Orlando: il carcere, così com’è oggi, non serve nemmeno per garantire la sicurezza La Repubblica, 13 luglio 2016 "Espiazione della pena e diritti fondamentali della persona", un tema forte e di difficile composizione, su cui sempre più spesso ci si confronta in Italia in relazione alla vivibilità delle carceri e alla reale funzione della pena come strumento riabilitativo. Questo pomeriggio se ne è discusso al Castello di Carini, nel Palermitano, nel corso di un convegno organizzato tra gli altri dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo. Presenti, tra gli altri, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo Francesco Greco, l’arcivescovo di Monreale monsignor Michele Pennisi, il presidente del Tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale ed il Garante dei Detenuti per la Sicilia Giovanni Fiandaca. "Nel 2015 in Italia si sono verificati 44 suicidi e altri episodi di autolesionismo e rifiuto del vitto - ha sottolineato Di Vitale. Altro dato da guardare è la composizione sociale dei detenuti, la maggior parte tossicodipendenti, migranti e persone che si sono macchiate di reati legati alla droga. Poi, a questi si aggiungono i colletti bianchi e i detenuti per reati di criminalità organizzata. Duecento soltanto sono i colletti bianchi in carcere per reati finanziari". "Un carcere organizzato così come oggi non serve nemmeno per garantire la sicurezza. Il carcere costa ogni anno 3 miliardi di euro e l’Italia è il Paese con la recidiva più alta d’Europa. Chi invoca il carcere in nome della sicurezza in realtà cavalca una società ansiosa e propina una truffa". A dirlo il ministro della Giustizia Andrea Orlando, concludendo i lavori del convegno. Sul tema del sovraffollamento, ha proseguito, "ci siamo mossi sulla base della provvidenziale legge Torreggiani. Senza, avviare un percorso di rinnovamento non sarebbe stato possibile. All’apice del sovraffollamento avevamo prima 69 mila detenuti per circa 42 mila posti. Avevamo un sistema che si reggeva soprattutto su una gamba, quella del carcere. I soggetti ammessi a pene alternative erano circa 20 mila. Adesso la situazione è cambiata. Abbiamo 54 mila detenuti per circa 50 mila posti, ma soprattutto 40 mila soggetti ammessi a pena alternativa". Basta fare una somma, secondo il ministro, "per rendersi conto che quando avevano più carcerazione i soggetti sottoposti al sistema penale erano meno di oggi. Si tratta di una grande svolta che aiuta a generare più sicurezza perché si abbassa la recidiva. Chi sono stati gli alleati di questa parziale battaglia che abbiamo combattuto? Sicuramente i due presidenti della Repubblica che si sono succeduti in questi anni e il Santo Padre. Se devo pensare alle organizzazioni mi vengono in mente soltanto le camere penali. La magistratura associata su questo punto da molto tempo non dice niente e sarebbe importante che dicesse qualcosa. Noi vinceremo questa battaglia se spieghiamo le ragioni e la convenienza di questa trasformazione delle carceri e se altri soggetti si faranno carico del peso di farlo diventare dibattito della società". Sos suicidi, fermare la morte in cella di Sergio Segio Il Manifesto, 13 luglio 2016 Il problema è antico quanto l’invenzione della prigione. Perché, il più delle volte, è proprio il carcere a scatenare pulsioni e pratiche suicidarie. O, meglio, è ciò che il carcere toglie alla persona, assieme e oltre alla libertà: presente e futuro, affetti, lavoro, ruolo sociale, dignità. E, infine, speranza. Per quanto ogni suicidio sia un caso a sé, con alla base un intreccio di fattori, spesso la spinta a morire viene dall’incapacità di resistere alla spoliazione di tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. Uccidersi in cella, allora, può sembrare paradossale e tragico recupero di sé. Come nella Ballata del Miché di De Andrè: adesso che lui s’è impiccato / la porta gli devono aprir. Il problema è tanto antico quanto insoluto, come mostrano le statistiche. Per stare alle più recenti, i suicidi in cella sono stati 44 nel 2014, 43 l’anno successivo, mentre alla fine dello scorso aprile erano già 12, oltre a ben 302 tentati suicidi e 2278 atti di autolesionismo. Così che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha voluto richiamare l’attenzione delle strutture penitenziarie con una direttiva, indirizzata al capo del Dipartimento non a caso a ridosso dell’estate, quando, con disagi e sofferenze, aumentano i rischi. Una direttiva e un richiamo non solo formale, giacché dispone e dettaglia diverse misure, mirate in particolare ai giovani detenuti, a soggetti più fragili quali tossicodipendenti, alcolisti, abusatori di psicofarmaci e alla prima fase della carcerazione; assieme, rimarca la necessità dell’attento monitoraggio, osservazione e studio del fenomeno, nonché della formazione. Se i numeri non decrescono, pure e infine qualche maggiore consapevolezza sembra essersi fatta strada. Tanto che il ministro riconosce come il "prevalente" fattore di rischio sia quello ambientale e non soltanto quello individuale. Ne consegue che "la sola sorveglianza e l’isolamento del detenuto con tendenza suicida non possono costituire incisivo strumento di prevenzione"; tali misure, anzi, possono accentuare "il rischio di azioni autodistruttive". Un ragionamento che potrebbe apparire persino banale, ma che ha faticato a farsi strada nella tradizionale gestione e cultura operativa del carcerario. Dunque è fatto positivo che oggi - o meglio ieri, con una nota del Dipartimento datata 4 febbraio sulla prevenzione dei suicidi in carcere - si sottolinei l’importanza di "evitare ogni forma di isolamento del soggetto a rischio" e di individuare - pur con la cautela del "per quanto possibile" - "compagni di detenzione umanamente e culturalmente più idonei a instaurare un rapporto proficuo con la persona in difficoltà". Parimenti, sembra acquisita la centralità della formazione del personale, troppo spesso in passato limitata unicamente alle funzioni di custodia e sicurezza. Insomma, pur con storici ritardi, i responsabili delle carceri sembrano essersi resi conto che la segregazione, il "carcere chiuso", la carenza di relazione, la negazione degli affetti costituiscono una morte dilazionata, fonte di quella disperazione che può portare a scegliere di morire in fretta e di propria mano. E sembrano intenzionati a dare seguito e concretezza a quel corposo Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie in ambito penitenziario da tempo allo studio. Siamo sempre e ancora ai buoni propositi, può obiettare non senza ragioni qualcuno. Rimane vero che se il carcere è la malattia, la vera è più efficace cura sarebbe la sua abolizione. Tuttavia, i buoni propositi sono l’indispensabile presupposto delle buone pratiche. Che, a loro volta, possono costituire altrettante tappe per finalmente "liberarsi dalla necessità del carcere". Come si riteneva possibile non molto tempo addietro. Giustizia, le riforme appese al filo del referendum di Errico Novi Il Dubbio, 13 luglio 2016 La caduta di Renzi stopperebbe molti dei ddl di Orlando, dal civile all’antimafia. Nel pieno di un dibattito a Carini sul carcere, tema a lui caro, il ministro Andrea Orlando non ha mancato di ribadire il suo punto di vista sul referendum e sull’ipotesi spacchettamento: "Mi pare di difficile