personale nel condurre le attività diplomatiche del suo incarico. La terza notevole differenza è che il politico-tipo italiano, se indagato alla vigilia di un importante passaggio elettorale, chiederebbe, anzi quasi pretenderebbe che l’inchiesta fosse sostanzialmente congelata sino a dopo il voto, altrimenti strillerebbe alla supposta entrata a gamba tesa degli inquirenti sulle elezioni. Clinton invece non ha strepitato quando si è fatta interrogare per tre ore dal Fbi, non in una sede propria o in campo neutro ma nella sede della polizia federale a Washington. E sull’altro versante, quando il capo del Fbi James Comey ha comunicato che il proprio ufficio ha concluso le indagini valutando di non proporre al segretario alla Giustizia Loretta Lynch l’incriminazione penale di Hillary Clinton, non si è fatto però problemi a qualificare "estremamente negligente" la condotta della candidata democratica, e a mettere nero su bianco che almeno 110 mail inviate o ricevute dal server casalingo della Clinton contenevano "informazioni classificate" in teoria aggredibili da "parti ostili". Gli errori di Bill. Ma l’aspetto che forse misura le differenze più abissali è quello che in Italia sarebbe passato in cavalleria come cosa buffa, mentre negli Stati Uniti è stato vissuto invece come una mezza tragedia e un quasi boomerang su Hillary Clinton: l’incontro privato di suo marito Bill all’aeroporto di Phoenix proprio con il segretario alla Giustizia, Loretta Lynch, e proprio mentre era in corso l’indagine su Hillary. Sferzante il Washington Post: "Bill Clinton ha fatto un pasticcio. Lo ha fatto per stupida indifferenza o per semplice stoltezza, ma ha creato un momento terribile sia per sua moglie che per i democratici, e anche per il presidente Obama e la percezione dell’integrità della sua amministrazione". E infatti Lynch si è precipitata imbarazzata a giustificarsi ("Abbiamo parlato solo dei nostri nipoti e di golf"), mentre il suo staff si affannava a spiegare che il faccia a faccia aeroportuale era stato casuale e obbligato, fuori faceva caldissimo, e Lynch, "che sin dall’inizio non era molto convinta di questo incontro, ha deciso che non avrebbe potuto schivare il 69enne ex presidente". Eppure Lynch ha aggiunto: "Non lo rifarei, perché credo abbia gettato un ombra dove non c’è ombra". A riprova che, se non sempre l’erba del vicino è più verde (tantomeno quella americana sui temi giudiziari), almeno sulla "giustizia a orologeria" non sarebbe male che la sensibilità politica italiana si sintonizzasse sulle frequenze d’Oltreoceano. Cantone: la corruzione nasce dal disordine di Errico Novi Il Dubbio, 15 luglio 2016 Il presidente Anac presenta la relazione annuale. E ribalta le tesi moraliste. La relazione annuale dell’Anticorruzione viene presentata in Senato dal presidente dell’Authority Raffaele Cantone con un preludio in parte frainteso. L’ex magistrato anticamorra spiega che "lo scontro dei treni in Puglia è probabilmente frutto di un errore umano, ma è certamente conseguenza di un problema atavico del nostro Paese, la difficoltà di fare le infrastrutture". Chiaro. Come è chiaro il passaggio successivo: "Una delle ragioni oggettive di questa difficoltà è certamente nell’argomento di cui parleremo", cioè nella corruzione. Il semplice ragionamento viene un po’ alterato dall’inevitabile sintesi dei titoli di agenzie e siti, e diventa "Scontro nei treni, collegamento con la corruzione". Ma a parte gli equivoci delle news in tempo reale, l’intervento di Cantone illustra l’idea di un malaffare dovuto innanzitutto alla "iper-regolazione normativa". Raffaele Cantone guadagna i titoli delle breaking news grazie a un equivoco. Nella relazione letta ieri mattina in Senato, il presidente dell’Anticorruzione parte infatti dal disastro ferroviario in Puglia, e pronuncia una frase chiara ma travisata da titoli fuorvianti su siti e agenzie. Questi ultimi recitano: "Cantone: scontro dei treni, collegamento con la corruzione". Nel gioco spietato della comunicazione in tempo reale, il discorso passa per la denuncia di precisi episodi di malaffare direttamente connessi alla sciagura. È un fraintendimento grave, che spinge infatti Cantone a diffondere una precisazione poco dopo. La sua frase d’altronde era lunga ma semplice e di significato diverso: "L’incidente è probabilmente frutto di un errore umano, e questo lo accerterà la magistratura, ma è certamente frutto e conseguenza di un problema atavico del nostro Paese", ovvero "la difficoltà di fare le infrastrutture adeguate: e una delle ragioni oggettive di questa difficoltà è certamente nell’argomento di cui parleremo". Quell’argomento è appunto la corruzione. E qui entra in gioco la lettura che della corruzione dà la relazione annuale dell’Anac. Quella di un fenomeno paralizzante "per le grandi opere", che finiscono "arenate". Un fenomeno che in realtà è sintomo di un più generale disordine, non morale ma relativo a "iper-regolazione normativa", innanzitutto. Il malaffare, le mazzette, le turbative d’asta sono dunque solo un aspetto di una serie di "disfunzioni", di natura legislativa, regolamentare e innanzitutto amministrativa. Sembra niente e invece è la rivoluzione. Anche nel senso che alla luce della chiave proposta da Cantone, la sua stessa frasi sulla tragedia in Puglia cambia appunto di senso. Il presidente dell’Anac vuol dire che la corruzione intesa come conseguenza del disordine paralizzante ha impedito, tra l’altro, l’ammodernamento della rete ferroviaria. Ecco. Nel suo intervento a Palazzo Madama, l’ex magistrato anticamorra fa esempi specifici di opere "arenate", dall’"anello ferroviario di Palermo" ai lavori "per la Pescara-Bari", fino al caso clamoroso della metro C di Roma. Spiega che la funzione della sua Autorithy è da una parte quella di raccogliere le segnalazioni dei cittadini su possibili casi di malaffare ("le segnalazioni sono passate da circa 1.200 nel 2014 a quasi 3.000 nel 2015, con un aumento di oltre il doppio"). Dall’altra, l’Anticorruzione è chiamata a "lavorare con le amministrazioni per evitare che errori o irregolarità si traducano in fatti di mala amministrazione". Si tratta insomma di "indicare" criteri di gestione degli appalti più lineari, quindi meno esposti al rischio corruzione, in attesa che anche le leggi diventino più semplici. Una rivoluzione, fatta senza moralismi ma con la semplice arma della trasparenza. Non solo tangenti, un Paese bloccato dalla facilità di opporsi a tutto di Carlo Nordio Il Messaggero, 15 luglio 2016 Il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, ha individuato nella corruzione una delle cause della tragedia di Andria. L’affermazione può sembrare singolare. Può sembrare singolare visto che, allo stato, non pare vi siano inchieste in corso sulla gestione dei fondi destinati, da anni, al raddoppio della linea ferroviaria incriminata. Tuttavia, leggendo le dichiarazioni nel loro complesso, si capisce che le critiche del magistrato si estendono oltre "l’atavico" problema delle mazzette. Esse coinvolgono l’intero apparato burocratico dello Stato e delle sue articolazioni periferiche. In questo senso, le parole di Cantone sono sacrosante. Che la corruzione sia una malattia congenita e apparentemente inguaribile del nostro Paese è infatti una dolorosa realtà. A questa patologia, che di tanto in tanto esplode nelle forme delle note inchieste giudiziarie, si tende ad attribuire la gran parte delle deformazioni della nostra morale e della nostra politica. Ma questo non è del tutto vero. Se infatti la corruzione rappresenta il sintomo più allarmante del nostro degrado civile, per quanto invece riguarda l’efficienza del sistema e lo sviluppo dell’economia essa ha un concorrente più agguerrito e pernicioso, che da un lato la alimenta, e dall’altro produce danni anche maggiori. Questo concorrente ha un nome: potere interdittivo. E questa creatura ha una madre: l’elefantiasi normativa. Il potere interdittivo è, a ben vedere, l’unico potere realmente efficace e durevole. A dispetto dei cambiamenti dei governi e delle maggioranze parlamentari, esso è solidamente radicato nelle istituzioni che sono in grado di bloccare qualsiasi iniziativa, anche la più virtuosa, in tutti i settori della società. L’elenco è interminabile, e si estende dai Tar ai consigli di quartiere, dalle Procure alle associazioni ambientaliste, dai portatori dei cosiddetti interessi diffusi fino alle più modeste associazioni di categoria. Nessun presunto "potere forte" è in grado, in Italia, di decidere niente. Al contrario, innumerevoli organismi senza responsabilità politica sono in grado di ostacolare, di fatto, le risoluzioni dello stesso Parlamento. Se provate a costruire una metropolitana a Roma, dovrete confrontarvi con dozzine di uffici che potranno bloccarla ad ogni scoperta di coccio neroniano. Se restaurate una casa a Venezia, ci sarà sempre qualcuno che interromperà l’opera lamentando la deturpazione di un reperto artistico. E se raddoppiate una ferrovia, l’ambientalista di turno urlerà che il paesaggio viene alterato. Ecco perché in Italia tutti i lavori, tutti, nessuno escluso, durano tre, quattro, dieci volte più di quanto durino negli altri Paesi. Come la giustizia, anche lo sviluppo è rallentato dai pregiudizi e dalla pigrizia mentale. Questo potere interdittivo dispone a sua volta di un’arma micidiale, la proliferazione normativa: bizantina, complessa, contraddittoria e smisurata. In Italia abbiamo centocinquantamila leggi, forse di più: chi ha cercato di contarle si è ritirato presto, esausto e scoraggiato. Si tratta di un numero dieci volte superiore alla media europea, anche questo dovrebbe significare qualcosa. E qui torniamo al discorso di Cantone. La corruzione non nasce soltanto da un’atavica indifferenza agli interessi collettivi, e da una furbesca quanto scellerata carenza di senso civico. Nasce, e se ne alimenta, dalle opportunità che trae da questo apparato normativo stupido e colloso, che conferisce ai suoi detentori una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio. Se cento persone possono bloccare anche l’opera più elementare, è inevitabile che alcune di loro pretendano che l’ingranaggio di cui hanno il monopolio venga lubrificato con i nostri denari. Concludo. Non sappiamo se dietro la specifica vicenda di Andria ci sia anche la corruzione. Non sappiamo nemmeno se il binario unico, tanto vituperato, sia la causa vera del sinistro. In fondo quella linea funzionava bene da tempo, come ne funzionano di simili negli altri paesi europei. Ma sappiamo che si era deciso di raddoppiarla, che i fondi erano stati stanziati, e che in cinque anni non si è riusciti a impiegarli. Il motivo di questa inerzia forse non spiegherà la tragedia. Ma certamente spiega il doloroso declino di questo nostro povero Paese. A 15 anni dal G8: "Perché non puniamo la tortura?" di Michela Bompiani La Repubblica, 15 luglio 2016 