È nata l’alleanza tra Csm e avvocati di Errico Novi Il Dubbio, 14 luglio 2016 Firmato un protocollo tra Cnf e Palazzo dei Marescialli. In tempi di conflitti aperti tra magistratura e politica, e in un clima che rende la giustizia improprio terreno per ogni regolamento di conti, Csm e Consiglio nazionale forense compiono un atto "rivoluzionario": firmano un protocollo d’intesa che testualmente punta alla "realizzazione di azioni sinergiche" in vista di un "miglioramento qualitativo dei servizi della giustizia", ma che nei fatti ha un valore simbolico persino più ambizioso. Lo si comprende se solo si pensa quanto siano distanti, per esempio, le posizioni dell’Anm da una parte e dell’avvocatura penale dall’altra su una riforma chiave come quella della prescrizione. In tempi di conflitti aperti tra magistratura e politica, e in un clima che rende la giustizia improprio terreno per ogni regolamento di conti, Csm e Consiglio nazionale forense compiono un atto "rivoluzionario": firmano un protocollo d’intesa che testualmente punta alla "realizzazione di azioni sinergiche" in vista di un "miglioramento qualitativo dei servizi della giustizia", ma che nei fatti ha un valore simbolico persino più ambizioso. Con l’intesa stipulata a Palazzo dei Marescialli, il Consiglio superiore della magistratura e l’organo di rappresentanza istituzionale degli avvocati chiariscono una volta per tutte che si può essere in dissenso su un punto senza essere in guerra. Che ci si può confrontare "da posizioni autonome e distinte" come sottolinea il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini senza che questo possa impedire di essere davvero vicini sui "molti obiettivi comuni" di cui parla il presidente del Cnf Andrea Mascherin. La via dell’intesa - Proprio i due vertici, rispettivamente dell’organo di autogoverno della magistratura e del Consiglio nazionale forense, hanno materialmente sottoscritto il Protocollo d’intesa nell’aula Vittorio Bachelet di Palazzo dei Marescialli, dove si svolgono i plenum del Csm. Lo hanno fatto in apertura di una seduta dell’assemblea plenaria del Consiglio superiore a cui hanno preso parte Mascherin e la consigliera del Cnf Celestina Tinelli, in passato componente laica e presidente della settima commissione del Csm. A dare impulso al Consiglio superiore nella realizzazione dell’accordo, insieme con Legnini, sono stati il presidente della sesta commissione Luca Palamara e il consigliere Ercole Aprile. A innescare il percorso è stato Il Consiglio nazionale forense che, alla fine dell’anno scorso, ha istituito una propria commissione per i Rapporti con il Csm e i Consigli giudiziari, affidata proprio all’avvocato Tinelli. L’organismo era il primo passo verso il protocollo d’intesa, subito proposto dal Cnf presieduto da Mascherin, un testo discusso nel corso di alcune settimane e definitivamente accolto a metà giugno dal Consiglio superiore. Gli obiettivi formali sono semplici e chiari. Le "azioni sinergiche" consisteranno innanzitutto nel "concordare iniziative per la promozione di una comune cultura della giurisdizione tra magistratura e ad avvocatura sui temi delle riforme della giustizia", e gia qui si coglie la svolta ai limiti della rivoluzione, considerate appunto le divergenze che su alcuni aspetti del processo emergono spesso tra le due parti. Le convergenze dovranno riguardare anche "l’organizzazione giudiziaria" e naturalmente il processo in tutte le sue declinazioni, compreso quello telematico. Il tutto dovrà concretizzarsi grazie ad appositi "tavoli tecnici paritetici" e alle commissioni interne istituite presso il Cnf, a cominciare dall’Osservatorio sull’esercizio della giurisdizione. Della collaborazione che in parte, proprio grazie a tali organismi, è già in atto parla il vicepresidente del Csm Legnini, che interviene a fine plenum: "All’Osservatorio del Cnf già partecipano molti rappresentanti del Csm, come la dottoressa Casola". Da qui il vertice di Palazzo dei Marescialli spiega il senso del protocollo d’intesa: "Non si tratta si una indistinta e confusa espressione di posizioni" né, soprattutto, "di un accordo alla vogliamoci bene: vogliamo invece valorizzare le reciproche autonomie, perché è proprio tra soggetti autonomi che si possono sviluppare rapporti incisivi ed efficaci". Legnini sottoscrive "in pieno" quanto detto poco prima da Mascherin riguardo alla tendenza alla delegittimazione delle istituzioni, tutte, che monta nella società. Tendenza rispetto alla quale "questa intesa costituisce un antidoto", chiarisce il vicepresidente del Csm. Canzio e la visione del Cnf - Canzio, primo presidente della Cassazione e componente di diritto del Csm, sceglie parole forti per spiegare il senso di questa svolta: "Quello che firmiamo qui è un protocollo d’intesa di qualità, si tratta di un risultato non scontato, poteva essere un protocollo senza contenuti, ma mi sembra di aver capito che la presidenza Mascherin abbia il tratto della proposizione verso il futuro, del coraggio delle scelte ma anche della concretezza. E su questo trovo attenzione, rispetto e convergenza". Canzio fa notare che il protocollo siglato con il Cnf "è coerente con quello firmato tra Csm e Corte di Cassazione". E ancora, che le azioni dei "protagonisti della giurisdizione", magistratura e avvocatura appunto, sono la sostanza "del processo civile e penale". L’idea è quella della "soft law" di cui parla il consigliere togato Ercole Aprile, relatore della proposta di accordo, un insieme di "buone prassi e azioni dei protagonisti della giurisdizione che possono essere decisive come e persino più della legislazione vera e propria". E a costruire le buone prassi saranno sicuramente gli uffici giudiziari ma, a maggior ragione dopo la stipula di questo accordo, in sinergia con gli avvocati. È lo spirito di condivisione, di cooperazione, di comune responsabilità pur nelle distinte funzioni, a dare fondamento al protocollo Csm?Cnf. Lo spiega il presidente del Consiglio nazionale forense Mascherin nel suo intervento al plenum, attorniato da togati e laici del Consiglio superiore, positivamente stupiti dalla capacità di visione manifestata dagli avvocati con questo passaggio: "Siamo in una fase dominata dall’istinto della delegittimazione e oggi andiamo in direzione opposta a questa tendenza, diamo un segnale rivoluzionario", che è appunto l’aggettivo chiave della giornata a Palazzo dei Marescialli. "Dimostriamo che si può lavorare insieme su temi fondanti per la democrazia. Magistrati e avvocati", ricorda Mascherin, "hanno obiettivi comuni raggiungibili per un miglior servizio al cittadino". Filosofia condivisa dal presidente della sesta commissione del Csm, Palamara: "Il dialogo tra le istituzioni deve essere costante e continuo, nell’interesse del cittadino. Il protocollo siglato qui è il punto di partenza di un percorso che riguarda il corretto esercizio della giustizia". Che si tratti di una svolta rispetto alla logica del conflitto sulla giustizia lo si comprende dalla testimonianza dell’avvocato Tinelli, che ricorda un aspetto decisivo della sua esperienza al Csm: "Mi ha aperto un mondo, mi ha permesso la conoscenza reale dell’ordinamento giudiziario, di cui non si possono comprendere le regole se non se ne osserva nel vivo il funzionamento". Capire per conoscere, avrebbe detto Marco Pannella. Potrà trattarsi del rafforzamento della funzione dell’avvocatura nei Consigli giudiziari. Così come delle iniziative comuni nelle scuole primarie e secondarie che porteranno magistratura e avvocatura a compilare insieme una "Guida pratica dei dirittiË®. Tutti punti previsti dal protocollo d’intesa. Ciò che dà senso a ogni singolo aspetto dell’accordo è il segnale di assoluto cambiamento rispetto alla giustizia come terreno di scontro, che mondo togato e ordine forense hanno scelto di dare. Intervista a Giovanni Legnini (Csm): "toghe e difensori possono lavorare insieme" Il Dubbio, 14 luglio 2016 "L’atto sottoscritto dal Csm e dal Cnf costituisce una novità da molti punti di vista". Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura commenta con soddisfazione il protocollo siglato ieri tra toghe e avvocatura: "A questo punto - aggiunge - dobbiamo verificare nel confronto tra avvocatura e magistratura e con il governo, quali provvedimenti siano indispensabili per una giustizia che funzioni". La giustizia non più come terreno di scontro ma spazio per soluzioni comuni tra magistrati e avvocati. Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, è questo il senso del Protocollo d’intesa tra Consiglio superiore della magistratura e Consiglio nazionale forense? L’atto sottoscritto costituisce una novità da molti punti di vista. Quello che lei sottolinea è uno degli obiettivi del Protocollo. L’attuazione concreta dell’accordo ci consentirà di verificare se il traguardo sarà raggiunto. Sono convinto che una parte consistente delle scelte contenute nelle iniziative di riforma, a partire da quelle pendenti in Parlamento, non dipendano da visioni contrapposte, che si tratti di conflitti tra le forze politiche o di divergenze tra magistratura e avvocatura. Devono essere invece il punto d’incontro tra esigenze oggettive afferenti al funzionamento del sistema giudiziario. Dunque, opzioni capaci di raccogliere un largo consenso in modo da garantirne l’efficacia e la stabilità nel tempo. Se dovessi definire qual è il primo macro obiettivo dell’intesa, lo indicherei così: verificare, nel confronto tra avvocatura e magistratura e con il governo, quali provvedimenti siano indispensabili per una giustizia che funzioni, senza riproporre contrapposizioni del passato, spesso artificiose. Il banco di prova può essere innanzitutto quello, concreto, delle best practices negli uffici giudiziari, che il Consiglio superiore ha sintetizzato nei giorni scorsi: le buone prassi corrispondono sempre anche alle necessità degli avvocati? Vorrei intanto sottolineare un aspetto della delibera del Consiglio sulle Best practices: al pari dell’intesa sottoscritta con il Cnf, essa segna un mutamento culturale anche per l’autogoverno della magistratura. Entrambi gli atti sono stati definiti e approvati grazie al ruolo attivo dei componenti togati e laici. Fino ad oggi noi abbiamo assistito al proliferare di buone prassi, spesso con la partecipazione dell’avvocatura, che hanno contribuito a far emergere la necessità di diffusione della cultura organizzativa e della cooperazione tra tutti gli attori della giurisdizione. I tanti risultati positivi prodotti però necessitavano di una sintesi verso modelli organizzativi da mettere a disposizione di tutti gli uffici giudiziari. Il che costituisce l’essenza dell’operazione che il Csm ha inteso portare avanti. Quello della comune definizione delle buone pratiche è appunto uno dei punti di convergenza previsti dal protocollo tra Csm e Cnf. Infatti. Grazie al lavoro della Settima commissione e della Struttura tecnica per l’organizzazione del Csm e alla dedizione dei consiglieri Cananzi e Ardituro, ci sono oggi i presupposti per implementare il lavoro al quale il ministero della Giustizia, la magistratura e l’avvocatura, si sono dedicati in questi anni. E la delibera contiene appunto l’indicazione, che potrà essere oggetto di una prima attuazione dell’intesa col Cnf, di implementare questi modelli con apporti culturali esterni, anche dell’accademia. L’atto appena siglato dà grande prestigio all’avvocatura: ma negli anni addietro l’immagine dell’ordine forense si era indebolita presso l’opinione pubblica? Quando il sistema giudiziario è percepito come inefficiente, come incapace di fornire risposte tempestive, tutti gli attori della giurisdizione vedono intaccata la propria credibilità. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura non può non coniugarsi con l’efficacia della risposta giudiziaria: lo sostengo da tempo. Il rischio è che in questa stagione, come sottolineava Mascherin nell’intervento in plenum, prevalgano le spinte di delegittimazione. L’accordo con il Consiglio nazionale forense è un contributo per arginare questi tentativi di delegittimazione delle istituzioni e di quella giudiziaria in particolare. Liberare il terreno dal conflitto fa riemergere la vera funzione della giurisdizione: è così che si recupera la fiducia dei cittadini? Non c’è dubbio che il conflitto permanente allontani gli obiettivi di miglioramento del sistema. L’intesa tra Csm e Cnf non propone un modello buonista, intendiamoci: non si tratta di trovare l’accordo a tutti i costi, ma di valorizzare le reciproche autonomie. Come? Con il confronto, la collaborazione, l’individuazione delle soluzioni per vincere la grande battaglia del processo giusto e della sua durata ragionevole. La legittimazione e l’autorevolezza, è vero, coincidono non già con l’efficientismo ma con le risposte di giustizia prevedibili e calcolabili, anche nei tempi. Una riforma su cui toghe e avvocati sono chiamati a confrontarsi è quella delle intercettazioni. Le circolari dei procuratori capo che vietano di trascrivere le telefonate senza rilievo penale andrebbero tradotte in legge, nei decreti delegati del governo? Quelle circolari dimostrano come con la cultura dell’organizzazione, che si realizza anche con l’autorevole esercizio delle funzioni direttive e con il bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti nel processo, sia possibile rispettare i diritti anche a legislazione vigente. È così anche per il diritto alla riservatezza. È possibile che il legislatore renda più effettiva questa finalità, certo. Mi auguro che la decisione legislativa, che attuerà la delega parlamentare, si ispiri proprio alle soluzioni prospettate dai capi delle grandi Procure. La firma dell’intesa con il Cnf la tocca, culturalmente ed emotivamente, anche come avvocato? All’atto di assumere l’incarico di vicepresidente del Csm mi sono dimesso dal governo, dal Parlamento e dall’avvocatura. Dovevo e volevo essere libero da ogni condizionamento. Ciò non implica ovviamente la dismissione della mia cultura e della mia sensibilità pregresse come quella forense e istituzionale. Che anzi mi sostengono nell’esercizio della mia funzione istituzionale e di garanzia. L’intesa che abbiamo sottoscritto mi ha quindi coinvolto anche sotto il profilo culturale ed emotivo. A condizione che al Protocollo seguano i fatti. Guardi, questo accordo ha un carattere fortemente istituzionale. Non è una ricerca di generica collaborazione, quella già vive ogni giorno negli uffici e nei Consigli giudiziari. Con questa intesa però per la prima volta il governo autonomo della magistratura e l’istituzione di rappresentanza dell’avvocatura assumono impegni comuni. Ora occorrerà molto lavoro, pazienza e passione per misurarci insieme sugli obiettivi concreti, dalle riforme all’organizzazione giudiziaria, alla formazione, all’attività dei Consigli giudiziari. Sapendo che l’interlocuzione è a tre: magistratura, avvocatura e ministro della Giustizia. Il ddl sulla riforma del processo penale in aula al Senato il 26 luglio Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016 Sulla carta, l’Aula del Senato potrà cominciare a occuparsi del ddl sul processo penale (e quindi anche di prescrizione, intercettazioni ecc.) a partire dal 26 luglio, e potrà farlo anche qualora non ne fosse concluso l’esame in commissione Giustizia, ipotesi probabile perché anche questa settimana non si vota sugli oltre 700 emendamenti ma soltanto dalla prossima. In tal caso, il testo andrebbe in Aula senza relatori (Casson-Cucca del Pd) e nella versione originale della Camera, cioè senza la parte sulla prescrizione, che è stata accorpata al ddl sul processo penale strada facendo. Ma, uscita dalla porta, la prescrizione rientrerebbe dalla finestra sotto forma di emendamento del governo in Aula. Che avrebbe due settimane di tempo per approvare il testo e spedirlo alla Camera per il sì definitivo a settembre. È più o meno questo lo scenario che si prefigura se effettivamente avrà seguito quanto stabilito ieri dalla Conferenza dei capigruppo, su richiesta del Pd, cioè la calendarizzazione in Aula del ddl sul processo penale per la fine di luglio. Politicamente, però, la situazione è ancora incerta e la trattativa sulla prescrizione ancora bloccata con l’impuntatura di Ncd sulla "norma acceleratoria" di cui ha riferito Il Sole 24 Ore il 7 e l’8 luglio (se in appello non si arriva a sentenza entro i 18 mesi di sospensione, si perde il bonus). Ora la palla è direttamente nelle mani di Orlando e di Alfano. Davigo (Anm): "i reati dei colletti bianchi sono scritti per non farli andare in carcere" articolotre.com, 14 luglio 2016 "I politici non hanno smesso di giocare ma hanno smesso di vergognarsi. La cosa grave in Italia è che i reati dei colletti bianchi sono scritti in modo tale da non consentire che vadano in carcere". A dichiararlo, il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo durante il programma ‘Siamo Noi - Lungo le strade della Misericordià, andato in onda su Tv2000. "Il settimo comandamento non rubare - ha sottolineato Davigo - può essere declinato con il furto o con l’appropriazione indebita. Il furto è un reato tipico della delinquenza comune, l’appropriazione indebita è un reato commesso solitamente da un colletto bianco. È praticamente impossibile commettere un furto semplice, quasi sempre è aggravato e per questo sono consentiti l’arresto e la detenzione. Per l’appropriazione indebita", invece, "non è consentita la custodia in carcere". "I reati dei soggetti che riempiono le carceri - ha proseguito il magistrato - sono facili da commettere ma anche facili da scoprire e reprimere. È invece molto più difficile fare un processo per falso in bilancio che avere un processo per furto d’auto". "Negli ultimi decenni nell’Occidente - ha continuato ancora Davigo - la classe media si è sempre più assottigliata, c’è stato un impoverimento della fascia bassa e un arricchimento vergognoso delle posizioni di vertice. Una volta un amministratore, quando guadagnava tanto, percepiva dieci volte il salario dei suoi operai, oggi guadagna cento volte di più. Normalmente negli altri Paesi rubano i poveri e non i ricchi perché non hanno bisogno di rubare. In Italia invece rubano anche i ricchi". "Sono convinto - ha concluso - che la maggior parte degli italiani non sono ladri ma derubati. Gli elettori danno l’idea di essersi rassegnati. Negli anni 90 c’era indignazione, oggi vince la rassegnazione". Morte di Bernardo Provenzano, è polemica sul 41 bis fino alla fine di Alessandra Ziniti La Repubblica, 14 luglio 2016 L’ultimo no a scarcerarlo quando era già in coma. Il giudice di sorveglianza di Milano: " I suoi trascorsi criminali lo esporrebbero a eventuali rappresaglie". Il pg Gozzo: "Il 41 bis una inaccettabile vendetta dello Stato". I "trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso criminale" lo espongono, "qualora non adeguatamente protetto nella persona" e "trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica", ad "eventuali ‘rappresagliè connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso" di cui è stato "capo fino al suo arresto". È l’ultima motivazione con la quale, appena due giorni fa, il giudice di sorveglianza di Milano 2 ha respinto l’ennesima istanza dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che chiedeva la scarcerazione del boss ormai in fin di vita e, in subordine, la revoca del carcere duro per Bernardo Provenzano visto l’ulteriore peggioramento delle sue condizioni di salute. Ora che il boss è morto senza che moglie e figli abbiano potuto stargli accanto nelle ultime 48 ore di vita in attesa di un permesso per una nuova visita, dopo quella del 10 luglio, si alzano i toni della polemica. "I medici - ha detto l’avvocato Di Gregorio - avevano detto alla famiglia di salire a Milano, dove era detenuto all’ospedale San Paolo in regime di 41 bis, perché mancavano poche ore alla sua morte. I parenti non lo vedevano da domenica, hanno potuto usufruire solo del colloquio mensile di luglio ed è assurdo. Per passare gli ultimi istanti con lui il figlio lunedì aveva fatto richiesta del Dap, un permesso straordinario per poter vedere il padre. Ma gli è stato negato ed è arrivato solo oggi, questa mattina, dopo la morte. La mia è una rabbia di un difensore che ha inutilmente tentato di spiegare che l’Italia stava commettendo qualcosa di disumano per impedire a Provenzano di avere dei contatti con la criminalità organizzata - continua l’avvocato Di Gregorio - I veri detenuti al 41 bis sono i parenti, il regime di restrizione è stato applicato ai figli e alla moglie impedendogli di poterlo vedere. È da più di tre anni che il mio assistito non era più in condizione di capire né dove fosse né di parlare: era un vegetale nutrito artificialmente. Eppure alla famiglia è stato impedito". Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del ministero della giustizia, ha assicurato che a Provenzano è sempre stata garantita tutta l’assistenza medica necessaria. "Le condizioni di Bernardo Provenzano - ha detto - si sono aggravate ulteriormente venerdì scorso a causa di un’infezione polmonare. Provenzano è entrato in coma irreversibile lo stesso giorno. I sanitari dell’ospedale di Milano, d’accordo con il Dap, hanno avvertito immediatamente i familiari che sono arrivati e hanno potuto usufruire di un incontro col loro congiunto. Il regime di 41 bis in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato - detenuto Parma e Milano - ha ricevuto cure puntuali ed efficaci". Svariate volte, l’avvocato Di Gregorio aveva chiesto che il boss potesse essere ammesso al circuito carcerario ordinario per poter avere vicino i familiari visto che più perizie avevano sancito che le sue condizioni neurovegetative non gli consentivano più di essere ricettivo o di poter passare ordini o messaggi fuori dal carcere. Ma, con il parere di più procure e della Dna, il ministro della giustizia (l’ultima volta ad aprile scorso) aveva sempre ritenuto di dover confermare il regime di carcere duro. Tanto che la famiglia aveva deciso di rivolgersi alla Corte europea dei diritti umani che aveva già avviato l’esame del ricorso depositato nel 2013 sostenendo che la sua detenzione, e in particolare il regime del 41bis, erano incompatibili con il suo stato di salute. In base alle regole della Corte di Strasburgo l’esame del ricorso può procedere anche nel caso in cui la persona che ha subito la violazione sia deceduta. Nel 2013 la Corte aveva invece respinto la richiesta dell’avvocato di Provenzano di esigere dal governo italiano l’immediata scarcerazione del boss. E nella polemica, con