percorribilità, comunque io non sono contrario a qualunque ipotesi consenta di parlare del merito e non invece di usare il referendum come un modo per confrontarsi su altro". Il guardasigilli guarda con comprensibile preoccupazione all’esito del voto di ottobre e soprattutto all’idea che da una vittoria del "no" possano derivare conseguenze per il governo. Le dimissioni di Renzi e il passaggio a una fase molto confusa coinciderebbero anche con il naufragio di parti importanti della riforma della giustizia. Si può dire anzi che la fine anticipata dell’esecutivo - e, ancor di più, della legislatura - rappresenterebbe una specie di disastro per il sistema giustizia. Resterebbero incompiuti architravi di revisioni ordinamentali e normative, con la conseguenza di rendere inefficaci parecchie delle misure già adottate da quando Orlando si è insediato a via Arenula. L’elenco delle riforme a rischio è lungo da far venire le vertigini. Sempre nel convegno di ieri a Carini il ministro della Giustizia ha accennato alle due forse più importanti: la riforma del processo penale, che contiene al suo interno prescrizione e intercettazioni, e quella sul civile che completa le misure introdotte per decreto nel 2014. Riguardo alla prima Orlando ha auspicato che "in questi giorni si possa andare verso un’approvazione in commissione al Senato". Sulla riforma del processo civile confida che "si possa approvare con molti meno problemi: l’intervento è per sua natura assai meno divisivo tra le forze politiche". Tutto vero. Ma se viene giù la legislatura ci sarà ben poco da fare. Da notare che la riforma civile dà compiutezza ad alcune novità anticipate appunto nel settembre di due anni addietro e che il ddl penale è una specie di snodo vitale per tutto il sistema: oltre a quella sulle intercettazioni, contiene anche l’importante delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Passaggio, quest’ultimo, previsto all’articolo 31 del testo, dove è già definito in modo dettagliato. Ci sono gran parte delle questioni sollevate nel corso degli Stati generali dell’esecuzione penale, a cominciare dal rafforzamento delle misure alternative e del lavoro negli istituti. Temi che ovviamente il guardasigilli è tornato ad affrontare anche ieri a Carini. Dove ha ricordato che, se "siamo riusciti a contenere un processo di sovraffollamento che aveva portato a condizioni inumane", ora si deve riuscire a "garantire effettivamente un percorso di riabilitazione, di riscatto dei detenuti" e che "su questo abbiamo ancora moltissimo da fare". Appunto. Il ministro della Giustizia non ha mancato di notare come l’occasione di una vera svolta sul carcere sia data anche dalla posizione della Chiesa "che con maggiore determinazione nel corso di questo pontificato si è posta questo tema e ha aiutato tutti noi a fare dei passi avanti". Riconoscimento importante del guardasigilli a quello che è forse il suo principale alleato, papa Francesco. Ma siamo sempre lì: una fine anticipata della legislatura, o comunque del mandato di Orlando, lascerebbe anche in questo campo l’opera a metà. Ci sono ancora altri fronti aperti. La riforma del diritto fallimentare, quella del codice antimafia (che pure è al Senato e che per riprendere la marcia dovrà attendere il definitivo decollo del testo sul penale), la legge che ridefinisce i delitti delle agromafie e in particolare quelli relativi al caporalato. Ultima, ma non in ordine di importanza, c’è la riforma del Csm. Materia su cui è in corso un serrato confronto tra il ministro e le correnti dell’Anm, e che è uno snodo essenziale per rimettere in equilibrio i rapporti tra politica e magistratura. Con il sindacato delle toghe, da quando ne è presidente Piercamillo Davigo, il guardasigilli ha un rapporto controverso: di forte dissenso su certi giudizi tranchant dell’ex pm, ma anche di collaborazione. Sabato il direttivo dell’Anm farà il punto sul lavoro delle proprie commissioni, che sono preposte a seguire il processo riformatore. E che sono a loro volta sospese all’armageddon referendario. Orlando: "pene più aspre per i ladri d’appartamento, ma la legittima difesa abbia limiti" di Marco Menduni Il Secolo XIX, 13 luglio 2016 Il tema è sul piatto e il ministro non si tira indietro: rivediamo pure le norme sulla legittima difesa, stabiliamo dei paletti precisi per evitare discrezionalità eccessiva nelle inchieste e nell’applicazione della legge. Però bisogna evitare di lanciare messaggi sbagliati, "facciamo attenzione a non mettere troppe armi in giro, perché lo Stato deve difendere la proprietà, lo Stato deve difendere il singolo, la sicurezza non può essere delegata ad altri". Così spiega il titolare della giustizia Andrea Orlando e il suo è un intervento preciso su un tema che angustia le vite degli italiani, quello della sicurezza. Così il Guardasigilli lancia un secondo tema. È anche un appello ai senatori: "Mi auguro che la riforma del processo penale abbia il via libera entro luglio, il che significa che potremmo vederla approvata dalla Camera in settembre". Non è solo un traguardo da raggiungere per approdare poi, a settembre, al varo definitivo della riforma. Dentro quel provvedimento c’è anche un altro elemento importante per la sicurezza dei cittadini. C’è l’inasprimento delle pene per il furto in appartamento, reato in crescita, che affligge e devasta l’esistenza di chi viene invaso nella sua intimità e depredato dei suoi beni e dei suoi affetti. "Nel corso di questi anni - spiega Orlando - la maggior parte dei reati è scesa; sono aumentati alcuni reati di carattere predatorio, che sono fortemente legati all’andamento della crisi. Io credo che in questi casi sia auspicabile un aumento delle pene che consenta al magistrato di intervenire". Quali sono le modifiche che saranno introdotte? Per il furto in casa la pena passa dalla reclusione da uno a sei anni alla reclusione da tre a sei anni; se poi ci sono le aggravanti, si passa dall’attuale regime, da tre a dieci anni, a quello nuovo, con la pena minima aumentata a quattro anni. Verrà introdotta anche una nuova disciplina per evitare che, alla conclusione del processo, le attenuanti possano portare la condanna sotto una certa soglia, inadeguata al tipo di reato. Più severità anche per i furti (la pena minima passa da uno a due anni, quella massima rimane a sei) e per le rapine. Per quella semplice il minimo passerà da tre a quattro anni (il massimo rimane a 10); per quella aggravata da quattro anni e mezzo a cinque (venti il massimo). Con più di un’aggravante, si andrà da sei a vent’anni. Questo il quadro che si prospetta e sul quale Orlando invita a premere sul pedale dell’acceleratore. Il ministro torna anche a parlare di prescrizione, tema caldissimo che periodicamente torna a far crescere i livello della tensione con i magistrati: "Per effetto livelli dei pena che abbiamo già modificato, la prescrizione per un reato conto la pubblica amministrazione è molto difficile". Restano molti problemi sul piatto: "Naturalmente per altri reati rimangono un numero importante di prescrizioni ma questo dipende anche da "come vengono organizzati gli uffici. Per esempio la Corte d’Appello di Venezia ha il 30% di prescrizioni ma quella di Palermo il 3-4%". La conclusione: "Credo che la soluzione che abbiamo trovato in questo momento sia quella storicamente migliore: abbiamo detto che se uno è condannato in primo grado ci sono due anni in più per fare l’appello, e di non bloccare tout court col giudizio di primo grado il decorrere della prescrizione. Se noi blocchiamo il processo punto e basta rischiamo che i processi si allunghino". Omicidio stradale, la strage la fa la legge di Marino Longoni Italia Oggi, 13 luglio 2016 La legge sull’omicidio stradale, in vigore dal 25 marzo, emanata sull’onda dell’indignazione provocata da incidenti gravi causati da guidatori ubriachi che poi non facevano nemmeno un giorno di prigione, ha inasprito in modo drammatico le pene, ma ha creato problemi che ora toccherà alla Corte costituzionale correggere. Qualche esempio. Ogni giorno si verificano decine di tamponamenti, e si sono già verificati numerosi casi nei quali il tamponato ha denunciato un colpo di frusta guaribile in più di 40 giorni (magari per incrementare il risarcimento del danno che dovrà essere pagato dall’assicurazione): ora il malcapitato responsabile dovrà affrontare un processo penale con il rischio della condanna da 3 a 12 mesi. Ma quel che è peggio, si applicherà in modo automatico la sospensione della patente per 5 anni. Altro casi realmente accaduti: un guidatore, perfettamente sobrio ma che, per una svista, nell’uscire da un parcheggio, ha schiacciato il piede di una signora; un impiegato pubblico in servizio che, in retromarcia, a passo d’uomo, ha urtato un anziano facendo lo cadere e provocandogli la rottura del bacino. In entrambi i casi la prognosi è stata superiore a 40 giorni, quindi processo penale e sospensione della patente per 5 anni. Il discorso non cambierebbe nemmeno se il danno fosse causato dal guidatore di un’ambulanza o di un mezzo dei vigili del fuoco: processo penale e 5 anni di sospensione della patente. Secondo la giunta delle camere penali la legge sull’omicidio stradale è un "arretramento verso forme di imbarbarimento del diritto penale, frutto di cecità politico-criminale e di un assoluto disprezzo per i canoni più elementari della "grammatica" del diritto penale". Anche perché, secondo l’Ucpi, non è vero che i responsabili di gravi incidenti finora sono rimasti impuniti. Matteo Renzi si è attribuito pubblicamente la paternità di questa legge: difficile che ora abbia l’umiltà necessaria per riconoscerne le storture e avviare una riforma della riforma. L’unica speranza è la Corte costituzionale, che non mancherà, nei prossimi mesi, di essere chiamata in causa. Nel frattempo, ogni giorno, decine di persone pagheranno un prezzo spropositato per colpa di una semplice distrazione. Cantone: "la corruzione? serve prevenzione che sia fondata su indicatori reali" di Giorgio Santilli Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2016 "Comincerò la mia relazione annuale al Parlamento, giovedì, dicendo che l’Autorità anticorruzione non dà i numeri per dire se la corruzione è aumentata o diminuita perché noi non vogliamo alimentare leggende metropolitane come quella che la corruzione in Italia vale 60 miliardi". Il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, non si sottrae al dibattito sugli indicatori della corruzione in Italia: ci tiene, però, a spostare l’attenzione dal piano della rappresentazione, non di rado distorta, a quello della realtà, da un certo disfattismo di questa fase ("improvvisamente sembra che tutto sia da buttare, anche il codice degli appalti che ha introdotto una riforma fondamentale con un larghissimo consenso") a una solida azione di prevenzione. "I dati sulla percezione della corruzione, pur quando elaborati da autorevoli organismi internazionali con metodologie corrette, possono essere pericolosissimi perché in molti casi danno una rappresentazione che distorce la realtà fattuale e non servono a combattere il fenomeno. Anzi, a volte vengono usati per dire che tutto va male e questo alimenta la sfiducia nella possibilità di combattere la corruzione. Il lavoro che stiamo facendo noi, invece, è costruire indicatori di anomalia costruiti su dati reali e oggettivi, come le proroghe degli appalti e delle concessioni o le aggiudicazioni senza gara di appalti che ci aiutano a capire quanto il mercato sia permeabile a fenomeni di corruzione. E da questi indicatori partiamo per mirare meglio la nostra azione di prevenzione". Ci spiega la leggenda metropolitana della corruzione che vale 60 miliardi? La Corte dei Conti aveva affermato qualche anno fa che, se la corruzione riguardasse il 3% del Pil, si potrebbe stimare un valore di 60 miliardi. È come dire che se mia madre avesse le ruote sarebbe una bicicletta, un’affermazione di una totale banalità senza che il presupposto - cioè che la corruzione vale il 3% del Pil - sia stato minimamente provato. Ha senso mettere in circolazione numeri del genere che poi entrano nel circuito mediatico e addirittura nelle statistiche internazionali? Io penso non abbia senso e non sia utile a nessuno. A proposito di rapporti fra realtà e rappresentazione, delle recenti inchieste sull’Expo cosa pensa? Anche in questo caso mi pare siamo nell’ambito di una grave distorsione della realtà. Certe inchieste, che sono svolte con rigore, vengono rappresentate con un’enfasi esagerata, con il risultato che quattro subappalti che sono davvero caramelle rispetto agli allarmi gravi che c’erano sull’Expo vengono raccontati o arrivano nella percezione dell’opinione pubblica quasi come se la mafia avesse messo le mani sull’Expo. Ricordo che l’imputazione è frode fiscale con aggravante dell’articolo 7 e che non c’è stata contestazione dell’associazione mafiosa. A chi giova questa enfasi? Non alla lotta alla corruzione o alla mafia. Si dimenticano le ottanta ordinanze interdittive che sono state emanate per tenere la mafia lontana dall’Expo. E le stesse intercettazioni di quella inchiesta dimostrano che la mafia non si è avvicinata all’Expo perché c’era una forte azione di vigilanza. Polemiche infondate, quindi. Anche sulla certificazione antimafia? Anche qui una rappresentazione distorta allontana la verità, non la avvicina. È evidente che il controllo preventivo non potrà mai avere la stessa intensità dei controlli giudiziari sugli atti. La magistratura può fare intercettazioni, sentire collaboratori di giustizia, fare controlli sul territorio. Tutti strumenti che non sono a disposizione del prefetto. Lei insiste da tempo sulla necessità della prevenzione. La repressione svolta dall’azione penale non aiuta? Diciamo che non basta. Per definizione le indagini legate all’azione penale cristallizzano una situazione passata. Non voglio dire che si tratti di una fotografia sbiadita o di archivio, ma certamente colgono un fatto compiuto che non aiuta a correggere il presente. Se vogliamo ridurre la corruzione serve una forte e costante azione di prevenzione, come quella che si è svolta sull’Expo. E all’interno dell’azione di prevenzione c’è anche la regolazione che serve anzitutto a far funzionare al meglio il mercato, ma aiuta anche l’azione di vigilanza e prevenzione. Come interviene la regolazione in questo disegno di prevenzione? Prendiamo ancora il settore degli appalti, dove il nuovo codice ha sostituito le vecchie norme rigide del regolamento generale con una soft law affidata all’Anac. Noi stiamo elaborando le linee guida in cui questa soft law si esplicita attraverso un forte