La domanda non è retorica poiché nonostante i solleciti e le condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’Italia non ha ancora una legge che punisca quello che da sempre è il reato commesso da appartenenti a forze militari o tutori dell’ordine pubblico. Molti politici italiani non la vogliono questa legge e questo spiega perché il testo votato alla Camera lo scorso anno sia ancora impantanato al Senato tra mille tira e molla. Da un lato il "partito della polizia" o supposto tale che cerca di limare la legge per evitare che possa trasformarsi nello strumento di ricatto o pressione nei confronti delle forze dell’ordine. Timore che gli altri paesi d’Europa pare non abbiano, visto che da loro la legge esiste e non ha provocato arresti di massa di agenti. Sull’altro fronte chi vuole che questa legge venga finalmente approvata anche a costo di ammettere come il senatore Luigi Manconi o Antigone che non è "la migliore delle leggi possibile". Di questi temi si discuterà oggi in due sessioni, al mattino e al pomeriggio al Ducale. La presenza del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore è molto attesa sia per le ultime novità relative alla legge (ci sarà anche il senatore del Pd Sergio Lo Giudice) sia perché, per la prima volta in 15 anni, un rappresentante del governo incontrerà una delle vittime del G8 del 2001, in questo caso Lorenzo Guadagnucci, giornalista che venne pestato alla scuola Diaz e poi rinchiuso a Bolzaneto. In mattinata dopo i saluti del sindaco Marco Doria la giornata si svilupperà con interventi e una tavola rotonda. Tra i partecipanti: Stefano Anastasia (Antigone), Antonio Bevere (ex magistrato di Cassazione), Mimmo Franzinelli (Storico e scrittore), i docenti universitari Marina Lalatta Costerbosa, Adriano Zamperini, Maria Luisa Menegatto, Enrico Zucca (pm nel processo "Diaz"), Emanuele Tambuscio (Avvocato), Pier Vittorio Buffa (giornalista), Elena Santiemma (Amnesty International), Alessandro Gamberini (avvocato), Michele Passione (avvocato), Elena Fiorini, Assessore per la Legalità di Genova. Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2016 Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. "Aiuto, aiuto, sto morendo", sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo nella stazione dei carabinieri in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava "basta, aiutatemi, sto morendo" e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: "Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono". Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta….). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: "Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così". Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della "sentenzina", sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o "sentenzine" esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato. Tra poche ore si discuterà in Aula al Senato il disegno di legge per introdurre il reato di tortura nel nostro Paese. Qualche giorno fa in Commissione Giustizia il governo, per bocca del sottosegretario Gennaro Migliore, ha detto parole importanti su questo tema. Oggi noi abbracciamo di cuore la famiglia di Riccardo Magherini e auspichiamo che si voti al più presto un testo di legge serio capace di tutelare sia le persone senza divisa che i tanti poliziotti e carabinieri onesti che non meritano di essere confusi con quelli che usano comportamenti violenti e che onesti non sono. Caso Uva, per i giudici non ci furono percosse da parte di forze dell’ordine Corriere della Sera, 15 luglio 2016 Gli imputati - sei poliziotti e due carabinieri assolti dall’accusa di omicidio nei confronti dell’operaio, morto dopo una notte in caserma - non avevano coscienza né volontà di percuotere. I giudici della Corte d’assise di Varese hanno ritenuto "l’insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere" Giuseppe Uva da parte delle forze dell’ordine. È un passaggio delle motivazioni, in possesso dell’agenzia Ansa, della sentenza con la quale sei poliziotti e due carabinieri sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nei confronti dell’operaio, morto nel giugno del 2008 dopo essere stato portato in caserma a Varese. "La perizia medico-legale e l’audizione dei consulenti tecnici di ufficio e delle parti - scrivono i giudici in relazione all’accusa di omicidio preterintenzionale - consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva". Per i giudici, "il fattore stressogeno, da taluni dei consulenti ritenuto causale o concausale di uno stress psicofisico, non può essere attribuito alla condotta degli imputati", che "non avevano la coscienza e la volontà di percuotere o di ledere Giuseppe Uva". Reato di abbandono - In riferimento al reato di abbandono di incapace, i giudici spiegano che "non risulta sufficientemente provata la sussistenza del delitto" perché "l’abbandono della persona incapace deve determinare uno stato di pericolo sia pure potenziale per l’incolumità del soggetto" mentre "Giuseppe Uva non versava in un pregresso stato di incapacità di provvedere a se stesso per malattia di mente o di corpo (tale non potendosi considerare lo stato di ubriachezza)" e "non è ravvisabile una posizione di garanzia degli imputati (non avevano questi ultimi obblighi di cura o di custodia) nel confronti di Giuseppe Uva". Riguardo l’ipotesi di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, gli imputati vanno assolti perché "ai fini dell’ integrazione del delitto è necessario che le restrizioni abusive vengano adottate quali modalità della custodia, cagionando così una lesione ulteriore della libertà intesa in senso stretto", mentre Giuseppe Uva non si trovava in stato di arresto, di fermo o di detenzione e, conseguentemente, non si ravvisano gli elementi oggettivo e soggettivo del delitto contestato". La battaglia di Lucia - Ad aprile Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, è stata assolta dall’accusa di diffamazione contro poliziotti e carabinieri. La Uva, nel 2011, aveva affermato durante una trasmissione dello show "Le Iene" che il fratello Giuseppe era stato violentato dalle forze dell’ordine. Inoltre aveva scritto su Facebook una serie di commenti accusatori, sempre nei confronti degli 8 indagati per la morte del fratello. La vicenda si trascina da qualche anno, ma è giunta a sentenza lunedì 18 aprile, a tre giorni di distanza dall’assoluzione degli 8 agenti sancita dalla Corte d’Assise di Varese, che ha stabilito l’innocenza delle forze dell’ordine riguardo al presunto pestaggio. Abolizione dei Tribunali per i Minorenni: correzioni in vista Vita, 15 luglio 2016 Le preoccupazioni per l’abolizione dei Tribunali per i Minorenni sono "ben chiare al Ministro, correggeremo il ddl": così il sottosegretario Chiavaroli. Che ha annunciato anche la nascita di un tavolo di confronto aperto alle associazioni. Intanto la petizione che chiede lo stralcio della questione minorile dal ddl Orlando è arrivata a 18mila firme. Le preoccupazioni per l’abolizione dei Tribunali per i Minorenni sono "ben chiare al Ministro, correggeremo il ddl": così ha affermato Federica Chiavaroli (Ap Ncd-Udc), sottosegretario alla Giustizia nel corso di un convegno tenutosi ieri al Senato. L’obiettivo dichiarato è di "esaltare i punti di forza e correggere le criticità di questo Ddl" e per farlo verrà istituito, fra l’altro, un momento di confronto aperto alle associazioni interessate per arrivare a superare le criticità. Il ddl in ogni caso non verrà discusso prima dell’autunno. I politici presenti hanno confermato tutti che le perplessità rispetto alla scelta fatta sono arrivate a destinazione: Maurizio Buccarella (M5S), ha sostenuto le ragioni del dissenso e si è impegnato a sostenerle in Commissione giustizia; Francesco Molinari (Gruppo misto) ha sostenuto che in commissione Giustizia è arrivato il segnale forte che "c’è qualcosa che non va" e che occorre quindi dialogare e porre rimedio; Maria Mussini (Gruppo misto), ha sostenuto che la modifica introdotta alla Camera, inerente ai Tribunali per Minori, era inaspettata e che tale modifica non la trova d’accordo. Si è impegnata a lavorare nella Commissione giustizia perché venga reintrodotto l’articolato relativo al Tribunale per la famiglia. Intanto è arrivata a 18mila firme la petizione lanciata da Paolo Tartaglione e Cnca Lombardia per informare i cittadini sui rischi legati al Disegno di Legge e all’abolizione dei Tribunali per i Minorenni (ne abbiamo parlato qui). La richiesta rivolta alla Commissione Giustizia del Senato è quella di stralciare dal Disegno di Legge "Orlando" gli articoli che stravolgono la Giustizia Minorile e dedicare a questa materia un ddl "ad hoc", che proceda in maniera più accurata e più condivisa con gli operatori del Settore. Per il Cnca all’incontro di ieri è intervenuta Liviana Marelli, referente nazionale per le Politiche Minorili: "Chiediamo che la Commissione Giustizia non proceda alla discussione prima di aver convocato il Tavolo di confronto promesso. Questo Tavolo dovrà rispettare la pluralità di voci: magistrati, avvocati, società civile, organizzazioni e coordinamenti nazionali e ordini professionali. Infine, chiediamo che la Commissione assuma l’orizzonte finale di costituzione di un unico, autonomo e specializzato organo giurisdizionale". Sentenza Ue "resuscita" le frodi fiscali prescritte per l’Italia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 luglio 2016 Il giudice di Milano dribbla l’estinzione dei reati e rinvia a giudizio per 1,4 miliardi di tasse evase. Restano in questo modo allo Stato i beni sequestrati all’imputato. Per gli imputati che anelano alla prescrizione, in un tribunale anziché in un cinema è un po’ "il giorno dei morti viventi", zombie-reati che resuscitano quando già li si credeva sepolti dal trascorrere del tempo. Ed è anche sulla travagliata discussione parlamentare sulla prescrizione che ieri piomba un decreto dell’Ufficio Gip-Gup del Tribunale di Milano: quello con il quale il giudice Andrea Ghinetti, in una udienza preliminare su una contestata frode Iva da 642 milioni e su una evasione di imposte dirette da 766 milioni nel 2004-2008, ha rinviato a giudizio gli imputati anche per alcune accuse che avrebbe dovuto dichiarare già estinte per le regole italiane sulla prescrizione, e che invece il giudice ha "resuscitato". Come? Dando una interpretazione, peggiorativa per gli imputati, delle conseguenze pratiche della "sentenza Taricco" nella quale la Corte di Giustizia dell’Unione europea aveva stabilito nel 2015 l’obbligo, per i giudici dei vari Paesi, di disapplicare le norme nazionali sulla prescrizione quand’esse rendessero impossibile perseguire gravi frodi ai danni degli interessi finanziari della Ue. Reati fiscali come mafia e terrorismo - Ma non vengono così violati il principio di irretroattività in materia penale e il diritto di difesa? Ad avviso del