un post su Facebook interviene anche il sostituto procuratore generale di Palermo Nico Gozzo che definisce una "vendetta" la conferma del 41 bis a Provenzano: "In questo momento - scrive Gozzo, mi sento pure di dire che lo Stato italiano avrebbe potuto, in questi ultimi anni, marcare la propria differenza. Far sentire, nel momento in cui Provenzano "non ci stava più con la testa", la differenza tra uno stato di diritto, che applica le norme, anche nei confronti di un mafioso - e dunque, se uno non ragiona e non comunica, non può essere pericoloso - e le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Ed invece si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la Giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. È ciò, per me, è inaccettabile". Era già morto ma loro non lo sapevano di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 14 luglio 2016 Hanno voluto vederlo morto in ceppi, quel corpo ormai da tempo senz’anima e senza vita, e così è stato. Non era certo Bernardo Provenzano quell’essere ridotto a vita vegetativa il cui cuore si è fermato ieri mattina in una cella dell’ospedale San Paolo, quartiere Barona di Milano. Pure quel corpo, che non ragionava e non parlava, non si muoveva e non si nutriva, che quotidianamente veniva ripulito, riposizionato nel letto e nutrito con il sondino naso-gastrico. Quel corpo "viveva" nel regime carcerario dell’articolo 41-bis, quello applicato ai mafiosi più pericolosi. Che sia stato un capomafia tra i più pericolosi, Bernardo Provenzano, quello vero, arrestato dieci anni fa dopo quasi mezzo secolo di latitanza, non c’è dubbio. Insieme al suo socio Totò Riina è stato protagonista della più sanguinosa stagione delle stragi culminata nel 1992 con le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma erano altri tempi e altri personaggi. E paradossalmente chi oggi piangerà (oltre ai familiari) la scomparsa di "quel" Provenzano, saranno gli orfani, magistrati e qualche giornalista, di quella bislacca teoria della "trattativa Stato-mafia" che ormai langue sconfitta dal punto di vista processuale. Erano proprio questi orfani del complotto a cercar di tenere in vita quel corpo in cui vita non albergava più da tempo, nella vana speranza di poterlo trascinare, prima o poi (ma ormai la sua posizione era stata sensatamente stralciata dal processo) a rivelare segreti inconfessabili e quasi certamente inesistenti. Invano nei mesi scorsi la famiglia aveva cercato di far liberare "il corpo" dai ceppi dell’art. 41bis per poterlo trasferire in un reparto di lungodegenza dell’ospedale. Si era trovata davanti un muro, composto di magistrati di un pò tutte le città italiane che avevano processato Provenzano e dalla stessa cassazione, cui si era aggiunto, un pò sorprendentemente, lo stesso ministro guardasigilli Orlando, che si era spinto a interpretazioni sociologiche: "Seppur ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora costantemente destinatario di varie missive dal contenuto ermetico. Cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa". Era il 24 marzo scorso. Pochi giorni dopo, incuriositi e increduli, siamo andati all’ospedale San Paolo di Milano, dove "il corpo" era custodito in un reparto speciale, sorvegliato all’interno da tre agenti di polizia penitenziaria e all’esterno da 28 poliziotti che si alternavano intorno al perimetro dell’ospedale. Avevamo incontrato il primario del reparto, il professor Rodolfo Casati, colui che meglio conosceva le gravi patologie cui era affetto quel detenuto così speciale. "Provenzano - ci aveva detto - non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento, borbotta qualche suono senza senso". Che cosa ha esattamente? "Ha avuto ripetute lesioni cerebrali, è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson". Ma dice qualche parola comprensibile? "A volte pronuncia mmmm, che sembra quasi mamma". Queste cose il professor Casati le ha scritte in decine di relazioni, spedite nei vari tribunali d’Italia, in cassazione, al ministro. Erano considerazioni tecniche, da medico. Ma forse politicamente scorrette. Quindi inascoltate. Tanto che si è preferito custodire "il corpo" dandogli il rango di pericoloso capomafia al 41bis piuttosto che compiere un normale gesto di umanità e ammettere di aver perso per strada un altro protagonista della vagheggiata "trattativa Stato-mafia". "Quando hanno aperto la cella..." di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 luglio 2016 Ve la ricordate quella canzone struggente di Fabrizio de André? "Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Miché...". Altri tempi, naturalmente. Non esisteva ancora il "justicially correct" e qualcuno dedicava le canzoni anche ai delinquenti. De André lo faceva spesso. Era un tipaccio De André. Figuratevi che perdonò persino i suoi rapitori e si rifiutò di accusarli in tribunale. Comunque Miché era un delinquente simpatico. Aveva ucciso per amore di Maria. Provenzano no: è stato un assassino matricolato, feroce, ha devastato la Sicilia, ha seminato morte per 45 anni. Il problema è che l’ "umanità - il senso dell’umanità, che è uno dei pilastri, forse il più grande pilastro della civiltà e della modernità, e che è un sentimento, l’unico, espressamente previsto dalla nostra Costituzione - non si applica solo alle persone perbene, o a quelli che ci stanno simpatiche, ma a tutti. La forza della civiltà è lì: nell’umanità e nella cancellazione della categoria della vendetta. Quando la vendetta diventa il carburante (o addirittura lo scopo) della giustizia, la civiltà scivola via e scompare. Provenzano da molti anni era in stato semi-comatoso e poi comatoso. Applicare a lui le misure del 41 bis (concepite, ufficialmente, per ragioni di sicurezza e non di punizione) è stata una scelta illogica, illegale e crudele. La crudeltà è crudeltà e basta: che la si applichi ad Abele o a Caino, non cambia. Nei giorni scorsi il sottosegretario alla giustizia, Gennaro Migliore, è stato crocifisso (dal "Fatto Quotidiano") perché aveva ricordato il senso del 41 bis e aveva spiegato che secondo lui deve essere corretto, mitigato, in modo che resti una misura di sicurezza e non di vendetta. Non si è alzata una voce a difesa di Migliore, né dal mondo politico né da quello del giornalismo e dell’intellettualità. Qualche giorno dopo il "Fatto" è tornato sull’argomento per farcii sapere che aveva avuto notizia di un barattolo di miele entrato proditoriamente in una cella di 41 bis, e per esprimere sdegno verso questa "mollezza"! È normale che esista una parte della società (e anche dell’intellettualità e della classe dirigente) che tra modernità e giustizialismo sceglie il giustizialismo. Non è normale che non esista una parte delle classi dirigenti che si oppone al giustizialismo, apertamente, senza nascondersi. Oggi, se volete rivolgervi a una autorità morale (e politica) che contrasta la ferocia e chiede civiltà, avete una sola possibilità: chiedere udienza al Papa. Orlando: sezioni specializzate sui migranti e tirocini più lunghi negli uffici giudiziari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016 Semplificazione processuale e sezioni specializzate in protezione internazionale, immigrazione e libera circolazione dei cittadini comunitari e accertamento dello stato di apolidia. Sono i punti di forza dello schema di disegno di legge, trasmesso dal ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio, per assicurare una gestione più efficiente della domande di protezione internazionale. A renderlo noto è stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nel corso del question time di ieri alla Camera. Le sezioni specializzate saranno istituite pressi i 12 Uffici distrettuali giudiziari in prima linea nell’affrontare il fenomeno della migrazione. Una scelta finalizzata a tagliare i tempi e uniformare le procedure. Nel Ddl è prevista inoltre l’applicazione, anche in via straordinaria, di un massimo di 20 magistrati con una formazione specifica. L’incarico avrà una durata ordinaria di 18 mesi, rinnovabile per altri 6 mesi. Per il magistrato applicato è prevista un’indennità del 50% per le sedi disagiate e un punteggio aggiuntivo in base alla durata dell’effettivo esercizio delle funzioni. Per trattare le procedure di protezione internazionale è "arruolata" anche la magistratura onoraria, con un’indennità onnicomprensiva da corrispondere ogni tre mesi. Nuove immissioni negli uffici giudiziari anche di personale amministrativo. Il ministro Orlando ha annunciato ieri, la trasmissione in giornata al Csm dello schema di decreto ministeriale con le nuove piante organiche degli uffici giudicanti e requirenti di primo grado. Un progetto di rafforzamento degli Uffici distrettuali che tiene conto anche dell’intensificarsi dei flussi migratori. In linea con l’obiettivo di supportare gli uffici anche l’inserimento, come percorso professionalizzante, di chi stava già effettuando stage presso le cancellerie, attraverso una serie di proroghe normative. La previsione è che, con il Dl 83/2015, i tirocinanti possano partecipare per 12 mesi all’ufficio del processo in virtù di una selezione che darà diritto a una borsa di studio di 400 euro. Il ministro Orando sempre nel corso del question time ha precisato che, con il decreto ministeriale del 20 ottobre 2015 è stata indetta la procedura di selezione di 1502 tirocinanti, ma solo 1115, tra i 1231 che avevano avuto l’assegnazione del posto, si sono presentati negli uffici per siglare il progetto formativo. Orlando ha chiarito che lo svolgimento del tirocinio sarà un titolo preferenziale per i concorsi indetti dalla Pubblica amministrazione. Un’opportunità offerta ai tirocinanti di reinserirsi nei mondo lavorativo. A questo proposito il ministro della Giustizia ha ricordato che in questa direzione si muove anche l’emendamento al decreto legge sul processo amministrativo telematico approvato martedì scorso. Nuove assunzioni al Ministero con una procedura che consentirà ai tirocinanti di spendere titolo e competenze acquisite. Rogatorie più snelle e squadre investigative contro i reati internazionali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016 Legge di ratifica della Convenzione di Bruxelles del 2000 sulla cooperazione penale. Dialogo diretto a tutto campo tra le autorità giudiziarie degli Stati Ue. La Camera ha approvato ieri, in via definitiva, la legge di ratifica della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale dell’Unione europea adottata a Bruxelles sin dal 2000. L’Italia era rimasta fuori insieme a Grecia, Croazia e Irlanda. Con 16 anni di ritardo ieri ha colmato la lacuna. Esulta il ministro della Giustizia Andrea Orlando che sottolinea come "la riforma renderà più snelle e più semplici le procedure e offrirà alla magistratura strumenti efficaci per contrastare il terrorismo, il crimine organizzato e tutti gli altri fenomeni criminali di carattere transnazionale". Piatto forte della Convenzione il dialogo diretto tra le autorità giudiziarie con l’assistenza estesa anche ai procedimenti penali che sono di competenza amministrativa. Il filtro dell’Autorità centrale, quindi, avrà carattere residuale, con una semplificazione soprattutto in materia di rogatorie. Punto di forza della Convenzione, inoltre, è la circostanza che lo Stato al quale è richiesta