coinvolgimento con gli operatori del mercato. Da loro aspettiamo indicazioni che riguardano comportamenti concreti sul mercato, il reale funzionamento del mercato, come risolvere una certa questione che si ripropone frequentemente o ridurre l’incertezza che una norma può creare o ancora semplificare finché possibile una certa procedura. E in questo lavoro stiamo scoprendo che il confronto con il mercato serve ad arricchire la norma, la adegua ai reali standard di utilità. Le norme spesso in passato erano scritte bene ma stavano in un mondo tutto loro, coerenti sul piano astratto e non aiutavano i comportamenti concreti. Erano norme lontane, calate dall’alto, che favorivano anche un approccio di osservazione costruito sulla percezione e quindi lontano, estraneo. Quello che noi stiamo creando di costruire è invece un sistema che consenta di individuare dove possano esserci situazioni patologiche e mirare quindi le norme dove possono correggere certi comportamenti del mercato. Come dicevamo a proposito delle recenti linee guida sugli appalti sotto soglia Ue, vogliamo dare flessibilità massima e semplificazione alle stazioni appaltanti, eliminando o limitando fortemente gli arbitrii. Molte amministrazioni lamentano che non si combatte la corruzione con i piani anticorruzione che semmai rendono tutto ancora più burocratico e formale... Stiamo lavorando per rendere il piano anticorruzione meno burocratico. Non chiederemo a tutti un piano di 250 pagine ma un piano di 28 pagine e poi faremo approfondimenti con singole amministrazioni o settori su singole materie, come l’attività contrattualistica o il rilascio delle autorizzazioni urbanistiche. È morto Bernardo Provenzano, era detenuto in ospedale in regime di 41bis di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 luglio 2016 Il capomafia si è spento nell’ospedale milanese di San Paolo, dove era detenuto al 41bis. La lunga latitanza, l’arresto e la malattia. Ormai da piu di un anno diverse perizie lo avevano indicato come poco più di un vegetale. Nonostante questo, però, con il parere favorevole di diverse procure e anche della Direzione nazionale antimafia, Bernardo Provenzano, il numero uno di Cosa nostra, era rimasto recluso al regime duro del 41 bis. È morto qualche ora fa nel reparto ospedaliero di San Vittore dove era detenuto da quasi due anni. L’ultima proroga del 41 bis era stata firmata dal ministro di grazia e giustizia Orlando ad aprile scorso. Ottantatré anni, Provenzano venne arrestato dopo una latitanza di 43 anni l’11 aprile del 2006 in una masseria di Corleone, a poca distanza dall’abitazione dei suoi familiari. Si nascondeva nel casolare di un pastore che produceva formaggi. Il capomafia era detenuto al regime di 41 bis nell’ospedale San Paolo di Milano. Tutti i processi in cui era ancora imputato, tra cui quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, erano stati sospesi perché il boss, sottoposto a più perizie mediche, era stato ritenuto incapace di partecipare. Grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento: è l’ultima diagnosi che i medici dell’ospedale hanno depositato. Nelle loro conclusioni i medici dichiaravano il paziente "incompatibile con il regime carcerario", aggiungendo che "l’assistenza che gli serve è garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza". Da anni l’avvocato del boss, Rosalba Di Gregorio, aveva chiesto senza successo, la revoca del regime carcerario duro e la sospensione dell’esecuzione della pena per il suo assistito, proprio in virtù delle sue condizioni di salute. Tre carabinieri condannati per la morte di Riccardo Magherini La Stampa, 13 luglio 2016 L’accusa era di omicidio colposo, l’uomo era deceduto dopo il fermo. Il Tribunale di Firenze ha condannato tre carabinieri imputati per omicidio colposo nell’ambito del processo per la morte di Riccardo Magherini, il 40enne fiorentino deceduto nella notte tra il 2 e 3 marzo 2014 durante un arresto in una strada del centro di Firenze. Un quarto militare, insieme a due volontari della Croce Rossa (anche loro imputati nel procedimento), è stato assolto per non aver commesso il fatto. Le condanne variano tra 8 e 7 mesi, il giudice ha concesso la sospensione della pena. La notte tra il 2 e il 3 marzo del 2014 il quarantenne, ex calciatore nella squadra giovanile della Fiorentina, dette in escandescenze in strada dopo aver assunto droga: chiedeva aiuto ed era convinto che qualcuno lo stesse inseguendo. Alcuni passanti chiamarono i carabinieri e i militari arrivarono sul posto. Pochi minuti dopo l’intervento della pattuglia, Riccardo Magherini morì, per strada, chiedendo aiuto, mentre i carabinieri lo stavano immobilizzando a terra. Le strazianti invocazioni del quarantenne erano state registrate con un telefonino e alcuni testimoni avevano riferito che l’uomo fu preso persino a calci durante le concitate fasi dell’arresto. All’indomani di quella drammatica notte, la Procura aprì immediatamente un’inchiesta. Per tutti questi mesi le indagini hanno cercato di far luce su eventuali responsabilità sulla tragedia, anche da parte dei sanitari, che non si sarebbero accorti tempestivamente delle condizioni in cui versava il giovane. Difesa, un ddl per fermare le morti da uranio e il contenzioso infinito di Francesco Grignetti La Stampa, 13 luglio 2016 Dal Pd una proposta per riformare il welfare dei militari, e porre la salute degli italiani in divisa sotto il controllo dell’Inail. "Si è parlato tanto di specificità delle Forze armate. Sinora ha voluto dire che la vita dei militari valeva meno di quella degli altri lavoratori. Per noi significa invece che maggiori sono i rischi, più rigorosa deve essere la prevenzione". Giampiero Scanu, Pd, è il presidente della IV commissione d’inchiesta sulle morti da uranio. "Il nostro impegno è che questa doveva essere l’ultima commissione. Ora basta. Occorre un salto di civiltà". Il "salto di civiltà", a cui ha collaborato da consulente l’ex magistrato Raffaele Guariniello, ha la veste di un ddl di riforma del welfare militare. La novità è grossa perché si infrange un muro, la separatezza tra mondo militare e mondo civile. "Noi proponiamo di superare un’anacronistica separatezza portando anche le Forze armate nell’ambito della gestione dell’Inail, organo competente, terzo e autonomo. Non ci possono più essere zone franche. Non ci possono più essere controllati che controllano i controllori". Secondo questo ddl, dunque, spetterà all’Inail occuparsi dei lavoratori con le stellette e non la struttura militare, che da sempre è vista con sospetto, quale "amica" delle gerarchie e "nemica" della truppa. Dice infatti Scanu: "A oggi più di duemila militari hanno fatto domanda di risarcimento per patologie correlate a uranio impoverito, amianto, radon e multifattorialità. Solo un terzo di loro ha ricevuto risposta positiva; gli altri sono in attesa di un verdetto o si sono visti negare il risarcimento. Nel corso della nostra inchiesta abbiamo constatato l’inadeguatezza delle procedure per il riconoscimento degli indennizzi. Ma non solo. Criticità le abbiamo rilevate anche nella sicurezza sul lavoro". Con il passaggio delle competenze all’Inail e agli ispettori del ministero del Lavoro, l’obbligo di rispettare la normativa sul lavoro con l’identificazione di "datori di lavoro, dirigenti, preposti, e