Gup milanese no, perché "non ha nulla a che vedere con un diritto costituzionale dell’imputato l’aspettativa di fatto, nel momento in cui commette un reato "comune", di poter lucrare l’impunità per prescrizione, confidando che i relativi termini potranno essere processualmente interrotti solo entro una certa misura". E "la decisione difensiva di "puntare alla prescrizione", invece di scegliere un rito alternativo, non è espressione di un diritto costituzionale, ma scelta tattica sulla base di aspettativa di fatto" dell’imputato, che "finché il reato non è effettivamente dichiarato estinto ha l’onere di coltivare i suoi mezzi di difesa". Neppure sarebbe compromesso il principio di legalità, perché "la disapplicazione non creerebbe alcuna disciplina ex novo", ma ai reati finanziari oggetto della sentenza Ue si applicano i termini del vigente doppio binario per i reati di mafia e terrorismo. Sotto sequestro auto di lusso, un resort e ville al mare - Come risultato nel procedimento del pm Maurizio Ascione, dove la prescrizione comporterebbe la restituzione dei beni sequestrati (una fabbrica a Lucca, un resort a Montecatini, appartamenti a Posillipo e nel centro di Roma, villette a schiera a Udine, e molte grosse auto), il giudice fa rivivere tutti quei reati tributari che, non ancora prescritti all’8 settembre 2015 (data della sentenza Ue), con le regole italiane si erano però poi prescritti nel periodo tra quel giorno e il 9 marzo 2016, data della richiesta di rinvio a giudizio. Sul delicato tema giuridico una parola definitiva verrà il 18 ottobre quando la Corte Costituzionale, chiamata in causa da una Corte d’Appello milanese il 22 settembre 2015 e dalla III sezione della Cassazione il 31 marzo 2016, deciderà se per la prima volta nella storia italiana azionare, nei confronti dell’obbligo europeo messo a fuoco dalla sentenza Ue, il "contro limite" del principio di legalità in materia penale contenuto nell’articolo 25 della Costituzione italiana. Chiusura indagini a effetto ampio di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2016 Corte di Cassazione, Terza Sezione penale, sentenza 30001/16. L’avviso di conclusione dell’indagine preliminare è un atto idoneo a informare l’imputato della possibilità di estinguere il reato assolvendo il debito erariale nei tre mesi previsti dalla legge. L’equipollenza del cosiddetto "415-bis" - l’atto di chiusura formale dell’inchiesta penale - all’avviso di accertamento fa pertanto anche scattare il calcolo temporale per la decadenza dal diritto. La Corte di Cassazione (Terza penale, sentenza 30001/16, depositata ieri) torna a occuparsi della efficacia degli atti penali agli effetti (anche) amministrativi, nel solco di una giurisprudenza recente e comunque uniforme. Il caso prende le mosse dalla condanna, confermata in appello dai giudici di Palermo, di un imputato incarcerato per omissione contributiva all’Inps, per un importo di poco inferiore a 13mila euro (e quindi sopra anche alle recenti soglie di imputabilità). Tra i motivi del ricorso di legittimità, il contribuente condannato sottolineava le modalità della notifica dell’Acip, avvenuta in carcere e - asseritamente - senza neppure l’allegato circa la posizione debitoria verso l’istituto e le modalità di estinzione della pendenza. Secondo la difesa dell’uomo, inoltre, solo un operatore del diritto avrebbe avuto la capacità di comprendere appieno il significato di quell’avvertenza "erroneamente ritenuta dai giudici come idonea a rendere edotto l’imputato della possibilità di usufruire della causa di non punibilità". La Terza penale però, ha ripreso sul punto, validandole, le motivazioni dei giudici di merito, partendo dal dato di fatto secondo cui l’avviso del 415-bis conteneva anche l’elaborato dell’Inps con gli avvertimenti decadenziali previsti dall’avviso di accertamento. Tale circostanza, scrive il relatore, si evince dalla copia conforme a quella notificata al difensore e divenuta parte del fascicolo processuale. A giudizio della Terza, inoltre, la più recente giurisprudenza di legittimità ritiene che il termine di tre mesi per corrispondere l’importo dovuto, "ai fini della integrazione della causa di non punibilità del reato, decorre dal momento in cui l’indagato, o imputato, oltre ad essere informato del periodo di omesso versamento, dell’importo dovuto e del luogo dove effettuare il pagamento, risulti anche posto a conoscenza della possibilità di ottenere" l’esclusione della pena. Tuttavia, aggiunge la motivazione, la consapevolezza di tale facoltà può essere acquisita in qualsiasi forma, "non presupponendo la comunicazione di un avviso formale in ordine ai benefici conseguibili per effetto del pagamento del trimestre". Un caso analogo, ancorché riferito ai motivi di appello proposti dall’imputato medesimo, era stato risolto da ultimo nella sentenza della medesima sezione n. 46169 di due anni fa. Tra l’altro l’effetto sospensivo, agli effetti della prescrizione penale, dei tre mesi per l’adempimento previsti nel dl 463/1983 - che l’imputato aveva fatto decorrere infruttuosamente - per colmo di sua sventura gli era anche costata la sopravvivenza di una "coda" delle imputazioni, mentre la gran parte era appunto finita prescritta. Circolazione stradale: omicidio colposo per l’amministratore della ditta proprietaria del mezzo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 14 luglio 2916 n. 29982. Omicidio colposo a carico dell’amministratore unico di una ditta proprietaria dell’autocarro responsabile dell’incidente, causato da un problema ai freni, nella quale perdono la vita più persone. Il reato, per omesso controllo, scatta anche se il veicolo è stato sottoposto alle revisioni di routine e malgrado la mancata segnalazione di guasti da parte degli autisti. La Corte di cassazione, con la sentenza 29982 depositata ieri, respinge il ricorso della manager teso a negare la sua responsabilità nella vicenda. La ricorrente chiedeva ai giudici di tenere conto che proprio da lei era arrivata la richiesta di sottoporre a controlli l’automezzo, mentre da parte degli autisti non era arrivata alcuna indicazione relativa ai problemi del veicolo. La Suprema corte afferma però che le verifiche periodiche previste dalla legge non bastano per escludere la colpa. Trattandosi di un obbligo il cui adempimento è finalizzato anche a salvaguardare l’incolumità delle persone "è corretto ritenere che esso implichi e imponga un costante controllo del funzionamento di ogni parte essenziale al regolare impiego del veicolo". I giudici della terza sezione penale precisano che solo l’assiduità delle verifiche consente di accertare sia l’eventuale esistenza di difetti, sia la loro entità, in modo da poter mettere in atto le corrispondenti regole di prudenza. La Suprema corte considera del tutto irrilevante, anche perché indimostrata, l’affermazione della difesa secondo la quale il sistema frenante era già usurato al momento della revisione: difetto che sarebbe passato "inosservato" ai meccanici. La Cassazione ricorda che, se il proprietario sul quale grava l’obbligo di manutenzione è un ente, "destinatario delle norme è il legale rappresentante, quale persona fisica attraverso la quale il soggetto collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive". Né è ipotizzabile "nascondersi" dietro l’incompetenza in materia di automobili. I giudici precisano, infatti, che la responsabilità penale, se non esiste una valida delega, è indipendente dallo svolgimento o meno di mansioni tecniche: la "colpa" del manager scatta in virtù della sua posizione di preposto alla gestione della società. Non passa neppure il punto del ricorso mirato a contestare la decisione di considerare le circostanze attenuanti generiche equivalenti rispetto alla circostanza aggravante. L’incensuratezza dell’imputata si bilancia, ma non prevale, sull’aggravante prevista dall’articolo 589 del codice penale, in tema di omicidio colposo, che viene applicata nel caso di morte di più persone. Se il giudice e l’avvocato un bel giorno... di Piero Sansonetti Il Dubbio, 15 luglio 2016 I giornali non sono molto attenti a queste cose: ieri il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense (cioè i vertici della magistratura e i vertici dell’avvocatura) hanno firmato un protocollo di intesa con il quale avviano una nuova collaborazione e quasi quasi un’alleanza. È chiaro che, in molte circostanze, magistrati (i pubblici ministeri) e avvocati sono necessariamente in contrasto e in lotta tra loro. Perché questo prevede la legge. Prevede che difesa e accusa si fronteggino da posizioni diverse per favorire la ricerca della verità. Ma avere ruoli distinti nella giurisdizione non vuol dire necessariamente essere amici o nemici della buona giustizia. Avvocati e magistrati possono essere, insieme, amici della buona giustizia, pur combattendo battaglie diverse, o viceversa possono ostacolarla. Naturalmente la cosa interessa poco ai giornali. Mi pare che quasi nessuno si sia accorto della svolta del protocollo, che pone fine alla guerra tra magistrati e avvocati: per la semplice ragione che l’informazione, in Italia, quando si occupa di giustizia si occupa esclusivamente dei Pm che danno la caccia ai politici. Del resto non gliene importa un fico secco. È impressionante il divario, in Italia, tra la quantità gigantesca di spazio e forze dedicati al giornalismo giudiziario e quantità (praticamente nulla) di spazio e forze impiegati nella discussione o nella informazione sulla macchina della giustizia, i principi della giustizia, i successi o gli insuccessi dello Stato di diritto. Il protocollo di intesa firmato da Csm e Cnf dimostra invece che nella "struttura" della giustizia italiana esistono le forze per combattere una battaglia che affermi dei grandi principi comuni. Quali sono? In fondo uno solo, limpido, neanche troppo complicato: la difesa dello stato di diritto, e quindi della legalità, e quindi della giurisdizione. In quest’ordine: di importanza e di logica. La debolezza dell’informazione deforma la nostra vista. Chi legge i giornali e guarda la Tv immagina un’arena della giustizia dove in un lato ci sono i magistrati impegnati nella ricerca della verità e nel tentativo di punire i mascalzoni, e nell’altro lato gli avvocati, riparati dietro lo schermo dello stato di diritto, cercano di ostacolare i giudici. Questa deformazione rischia di portare a una vera e propria deformazione della democrazia. Perché spinge l’opinione pubblica a immaginare lo stato di diritto non come un "principio" fondamentale della civiltà e della convivenza, ma come uno strumento, nelle mani della difesa, che ostacola la magistratura e dunque - se non viene messo sotto controllo e limitato - danneggia la società. È una deriva in parte conseguenza, in parte causa, della cultura dell’emergenzialità. E cioè dell’idea che il modo giusto per governare (e per convivere) sia quello di