assistenza dovrà osservare le procedure del Paese richiedente se non in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento interno. Un modo per favorire la circolazione degli atti di indagine, con tagli nei tempi a vantaggio della lotta alla criminalità. Senza sacrifici, però per le garanzie per i soggetti coinvolti nel procedimento che hanno diritto alla traduzione del testo in una lingua conosciuta. Centrale, nella Convenzione, con precisi obblighi nel caso in cui venga trasmessa una richiesta all’autorità giudiziaria di un altro Stato membro, la disciplina sulle intercettazioni. Con la legge di ratifica, la Camera ha anche delegato il Governo ad adottare, entro sei mesi, i decreti legislativi per introdurre le modifiche nell’ordinamento interno. In particolare, sono necessari interventi per disciplinare la restituzione delle cose pertinenti il reato, la procedura di trasferimento per le indagini dei detenuti, gli effetti processuali delle audizioni in videoconferenza anche di testimoni e periti, la disciplina per le intercettazioni all’estero, le operazioni sotto copertura e le questioni legate alla responsabilità civile e penale dei funzionari stranieri. Da modificare anche il libro XI del codice di procedura penale nella parte relativa ai rapporti con le autorità giurisdizionali straniere con una precisa linea divisoria tra Stati membri e extra Ue ai quali non è applicata la Convenzione e gli atti dell’Unione in materia di cooperazione giudiziaria penale. Tra le novità del testo anche l’utilizzo delle squadre investigative comuni. In quest’ambito la Convenzione si coordina con la decisione quadro 2002/46 sulle squadre investigative comuni operativa anche in Italia con l’adozione del decreto legislativo n. 34 del 15 febbraio che recepisce, con un ritardo di 15 anni, la decisione quadro. Tenendo conto del recente atto già adottato, è possibile che la delega su questo punto sia superflua. Va segnalato che, in ogni caso, il testo dovrà fare i conti con la direttiva 2014/41/UE relativa all’ordine europeo di indagine penale (Oei). L’articolo 34 dell’atto Ue, infatti, prevede che la direttiva sostituisce, a decorrere dal 22 maggio 2017, alcune convenzioni inclusa quella del 2000. Pena accessoria pari alla principale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 13 luglio 2016 n. 29397. Anche le sanzioni accessorie previste per i reati tributari devono essere parametrate, quanto a durata, alla pena principale inflitta. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 29397 della Terza sezione penale, depositata ieri. La pronuncia ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa per contestare la durata delle misure accessorie abbinate alla condanna per omessa dichiarazione: in particolare oggetto di impugnazione era l’assenza di motivazione della decisione della Corte d’appello con la quale era stata determinata una durata superiore al minimo. La Cassazione ricorda innanzitutto che l’articolo 12 del decreto legislativo n. 74 del 2000 prevede un minimo e un massimo per le principali misure che accompagnano la condanna per reato tributario: da 6 mesi a 3 anni per l’interdizione dalla direzione societaria, da 1 anno a 3 per l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione e per l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria. Un meccanismo che finisce sotto la lente della Cassazione, chiamata, di base, a dare una risposta alla domanda sulla riconducibilità della disciplina delle pene accessorie temporanee nella sfera applicativa dell’articolo 37 del Codice penale. In altri termini la Cassazione era sollecitata a chiarire se nella nozione di pena accessoria di durata non espressamente determinata rientrano le ipotesi in cui la pena accessoria è disciplinata attraverso l’istituzione di un minimo e di un massimo. Per la Cassazione la risposta deve essere positiva. Tanto più alla luce del verdetto delle Sezioni unite che hanno stabilito, nel 2014, come la previsione di un limite minimo e di uno massimo per una categoria di pene accessorie le fa rientrare tra quelle per le quali la legge esclude una durata determinata. Con la conseguenza che non potranno essere inflitte per un periodo superiore a quello stabilito per la condanna principale. Per quanto riguarda proprio l’ambito delle pene accessorie previste per i reati tributari in realtà era presente anche un altro, opposto, orientamento in base al quale i limiti massimo e minimo assolvevano al requisito della pena di durata espressamente determinata dalla legge. Stava semmai al giudice stabilire la concreta durata rimanendo sempre all’interno della "forchetta". La Cassazione ha però scelto l’altro orientamento e, messa davanti al caso di una pena accessoria determinata in 1 anno e di una principale di 8 mesi, ha proceduto d’ufficio a una rideterminazione. La pena accessoria cioè è stata allineata nella durata a quella principale, fissandola anch’essa a 8 mesi. La sentenza, in materia di prescrizione, ricorda anche che l’autorità di cosa giudicata può formarsi su singoli capi della sentenza. Nel caso esaminato, a essersi stabilizzato è il verdetto di colpevolezza dell’imputato di omessa dichiarazione (il capo non è stato oggetto di impugnazione da parte della difesa) mentre il Procuratore generale aveva impugnato il punto delle sanzioni accessorie lamentando l’omessa pronuncia su una di queste. Resistenza a pubblico ufficiale, va sempre valutata la tenuità del fatto di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 13 luglio 2016 n. 29618. Resistenza e minaccia al pubblico ufficiale, il giudice di merito ha l’obbligo di valutare sempre l’applicabilità della norma sulla particolare tenuità del fatto. Anche quando la sentenza impugnata sia anteriore alla entrata in vigore della disposizione contenuta nell’articolo 131-bis del codice penale. Lo dicono i giudici della Cassazione, nella sentenza della sesta sezione penale n. 29618, depositata ieri, alle prese con un caso di resistenza aggravata a pubblico ufficiale dei più classici. Il diverbio tra un automobilista e l’agente in servizio davanti a una scuola elementare. Erano volate parole grosse, offese e minacce dicono le fonti testimoniali a causa delle quali l’attività del pubblico ufficiale sarebbe stata ostacolata. La difesa propende per "una incomprensione". Ma i giudici hanno condannato l’uomo, in primo e secondo grado, alla reclusione per 4 mesi. La decisione - In Cassazione le cose non cambiano nella sostanza. Viene riconosciuta la legittima applicazione dell’articolo 337 del codice penale che disciplina il reato di resistenza a pubblico ufficiale. La precisazione è. anzi, che per integrare quella ipotesi non serve che l’attività del pubblico ufficiale sia impedita: basta si usi violenza o minaccia per opporsi "al compimento di un atto di ufficio o di servizio" e non importa se questa intenzione produca effetto concreto o meno. L’esclusione per tenuità del fatto - La pronuncia tuttavia stabilisce un principio assai interessante perché, riconoscendo fondato un ulteriore motivo di ricorso, stabilisce che il caso andava comunque esaminato alla luce dell’articolo 131-bis del codice penale con cui nel 2015 è stato inserito nel nostro ordinamento il criterio dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. La Cassazione richiama anche un proprio precedente del febbraio scorso per ricordare che la "nuova" norma si applica a ogni fattispecie criminosa, anche retroattivamente e non solo su richiesta di parte. Anche quando, cioè, come nel caso in giudizio, la sentenza impugnata sia anteriore alla entrata in vigore della norma. La Cassazione non deve valutare la sussistenza dei presupposti essenziali per l’applicabilità della disposizione ma deve prendere atto della loro presenza alla luce della motivazione del giudice del merito al quale è rimessa la valutazione. Nel caso di specie, ad esempio, la Cassazione alza le mani. I presupposti oggettivi e soggettivi "non risultano espressamente apprezzati" né si possono desumere dalla valutazione del giudice di merito. Dunque, scatta il rinvio alla Corte d’appello. Il figlio è uno stalker verso i genitori quando li minaccia per ottenere denaro di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 13 luglio 2016 n. 29705. Commette il reato di stalking il figlio che bivacchi nel sottoscala dell’edificio dove abitano i genitori per ottenere ripetutamente e con minacce denaro e altre utilità dai genitori. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 29705/2016. I fatti. La vicenda finita sul tavolo della Cassazione si era conclusa in Corte d’appello di Ancona con la pena di un anno e sei mesi di reclusione per l’imputato e con il riconoscimento del reato di stalking così come delineato dall’articolo 612 bis del codice penale. Il ragazzo ha provato a difendersi in Cassazione eccependo come - uscito dalla casa di lavoro e gravemente malato - si fosse recato presso l’abitazione dei genitori e vistosi respinto si era creato un giaciglio di fortuna nel sottoscala dell’abitazione di questi ultimi. Non si erano quindi, a detta dell’imputato, verificate quelle reiterate condotte vessatorie e di molestia ma una condotta necessitata. Comportamento così obbligato dal bisogno di trovare un ricovero e di essere curato. I Supremi giudici, tuttavia, hanno potuto solo prendere atto della sentenza di merito che ben motivata ed esente da vizi che ne potessero decretare la rivedibilità, non hanno potuto che accettare il verdetto dei giudici di appello. Quindi altro che ricerca di cure amorevoli dei genitori, quanto un comportamento reiteratamente minaccioso verso i genitori al solo fine di procurarsi denaro. Mani legate per la Cassazione. È di tutta evidenza come la Corte non potesse eccepire nulla in merito alla ravvisabilità del 612 cp in quanto dalle dichiarazioni delle persone offese si evinceva un’abitualità di condotte plurioffensive poste in essere dall’imputato nei confronti dei genitori, con comportamenti vessatori e opprimenti. La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è stata giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità che, pertanto, resta insindacabile in Cassazione. Il tutto considerando anche il principio affermato dalla Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione. Conclusioni. I giudici hanno pertanto dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di mille euro in favore della Cassa delle ammende. In caso di sequestro preventivo lo sgombero non è indispensabile di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 25 maggio 2016 n. 21945. La Cassazione, con la sentenza della Sezione III, 17 febbraio 2016- 25 maggio 2016 n. 21945, approfondisce il tema dei poteri del pubblico ministero di ordinare lo sgombero di un immobile assoggettato a sequestro preventivo. In proposito, occorre partire dalla pacifica premessa in forza della quale il pubblico ministero è senz’altro titolare del potere di ordinare lo sgombero di un edificio sottoposto a sequestro preventivo, laddove esso costituisca una ineliminabile modalità di attuazione del sequestro, rappresentando tale ordine un atto di esercizio del potere di determinare le modalità esecutive della misura cautelare, come tale di competenza esclusiva del pubblico ministero. Incidente di esecuzione. Avverso