medici competenti", e il superamento della "causa di servizio", ci sarebbe dunque una soluzione bell’e pronta nel quadro giuridico esistente. "La nostra proposta permetterebbe anche di superare il costoso e paralizzante contenzioso che in sede giudiziaria ha visto molto spesso l’amministrazione della Difesa soccombere. Un pronunciamento terzo e tempestivo allevierebbe il dramma dei malati e delle loro famiglie". Malati che potrebbero essere non solo il personale militare e civile impiegato nelle missioni internazionali, o nei poligoni di tiro, o nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, o nei teatri di conflitto, ma anche i cittadini residenti nelle zone adiacenti alle basi militari presso le quali è conservato munizionamento pesante o esplosivo "perché - conclude Scanu - i rischi ambientali non sono confinati dentro le mura delle caserme o dei poligoni, ma possono espandersi a danno dell’intera comunità, sino ad assumere le dimensioni del disastro ambientale che dura nel tempo. Mettere in sicurezza i luoghi di lavoro delle forze armate, garantendo una valutazione dei rischi efficace, vuol dire assicurare migliori condizioni di vita anche alle popolazioni che vivono nelle vicinanze delle servitù militari". Rischio di recidiva: l’attualità si aggiunge alla concretezza del pericolo di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 23 maggio 2016 n. 21350. Una delle novità più significative della legge 16 aprile 2015 n. 47, in materia di misure cautelari personali, ha riguardato l’articolo 274 del Cpp, in tema di esigenze cautelari, con lo scopo evidente di limitare la discrezionalità del giudice e, conseguentemente, gli spazi di applicabilità delle misure: quanto all’esigenza cautelare del pericolo di fuga (articolo 274, comma 1, lettera b), del Cpp)e a quella del pericolo di recidiva (articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpp) viene prevista l’"attualità", oltre che la concretezza del pericolo, non dissimilmente a quanto già previsto per l’esigenza cautelare correlata al pericolo di inquinamento probatorio (articolo 274, comma 1, lettera a), del Cpp). La sentenza in commento - Qui la Corte (con la sentenza della sezione VI, 23 maggio 2016 n. 21350, Ionadi) si è soffermata, con riguardo all’esigenza cautelare del rischio di recidiva (articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpp), sul significato della modifica normativa, affermando che l’espressa previsione dell’"attualità" del pericolo di reiterazione non è da intendersi come una mera endiadi rispetto alla previsione della "concretezza" di tale pericolo. Infatti, si è argomentato, mentre la "concretezza" del pericolo richiama la necessaria esistenza di elementi "reali" dai quali si possa dedurre il pericolo, l’"attualità" del pericolo involge la valutazione di un "pericolo prossimo" all’epoca in cui viene applicata la misura ovvero di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, non meramente ipotetiche e astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi: ricostruzione che è del resto coerente con la comune nozione di attualità che indica l’essere in atto, ovvero l’essere sentito come vivo e presente. L’affermazione è stata resa in una fattispecie in cui è stata conseguentemente annullata senza rinvio, proprio per carenza del presupposto dell’attualità del rischio cautelare, una misura adottata per reati vari - associazione per delinquere, corruzione, turbativa d’asta, ecc. - nei confronti del responsabile di una società commerciale, per non essere stato considerato, proprio nella prospettiva dell’attualità, il fatto che l’indagato aveva ormai cessato il rapporto di lavoro e questo, secondo la Cassazione, non era idoneo a connotare in chiave di attualità, intesa come occasione prossima favorevole alla commissione di nuovi reati, la ragione giustificativa della misura. Un’affermazione convincente - Si tratta di affermazione ampiamente convincente in tema di ricostruzione del pericolo di recidiva, alla luce del novum normativo di cui alla legge 16 aprile 2015 n. 47, laddove si richiede che il pericolo che l’imputato commetta altri delitti deve essere non solo concreto, ma anche attuale. In effetti, secondo la lettura più corretta, l’"attualità" dell’esigenza cautelare, richiesta dall’articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpp, non costituisce un predicato della sua "concretezza". Si tratta, infatti, di concetti distinti, legati l’uno (la concretezza) alla capacità a delinquere del reo, l’altro (l’attualità) alla presenza di occasioni prossime al reato, la cui sussistenza, anche se desumibile dai medesimi indici rivelatori (specifiche modalità e circostanze del fatto e personalità dell’indagato o imputato), deve essere autonomamente e separatamente valutata, non risolvendosi il giudizio di concretezza in quella di attualità e viceversa (efficacemente, sezione III, 18 dicembre 2015, Gattuso; nonché, autorevolmente, sezioni Unite, 28 aprile 2016, Lovisi). Un nuovo significato ai parametri di "concretezza" e "attualità" - Detto altrimenti, deve riconoscersi un significato innovativo nelle modifiche introdotte dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, attribuendosi un diverso significato ai parametri della "concretezza" e della "attualità" delle esigenze di cautela. Con la conseguenza che, per ritenere "attuale" il pericolo "concreto" di reiterazione del reato, non è più sufficiente ipotizzare che la persona sottoposta alle indagini/imputata, presentandosene l’occasione, sicuramente (o con elevato grado di probabilità) continuerà a delinquere e/o a commettere i gravi reati indicati nello stesso articolo 274, comma 1, lettera c) del Cpp(in ciò consistendo la "concretezza" del rischio di recidiva), ma è necessario ipotizzare anche la certezza o comunque l’elevata probabilità che l’occasione del delitto si verificherà. Pertanto, il giudizio prognostico non può più fondarsi sul seguente schema logico: "se si presenta l’occasione sicuramente o molto probabilmente, la persona sottoposta alle indagini/imputata reitererà il delitto", ma dovrà seguire la seguente, diversa impostazione: "siccome è certo o comunque altamente probabile che si presenterà l’occasione del delitto, altrettanto certamente o comunque con elevato grado di probabilità la persona sottoposta alle indagini/imputata tornerà a delinquere" (cfr. sezione III, 19 maggio 2015, Sancimino). In altri termini, se la concretezza significa esistenza di elementi "concreti" (cioè non meramente congetturali) sulla cui base possa argomentarsi il rischio cautelare, il requisito dell’attualità impone un ulteriore sforzo motivazionale, risultando necessario che il rischio cautelare si basi su riconosciute "occasioni prossime favorevoli", accreditanti, per quanto interessa, il rischio della reiterazione del reato. Giudice di pace: remissione tacita denuncia se il querelante non è presente in udienza di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2016 Per i reati di competenza del giudice di pace la mancata comparizione del querelante integra la remissione tacita della "denuncia". Questo il significativo principio di diritto espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 29209/2016. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una remissione di querela in quanto il soggetto offeso non si era presentato in udienza e a questo comportamento consapevole da parte del querelante era stato conferito significato estintivo della volontà punitiva. Contro la sentenza ha proposto ricorso la Procura sostenendo che la mancata comparizione in udienza dovesse ritenersi un comportamento processuale meramente omissivo, al quale non fosse attribuibile alcuna valenza extraprocessuale e dal quale, pertanto, non potesse essere desunta la remissione tacita della querela. La Cassazione, tuttavia, ha bocciato l’interpretazione della procura sulla base di un ragionamento decisamente lineare e ben motivato. Le caratteristiche del processo penale, infatti, dinanzi al giudice di pace così come previsto dall’articolo 2, comma 2, del Dlgs 274/2000 sono improntate al cosiddetto favor conciliativo tra le parti. Il favor conciliationis - Dunque, nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire per quanto possibile la conciliazione delle parti. Il principio, peraltro, trova la sua ulteriore consacrazione nel comma quarto dell’articolo 29 (norma dedicata all’udienza di comparizione) che, quando il reato è perseguibile a querela, prevede che il giudice di pace debba promuovere la conciliazione tra le parti finalizzata proprio alla remissione di querela e alla relativa accettazione, contemplate nel comma quinto della stessa norma. Certamente - si legge nella sentenza - la mancata comparizione del querelante non deve essere dovuta a eventi eccezionali o a causa di forza maggiore. Solo in questa ipotesi, infatti, l’assenza potrebbe non significare mancanza di volontà di proseguire l’azione penale. Ricorda poi la Corte come l’articolo 152 del codice penale al secondo comma disponga che "la remissione possa essere processuale o extraprocessuale" e che la remissione sia espressa o tacita e che vi sia remissione tacita quando il querelante abbia compiuto fatti incompatibili con la volontà di persistere nella querela. La remissione tacita dunque è prevista espressamente solo nella forma extraprocessuale e deve consistere appunto in fatti univocamente incompatibili con la volontà di persistere nella richiesta di punizione. In altri termini spiega la Cassazione "è la mancata collaborazione al processo (accusatorio e che vuole dunque che la prova sia formata a dibattimento) e l’assenza della voce di chi dovrebbe dare corpo e fondamento alla pretesa punitiva che consente di dubitare della persistenza di tale volontà". Il principio di diritto. Di qui il fondamentale principio di diritto secondo cui "Tenuto conto del principio generale del favor conciliationis, cui è improntato il sistema normativo che regola il procedimento penale dinanzi al giudice di pace, e che esso è collocabile nell’ambito del più ampio principio della ragionevole durata dei processi, la mancata comparizione del querelante - previamente e chiaramente avvisato del fatto che l’eventuale successiva assenza possa essere interpretata come volontà di non perseguire nell’istanza di punizione - integra gli estremi della remissione tacita, sempre che lo stesso querelante abbia personalmente ricevuto detto avviso, non sussistano manifestazioni di segno opposto e nulla induca a dubitare che si tratti di perdurante assenza dovuta a libera e consapevole scelta". Rigettato così il ricorso della Procura e la vicenda si chiude definitivamente con esito conciliativo. Fatture inesistenti: anche concorso per l’amministratore di fatto che emette e usa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 12 luglio 2016 n. 28979. Punibile, anche a titolo di concorso, per i reati tributari commessi attraverso l’emissione di fatture inesistenti, chi gioca il duplice ruolo di amministratore di fatto dell’ente giuridico che emette le fatture "false" e di amministratore delle società cartiere che le utilizzano. Con la sentenza 28797 depositata ieri, la Corte di cassazione respinge il ricorso contro il provvedimento con il quale veniva confermata la necessità delle misure cautelari per il rischio di reiterazione rispetto a ben 22 capi di imputazione tutti relativi a reati fiscali. Nel mirino degli inquirenti era finito, con altri correi, un amministratore di fatto che giocava su più tavoli all’interno di un complesso meccanismo di società cartiere finalizzato ad evadere l’Iva nell’importazione di oli lubrificanti. Il ricorrente contestava in particolare l’esigenza della misura cautelare dei domiciliari per carenza di motivazione rispetto al giudizio di colpevolezza. La difesa sottolineava, infatti, che nei confronti degli enti giuridici presso i quali l’imputato prestava la sua attività professionale non era stata applicata nessuna misura cautelare: prova questa della scarsa gravità delle condotte contestate. Inoltre, sempre secondo la tesi sostenuta nel ricorso, mancava la dimostrazione che nel complesso sistema di cessioni il ricorrente rivestisse il ruolo di amministratore di fatto sia della società "finale" in favore della quale venivano fatte le cessioni sia degli enti cedenti fittizi. Secondo la difesa dunque il Tribunale del riesame avrebbe sbagliato a negare la non punibilità a titolo di concorso di persone nei casi di emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. Secondo la Cassazione invece, la norma invocata (articolo 9 del Dlgs 74/2000) che agisce in deroga all’articolo 110 del Codice penale in tema di pene per coloro che concorrono nel reato, non può scattare in casi come quello esaminato. La Suprema corte sottolinea che correttamente il Tribunale ha escluso la violazione dell’articolo 9, considerando che il ricorrente aveva sia emesso sia usato le fatture. Circostanza che impedisce l’applicazione del regime derogatorio al codice penale. I giudici della terza sezione precisano che nell’attribuire all’imputato la qualifica di amministratore di fatto delle "scatole cinesi" artefici della frode erano stati determinanti i rapporti intrattenuti dalla segretaria, provati dalle mail acquisite agli atti e le conversazioni telefoniche nelle quali lo stesso ricorrente dava conto del ruolo svolto. Il Tribunale cautelare non sbaglia anche quando nega l’applicazione di una misura meno limitativa della libertà personale dei domiciliari. Il ricorrente era un delinquente "seriale" alla guida di assetti societari e non avrebbe avuto difficoltà, in caso di misure meno restrittive della custodia, a ricorrere a prestanome per ripetere le stesse azioni illecite. La delibera fatta senza cda è falsità in scrittura privata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 12 luglio 2016 n. 29172. Costituisce falsità in scrittura privata la sottoscrizione di una falsa delibera da parte del presidente di un consiglio di amministrazione. Inoltre, costituisce appropriazione indebita e non infedeltà patrimoniale, da parte dell’amministratore, lo storno di risorse societarie per la realizzazione di un interesse proprio o di terzi. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 29172della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così confermato la condanna a carico del manager di una società che aveva formato un falso verbale di deliberazione nel quale era erroneamente rappresentato che si richiedeva a un istituto di credito un affidamento temporaneo di 2 milioni di euro con attribuzione al manager stesso del potere di concludere l’operazione. La difesa contestava la materialità della violazione visto che era stato formato regolarmente da presidente del cda e segretario, cui la legge espressamente conferisce i relativi poteri. Ma la Cassazione sottolinea che si tratta invece di una scrittura privata in grado di produrre effetti rilevanti sul piano giuridico, materialmente e non ideologicamente falsa, perché a mancare è la genuinità dal momento che la seduta del consiglio di amministrazione che avrebbe assunto la delibera contestata in realtà non si è mai neppure svolto. Inoltre, quanto alla ulteriore qualificazione del reato, la sentenza mette in evidenza come le norme incriminatrici dell’infedeltà patrimoniale e dell’appropriazione indebita sono in un rapporto di specialità reciproca: l’infedeltà si concentra sulla relazione tra un preesistente conflitto d’interessi, attuale e valutabile, e gli obiettivi di profitto o altro vantaggio dell’atto di disposizione, obiettivi "ingiusti" alla luce del precedente conflitto; l’appropriazione indebita, a sua volta, presenta caratteri di specialità per la natura del bene e per l’irrilevanza di un semplice vantaggio al posto del profitto. A fare la differenza, puntualizza la Corte, è l’elemento del conflitto d’interessi, assente nel reato di appropriazione indebita. Ed è proprio con riferimento a questo elemento che la sentenza ritiene di dovere sanzionare il manager per appropriazione indebita: a mancare era infatti un evidente conflitto d’interessi con la società. In questo si rende inapplicabile l’articolo 2643 del Codice civile "che esclude l’ingiustizia del danno arrecato (e, quindi, la rilevanza penale della condotta), solo in caso di vantaggi compensativi dei quali la società apparentemente danneggiata abbia fruito o sia in grado di fruire in ragione della sua appartenenza ad un più ampio gruppo di società". E se la magistratura puntasse a diventare la terza Camera? di Guido Salvini (Magistrato) Il Dubbio, 13 luglio 2016 Pochi giorni dopo la nomina del nuovo Procuratore di Milano, l’Anm ha varato 14 Commissioni di studio in cui complessivamente saranno impegnati nei prossimi anni centinaia di suoi iscritti, tutti appartenenti ai vari partiti-correnti. In queste Commissioni permanenti, che assomigliano a Commissioni ministeriali, un piccolo esercito di magistrati, oltre 300 si occuperà non solo dei temi propri della categoria - i carichi di lavoro e le condizioni di lavoro e sicurezza, il processo telematico - ma anche di tematiche generali e decisive come la riforma del diritto penale, la riforma della processo penale e l’esecuzione penale, il diritto del lavoro. La novità è passata senza troppo clamore - ne ha scritto solo il quotidiano Il Dubbio ? e il ministro Orlando avrebbe accolto con favore la "offerta di collaborazione della Anm, forse facendo buon viso e cattivo gioco tenendo conto che il parere su alcune proposte di legge è già previsto ma solo da parte del Csm, che è un organo costituzionale e non un’associazione privata di magistrati come l’Anm. Può darsi che sia un malpensiero ma tutto ciò appare un nuovo passo avanti nel progetto di concordare, tramite una consultazione obbligatoria con la magistratura come ente organico, con il Governo e il Parlamento la formazione delle leggi, quantomeno quelle del sistema giustizia. Far sì che nessuna sia varata se non con l’approvazione dell’Anm e non "passino", con una sorta di veto, quelle non gradite o i passaggi non graditi. Penso a quelle su temi sensibili come le intercettazioni, la prescrizione, le impugnazioni e così via. Non sarei troppo contento che le leggi in materia di giustizia fossero fatte dall’Unione Camere Penali. L’associazione degli avvocati dice molte cose acute ma adeguandosi alle sua linea e alle sue proposte, non si farebbe alcuna indagine né si concluderebbe mai alcun processo. Ma non mi sembra, all’opposto, che si debba passare ad una "legislazione concordata" e ad un necessario via libera dell’Anm e delle sue Commissioni che i cittadini non hanno eletto in Parlamento L’estensione dell’influenza della magistratura nello scacchiere istituzionale è resa possibile dalla sua struttura, un corpo di soggetti in numero limitato, compatto, gerarchico, che opera per cooptazione interna ed è quindi facilmente controllabile dai suoi capi e non è sottoposto a periodiche verifiche elettorali ma solo a controlli autoreferenziali. Trae anche vantaggio dalla presenza ormai costante di noti ex-magistrati nell’agone politico, con i suoi riverberi sui mass- media, e anche nelle sedi decisionali della politica. Infatti i magistrati che sono entrati in politica appena dopo aver dismesso la toga e qualche volta anche prima non sono da meno nel perseguire l’aumento di influenza della magistratura. Felice Casson, proponendo che le prescrizione inizi a decorrere solo da quando un certo reato è stato "scoperto", teorizza il "processo infinito" in cui qualsiasi cittadino indagato o meglio indagabile resta in balia dei Pubblici Ministeri praticamente per l’arco intero della sua esistenza, come una spada di Damocle, e può essere chiamato a rispondere per la prima volta di un reato qualsiasi, non solo un omicidio o un fatto molto grave, anche 15 o 20 anni dopo quando l’accusa è forse difficile da sostenere ma di certo è ormai impossibile svolgere ogni difesa. Antonio Ingroia, per passare a metodi più contorti, in una recente intervista al Fatto è ritornato sulle intercettazioni del presidente Napolitano e ha spiegato che anche se sono state distrutte, lui le la ha lette, le ricorda bene ed è sua intenzione riportarne il contenuto, anche se in forma "romanzata", in un prossimo libro. Si dimentica così di aver letto le conversazioni nella sua veste di magistrato e non di privato cittadino e che una volta distrutte le bobine per ordine dell’Autorità giudiziaria, tale distruzione comporta anche un vincolo di segreto in qualsiasi altra forma così come un avvocato non può riferire un eventuale confessione del suo cliente anche se assolto e un prete non può raccontare quello che ha sentito in confessionale. Speriamo davvero che mediti su questo progetto di "vendetta" più che sleale. Per finire proviamo a fare di un paradosso un possibile esempio chiarificatore. Se un immaginario turista giapponese di buona cultura ma del tutto ignaro del funzionamento delle istituzioni italiane, magari un ingegnere con mentalità obiettiva, fosse invitato a leggere durante una visita in Italia, tradotti nella sua lingua, i quotidiani degli ultimi due mesi giungerebbe ad una sicura conclusione. Sarebbe certo che nel nostro paese c’è una gerarchia di magistrati che svolge una funzione politica riconosciuta, un ruolo non inferiore a quello del governo, che spiega quali leggi si possono fare e quali no ai restanti corpi istituzionali, che ha, quantomeno un diritto di veto: insomma una sorta di diarchia di poteri. Gli episodi che abbiamo messo in fila, tutti condensati in poco più di un mese, mostrano la progressiva espansività istituzionale della magistratura e di chi da essa proviene, forte di indubbi meriti, come l’impegno contro la ?ndrangheta e la corruzione, per citarne due, e agevolata dalla modestia della classe politica che è stata in scena negli ultimi tre decenni. L’obiettivo, in qualche modo "ideale" e non dichiarato formalmente, si