adattare le leggi e i principi alla situazione del momento. I giornali dicono che ci sono molti incidenti stradali? Si introduce il delitto stradale. I giornali dicono che la corruzione dilaga? Si preparano delle leggi per aumentare le pene ai corrotti. I giornali dicono che il politici sono ladri? Si preparano misure per cacciare i politici dal Parlamento, o dai Comuni, anche senza processo e anche se magari sono del tutto innocenti. Per affrontare questa situazione c’è una sola strada: quella di di stabilire che la bussola non è l’emergenza, o il vento del popolo, ma è lo stato di diritto. E spiegare che i magistrati - o comunque una parte molto grande della magistratura - sono interessati, profondamente interessati ad affermare questa idea. Il protocollo firmato l’altro giorno vale molto, esattamente per questo motivo. Perché accende un lumicino di speranza. La speranza che la battaglia per la giustizia possano combatterla insieme le parti più importanti e più moderne della magistratura e dell’avvocatura. Magari potreste obiettare: e Davigo? Ha tutti i diritti di esistere e di proclamare il suo giustizialismo. Non è che essere reazionari è un delitto. Però esiste la possibilità che la magistratura decida di seguire altri orientamenti. E le posizioni assunte mercoledì’ al plenum del Csm fanno ben sperare. Il mostro e i diritti violati di Gian Marco Chiocci Il Tempo, 15 luglio 2016 L’esegesi storica del sangue con cui Bernardo Provenzano ha macchiato la Sicilia e l’Italia è solo una parte del tutto. Ampia, sì, come le lacrime di chi ha perduto figli, genitori e parenti, oscura come le troppe ombre che si dipanano nei decenni e nei meandri dello Stato. Avvolgente come quella biscia di malaffare che ha unito luoghi diversi e ambienti diversi, da polverosi fienili della campagna siciliana fino su, su, ai potentati finanziari e politici. È stato, è, e resterà un enigma, Provenzano. L’ossimoro tra l’apoteosi malvagia di chi agguanta la facoltà di decidere vita o morte altrui e la miseria del semianalfabeta, con il contorno mitologico dei pizzini sgrammaticati distribuiti da un uomo che per spargere buio scelse di vivere egli stesso al buio. Provenzano è stato mistero, paradosso, gioco dei contrari. È una parte del tutto. L’altra parte è la giustizia. Su cui noi, proprio oggi, giornata del sollievo nazionale per la morte del Padrino, vogliamo porre una domanda: è stata fatta davvero giustizia? Possiamo ritenerci appagati da quel regime 41 bis applicato a un vecchio ormai non più disponente di se stesso, della sua coscienza, delle sue fin più elementari necessità fisiologiche? In rumorosa solitudine, spalleggiati solo dai Radicali e dalle Camere Penali, ce lo chiedemmo tre anni fa su queste colonne ospitando una lettera (che oggi riproponiamo) del figlio di Bernardo Provenzano, Angelo, il quale descriveva le condizioni di un uomo che andava in coma a giorni alterni, non più in grado di riconoscere neanche i suoi cari. E allora, a questo punto, ci chiediamo anche quale sia stato lo scopo di una pena carceraria comminata a chi non è più in grado di recepirla, e se magari non fosse stato meglio trasferirlo in una struttura in grado di accogliere persone nelle sue condizioni. Non troviamo risposta nel teatrone dell’Italia perdonista e nemmeno nell’Italia di Cesare Beccaria, che definiva la tortura come uno strumento inadeguato che conduce ad una verità illusoria. A meno che l’accanimento sul simbolo fisico di quel che è stato e non è più, senza più alcun barlume di personalità, sul corpo vegetante di una larva umana che ha perduto qualsiasi contatto con il presente e con il passato, non sia in realtà una tecnica di lavaggio della coscienza per recuperare, con l’inflessibilità di oggi, le inefficienze, le omissioni e le omertà di ieri. Ma questa, lasciatecelo dire, giustizia non è. Ha il sapore aspro della vendetta consumata a freddo che sporca di sangue le mani dello Stato e a imperitura memoria annichilisce il principio del diritto uguale per tutti. Provenzano morto in 41bis, il Diritto vive ancora? di Maria Brucale Il Dubbio, 15 luglio 2016 Il 25 marzo 2016, il figlio di Bernardo Provenzano, Angelo, riceveva, quale amministratore di sostegno del padre, notifica del decreto di proroga del regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario (O. P.) a firma del ministro della Giustizia. Aveva un amministratore di sostegno, Provenzano, perché soggetto incapace di intendere e di volere, di stare in giudizio, di agire e di reagire, di ricevere un atto, di leggere, di scrivere, di comprendere. La funzione preventiva del regime di cui all’art. 41 bis implica che il soggetto ad esso sottoposto abbia la "capacità" di agire, di instaurare contatti e realizzare comunicazioni con l’estero mentre Provenzano non era più in grado di "relazionarsi con l’esterno", né di "comprendere" ciò che accadeva attorno a lui. Era attestato in modo ormai costante da numerose relazioni peritali e la nomina di un amministratore di sostegno era la plastica rappresentazione di uno stato cognitivo definitivamente compromesso. Già da anni le sue condizioni di salute erano così descritte: "Paziente solo a tratti contattabile, non esegue gli ordini della visita; si oppone all’apertura delle palpebre. Muove spontaneamente gli arti superiori e ruota i globi oculari in tutte le direzioni. L’eloquio è incomprensibile per afonia e disartria. Non può eseguire ordini o fornire risposte"; "Paziente in stato clinico gravemente deteriorato e in progressivo peggioramento, allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana. Stato cognitivo gravemente ed irrimediabilmente compromesso" (relazione sanitaria San Paolo di Milano). Tutti i medici e i sanitari interpellati, ritenevano che il malato fosse del tutto incompatibile con qualunque regime carcerario. Il medico che lo aveva in cura nel reparto protetto dell’ospedale San Paolo di Milano, dottor Rodolfo Casati, aveva raccontato che Provenzano non capiva, non pronunciava parole, mmmmm, forse mamma. Esprimeva suoni disarticolati da un corpo non più corpo, inerme e immobile, costantemente ripulito e riposizionato, mancante di ogni autonomia di volontà, di azione e di reazione. In occasione del precedente rinnovo del regime carcerario differenziato, le Procure antimafia di Palermo, Caltanissetta, Firenze, unanimemente si erano dette contrarie al procrastinare la soggezione alla detenzione differenziata per un soggetto incapace, in virtù del suo stato cognitivo, di relazionarsi con il mondo esterno e di comunicare utilmente con altri interlocutori. Nell’aprile del 2016, invece, si riscontrava un sorprendente mutamento di rotta della Dda di Palermo che esprimeva parere favorevole alla proroga. A motivo dell’eclatante cambiamento, (eclatante perché lo stato cognitivo non era certo migliorato), la Dda di Palermo adduceva la necessità di delineare la figura di Provenzano ed il ruolo rivestito in "cosa nostra". Un totale fraintendimento, dunque, del concetto di "criteri soggettivi" da utilizzare per valutare la legittima soggezione di un detenuto al regime di cui all’art. 41 bis O. P. che mai possono esaurirsi nella qualità di capo di un sodalizio ascritta ad un soggetto se tale soggetto non può più in alcun modo esercitare tale pretesa qualità. Ciò che conta, ai fini della proroga, non può essere uno status ormai radicalmente svuotato di ogni contenuto, bensì la potenzialità concreta ed attuale che tale status, ove dimostrato, si traduca in una, quantomeno astratta, capacità di relazione. Così correttamente individuato l’obiettivo di verifica, perde significato qualsivoglia ricostruzione del ruolo, del carisma, della figura criminale di un individuo cui non è più possibile attribuire alcuna capacità di azione, di manifestazione del pensiero, di relazione. Assurdo, incoerente e, soprattutto, contrario alla legge è un regime differenziato a carico di chi non può essere pericoloso perché non capisce più. Eppure Bernardo Provenzano è morto in 41 bis. Ai suoi congiunti, non a lui, è stata negata l’ultima carezza, l’ultimo sguardo. L’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario è una legge dello Stato. Prevede una carcerazione speciale che serva ad evitare ai capi di organizzazioni criminali di mandare all’esterno messaggi o di riceverne dai sodali in libertà. Provenzano non era in grado di farlo ormai da anni. Probabile che non percepisse più la carcerazione, la punizione, la ferocia della macchina repressiva dello Stato. Nessuna esigenza di sicurezza legittimava ormai una forma di detenzione così esasperatamente afflittiva ma si doveva sventolare una squallida bandiera di repressione, mostrare uno Stato che è forte perché distrugge i suoi nemici, odia, si vendica. Uno Stato che rinnega la sua essenza e le sue leggi e si inchina soddisfatto alla legge del taglione, il male con il male, la morte con la morte. La "vendetta" poco etica dello Stato contro Provenzano di Paolo Signorelli lultimaribattuta.it, 15 luglio 2016 Bernardo Provenzano è morto e con lui, molto probabilmente, tutto ciò che restava (più per immagine che per il concreto) del vecchio vertice di Cosa Nostra. Un boss, uno dei criminali italiani più spietati, sottoposto al giusto regime del 41 bis una volta catturato, quello riservato ai mafiosi che hanno macchiato la loro vita con delitti e reati di ogni genere. Giusto, però, fino a un certo punto. Perché Provenzano, in realtà, erano quasi tre anni che aveva praticamente smesso di vivere. Un detenuto-vegetale di 83 anni, attaccato alle macchine dell’ospedale giudiziario San Paolo di Milano, 45 kg di peso, nutrito con un sondino. Totalmente incapace di intendere e di volere e, soprattutto di comunicare. Ed ancora affetto da una encefalopatia degenerativa, infezione cronica al fegato e di recidiva del vecchio tumore alla prostata. Era come morto già da 1000 giorni, anche se respirava ancora. Eppure, ciononostante, il regime di carcere duro non gli è mai stato revocato. Mai. Uno Stato, quello italiano, che si è di fatto comportato come hanno sempre fatto i mafiosi: vendicandosi di un vecchio criminale che non poteva più far alcun male a nessuno. Uno Stato che è voluto passare da duro quando non ce ne era bisogno, certo di poter dare all’opinione pubblica un’immagine di "giustizia esemplare". Uno Stato che è riuscito, però, solo nell’impresa di calpestare le regole più elementare di dignità che anche il peggiore dei criminali (Provenzano lo era) avrebbe meritato. Sì, perché il capo di Cosa Nostra aveva smesso di fare male, catturato, recluso e condannato per tutto il male che aveva fatto. Esponente di spicco della vecchia mafia, erano tre anni che non viveva più. Respirava sì, ma di certo non poteva più ordinare esecuzioni e mandare "pizzini". Che fosse ormai "morto" lo avevano capito tutti. Lo avevano ammesso le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, chiedendo