tale provvedimento - va soggiunto - può attivarsi la procedura dell’incidente di esecuzione, nella quale non possono però contestarsi le ragioni stesse del sequestro (sussistenza del fumus delicti e del periculum in mora), in quanto in tal modo verrebbe posta non già una questione relativa al controllo delle modalità di attuazione del sequestro, propria della fase esecutiva, ma invece verrebbe sollevato un problema di rivalutazione della sussistenza dei presupposti di legittimità della misura di coercizione reale, che esula dalla sfera dell’esecuzione e per la cui risoluzione l’ordinamento appresta altri specifici rimedi; in sede esecutiva, piuttosto, è possibile solo censurare il provvedimento con cui il pubblico ministero ha dato esecuzione al sequestro preventivo, o deducendo l’inesistenza del titolo ovvero contestando le modalità dell’esecuzione, con particolare riguardo al profilo della loro indispensabilità ai fini dell’attuazione (cfr. Sezione III, 13 dicembre 2006, Tortora ed altro; nonché, Sezione III, 9 ottobre 2013, PM in proc. Speranza). Sgombero e sequestro. È proprio in relazione al rilevato profilo dell’ "indispensabilità" (dello sgombero, per soddisfare le finalità del sequestro) che si pone l’interessante precisazione offerta qui dalla Corte di legittimità. Infatti, risulta evidente la diversità della situazione a seconda che il sequestro preventivo sia stato disposto ai sensi del comma 1 ovvero del comma 2 dell’articolo 321 del cpp: nel primo caso, lo sgombero è di regola indispensabile proprio per impedire la protrazione della commissione del reato (ciò che, per esempio, in caso di reati edilizi, può verificarsi per evitare l’ulteriore utilizzo a fini abitativi dell’immobile abusivo; mentre, in caso di occupazione abusiva, può verificarsi proprio per far cessare la condizione di illegittimità); nel secondo caso, invece, di regola, per la fruttuosità della confisca è sufficiente la trascrizione del vincolo ex articolo 104 delle disposizioni di attuazione del cpp. Alcune riflessioni. Detto altrimenti: nel caso di sequestro preventivo disposto esclusivamente ai sensi del comma 2 dell’articolo 321 del cpp, cioè a fini della futura confisca, lo sgombero non è indispensabile, essendo sufficiente a garantire la fruttuosa attuazione della misura ablativa la trascrizione del provvedimento impositivo del vincolo. Proprio da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza con cui il gip aveva revocato l’ordine di sgombero impartito dal pubblico ministero in occasione dell’esecuzione del sequestro di un immobile oggetto di lottizzazione abusiva motivato con il rilievo che il sequestro era stato disposto al solo fine di garantire la fruttuosità della eventuale confisca, senza invece alcun riferimento anche al pericolo di protrazione o aggravamento delle conseguenze del reato, con la conseguente non indispensabilità dello sgombero disposto dal pubblico ministero, non essendovi pericolo concreto di dispersione o deterioramento dei beni. Terzietà del giudice, una chimera di Piero Tony Il Foglio, 14 luglio 2016 La prassi e la cultura giurisdizionale italiane stanno costeggiando il baratro dell’incertezza del diritto. Ora iniziano a esserne consapevoli un pò tutti, almeno a parole. Dunque, che fare? Non basta la raggiunta consapevolezza e non bastano le chiacchiere di contorno, ora occorrono fatti. Non basta che oggi finalmente si sia quasi tutti consapevoli che la cultura giurisdizionale da anni sta temerariamente costeggiando il baratro dell’incertezza del diritto e dunque sfiorando il disastro della sfiducia, sfiducia di tutti, compresi gli investitori in relazione ad entrambi i settori civile e penale. Passi da gigante in pochi mesi, forse anche per merito del record italiano di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per violazione del diritto a un processo di durata ragionevole. Tuttavia non basta essere arrivati alla consapevolezza che, dalla nascita del cosiddetto nuovo codice di procedura penale (1989) e dunque per una strada lunga quasi 30 anni, il processo accusatorio è stato progressivamente sempre più tradito e snaturato per via di una irragionevole maledetta ed esiziale lentezza che di fatto da una parte ha reso centrale la fase non garantita delle indagini preliminari e, dall’altra, ha degradato a cerimonia ossia a eventuale e artificiosa rappresentazione melodrammatica quella del dibattimento, prevista invece dal legislatore di allora come il cuore garantito del procedimento. Così il riscaldamento dei muscoli è diventato partita e la partita è diventata sceneggiata. In un recente dibattito sulla giustizia ha dichiarato persino il presidente della Cassazione Canzio: "Il processo mediatico mi preoccupa perché è incentrato sulle indagini preliminari, e rischia così di formare consensi e aspettative nella collettività che possono mettere in discussione la terzietà del giudice". Capito? Finite nel nulla le originarie regole codicistiche, il duello dibattimentale tra parte pubblica e parte privata al cospetto di un giudice terzo, equidistante e vergine (così si diceva), cioè ancora digiuno di qualsiasi notizia sui fatti da valutare. Nella stessa occasione ha ammesso il procuratore Spataro che effettivamente esiste un "protagonismo virtuoso" dei magistrati, da stigmatizzare (guarda un po’, ndr) anche perché non possono atteggiarsi a moralizzatori della vita pubblica o a eroi contro i poteri forti". E così il ministro Orlando, così il vicepresidente del Csm Legnini, così le conclusioni allarmate dell’ultimo congresso dell’Unione Camere Penali (10-11 giugno 2016) e così tanti altri, anche gente comune senza particolari sensibilità volteriane (meglio correre il rischio di salvare un colpevole, eccetera) o paranoie kafkiane, ma tutti come loro preoccupati per codesto maledetto processo mediatico. Tutti dunque ben convinti: le cose proprio non vanno, la terzietà è solo chimera e di conseguenza i processi celebrati sovente non sono giusti. Ma non basta codesta raggiunta consapevolezza della frequente concreta inesistenza di un giusto processo, né bastano le novità finora introdotte dagli attuali governanti, le minuterie di riforma - penso alla sospensione con messa alla prova, alla non punibilità di fatti irrilevanti perché particolarmente tenui ed occasionali, alla depenalizzazione di molte condotte efficacemente censurabili come illeciti amministrativi, al requisito dell’ "attualità " codificato addirittura pleonasticamente quanto alle esigenze cautelari per le misure cautelari e così via - che comunque, va dato atto, hanno determinato una sensibile riduzione di alcuni problemi quali, ad esempio, il carico di lavoro degli uffici giudiziari ed il numero della complessiva popolazione carceraria (da oltre 60.000 a poco più di 50.000) e dei detenuti in attesa di un primo giudizio (dai 12.000 del 2013 agli 8.700 di oggi). Non basta codesta raggiunta consapevolezza di diffusa assenza di terzietà, perché resta l’urgente necessità di tante altre importanti riforme: una prescrizione contemperante che anziché salvaguardare solo la lentezza anche incalzi sollecitando, intercettazioni congegnate in maniera tale da non consentire conoscenza e pubblicazione di dati sensibili di persone estranee al procedimento, inappellabilità delle assoluzioni da parte del pm (la vigente appellabilità è oggetto misterioso per qualsiasi paese che non sia il nostro), l’abolizione del divieto di reformatio in peius e dell’obbligatorietà dell’azione penale per come è prevista in forma assoluta - cioè senza distinzione tra peccati mortali e veniali, senza attenzione a costi e utilità sociali - dall’articolo 112 della Costituzione. Non basta codesta ammessa consapevolezza dell’attuale incertezza del diritto, perché il legislatore deve una buona volta decidersi a pronunciarsi sulla configurabilità del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa al fine di restituire sicurezza e dignità sia alla giurisdizione, che si dibatte tra mille dubbi contraddizioni soluzioni e sconfessioni, sia alle persone, che continuano ad essere spesso irrimediabilmente vilipese per condotte né tipizzate né facilmente tipizzabili. È innanzitutto questione di civiltà. Non è possibile che, ormai da decenni, la vita di un qualsiasi cittadino possa essere massacrata, da cosa? Da una interpretazione giurisprudenziale! Come se non bastasse scivolosa discussa e discutibile. Fondata, come aulicamente tuonano gli addetti tecnici, sul combinato disposto di quegli artt. 416bis e 110 cp che almeno a me (ma so di essere in numerosa e ottima compagnia) paiono tra loro assolutamente incompatibili fino all’elisione - per ragioni logico-giuridiche che ho illustrato a lungo tante volte, non sto ad annoiarvi - come il diavolo e l’acqua santa, come il "più" e il "meno" di un’equazione, come la norma speciale e quella generale di cui all’articolo 15 cp. C’è chi parla di contraddizione in termini, chi di ossimoro, chi di fuffa e chi - come me, a motivi spiegati - di vergognoso sgorbio logico-giuridico, di ectoplasma anzi di ectoconcorso esterno ideato più o meno in buona fede nello spirito del prefetto Mori. E non è possibile che si possa essere crocifissi da codesta discussa interpretazione giurisprudenziale quando la Cedu, a proposito di Contrada, ha ironizza sulla sua chiarezza perlomeno dei primi anni; quando dopo altalene decennali un autorevole gip di Catania, Gaetana Di Stefano, ha recentemente pronunciato un risonante proscioglimento non ritenendo che il reato di concorso esterno fosse previsto dal codice penale. E quando - dulcis in fundo o, meglio, ciliegina sulla torta - lo scorso 13 maggio la I sezione penale della Corte di Cassazione, all’esito dell’udienza per un’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa (art. 416 e non 416bis cp, ma se non è zuppa è pan bagnato ) ha ritenuto - udite udite - di non poter decidere allo stato degli atti e di dover ancora una volta rinviare alle Sezioni Unite con il solito quesito "se sia configurabile il cd concorso esterno nel delitto di associazione per delinquere previsto dall’art. 416 cp". Nel frattempo il massacro continua. Che il legislatore batta un colpo! Ma soprattutto non basta codesta acquisita consapevolezza perché manca la riforma fondamentale, quella strutturale della separazione delle carriere. Condizione assolutamente necessaria perché abbiano attuazione il finora ansimante nuovo codice accusatorio e, soprattutto, il "giusto processo" previsto dall’articolo 111 della Costituzione davanti a giudice terzo e imparziale. "Giusto" solo se la fase delle indagini cessa di essere centrale e solo se si assicura la sua ragionevole durata e il contraddittorio nella formazione della prova. Ma innanzitutto "giusto" se sussiste la terzietà del giudice rispetto ad accusa e difesa, terzietà inconcepibile finché la magistratura resta un ordine indistinto. A fronte di un magistrato che - come fa un sacerdote tra battesimo ed estrema unzione - può saltabeccare disinvoltamente tra ruoli requirenti e giudicanti, già da tempo la sempre maggiore complessità delle indagini (soprattutto quanto a latitudini criminali e tecnologie ad ogni ora mutanti) avrebbe dovuto far pensare all’urgente necessità di separate e specifiche specializzazioni: con un pm il più possibile implacabile