la revoca del 41 bis (anche perché tutte le indaginI sulla mafia dell’ultimo periodo non erano più riconducibili a Provenzano). Lo aveva ammesso perfino la Cassazione che definì le condizioni del boss "plurime e gravissime, di tipo invalidante". E lo aveva ammesso anche l’ex pm Antonio Ingroia. "Togliergli il 41 bis è un atto dovuto da parte dello Stato italiano". Ma la Giustizia italiana, siccome Provenzano "rispondeva alla cure" decise (e ha continuato a farlo) di non revocare un bel niente. Si è voluto così proseguire col regime di carcere duro nei confronti di un uomo già morto cerebralmente. Continuando a considerarlo come capo di non si sa cosa, in grado di impartire ordini anche da vegetale, costringendo i parenti ad accudirlo una sola volta al mese. Più che carcere duro, è stato ospedale duro. Il tribunale di sorveglianza di Milano si inventò addirittura che il 41 bis serviva a proteggere Provenzano? Da chi? Da cosa?. "Farlo finire in questo modo becero è una sconfitta per lo Stato", ha dichiarato il sostituto procuratore generale di Palermo Nico Gozzo. Adesso che il boss è scomparso, ai familiari è stata pure negata la cerimonia pubblica in chiesa. Niente funerali, dunque. Troppo alto il rischio che, dalla tomba, Provenzano possa ancora comandare e commettere gli orrendi crimini che hanno caratterizzato la sua misera esistenza. Padova: Due Palazzi, corsi anti-Isis per chi lavora in carcere di Elisa Fais Il Mattino di Padova, 15 luglio 2016 Progetto finanziato dall’Europa per riconoscere i detenuti fondamentalisti. Protocollo d’intesa con il Bo per il rispetto delle diversità culturali e religiose. Le carceri del Triveneto si preparano per meglio affrontare la sfida contro il fondamentalismo islamico, iniziando la lotta contro il terrorismo da dietro le sbarre. Padova è stata inclusa nel programma, finanziato dalla Comunità europea, per evitare la radicalizzazione nelle carceri e migliorare la valutazione del rischio. Tutti gli operatori penitenziari, di ogni ordine e grado, saranno formati ad hoc per riconoscere gli individui a rischio e farli desistere da posizioni estremiste. "L’obiettivo è analizzare i contesti detentivi", spiega Angela Venezia, direttore dell’Ufficio detenuti del Provveditorato penitenziario per il Triveneto, "e trovare chiavi di lettura che permettano di interagire con i soggetti, potenzialmente aggressivi, che dimostrano simpatia per il mondo islamico. Il progetto sarà avviato con la collaborazione di un agenzia di formazione e sarà in rete con università e dipartimenti penitenziari esteri". In Europa la radicalizzazione è una minaccia crescente, per questo la Commissione si è impegnata a sostenere gli stati membri finanziando programmi di formazione per gli addetti ai lavori del sistema giudiziario penale. Lo scopo è evitare che alcuni detenuti una volta usciti dal carcere passino dall’estremismo ideologico all’azione violenta, trasformando le strutture di detenzione in una palestra e un luogo di incontro. Un rischio che si è già trasformato in realtà in altre città come Parigi. Amedy Coulibaly, uno degli attentatori che ha commesso la strage di Charlie Hebdo, era stato in carcere per rapina a mano armata e, stringendo legami con un secondo attentatore, Chérif Koauchi, è uscito intenzionato a portare a termine un attacco terroristico. Attualmente circa 750 persone sono recluse al Due Palazzi. Metà dei detenuti provengono da 60 paesi diversi. A loro è dedicato un nuovo protocollo d’intesa per il rispetto delle diversità religiose, che nasce tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia e il Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata (Fisppa) dell’Università. L’iniziativa è stata presentata ieri al Bo, alla presenza del rettore Rosario Rizzuto, del direttore Fisppa Vincenzo Milanesi e del provveditore Enrico Sbriglia. "Sono coinvolti 5 ricercatori con competenze multilinguistiche", specifica Mohammed Khalid Rhazzali, coordinatore, "sottoporremo ai detenuti stranieri questionari di indagine, con l’obiettivo di capire come organizzare gli spazi e i tempi per le diverse abitudini e pratiche religiose". Venezia: detenuto suicida a Santa Maria Maggiore, agente condannato a 7 mesi di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 15 luglio 2016 Accusato di omicidio colposo e abuso d’autorità. Assolto un collega della penitenziaria. L’ispettore della Polizia penitenziaria Stefano Di Loreto è stato condannato ieri a sette mesi di reclusione, mentre il collega Leonardo Nardino è stato assolto per non aver commesso il fatto. Infine, per il vice sovrintendente Francesco Sacco il giudice monocratico di Venezia Daniela Defazio ha dichiarato prescritto il reato. Di Loreto doveva rispondere di omicidio colposo (4 mesi) e abuso di autorità (tre mesi). L’accusa, dalla quale la comandante della Penitenziaria (in un primo momento condannata) è stata poi assolta dalla Corte d’appello, era pesante: avrebbero rinchiuso in una cella di punizione, visto che era senza acqua, senza luce e senza riscaldamento, non c’erano i sanitari, non c’era il letto e una sedia, i detenuti con comportamenti "devianti, conflittuali o autolesionistici". E nella 408, dopo aver tentato il suicidio, c’era finito anche il 28enne marocchino Cherib Debibyaui, che il 5 marzo 2009 in quella cella si è impiccato. Sul banco degli indagati c’erano finiti in cinque. Di Loreto, stando al capo d’imputazione, a causa del tentativo di suicidio di Cherib, sventato da altri due detenuti che erano in cella con lui, lo avrebbe trasferito nella cella di punizione, dove facendo a strisce con i denti la coperta dopo 62 ore di isolamento era riuscito ad impiccarsi al chiavistello della finestra. Inizialmente, la comandante degli agenti avrebbe avallato la decisione del sottoposto e non avrebbe disposto la sorveglianza sul detenuto a rischio. La stessa sorte avrebbero subito nel corso del 2008 e del 2009 altri detenuti, in particolare, il tunisino Kais Latrach (rinchiuso nella cella 408 per 25 ore una prima volta e per altre 32 una seconda), il tagiko Omar Basaev (per 175 ore), il romeno Ilie Paval (per 46 ore), gli iracheni Mohamed Sami (per 30 ore una prima volta e per altre 121 una seconda) e Karim Eddi (per 9 ore). E in quella cella ci sarebbero finiti non solo chi danneggiava le suppellettili o litigava con gli altri, ma anche chi, come il 28enne Cerib, aveva cercato di uccidersi. Napoli: protesta dei detenuti di Poggioreale per avere le borse-frigo in cella Cronache di Napoli, 15 luglio 2016 L’ultima battaglia degli ex Detenuti Organizzati Napoletani (ex Don) ha riguardato l’assenza dei frigoriferi nelle celle due mesi fa: gli alimenti portati dai familiari dei detenuti duravano un giorno. La sera andavano buttati, perché il calore li rendeva inutilizzabili dopo poche ore. Il 10 giugno è scattata la rivolta: alcuni reclusi nel padiglione Avellino (Alta Sorveglianza) hanno cominciato lo sciopero della fame. Per 48 ore non hanno toccato cibo. Hanno messo in campo una sorta di protesta collettiva, per dimostrare il loro disagio, con i mezzi che hanno a disposizione: la cosiddetta "battitura giornaliera" (battono le pentole contro le grate delle celle due ore la mattina e due ore nel pomeriggio). Ma soprattutto alcuni hanno cominciato lo sciopero della fame, una forma di protesta legata proprio alla questione del cibo. "Molti istituti penitenziari hanno dei frigoriferi per conservare gli alimenti portati dai familiari dei detenuti - avevano detto i detenuti - ma basterebbe che Poggioreale si dotasse di borse frigo, quelle che comunemente si portato in spiaggia. In questi contenitori il cibo si mantiene freddo con placche di ghiaccio". Rapida la risposta del direttore del carcere Antonio Fullone, che pochi giorni più tardi ha dotato le celle dei frigoriferi e il problema è stato risolto. Reggio Calabria: il Garante dei detenuti sui protocolli d’intesa per lavori di pubblica utilità ilmetropolitano.it, 15 luglio 2016 "Apprendo con viva soddisfazione che nei giorni scorsi il Comune di Locri ed il Comune di Palmi hanno sottoscritto con il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, con la Direttrice dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Reggio Calabria e con le Direzioni dei rispettivi istituti penitenziari di Palmi e Locri, il Protocollo d’Intesa per il lavoro volontario e gratuito in favore della collettività, destinato ai soggetti in esecuzione penale, ammessi al lavoro all’esterno o in misura alternativa alla detenzione. Si è replicato in sostanza il Protocollo sottoscritto dal Comune di Reggio Calabria lo scorso 7 giugno, promosso dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria Agostino Siviglia e fortemente voluto dal Sindaco Giuseppe Falcomatà. Si comincia a consolidare dunque una sinergica buona prassi in tema di giustizia riparativa, recupero e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti provenienti dai circuiti penali, virtuosamente avviata dalla Città di Reggio Calabria. La dimensione metropolitana, che presto diverrà realtà concreta, si realizza già nell’ambito dell’esecuzione penale, tema cruciale per il nostro territorio, attraverso la scambio ed il consolidamento delle buone prassi sperimentate nell’ottica della più organica e funzionale "governance della pena". I Protocolli interistituzionali costituiscono per vero uno strumento concreto per restringere le maglie della buona amministrazione, emarginare i poteri devianti, strutturare, giurisdizionalizzando, positivi processi di recupero e reinserimento sociale di chi ha delinquito. Il tema dell’esecuzione penale costituisce in tal senso uno straordinario viatico per l’abbattimento della recidiva del reato, il consolidamento della percezione della sicurezza sociale, la sottrazione degli autori di reati minori dalla sottocultura criminale, la concreta chance per una scelta di vita alternativa. È questa una sfida cruciale alle nostre latitudini ed appare sempre più urgente emarginare ogni forma di potere criminale, tanto deviante quanto ingannevole, attraverso risposte di legalità e di opportunità. Va da sè che spetta al soggetto che ha delinquito ripudiare ogni forma di devianza delittuosa e rivisitare il proprio vissuto riparando alle condotte commesse, così come spetta alle istituzioni, oltre alla doverosa repressione, la strutturale implementazione di politiche culturali, sociali e lavorative che possano davvero consentire di affrancarsi dalla devianza criminale e di innescare concreti e durevoli processi di cambiamento sociale." Il Garante dei detenuti Avv. Agostino Siviglia Monza: Sappe; detenuto dà fuoco a un materasso, tragedia sfiorata mbnews.it, 15 luglio 2016 Si è sfiorata la tragedia nel carcere di Monza. Un detenuto mercoledì mattina, 13 luglio, ha dato fuoco a un materasso nell’infermeria del carcere mettendo a repentaglio la vita di tutti i detenuti del reparto e di tutto il personale di Polizia Penitenziaria. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che spiega come lo stesso detenuto ieri mattina ha continuato nella sua follia il giorno dopo: "Durante la visita lo stesso detenuto, un egiziano di 40 anni, ha rifiutato la terapia e ha aggredito il medico e due colleghi presenti strappandogli la divisa" ha raccontato Nico Tozzi vicepresidente di Sappe. Anche Donato Capece, segretario generale del Sappe, rivolge "solidarietà e vicinanza al Personale di Polizia Penitenziaria di Monza, che ancora una volta ha risolto in maniera professionale ed impeccabile un grave evento critico" e giudica la condotta del detenuto che ha provocato l’incendio "irresponsabile e gravissima. Nel 2015 abbiamo contato nelle carceri italiane 7.029 atti di autolesionismo, 956 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 4.688 colluttazioni, 921 ferimenti.". "Le carceri, dunque, sono ad alta tensione anche in Lombardia: ma lo sono per gli Agenti di Polizia Penitenziaria, sempre più al centro di gravi eventi critici come quello di Monza - aggiunge Capece. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane e lombarde, per adulti e minori. Come dimostra l’incendio sventato ieri a Monza" conclude. Treviso: dal carcere alla meta, i detenuti sognano di giocare nei tornei di Antonio Frigo La Tribuna di Treviso, 15 luglio 2016 Tutto nacque da un corso al carcere di S. Bona finanziato dalla Regione Oggi la squadra cerca sponsor e sogna di andare in trasferta. Il motto del progetto era piaciuto anche al direttore Francesco Massimo, oltre al comandante della polizia penitenziaria Andrea Zema, e all’assessore allo Sport Ofelio Michielan: "Vai in meta, lascia in fuorigioco...". Ovvero "l’ovale rende liberi", anche se stai passando una grossa fetta della tua vita nella casa circondariale di Santa Bona. Qualcuno lo chiama già scherzosamente galerugby, e sono numerose le squadre trevigiane che si son sentite chiedere, dai detenuti rugbisti, la possibilità di disputare un’amichevole. I primi furono i castellani del Variegati Old Rugby, che in una foto qui accanto portano la maglietta rossa, ma che nelle foto d’assieme portano la casacca nera, come i Santa Bona Rugby (questo il nome dei ruggers con il sole a scacchi), in modo da non offrire il fianco alla curiosità morbosa di chi cerca di riconoscere a tutti i costi le "facce da galera". Ora che hanno imparato a giocare bene (coi Variegati hanno perso, ma di poco), ma hanno perduto lo sponsor principale del progetto, la Regione Veneto, i giocatori del Santa Bona e il loro mentore, il presidente provinciale dell’Aics (associazione italiana cultura sport) Claudio Pilon, notissimo personaggio dello sport, cercano una nuova sponsorizzazione e sognano a occhi aperti un po’ di libertà almeno per praticare il loro sport. In questa danza, composta da un passo avanti e uno indietro, val la pena di ricordare che il progetto all’interno del carcere, durato dal 27 maggio 2015 fino al 23 aprile 2016 e al famoso match con i castellani, era stato realizzato con il lavoro organizzativo di Giacomo Celotto, quello tecnico di Alessandro Gerardi e degli istruttori qualificatissimi Enrico Francescato e Enrico Zanchetta. Vinto ben presto anche lo scetticismo delle guardie penitenziarie - diventate poi tifose in un batter d’occhio - e rimesso in ordine un po’ di lassismo degli allievi subentrato nella brutta stagione, la pattuglia dei 25 ospiti della casa circondariale di Treviso ha seguito con passione le lezioni tecniche e ha effettuato con impegno gli allenamenti. "I valori del rugby trasformano il rude contatto sportivo in una lezione di lealtà. Questo era il messaggio che tutti si auguravano passasse. Così è stato. Perché è vero che tra gli "studenti-atleti" c’erano condannati per rapina, omicidio e molto altro, ma è anche vero che solo stando loro vicino si può cogliere una innegabile umanità degli ospiti della prigione", spiega Pilon. "La partita finale con la squadra castellana è stata una specie di grande liberazione, un momento di verifica che ha emozionato anche qualche "scorza" per nulla portata alla commozione. Da questa partita e dalla serie di lezioni-allenamento protrattesi per quasi un intero anno, tra l’altro, è stato ricavato anche un dvd che riassume il progetto. Il tutto nel rispetto dei detenuti. Così le facce che si vedono in primo piano negli spogliatoi, mentre si preparano al match, sono quelle della squadra avversaria, non quelle del Santa Bona Rugby, in modo da non imbarazzare parenti e amici dei detenuti", aggiunge Pilon. Il presidente dell’Aics trevigiano illustra pure il sentimento attuale dei galerugbisti: "L’esperienza, se si fermasse qui, sarebbe sterile. Vorrebbero tanto tornare a giocare con le tante squadre della Marca. Intanto in amichevole, poi anche in qualche torneo giornaliero. Infine, magari, in trasferta, sull’esempio della squadra di calcio dei carcerati del Due Palazzi di Padova che può disputare il campionato di Terza categoria". "Io, in carcere per raccontare madri e bambini dietro le sbarre" di Clara Caroli La Repubblica, 15 luglio 2016 ci sono i biberon e i pannolini, i ciucci e i fasciatoi, le bambole e i tricicli. C’è il pentolino con la pappa, il latte a scaldare sul fornello elettrico, le lenzuola a fiori, le copertine di pile, i microscopici calzini messi ad asciugare sul termosifone. Ci sono i giochi e le risate, i disegni, le filastrocche, i passi per mano. Insomma, c’è tutto l’indispensabile. E se non fosse per le sbarre alle porte e alle finestre, sbarre allegre, colorate di rosso e di azzurro, ma pur sempre sbarre, sembrerebbe una storia normale. "Avevo partorito da poco mio figlio, che ora ha cinque anni - racconta Rossella Schillaci - Ho conosciuto alcune educatrici coinvolte in un progetto che permetteva ai bambini detenuti di frequentare l’asilo nido vicino al carcere, in Falchera. Sono rimasta scioccata. Non sapevo che le mamme recluse potessero per legge, in regime di custodia attenuata, tenere i bimbi (fino a sei anni, ndr) con sé". Inizia così il percorso molto speciale che la regista torinese - studiosa di antropologia, autrice di opere importanti sull’immigrazione come "Approdi" e "Altra Europa" - ha intrapreso per realizzare il suo ultimo documentario, "Ninna nanna prigioniera", presentato in anteprima mondiale (e premiato) il mese scorso al Biografilm Festival di Bologna. Prodotto da Indyca con De Films En Aiguille e il sostegno del Piemonte Doc Film Fund, è stato girato per sette mesi, nel 2014, nella sezione femminile delle Vallette. Il documentario, che affida alle sole immagini, senza voce fuori campo né musica, il racconto della "realtà alienante" della maternità vissuta dietro le sbarre, è stato presentato anche a Parigi e, dopo il passaggio in alcuni festival, all’inizio del 2017 arriverà nei cinema distribuito da Fil Rouge Media. A Torino ci sarà una proiezione anche alla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Il progetto inizia con un lento avvicinamento. Senza telecamere. "Ho incominciato ad accompagnare le educatrici incaricate di andare a prendere i bambini in carcere e portarli al nido - spiega l’autrice - Aspettavo fuori dal cancello, poi andavamo tutti insieme. Cercavo di stare con i piccoli il più possibile, per conoscerli. Durante il tragitto, scattavo fotografie. Quando finalmente ho ottenuto l’autorizzazione ad entrare nel carcere, ho potuto mostrare le foto alle mamme. Per loro è stato commovente vedere i loro figli in una situazione di normalità. Questo mi ha aiutato molto a stabilire il contatto". Protagonista di "Ninna nanna prigioniera" è Jasmina, una giovane slava che si trova nella casa di detenzione con due bambini. "Altre non hanno voluto essere filmate. Si vedono solo i piedi, i capelli, o il pancione. Sì, c’erano anche donne incinte. Jasmina all’inizio era aperta, disponibile, convinta che sarebbe uscita presto. Poi invece non è stata rilasciata e il suo umore è cambiato". Il film tocca marginalmente il dramma della condizione carceraria e il tema della colpa. Il tono è neutro, non dà giudizi. "Non ho edulcorato la situazione, queste donne non sono vittime ma persone che hanno commesso reati. Ho solo voluto raccontare cosa vuol dire essere madre ed essere un bambino in carcere e l’ho mostrato attraverso le piccole cose". Dentro un luogo di detenzione, i bimbi sono un elemento vitale, un catalizzatore affettivo: "Nell’ora d’aria, tutte le detenute cercano un contatto fisico con loro. È commovente". Con inquadrature ravvicinate, immagini di grande delicatezza e tocchi di poesia (i fratellini che si addormentano per mano, i kiwi appoggiati sui supporti di ferro tra le sbarre della cella), il film racconta la "normalità" di chi vive in regime di reclusione: "Sono rimasta impressionata da come le persone sviluppino forme di resilienza, di adattamento. E comunque riescano a ricreare una loro quotidianità. È molto umano". Emerge il ritratto di una comunità di donne, nei loro gesti più comuni. Potrebbe trovarsi ovunque. Alla fine tutto ruota attorno a una domanda: qual è il bene del bambino? "Nessuno ha una risposta, se non a livello legislativo - conclude Schillaci - Per bambini così piccoli è importante stare con la mamma anche in quelle condizioni". La regista sta ora girando un corto finanziato dal Ministero, titolo provvisorio "Ghetto PSA, Puro sangue africano": "Il protagonista è un ragazzo immigrato di Barriera di Milano che si è integrato usando il rap e fa l’educatore in un centro per richiedenti asilo". L’attività della Compagnia teatrale "Stabile Assai" della Casa di reclusione di Rebibbia comunicato della Compagnia "Stabile Assai" Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2016 La notorietà della Compagnia teatrale "Stabile Assai" della Casa di reclusione di Rebibbia, diretta dal dottor Stefano Ricca, raggiunta a seguito delle sue numerosissime (oltre 700) precedenti esibizioni in molte realtà teatrali e non solo, comporta l’invito ad ulteriori partecipazioni nell’ambito di rassegne teatrali o manifestazioni di rilevanza sociale e scientifica. Agosto 2016 si preannuncia, però, come un mese veramente speciale per la storia del Teatro penitenziario italiano. La Compagnia Stabile Assai realizzerà, come da tradizione ultradecennale, una tournée che, oltre l’abituale scenario della Puglia e della Basilicata, nello specifico, si arricchirà di ulteriori appuntamenti, alcuni di grande rilevanza sociale. In tale ottica deve essere individuato l’invito del Comitato Regionale Sicilia e del Comitato provinciale dell’Aics di Siracusa a prevedere lo svolgimento dello spettacolo "Scusate si so nato pazzo" nelle piazze centrali di Noto e Siracusa il 13 e 14 agosto. L’annuale disponibilità del Comitato Regionale della Puglia e del Comitato Provinciale di Lecce dell’Aics (Associazione Italiana Cultura e Sport), che da alcuni anni promuovono gli spettacoli della Compagnia in tale realtà territoriale, consentirà la messa in scena del predetto spettacolo "Scusate si so nato pazzo" a Casalabate (Le) il 18 luglio. Lo spettacolo, scritto da Antonio Turco, responsabile storico della Compagnia e dal detenuto ergastolano Cosimo Rega si avvale della sceneggiatura di Paolo Mastrorosato, attualmente affidato ai Servizi sociali e con un notevole background artistico alle spalle (ha lavorato con Alberto Sordi e poi come aiuto regista di un mostro sacro come Ettore Scola; attualmente collabora con Ricky Tognazzi e Simona Izzo) ed è dedicato al tema poco esplorato del disagio mentale che il carcere produce. La rappresentazione si terrà, inoltre, il 19 agosto ad Altamura (Ba) presso l’Antica Masseria dell’Alta Murgia, su invito della Presidenza dell’Associazione Italiana Alberghi per la gioventù e che avrà come utenza, oltre membri dell’Amministrazione comunale locale e del Provveditorato agli Studi della provincia di Bari, un gruppo di giovani immigrati e rifugiati che sono ospitati presso la predetta struttura. Dal 20 al 22 agosto la Compagnia sarà ospite dell’Assessorato alle politiche culturali di Alberobello (Ba). Il 20 e 21 il gruppo interagirà nell’ambito della manifestazione "La notte dei briganti", giunta, quest’anno, alla sua decima edizione e il cui svolgimento è previsto nello spazio antistante l’ormai dismesso carcere minorile della Casa Rossa. Questa iniziativa, ideata dal regista teatrale Luca De Felice, ogni anno viene proposta a non meno di 4.000 spettatori che giungono da tutta Italia per assistere ad uno spettacolo davvero unico nel suo genere e che vede protagonisti gli attori della Compagnia nella ultima delle nove scene in cui si dipana il racconto. Il 22 la Compagnia metterà in scena, in piazza Ferdinando IV, la propria opera "Scusate si so nato pazzo". Il gruppo si trasferirà dal 23 al 25 agosto a Locri (Rc), dove, ospite dell’Assessorato alle politiche culturali e turistiche della locale Amministrazione Comunale, su input dell’avvocato Elena Gratteri, nella serata del 23 si esibirà nella piazza centrale della città. Il 24 agosto la Compagnia rappresenterà ancora una volta lo spettacolo "Scusate si so nato pazzo" per la popolazione detenuta della Casa circondariale di Locri, come concordato con l’ampio parere favorevole della Direzione dell’Istituto. Anche in questo caso si ritiene significativo evidenziare il contenuto sociale dell’operazione, considerata la qualità criminale degli ospiti dell’Istituto, cui, da tempo vengono inviati messaggi di controtendenza culturale dal gruppo operativo della Direttrice Patrizia Delfino. Alcuni detenuti del carcere leggeranno, attivando, così, una concreta partecipazione, brani di Pasolini e Bob Dylan e Dylan Thomas. Il 25 agosto concluderà la fase calabrese con la esibizione prevista nella piazza centrale di Marina di Gioiosa Ionica con lo spettacolo " Un amore bandito", dedicato alla storia d’amore tra Michelina Di Cesare e Franceschino Guerra, due giovani briganti di Carmine Crocco, morti a soli 23 anni. Il 26 agosto la Compagnia sarà ospite del "Giffoni teatro festival", la cui risonanza artistica è facilmente comprensibile. L’incontro di Antonio Turco, Mimmo Miceli e Cosimo Rega con i giovani studenti delle Scuole superiori del salernitano, farà da prologo alla esibizione. Un ultimo riferimento è da indirizzare al contenuto dello spettacolo "Scusate si so nato pazzo". La suite si impernia su una serie di monologhi intervallati da brani musicali che hanno l’obiettivo di proporre una riflessione su come le condizioni detentive incidano sul progressivo peggioramento della dimensione psicopatologica dei soggetti reclusi. Jean Genet, soprattutto Edward Bunker, amatissimo dai detenuti giovani e poi James Ellroy, Guy de Maupassant, Jean Paul Sartre, Jack London e Arthur Conan Doyle, sono gli autori che sul tema hanno scritto pagine significative e che sono di riferimento nella costruzione del testo. L’alienazione mentale che il carcere produce in termini di inevitabile isolamento dalla società civile risulta, così, essere il contenitore cui destinare la rappresentazione di sofferenze individuali e collettive che spesso vengono affrontate con l’uso smodato di psicofarmaci. Al tempo stesso la follia è sinonimo di poesia e creatività di difficile lettura e comprensione. Nel testo, confezionato secondo i canoni classici della drammaturgia penitenziaria, di cui la Compagnia Stabile Assai è una delle più significative espressioni italiane, incidono ricordi e drammi vissuti personalmente dai detenuti/attori nel rapporto con la creatività e il loro diverso essere, spesso identificato con la indisponibilità sociale all’ascolto. Di grande spessore dottrinale il contributo offerto dalla Ordinaria di psicologia sociale dell’Università di Sassari Patrizia Patrizi, forse una delle voci più sentite dal mondo accademico sul tema della "Giustizia riparativa", che spesso ispirano le opere della Compagnia, dalla psicoterapeuta Sandra Vitolo e dalla teatro terapeuta Patrizia Spagnoli che da anni collabora nella stesura dei testi e che mette a disposizione la esperienza maturata nel carcere di massima sicurezza di Spoleto. Valore simbolico assume la partecipazione del sovrintendente Rocco Duca, unico agente di polizia penitenziaria a recitare con i detenuti. I musicisti che da molti anni collaborano con la Compagnia sono la nota cantante soul Barbara Santoni (ha lavorato con molti interpreti della scena musicale), il batterista jazz Lucio Turco (uno dei più importanti drummers italiani, considerate le collaborazioni con Massimo Urbani, Danilo Rea, Gato Barbieri, Sal Nistico, Johnny Griffin etc.), il pluristrumentista Enzo Pitta (ha suonato con e per Sergio Endrigo) e il bassista e cantante Roberto Turco (ha suonato con Rino Gaetano), la percussionista e cantante Martina La Croix(suona attualmente con la Caracca Band) Gli attori sono Cosimo Rega (noto per l’interpretazione di Cassio in "Cesare deve morire dei fratelli Taviani", ma soprattutto per aver scritto il libro autobiografico "Sumino o falco", tradotto in una rappresentazione teatrale), Paolo Mastrorosato (di cui si è detto), Mimmo Miceli (responsabile della scenografia), Giovanni Arcuri (con un background teatrale consolidato, in grado di veicolare le naturali simpatie del pubblico), Angelo Calabria (il Bud Spencer della Compagnia che raccoglie consensi di donne e bambini), Carmine Caiazzo (da Castellamare di Stabia, dove è rimasto il suo cuore), Massimo Tata (da 25 anni attore della Compagnia, coautore di testi ed oggi, uomo libero, padrone del proprio futuro) e Max Taddeini (da rapinatore terrorista a uomo libero che produce grandi emozioni sul palco). La presenza femminile è assicurata dalla professoressa Patrizi, dalla dottoressa Spagnoli e dalla attrice tarantina Maria Teresa Liuzzi, new entry della Compagnia. Il tema della violenza di genere e del femminicidio è all’interno dei loro monologhi. La dimensione "on the road" di questa tournée diventerà oggetto di un "road-movie" che sarà curato dalla produttrice Paola Comin. L’ultimissima notazione è legata all’interesse che la Compagnia suscita da due anni nell’ambito dell’European forum for ristorative Justice per la valenza riparativa che la Compagnia esprime attraverso i propri spettacoli. La strage di Nizza e l’esempio di oggi a Tunisi di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 15 luglio 2016 Nella capitale nordafricana piantati nel cortile dell’ambasciata d’Italia cinque alberi ad altrettanti Giusti musulmani che si sono battuti e sono battuti per la pace e la convivenza: dal siriano Khaled Asaad, custode di Palmira, alla guida tunisina Hamad Abdesalam, che salvò numerosi turisti italiani durante l’attacco al museo del Bardo. La scorsa notte, commentando in diretta su Rainews24 le prime notizie e le prime immagini della strage di Nizza, ho finito ricordando lo straordinario evento che accadrà oggi a Tunisi. E ancora non sapevamo che l’autore del massacro del 14 luglio, nella città della Costa Azzurra, è un trentunenne francese di origine tunisina. Ecco perché il segnale che arriva dalla capitale nordafricana acquisisce uno straordinario valore aggiunto. Gariwo, la foresta dei giusti, in collaborazione con il nostro ministero degli esteri, dedicherà cinque alberi ad altrettanti Giusti musulmani nel cortile dell’ambasciata d’Italia. Cinque alberi che verranno piantati con una semplice ma significativa e simbolica cerimonia nel nome della solidarietà, e speriamo di un nuovo umanesimo. Certo impressiona la coincidenza. È infatti un magrebino, appunto originario dell’unico Paese dove la primavera araba si è davvero realizzata, l’autore della carneficina, che ha fatto precipitare la Francia e tutti noi nell’incubo di un terrorismo sempre più incontrollabile e feroce. Un terrorismo cieco, difficilmente prevedibile e neutralizzabile, che ha compiuto, se possibile, un nuovo salto di qualità. Ha approfittato della fine degli Europei di calcio, contando anche sulla sensazione che l’emergenza stia per finire, e non ha colpito Parigi, nel giorno della festa nazionale della presa della Bastiglia. Ha seminato la morte a Nizza, in un luogo di serenità e vacanze, abbattendo come birilli turisti, famiglie, bambini, che stavano guardando i fuochi d’artificio. Tunisi, la capitale già colpita ferocemente dal terrorismo jihadista diventa quindi il trampolino della volontà di riscossa morale che unisce, con un gesto concreto, tre religioni che vogliono la pace e la convivenza. Riflettiamo su quanto ha scritto Janiki Cingoli, presidente del Centro per la pace in Medio Oriente: un ebreo, Gabriele Nissim, fondatore di Gariwo, nel cuore della sede diplomatica di un Paese cristiano, la nostra Italia, compie un gesto dedicato a cinque musulmani Giusti. Cinque dei tanti esempi che anche dall’Islam si alzano per difendere la pace e la solidarietà umana: oggi verranno ricordati con la piantumazione degli alberi Il siriano Khaled Asaad, il custode di Palmira decapitato dai tagliagole dell’Isis; la guida Hamad Abdesalam, che salvò numerosi turisti italiani durante l’attacco al museo del Bardo di Tunisi; l’eroe nazionale Mohammed Bouazizi, che si diede fuoco dando il via alla rivolta che portò alla fine della dittatura di Ben Ali; l’imprenditore Khaled Abdul Wahabi, che salvò molti ebrei dalla deportazione nei campi di sterminio nazisti, durante i sei mesi di occupazione tedesca; e infine il giovanissimo Faraaz Hossein, che a Dacca, pur potendo salvarsi, ha accettato di morire per non lasciar sole due sue amiche. In questo momento quello che salirà da Tunisi è un fulgido esempio di ciò che unisce e non divide le grandi religioni e tutti coloro che se ne sentono rappresentati. In questo crescendo di ferocia, che ci ha reso tutti più fragili, la cerimonia all’Ambasciata d’Italia è insomma la dimostrazione che