segugio di parte accusatoria, sempre tecnologicamente e criminologicamente aggiornato; con un giudice il più possibile professionalmente terzo, sereno e insuggestionabile. Ma non solo, già nella lontana Assemblea Costituente, e dunque circa 70 anni fa, i costituenti si posero il problema della separazione delle carriere, nonostante che allora il processo accusatorio fosse solo in mente dei, ma il guardasigilli Grassi rassicurò rinviando la soluzione all’imminente (uno o due anni) "nuovo ordinamento giudiziario", atteso a tuttoggi a parte alcune modifiche secondarie. E già Giovanni Falcone ebbe ad avvertire, più volte, che per evitare mostruosità giudiziarie "il pm non doveva avere alcun tipo di parentela con il giudice e non poteva essere una specie di paragiudice". E già nel 1997 il Parlamento europeo raccomandò in tal senso, nell’ambito di una delibera per il rispetto dei diritti umani, linee-guida a tutela della terzietà (A.4-01 12/1997). E già quando venne introdotto il vigente codice accusatorio la separazione veniva considerata indubitabile corollario. E già avrebbero dovuto insospettire le non rare mediatiche partenze in quarta seguite, dopo anni, da flop quantomeno disorientanti. E già avrebbe dovuto essere sufficiente un’indagine comparativa e il conseguente rilievo che, nel mondo, solo nel nostro paese vige un processo accusatorio con carriere non separate. E la conseguente riflessione sul fatto che prima o dopo saremo costretti a omologarci al resto del mondo, basta considerare le martellanti richieste di procura e processo europei. Eppure niente, palude, tutto continua come prima. Nonostante non ci sia chi non s’accorga dell’evidenza: che il giudice è parente del pm e non del difensore, collega del pm nelle frequentazioni quotidiane, spesso appesantito nelle decisioni sia da un malinteso senso di lealtà e solidarietà di appartenenza, sia dal timore di smentire complesse attività anch’esse formalmente giudiziarie o di tradire le aspettative dell’indagine o infine di guastare la complessiva immagine del sistema giustizia. Un giudice che, nella fase delle indagini preliminari, non di rado comunica con il pm mediante cartelle condivise e Word, niente Pdf. In un’ottica che qualche volta vuole i magistrati tutori esclusivi del bene in contrapposizione a tutti gli altri. E il difensore? Non è parente e qualche volta - malgrado l’impegno - rischia di essere relegato nel ruolo di convitato di pietra se non di fastidioso intralcio. Ma - sia chiaro - tutto ciò senza malizia alcuna, è solo la naturale conseguenza dell’appartenere alla stessa carriera. Credo sia per porre fine a tutto ciò che l’Unione Camere Penali, comprensibilmente esasperata, intenda attivare a breve una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che consacri la terzietà del giudice attraverso una netta separazione delle carriere, distinti concorsi di accesso e distinti Csm. A meno che non succeda il miracolo! Cioè a meno che i nostri governanti finiscano con il capire, sarebbe ora, quanto un giusto processo sia essenziale per una sana crescita culturale ed economica del paese - essendone uno dei pilastri - oltre che per il rispetto della dignità personale e, conseguentemente, anticipando l’iniziativa dell’Unione, si precipitino a riformare il sistema giustizia nel suo complesso e non con i soliti pannicelli caldi. Così dimostrando al mondo maturità e intelligenza politica adeguate ai tempi. Napoli: Poggioreale, parla il direttore "il carcere ora sta cambiando di Conchita Sannino La Repubblica, 14 luglio 2016 "Questo carcere sta cambiando, ma ancora dovrà farlo. E lo mostreremo". Caso Poggioreale. Dopo le lettere dall’"inferno" pubblicate da Repubblica, scritti di detenuti "ordinari" che raccontano di spazi "inumani", di cucine in condizioni drammatiche, di scarsa assistenza sanitaria, parla il direttore della struttura, Antonio Fullone. Duemila detenuti ospitati oggi, sotto un’altra torrida estate, contro i 1400-1500 tollerati come extrema ratio negli spazi in buona parte fatiscenti e considerati "contrari" a una visione moderna della pena. "Il sovraffollamento esiste, soprattutto nei padiglioni del Reparto Circondariale: il "Napoli" e "Milano", ma certo senza mai scendere sotto il livello dei tre metri quadri previsti dalle norme europee per ogni detenuto - spiega il direttore Fullone - e stiamo intervenendo a vari livelli con cantieri di riqualificazione già aperti, a turno, in vari padiglioni. Anzi, alcuni progetti che vedranno la realizzazione nei prossimi mesi hanno visto lavorare insieme detenuti e studenti di Architettura dell’Università Federico II: anche per calibrare sulle loro esigenze, compatibilmente con il nostro ordinamento, alcune soluzioni nei corridoi e nei cortili di passeggio". Fullone, che guida Poggioreale da due anni, che ha accolto nel 2015 la visita di Papa Francesco e partecipato alle iniziative volute dal ministro Andrea Orlando verso "l’avanzamento del nostro Paese in termini di civiltà e umanità" delle condizioni carcerarie, non nasconde le criticità. "È vero, la cucina è davvero un dramma, ma non a caso da alcuni giorni è stata chiusa come era previsto, e i detenuti ricevono i pasti da fuori perché sono appena iniziati i lavori di ristrutturazione, non più rinviabili. Però, le dodici persone in cella non sono una nostra caratteristica, sarà forse successo tempo fa? Ora, i padiglioni sono sotto costante osservazione, abbiamo chiuso il padiglione "Venezia", chiuderemo a breve una parte del "Milano" sempre per riqualificarlo, e non ci nascondiamo che la struttura meriti altri interventi, ma abbiamo fatto passi avanti innegabili". Piccoli preziosi progressi che, difatti, alcune testimonianze di detenuti - che evidentemente sono recidivi o stanno scontando lunghe pene - riconoscono. Sono temi che proprio ieri mattina si impongono, tra avvocati e giuristi, nella più ampia disamina sulla situazione carceraria in Italia e "sull’ipocrisia o la colpevole timidezza delle istituzioni nel mantenere gli impegni assunti sul superamento delle attuali condizioni di vita" nelle celle. L’occasione è la presentazione, a Palazzo di giustizia, del libro "Gli Stati generali dell’esecuzione penale" con Riccardo Polidoro, responsabile dell’"Osservatorio Carcere" dell’Unione Camere Penali italiane, Ucpi, nonché referente di uno dei 18 tavoli che hanno lavorato all’iniziativa, e con Sergio Schlitzer, presidente della Onlus "Il Carcere Possibile", Attilio Belloni, presidente della Camera Penale di Napoli, Domenico Ciruzzi, vice presidente dell’Ucpi, e di Massimo Russo, magistrato di sorveglianza, oltre che di i Armando Rossi, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Piovono, tra l’altro, bacchettate alla "politica che per consenso solletica l’equazione più pena, più carcere, più carcere duro". E anche al sistema dei media "poco incline ad ascoltare le ragioni di chi subisce il carcere disumano, e a lavorare su questa sfida culturale". Ma il libro è anche un utilissimo modo di sostenere la causa: costa 12 euro e i proventi, ricorda Polidoro, serviranno ad acquistare defibrillatori, di cui le carceri sono sprovviste. Ferrara: carcere dell’Arginone sovraffollato, 252 posti per 343 detenuti La Nuova Ferrara, 14 luglio 2016 In Emilia-Romagna c’è di nuovo "una forte preoccupazione per il problema del sovraffollamento nelle carceri, che pensavamo superato ma così evidentemente non è: il momento è delicato, anche a causa del caldo". A sollevare il problema durante la sua relazione davanti all’Assemblea legislativa sull’attività svolta nel 2015 è Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che rivela come al 30 giugno 2016 a fronte di una capienza regolamentare di 2.800 persone i ristretti nelle 11 strutture della regione sono 3.128, di cui 2.996 uomini e 132 donne. Al carcere Dozza di Bologna i detenuti sono 716, a fronte di una capienza di 497 unità. A Ferrara si contano 343 ristretti su 252 posti. A Modena la capienza regolamentare è di 372 posti, ma le presenze sono 431. Problemi con il sovraffollamento anche a Parma (585 detenuti rispetto ai 468 previsti) e Ravenna (49 posti, 65 detenuti). Meno gravi le situazioni a Rimini (133 detenuti su 131 posti) e Reggio Emilia (235 su 224). Al contrario la casa lavoro di Castelfranco Emilia (75 su 182), l’ex Opg di Reggio Emilia (45 su 82), il carcere di Forlì (118 su 144) e quello di Piacenza (382 su 399) sono strutture che risultano sottoutilizzate. "I problemi del tribunale di sorveglianza incidono sulla mancata applicazione delle misure alternative, e anche sull’espulsione dei detenuti stranieri - spiega la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa. La carenza di educatori poi non aiuta certe a istruire le pratiche per le misure alternative, e a questo si deve aggiungere anche l’incremento delle custodie cautelari". "Grazie alle nuove norme sulla giustizia registriamo meno ingressi - aggiunge - ma ci sono ancora troppe difficoltà per le uscite". Inoltre, prosegue Bruno, "si aggiungono i problemi con la custodia aperta: in assenza di occupazioni quotidiane si stanno creando conflittualità dovute al sovraffollamento". Bologna: carceri sovraffollate, il procuratore Giovannini "siamo nuovamente a rischio" bolognatoday.it, 14 luglio 2016 Valter Giovannini commenta Desi Bruno: "Le Procure sono ovviamente obbligate ad eseguire le sentenze di condanna attraverso l’emissione degli ordini di carcerazione. Le misure alternative al carcere sono una misura importante, ma non risolutiva". La Garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna, Desi Bruno torna sul tema del sovraffollamento delle carceri e il Procuratore Aggiunto di Bologna Valter Giovannini commenta il nuovo allarme: "La Garante Desi Bruno come sempre solleva con la nota sensibilità e professionalità problemi reali e gravi. Siamo nuovamente a rischio sovraffollamento, compresa la casa circondariale di Bologna". Il Procuratore reputa necessaria una constatazione a riguardo: "Le modifiche processuali hanno reso più difficile il ricorso alle misure cautelari, per lo spaccio di strada di fatto non si può più applicare la custodia in carcere, eppure i detenuti aumentano. Ciò vuol dire che la cifra criminale non diminuisce, ma anzi, si incrementa". Lo stesso concetto Giovannini lo aveva espresso anche di recente, in relazione ad alcuni eventi descritti nelle pagine di cronaca della città. "A ciò si deve aggiungere - continua Giovannini - che le Procure sono ovviamente obbligate ad eseguire le sentenze di condanna attraverso l’emissione degli ordini di carcerazione. Le misure alternative al carcere sono una misura importante, ma non risolutiva, della complessa materia penitenziaria. Insomma, se i posti non ci sono occorre aumentarli attraverso la costruzione di nuovi istituti di pena moderni, funzionali e sicuri". Modena: la protesta dei detenuti "grave l’assenza del Magistrato di Sorveglianza" Ansa, 14 luglio 2016 "L’assenza del magistrato di Sorveglianza, nel carcere di Modena, sta diventando sempre di più un motivo di gravità, i detenuti ‘definitivì non hanno il loro riferimento naturale con il quale interloquire per le necessità ordinarie e straordinarie di giustizia". Lo segnala Adriano Valeri, in una lettera arrivata all’Ansa e firmata in rappresentanza di tutti i