soltanto il dialogo e l’amicizia possono disinnescare la ferocia di un terrorismo spietato proprio perché figlio di un fallimento. Lo Stato islamico finirà, ma il rischio è che occorrerà molto tempo. Anche perché i tagliagole sconfitti sul campo (iracheno, siriano e libico), hanno lanciato l’appello a ogni singolo simpatizzante: uccidete il numero maggiore di persone. Risuonano nella mente le terribili parole del ministro dell’interno del Bangladesh, commentando la strage di Dacca: "Gli attentati sono diventati una moda". "Piano speciale di integrazione, o servirà il modello Israele" di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 15 luglio 2016 Bremmer: il problema per Parigi è che l’8% degli abitanti non si sente francese. La Francia ora ha due possibilità: o rimette in moto con decisione il processo di integrazione delle seconde e terze generazioni di immigrati; oppure non resta che il modello Israele, un Paese democratico dove però popoli di diversa origine vivono in modo separato. Ian Bremmer, 46 anni, politologo americano, fondatore e presidente del Centro studi Eurasia Group, ha appena ascoltato le notizie in arrivo dalla notte di Nizza. È pessimista. Da Parigi a Bruxelles, poi da Orlando a Dacca. Ora di nuovo la Francia, con Nizza. È una catena di attacchi che pare inarrestabile. Perché? "Dobbiamo innanzitutto fare chiarezza su un punto. Lo Stato islamico sta perdendo vistosamente terreno in Siria e in Iraq. In Siria ha ceduto il 20% del territorio che controllava fino a pochi mesi fa. A questo punto è evidente che il Califfato costituito come Stato non ha futuro. Tuttavia conserva ancora una grande capacità organizzativa e la possibilità di reclutare combattenti dall’estero. Hanno cambiato tattica e ora colpiscono i nemici con attacchi che ricordano, sia pure con tutte le differenze del caso, quelli di Al Qaeda". Sono quindi imprevedibili, imprendibili in tutto il mondo? "C’è un secondo aspetto. Questi attacchi hanno colpito solo parzialmente gli Stati Uniti. Molto poco l’Asia. La grande maggioranza delle azioni terroristiche riguarda, invece, il Medio Oriente e l’Europa, in particolare la Francia. In Medio Oriente la spiegazione è più semplice: i terroristi si accaniscono contro Stati di fatto falliti". La Francia, invece, sembra l’epicentro di una crisi multipla, politica ed economica. E sul piano sociale fatica a integrare gli immigrati. Tutto ciò la rende più vulnerabile? "Certo, è così. Si sommano diverse componenti. L’arrivo massiccio di profughi, la crescita economica bloccata e l’alto tasso di disoccupazione. Ma c’è un numero chiave: circa l’8% della popolazione non si sente francese, non si riconosce nello Stato. E queste persone non sono rifugiati appena sbarcati. Sono figli di immigrati, giovani di seconda o terza generazione. È la percentuale più alta tra i Paesi europei. Dalla Francia sono partiti tanti foreign fighter verso l’Iraq e la Siria". Messa così il governo di Parigi non sembra avere molti margini. Proprio ieri il presidente François Hollande aveva annunciato la revoca delle misure di emergenza… "Il governo può rafforzare di nuovo le misure anti-terrorismo o i controlli alla frontiera. Ma questo non contribuirà a risolvere la questione di fondo, offrendo una possibilità ai giovani francesi, figli di immigrati, che oggi non si sentono accettati dal Paese. Quindi, se vogliamo andare in profondità, a questo punto per la Francia vedo solo due opzioni. O si apre con decisione o si blinda. Prima strada: intensificare al massimo l’opera di integrazione dei giovani che oggi si sentono esclusi. Vuol dire massicci investimenti nell’educazione, in programmi di deradicalizzazione mirati, in posti di lavoro. Oppure la Francia può scegliere di diventare come Israele: sottoporre a stretta sorveglianza i soggetti considerati un potenziale pericolo per lo Stato". Quale delle due opzioni sta guadagnando spazio politico e psicologico nell’opinione pubblica francese? "Mi piacerebbe fosse la prima opzione, quella dell’integrazione, ma vedo invece avanzare la seconda". Se la Chiesa insegna l’antirazzismo alla sinistra di Angela Azzaro Il Dubbio, 15 luglio 2016 Dio è il migrante che vogliono cacciare: Papa Francesco. I disperati siamo noi, non i migranti: Arcivescovo di Fermo. Anche l’assassino è una vittima: Don Vinicio, riferito a Amedeo Mancini che ha sferrato il pugno uccidendo Emmanuel Chidi Nnamdi. Tre frasi, tre lezioni di civiltà che arrivano direttamente dalla Chiesa. Anche il più ateo, la persona più lontana dalla fede non può non riconoscere il valore di queste parole. Hanno un valore in assoluto, ma lo hanno anche rispetto alla sinistra. La sinistra rappresenta una parte importante della società anti razzista, ma a volte lo è in un modo violento, quasi "razzista", sicuramente poco garantista. La denuncia del razzismo insito nell’omicidio del trentaseienne nigeriano è innegabile. Minimizzare è "peccato". Non aiuta a capire quello che sta accadendo in Italia. Ma la denuncia dovuta, non può portare a usare toni violenti contro l’assassino. Invece è stato così. C’è chi ha invocato la pena di morte, chi gli ha augurato di fare la stessa fine. Questo no. Questo non aiuta. Rende gli antirazzisti speculari ai razzisti: ci pone sullo stesso piano. Le parole di tre grandi personaggi della Chiesa cattolica, tutti e tre grandi a loro modo, invece rappresentano lo scarto, la differenza. Il Papa ci riporta alle parole più importanti del Vangelo: Dio che si fa uomo, ultimo tra gli ultimi. Solo così si può capire e intendere l’impegno per i migranti, per coloro che fuggono da guerre e povertà. Un impegno non venato da pietismo, "i disperati siamo noi", perché chi non riesce ad accogliere l’altro, chi chiude la porta di casa a chi ha bisogno, è in evidente e seria difficoltà. La risposta da dare ai fenomeni di razzismo è importante, fondamentale perché non si verifichino più. Viene in mente il film Il Ponte delle spie di Spielberg, quando l’avvocato che difende l’agente russo accusato di spionaggio invoca la Costituzione americana. Dice: proprio perché non siamo come i nostri nemici, dobbiamo far valere anche per loro gli stessi diritti. Il diritto per esempio a un giusto processo. Invece c’è chi voleva negare un avvocato all’omicida di Emmanuel Chidi Nnamdi. Restare umani, come ha detto la ministra Boschi, vale contro il razzismo, ma anche contro chi vorrebbe vincerlo con la violenza o la messa tra parentesi dello Stato di diritto. Prostituzione, piano per punire i clienti di Alessia Guerrieri Avvenire, 15 luglio 2016 I lunghi capelli bruni servono a coprire quelle orecchie mozzate dai suoi aguzzini per costringerla a tornare in strada ogni sera. Stefania è arrivata dalla Romania a 17 anni, venduta dalla sua famiglia agli uomini della tratta. La scusa è sempre quella di un buon lavoro in Italia, diventato presto vendere il proprio corpo per soldi ai bordi della strada. Ora ha 24 anni, cicatrici per le tante botte subìte e una richiesta per i parlamentari: "Approvate presto una legge che punisca i clienti, perché la prostituzione non è un lavoro, ve lo assicuro. È una tortura". È proprio questa la prospettiva da cui guardare il fenomeno della prostituzione in Italia, un tema che ora sembra scuotere anche Montecitorio. In questi giorni, infatti, è stata depositata una proposta di legge (n.3890) - presentata ieri alla Camera insieme all’associazione Papa Giovanni XXIII e ad alcuni gruppi scout di Pistoia impegnati in progetti anti-tratta - con prima firmataria la deputata Pd Caterina Bini, appoggiata da un gruppo trasversale di 33 parlamentari da Sinistra italiana ad Area popolare, che mira a reprimere la domanda punendo i clienti delle "lucciole" con multe da 2500 a 10mila euro. Nel caso di recidiva poi, la pena arriva fino a un anno di carcere scontabile, nel caso di prima condanna, anche con lavori di pubblica utilità. "Con un solo articolo chiediamo di modificare la legge Merlin al punto 3 - spiega la democratica Bini - aggiungendo sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali delle prostitute". Un modello, tra l’altro, sollecitato lo scorso anno anche da Bruxelles dove è stata approvata una risoluzione che chiede agli Stati di orientarsi verso il modello nordico, che introduce il reato di acquisto di servizi sessuali. "In Svezia in questo modo è stata ridotta la prostituzione dell’80%; in Inghilterra, Islanda e Irlanda e due mesi fa in Francia hanno seguito quell’esempio", continua la parlamentare, che pur avendo ricevuto una mail anonima di ricatto elettorale è pronta ad andare avanti con un testo base che unisca il suo pdl e le altre proposte simili già depositate. Prima fra tutte quella del deputato Gianluigi Gigli e di molti colleghi del gruppo DeS-Cd - datata 1 luglio 2014 - assegnata appunto due anni fa alla commissione Giustizia e mai calendarizzata. Il testo di tre articoli si propone, allo stesso modo, di punire con un’ammenda da 500 a 2000 euro l’acquisto di servizi sessuali a pagamento, anche se effettuato da terzi, con un aumento di sanzioni fino al triplo per la reiterazione del reato. Dalla quarta volta, la pena diventa reclusione da tre mesi a un anno (con possibilità di sostitutiva). Gli introiti delle multe, poi, confluirebbero in un Fondo per le misure anti-tratta. "Lo Stato non può mettersi dalla parte di chi vuole sfruttare la prostituzione", l’esordio dell’esponente centrista, ricordando le numerose proposte presentate invece per regolamentare anche fiscalmente il fenomeno, partendo da "un falso culturale che va smontato", ossia che disciplinare la materia aiuta a combattere la tratta, a incrementare gli utili e combattere l’evasione. "Ringrazio la collega Bini per aver rimesso in pista un tema che sembrava arenato", aggiunge, confermando la volontà di lavorare all’integrazione dei due ddl "per votare al più presto". Anche perché i numeri delle schiave del sesso non accennano a diminuire. Le stime della comunità Papa Giovanni XXIII parlano di 75-120mila persone vittime di 9 milioni di clienti italiani che muovono un giro d’affari di 90 milioni di euro al mese. Sono per lo più tra i 13 e i 17 anni e vengono da Nigeria, Romania, Albania; nel 65% dei casi si prostituiscono in strada. "Noi chiediamo alle ragazze non quanto vuoi, ma quanto soffri", dice il presidente Giovanni Ramonda, lanciando la campagna Questo è il mio corpo. Ma "non ci limitiamo a mettere una spalla sotto la croce di queste ragazze, diciamo a chi fabbrica quelle croci di smetterla", aggiunge accanto alla richiesta di modificare la legge Merlin punendo i clienti. Crediamo sia questa "la ricetta vincente per combattere la prostituzione - gli fa eco don Aldo Bonaiuto, uno fra i più stretti collaboratori di don Oreste Benzi - perché il cliente è corresponsabile del dramma di queste donne. E con questa legge vogliamo proprio fare un salto di qualità nella consapevolezza collettiva".