detenuti del carcere di Modena. "Questa discrasia sistemica - prosegue - crea nei detenuti una grave tensione. Vi è la certezza che, se la situazione persisterà, i detenuti stessi adiranno a proteste formali per rivendicare un diritto costituzionale". L’assenza del magistrato "si verifica ormai dal giugno 2014, con sporadici incarichi, di pochi mesi, a magistrati supplenti". L’avvicendamento fa sì che il "preposto e/o supplente non voglia assumersi eccessive responsabilità nel firmare atti e istanze; ciò penalizza sia i carcerati che tutto l’ordine degli avvocati e con grave disappunto si chiede di chiarire e risolvere la situazione". Torino: "Freedhome", il lavoro in carcere per un futuro possibile di Alessandra Profilio italiachecambia.org, 14 luglio 2016 Riunire in un unico marchio le produzioni alimentari e artigianali frutto del lavoro dei detenuti in carcere. Nasce da questa idea il marchio Freedhome - Creativi dentro. Obiettivo di tutte le realtà coinvolte è la riabilitazione del condannato tramite l’apprendimento di un mestiere. Portare "dentro" lavoro, valore e professionalità per proporre "fuori" prodotti artigianali e alimentari di alta qualità. Una decina di cooperative operanti all’interno delle carceri, da Siracusa a Venezia, hanno deciso di unirsi dando così vita al brand Freedhome - Creativi dentro che aggrega un gruppo di imprese cooperative sociali italiane che lavorano all’interno di istituti di pena, convinte che l’economia carceraria sia la chiave di volta per ripensare in modo più efficace il sistema penitenziario italiano. "Freedhome ha lo scopo di raggruppare tutte le produzioni carcerarie che hanno raggiunto alti livelli e che condividono lavori etici", spiega Saverio Malvulli, della cooperativa Campo dei Miracoli, tra le realtà appartenenti a Freedhome. Dai prodotti alimentari a quelli artigianali i prodotti realizzati in carcere vengono sempre realizzati seguendo come obiettivo il massimo della qualità, non il massimo del profitto, per dare valore a un futuro possibile. "Obiettivo di tutte le realtà coinvolte è la riabilitazione del condannato. Imparando un mestiere infatti il detenuto impara il rispetto di se stesso, impara a stare in squadra e quindi apprende il rispetto delle regole, recupera la affettività e l’opportunità di una vita diversa una volta uscito dal carcere". Con le realtà di Freedhome sono attualmente impegnati circa 50 reclusi oltre a una ventina di altri ex detenuti o in regime di semilibertà, tutti assunti con regolare contratto. "Il lavoro dà un senso al tempo. Ancor di più quando il tempo è speso dietro le sbarre. Perché un detenuto che lavora, sperimenta relazioni sane, impara, ricostruisce un ponte con il mondo che c’è fuori. Ma soprattutto, concretamente, quando esce ha meno probabilità di tornare a sbagliare", si legge sul sito di Freedhome. "Creare lavoro all’interno del carcere - aggiunge Imma della cooperativa Lazzarelle - è prioritario, per spezzare il tempo della detenzione, per favorire il reinserimento, abbattere la recidiva, riuscire a dare soldi all’esterno, trasformare i detenuti da peso a nuova risorsa sociale". Adesso Freedhome è, tra le altre cose, un negozio a Torino, in via Milano 2/c. Milano: United Food, stasera si parla di buone pratiche di formazione in carcere sempionenews.it, 14 luglio 2016 A mare culturale urbano, nel percorso United Food of Milano curato da donpasta per la stagione estiva, "Dopo andiamo al mare", giovedì 14 luglio la serata sarà dedicata alle bune pratiche di formazione in carcere: dalle ore 18.00 si susseguiranno un dibattito, la preparazione/degustazione di piatti cucinati da cuochi e cuoche detenuti, un dj set, l’installazione fotografica "Sapori Reclusi". L’appuntamento di giovedì 14 luglio è dedicato alle buone pratiche di formazione nelle carceri italiane, tra cibo e fotografia: Cucine Galeotte illuminerà l’importanza della cucina nei percorsi di riabilitazione e riscatto negli istituti penali. Sono numerosi e virtuosi i progetti che in Italia puntano al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti attraverso la partecipazione a percorsi professionali incentrati sulle attività di ristorazione, dalle mense agli orti, dai biscotti al caffè, fino alla birra. La serata prende il via alle ore 18.00 con un incontro dedicato alle buone pratiche di formazione professionale nelle carceri italiane, coordinato dalla giornalista Tiziana Barillà del settimanale Left, a cui parteciperanno Lucia Castellano, Direttore Generale Esecuzione penale esterna e di messa alla prova, Valeria Verdolini, Presidente della Sezione Lombardia dell’Associazione Antigone, Cosima Buccoliero, Vice Direttore del Carcere di Bollate, Davide Dutto di Associazione Sapori Reclusi. Dalle ore 19.30 saranno impegnati ai fornelli 6 cuochi/cuoche detenuti, provenienti dalle vicine carceri di Opera, San Vittore, Bollate, dalla casa circondariale di Pozzuoli (Coop. Lazzarelle) e dall’istituto di detenzione San Michele di Alessandria: ciascuno servirà al pubblico le proprie ricette preparate sul momento, con l’accompagnamento di buona musica su vinile (il dj set è a cura di Paolo Minella, conduttore di "Il sabato del villaggio" di Radio Popolare). La degustazione prevede "orecchiette alla San Michele" da Alessandria, parmigiana di melanzane da Pozzuoli, panzerotti con mozzarella e pomodoro e cannelloni al sugo da Bollate, coni di pasta sfoglia con mozzarella, pomodorini e crema di basilico da San Vittore, pasta con verdure al forno e torta di mele da Opera. Il vino è offerto dalle cantine Cincinnato e Le Grotte. Durante la cena sarà visitabile l’installazione fotografica Sapori Reclusi, realizzata da Davide Dutto dell’omonima associazione, in collaborazione con Associazione Antigone, composta da ritratti di cuochi/detenuti impegnati ai fornelli durante alcuni progetti di formazione. Ingresso alla serata: 20 € euro, gratuito per bambini fino agli 8 anni; include la degustazione di 6 piatti cucinati al momento, con un calice di vino (biglietti acquistabili online dal sito maremilano.org o direttamente in biglietteria la sera stessa). Dal 15 al 17 luglio la Cascina ospiterà inoltre un mercatino per la vendita di prodotti artigianali e gastronomici realizzati in progetti di formazione nelle carceri italiane (venerdì 15 luglio dal pomeriggio; sabato 16 domenica 17 tutto il giorno). Si avvisa inoltre il gentile pubblico che lo spettacolo A-solo. Studi di assenza in pubblico della Compagnia della Fortezza programmato per le ore 21.30 non potrà andare in scena a causa di un’improvviso impedimento della compagnia. Ne siamo dispiaciuti e speriamo di poter presentare il lavoro della compagnia nel prossimo futuro. Sapori Reclusi, un’associazione, un progetto, una mostra fotografica - Sapori Reclusi ha realizzato nel 2010 all’interno delle carceri piemontesi un laboratorio foto-gastronomico (volume di futura pubblicazione per Cibele), con la collaborazione di sette importanti chef (Alciati, Palluda, Ghigo, Ribaldone, Reina, Demaria e Campogrande), che si sono confrontati con i detenuti generando uno scambio di esperienze e saperi. Sapori Reclusi è un’associazione che, partendo dal comune bisogno dell’uomo di nutrirsi, utilizza il cibo come pretesto per entrare dove si trovano barriere fisiche o mentali. Il percorso di Sapori Reclusi è iniziato nel 2005 con la pubblicazione del libro di Davide Dutto e Michele Marziani "Il Gambero Nero, ricette dal carcere", in cui si racconta l’esperienza dei detenuti che cucinano nelle proprie celle. In seguito, l’associazione ha varcato il confine tra "il dentro e il fuori", con i laboratori di cucina realizzati nelle carceri piemontesi e diversi sono i progetti in via di sviluppo (saporireclusi.org). Antigone, associazione "per i diritti e le garanzie nel sistema penale", è nata alla fine degli anni 80 nel solco della omonima rivista contro l’emergenza promossa, tra gli altri, da Massimo Cacciari, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda. È un’associazione politico-culturale a cui aderiscono magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. Antigone promuove elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e sulla sua evoluzione; raccoglie e divulga informazioni sulla realtà carceraria, sia come lettura costante del rapporto tra norma e attuazione, sia come base informativa per la sensibilizzazione sociale al problema del carcere anche attraverso l’Osservatorio nazionale sull’esecuzione penale e le condizioni di detenzione; cura la predisposizione di proposte di legge e la definizione di eventuali linee emendative di proposte in corso di approvazione; promuove campagne di informazione e di sensibilizzazione su temi o aspetti attinenti l’innalzamento del modello di civiltà giuridica del nostro Paese, anche attraverso la pubblicazione di un quadrimestrale. Gorizia: droga, alcol e cellulare ai detenuti; in quattro nei guai, anche due agenti Il Gazzettino, 14 luglio 2016 Si è svolta stamattina la fase conclusiva dell’indagine denominata Cella 27, coordinata e diretta dai Pubblici Ministeri della Procura della Repubblica di Gorizia e sviluppata dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Udine in collaborazione con i colleghi del Comando Provinciale isontino. L’indagine, iniziata la scorsa estate, ha consentito di individuare e neutralizzare l’attività illecita posta in essere da due Agenti del Corpo della Polizia Penitenziaria che, in cambio di tornaconto economico, si erano accordati con i familiari di alcuni detenuti al fine di introdurre nel Carcere di Gorizia alcolici, schede telefoniche e sostanze stupefacenti che ricevevano dai parenti medesimi e trasportavano all’interno del penitenziario tra i propri effetti personali, consegnando poi il materiale ai detenuti interessati. Nel corso dell’attività investigativa sono stati effettuati alcuni sequestri dei materiali, la cui detenzione è assolutamente vietata ai detenuti, acquisendo circostanziati elementi di prova che hanno consentito di ottenere dal Gip del Tribunale di Gorizia la misura della custodia cautelare in carcere per il fornitore degli stupefacenti, dimorante a Monfalcone gravato da plurimi pregiudizi penali, nonché la misura dell’obbligo di presentazione alla P.G. per i due agenti e per due donne complici del traffico illecito. Puntata di RadioCarcere dedicata al carcere di Pordenone (data di costruzione 1200!!!) Ristretti Orizzonti, 14 luglio 2016 Ecco il carcere più antico d’Italia, quello di Pordenone, un antico castello del 1200 dove oggi ci vivono 55 persone detenute. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/480672/radio-carcere-il-carcere-piu-antico-ditalia-quello-di-pordenone-un-antico-castello-del Unione Europea: regole uguali su asilo, criteri standard e 10mila euro per ogni rifugiato La Repubblica, 14 luglio 2016 La proposta di revisione approvata serve ad armonizzare le norme sull’accoglienza. Saranno gli Stati membri a decidere quanti profughi saranno legalmente accolti. Un sistema unico e uguale per tutti: la Ue ha approvato una proposta di revisione delle regole comunitarie in materia di asilo, valida allo stesso modo per gli Stati membri, con procedure, tempi, criteri e standard, in modo da evitare che i migranti possano scegliere tra un Paese Ue e l’altro in cerca di condizioni migliori. Le modalità di gestione dei richiedenti asilo, quindi, saranno meno nazionali e più europee. Regole uguali per tutti. La proposta della Commissione Ue intende sostituire l’attuale direttiva con un regolamento definito, in modo da arrivare più rapidamente a ridurre tempi e differenze nell’accettazione delle domande di asilo nonché garantire gli stessi diritti a tutti i migranti. "Queste modifiche creeranno un sistema di procedure d’asilo comuni e garantiranno che tutti i richiedenti asilo siano trattati in modo appropriato", ha chiarito il commissario per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos. Per concedere protezione ci sarà una scadenza massima di sei mesi, con la possibilità di una sola proroga di tre mesi in caso di "pressione sproporzionata" sul sistema nazionale d’asilo o di "complessità" del singolo caso in esame. Unica lista di Paesi sicuri. Le domande inammissibili o infondate dovranno invece essere completate in tempi compresi "tra uno e due mesi". Ogni Stato dovrà prevedere scadenze comprese fra una settimana e un mese per i ricorsi dei migranti e un periodo da due a massimo sei mesi per le decisioni di primo appello. La Commissione Ue, inoltre, propone di introdurre una sola lista di Paesi sicuri, per sostituire le ventotto liste nazionali attualmente in vigore. Diecimila euro per ogni reinsediamento. La Commissione, poi, propone che il Paese di accoglienza riceva dalla Ue 10 mila euro per ogni migrante arrivato in base al sistema dei reinsediamenti. E ancora: il regolamento prevede anche di mettere in piedi un sistema di reinsediamenti funzionante su base annuale dove saranno gli Stati membri a decidere quanti rifugiati saranno legalmente accolti e i Paesi di provenienza: "È una finestra legale genuina per chiudere la porta agli arrivi irregolari", ha detto Avramopoulos, che ha criticato le differenze nelle procedure d’asilo e nelle condizioni offerte ai migranti negli Stati membri dopo i "movimenti secondari", cioè di coloro che chiedono asilo in Paesi diversi da quello del primo arrivo. La proposta sarà valutata dai governi nazionali e dal Parlamento europeo. Asilo a tempo. Il diritto d’asilo per i richiedenti sarà concesso e riconosciuto nell’Unione europea per un tempo determinato, prevede la proposta di riforma. Come ha spiegato Avramopoulos, sarà introdotto il principio per cui "viene garantita protezione finché si rende necessario". A tal fine, si vuole prevedere una revisione periodica obbligatoria dello status di rifugiato in funzione degli sviluppi nel Paese di provenienza, per considerare cambiamenti che potrebbero modificare le condizioni. Coltivazione in casa e uso personale, ecco il testo per legalizzare la cannabis di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 14 luglio 2016 Le nuove norme il 25 luglio in Aula alla Camera. Il sì dei magistrati antimafia per combattere la criminalità organizzata. Il cannabis social club: "Si possono associare fino a cinquanta persone e possono essere anche pazienti che si uniscono tra loro". Arriverà in Aula alla Camera il prossimo lunedì 25 luglio e sarà la prima volta che una legge sulla legalizzazione della cannabis varca quella fatidica soglia. Ieri a Montecitorio le commissioni congiunte di Giustizia e Affari sociali hanno adottato il testo unico da portare in votazione ai deputati, il cosiddetto "testo Giachetti", sebbene quella proposta sia stata in realtà materialmente redatta da un folto intergruppo formato da deputati e senatori creato e coordinato dal sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova. L’autocoltivazione - Come funzionerebbe la legge? Il testo in pillole cambia molto le attuali regole sulla detenzione della cannabis, partendo dal concetto di legalizzarla. E così sarà possibile tenere in casa fino a quindici grammi di cannabis senza dover chiedere il permesso a nessuno, né comunicare alcunché a enti e autorità. Se invece si sta in giro e non a casa la quantità lecita di possesso scende a cinque grammi. Si possono anche derogare questi limiti, ma l’importante in questo caso è dimostrare che il possesso di cannabis è per uso terapeutico e non ricreativo. Particolare la regolamentazione relativa alla coltivazione (prevista nella legge all’articolo 1). O, meglio, l’auto-coltivazione. Nella legge di oggi è completamente proibita, nel testo Giachetti si prevede la possibilità di coltivare fino a cinque piantine e anche quella di coltivarle in forma associata sul modello spagnolo dei "cannabis social club". Il cannabis social club - Spiega Daniele Farina, deputato di Sinistra italiana, relatore della legge per la commissione Giustizia: "Il cosiddetto cannabis social club è un tentativo di generare un monopolio attenuato. Si possono associare fino a cinquanta persone e possono essere anche pazienti che si uniscono tra loro". Sia in forma associata sia in forma singola, l’autocoltivazione può cominciare dopo che si è data comunicazione all’Agenzia dei monopoli, valendo quindi la regola del silenzio-assenso. Il parere della Dna - Uno degli scopi principali di questa legge di legalizzazione è la lotta alla criminalità organizzata, ed è su questo punto che la Direzione nazionale antimafia si è espressa con un parere favorevole. I magistrati hanno infatti prodotto un documento dove scrivono: "Questo ufficio esprime parere positivo per tutte le proposte di legge che mirano a legalizzare la coltivazione, la lavorazione e la vendita della cannabis e dei suoi derivati". Sono diversi mesi che l’intergruppo messo in piedi dal sottosegretario Della Vedova lavora a questa proposta di legge che - per la prima volta nella storia del nostro Paese - arriva in un’Aula del Parlamento per la votazione di un provvedimento che verso la cannabis si dimostra antiproibizionista e non repressivo. Le firme - "Per questa proposta di legge abbiamo raccolto le firme di 221 deputati e di 73 senatori", spiega il sottosegretario agli Esteri. E aggiunge: "Ma sono convinto che, al di là di chi ha già messo la sua firma, ci sono molti parlamentari che questa legge alla fine la voteranno: è il più grande colpo che si può dare alla mafia, alla criminalità organizzata".Martedì 19 scadono i termini per la presentazione degli emendamenti e dopo nemmeno una settimana il provvedimento sarà all’attenzione dell’emiciclo di Montecitorio. Egitto, le sparizioni violente come sistema di Riccardo Noury (portavoce di Amnesty International Italia) Il Manifesto, 14 luglio 2016 In nome della lotta al terrorismo, della Libia, del contrasto all’immigrazione, il Paese governato da Al Sisi, dove Giulio Regeni è stato torturato e ucciso, è considerato da Usa e Ue Paese affidabile. Quello che gli ex detenuti chiamano "l’inferno", gli uffici dell’Agenzia per la sicurezza nazionale che si trovano dentro il ministero dell’Interno, nel quartiere di Lazoughly, è ironicamente a pochi passi da piazza Tahrir. Lì, cinque anni e mezzo fa, centinaia di migliaia di persone chiesero la fine delle brutalità e delle torture dell’era-Murabak. Mubarak cadde e la sua polizia segreta, il Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato, fu sciolta. Per rinascere con un nuovo nome, per l’appunto l’Agenzia per la sicurezza nazionale, ma con gli stessi effettivi. Nulla di strano che la tortura sia ripresa come prima e, oggi, peggio di prima. Al Cairo è in atto quella che Amnesty International, nel suo rapporto pubblicato ieri, ha definito "un’ondata senza precedenti di rapimenti, sparizioni e torture". La situazione è precipitata dal marzo 2015, quando è stato nominato ministro dell’Interno, Magdy Abd el-Ghaffar, un uomo di lungo corso degli apparati di sicurezza. Le organizzazioni locali per i diritti umani forniscono cifre inquietanti: nel 2015, oltre 1000 casi di tortura; da gennaio 2015 a maggio 2016, quasi 2500 casi di sparizioni forzate. Queste due violazioni dei diritti umani vanno a braccetto. Presi in pieno giorno per strada o rapiti di notte dalle loro abitazioni da agenti dell’Agenzia per la sicurezza nazionale dotati di armi pesanti, i "desaparecidos" egiziani - di solito, di sesso maschile e di età compresa tra i 14 e i 50 anni - vengono trattenuti anche per mesi, spesso ammanettati e bendati per l’intero periodo. Il 90 per cento di loro compare a un certo punto davanti a un giudice, ma spesso solo per passare da un luogo illegale di detenzione a uno ufficiale in attesa del processo. Isolati dal mondo esterno, impossibilitati a contattare per settimane o mesi familiari e avvocati, i detenuti vengono sottoposti a pestaggi, stupri e scariche elettriche fino a quando non firmano "confessioni" che saranno poi usate come prove a loro carico nei processi, che termineranno con una condanna. Tra gli scomparsi e i torturati ci sono anche i minorenni. Come Mazen Mohamed Abdallah: sottoposto a sparizione forzata nel settembre 2015, quando aveva 14 anni, è stato ripetutamente violentato con un bastone di legno per estorcergli una falsa "confessione". O come Aser Mohamed, a sua volta 14enne al momento dell’arresto, vittima di sparizione forzata nel gennaio 2016 per 34 giorni, nella sede dell’Agenzia per la sicurezza nazionale di Città 6 ottobre. Durante quel periodo è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso per gli arti. Alla fine è stato portato di fronte a un procuratore che lo ha minacciato di ulteriori scariche elettriche quando ha provato a ritrattare la "confessione". Le sparizioni forzate hanno un impatto devastante su centinaia di famiglie, lasciate sole a interrogarsi sul destino dei loro cari. Alcune denunciano la scomparsa dei loro cari al ministero dell’Interno e alla procura per sentirsi spesso rispondere che "non risulta". Quel "non risulta" proclamato più volte in questi cinque mesi anche rispetto alla sparizione e alla tortura di Giulio Regeni. Ma nonostante i dinieghi e i depistaggi delle autorità egiziane, il rapporto di Amnesty International rivela le similitudini tra i segni di tortura sul suo corpo e quelli sugli egiziani morti in custodia dello stato. Ciò lascia supporre che la sua morte sia stata solo la punta dell’iceberg e che possa aver far parte di una più ampia serie di sparizioni forzate ad opera dell’Agenzia per la sicurezza nazionale e di altri servizi d’intelligence in tutto il paese. Il governo del presidente al-Sisi si ostina a negare che in Egitto si verifichino sparizioni forzate. Gli viene facile, grazie alla complicità del potere giudiziario: la procura accetta che l’Agenzia per la sicurezza nazionale falsifichi le date d’arresto per nascondere il periodo in cui i detenuti sono sottoposti a sparizione forzata, emette incriminazioni basate su "confessioni" estorte sotto coercizione e non dispone quasi mai indagini sulle denunce di tortura. E a proposito di complicità, in nome della lotta al terrorismo, della Libia, del contrasto all’immigrazione, l’Egitto continua a essere considerato dagli Usa e dall’Unione europea un paese affidabile e strategico, cui continuare a vendere armi e sistemi di sorveglianza senza porsi il problema dell’uso che se ne farà nella violazioni dei diritti umani. Ignorando e tradendo Giulio e le centinaia di altri scomparsi e torturati, che ieri Amnesty International Italia ha ricordato al Pantheon, riempiendo la piazza di corpi bendati e incappucciati.