direbbe quasi l’inconscio collettivo dei magistrati, è quello di concorrere stabilmente alla nascita delle leggi, in pratica, si passi l’espressione, di "governare". Non diamo un giudizio. L’esito può essere più che infelice o anche ottimo, anche se di certo non liberale in senso classico. È però importante percepire il fenomeno. Può darsi che con la vittoria del Sì al referendum la seconda Camera, il Senato, quasi scompaia. Ma nel contempo può essere che la magistratura e le sue associazioni, in un percorso non scritto e occupando spazi vuoti, proseguano con successo nel progetto latente di diventare, quasi a compenso, la "terza Camera". Razzismo, il ritorno della zona grigia di Moni Ovadia Il Manifesto, 13 luglio 2016 Gli abitanti della zona grigia si pretendono anche incolpevoli per definizione, essi non partecipano direttamente alle ingiustizie, ai soprusi o alle violenze, si limitano a permetterle e a contemplarle più o meno compiaciuti. La stupida, ottusa sottocultura del razzismo ha generato un’ennesima vittima. Questa volta è capitato a Fermo, una quieta e prospera cittadina delle Marche impreziosita da uno splendido centro storico. Un teppista da stadio, ebbro di retorica nazifascista, cultore della supremazia dei bianchi ha spento la vita di Emmanuel Chidi Nnamdi, immigrato africano, con cieca brutalità. L’ultrà assassino, prima dell’episodio di violenza fisica, si era divertito ad insultare la futura moglie di Emmanuel, Chinyery, con l’epiteto di scimmia nera. Ogni uomo, chiunque egli sia, dovrebbe essere giudicato per ciò che fa, volta per volta, non per i suoi precedenti, non in base a pregiudizi o ad azioni e comportamenti messi in atto in altri contesti. Questo è un principio che istituisce una civiltà giuridica. È tuttavia lecito cercare di capire il perché di un comportamento criminoso tenendo conto delle pratiche di vita, delle scelte e delle ideologie a cui chi lo ha commesso si ispira. Amedeo Mancini è un teppista da stadio a cui è stato interdetto l’accesso nelle arene sportive perché colpito da daspo. È un seguace dell’estrema destra intriso, pur se rozzamente, della visione del mondo e dei rapporti fra uomini e genti che caratterizza quell’ambiente. Crede nel razzismo, disprezza i valori dell’accoglienza e della solidarietà, adora i pestaggi, è convinto che ogni guaio derivi dall’invasione degli straneri e via sproloquiando. Che un simile individuo nella sua fanatica imbecillità possa provocare l’orrore della morte di un’innocente già colpito dalla violenza nella sua terra e l’infinito dolore della donna che doveva sposare è drammaticamente nell’ordine delle cose. Ma ciò che non dovrebbe appartenere all’ordine delle cose è invece il ritorno sempre più sconcio della vasta "zona grigia" in una società disertata dai valori dell’umanesimo. Questa area grigia si sta espandendo a macchia d’olio in tutto il centro-est Europa ma non solo. Il suo carattere saliente è quello di sentirsi permanentemente minacciata nei propri piccoli o grandi privilegi ad opera di qualsivoglia alterità, ma in particolare da migranti e stranieri e da chi chiede di accoglierli, verso i quali prova un malcelato e sordo odio che pro tempore si esercita in epiteti insultanti come il nostro "buonista". Gli abitanti della zona grigia si pretendono anche incolpevoli per definizione, essi non partecipano direttamente alle ingiustizie, ai soprusi o alle violenze, si limitano a permetterle e a contemplarle più o meno compiaciuti. Davvero l’Europa e il suo sogno fallito sono ingrigiti precocemente e tendono a stingersi definitivamente nell’ignavia a furia di sottostare ai sacerdoti dei mercati dei banchieri e della finanza. Di fronte agli episodi come quello di Fermo i "grigi" chiedono understatement, invitano a non esagerare, si indignano a sentire parlare di razzismo. "Ma quale razzismo? Chi ha ucciso è solo un balordo, sicuramente non voleva. E poi - pensano - quell’africano non doveva reagire in quel modo per un piccolo insulto innocente fatto alla fidanzata". Loro non hanno mai saputo e non possono sapere cosa significano quegli insulti, non hanno memoria, non sanno di quale messe di lutti è gravato ognuno di quegli sfregi. Noi italiani siamo campioni nella mistica dell’auto assoluzione a priori. Già all’indomani della Liberazione i "grigi" varavano il fortunato slogan "italiani brava gente" ( bravi in quanto tali si intende). Infatti furono così bravi da lasciare espellere dalle scuole del regno senza alzare un dito bambini di sei sette anni solo perché erano ebrei. Gli italiani fascisti poi furono così bravi da essere complici della Shoà, da perpetrare, in proprio, un genocidio in Cirenaica, uno sterminio di massa con i gas in Etiopia, per finire con le pulizie etniche in Jugoslavia. E così coraggiosamente bravi tanto da lasciare prosperare nel dopoguerra ben quattro terrificanti malavite organizzate. Andiamo avanti così, e se sapremo scegliere la vigliaccheria come terreno di gioco, saremo per sempre i campioni del mondo. Sicilia: l’alternativa al carcere? avverrà in 96 parrocchie di Alessandra Turrisi Avvenire, 13 luglio 2016 La misura alternativa al carcere si svolgerà in parrocchia. Per favorire il recupero della persona, la restituzione del male commesso, la costruzione di un futuro per i detenuti che, dopo aver scontato la pena, potranno essere reinseriti nella società. Ha questo scopo il nuovo accordo tra l’arcidiocesi di Monreale e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sicilia, firmato ieri pomeriggio al Castello di Carini, alla presenza del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e i massimi vertici della magistratura, dell’avvocatura e dell’amministrazione delle carceri. All’evento - organizzato dall’Ufficio per la Pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Monreale, guidato da don Angelo Inzerillo, dal Movimento cristiano lavoratori e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, presieduto da Francesco Greco - è stato affrontato il tema ‘Espiazione della pena e diritti fondamentali della persona. Una riflessione sulla situazione carceraria italiana.’. Un’occasione per sottolineare la necessità di umanizzazione della pena, denunciando sovraffollamento delle carceri e lentezza dei procedimenti penali. Da qui, l’iniziativa della diocesi normanna di mettere a disposizione le 96 parrocchie del territorio per l’accoglienza di chi deve ancora scontare residui di pena o svolgere pene alternative. "Una disponibilità che va colta come un’opportunità nell’anno del Giubileo della Misericordia", sottolinea don Angelo Inzerillo. In particolare, l’intesa firmata da monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Gianfranco De Gesu, prevede di "promuovere azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale; promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività; favorire la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti ammessi a misura alternativa o ammessi alla sospensione del procedimento con messa alla prova che hanno aderito ad un progetto riparativo". Il ministro Orlando prova a dare conto dei progressi fatti: "Un carcere organizzato come è quello italiano non serve neanche a garantire la sicurezza. Costa nel bilancio tre miliardi di euro e l’Italia è il Paese con la recidiva più alta d’Europa. Oggi a fronte di 54mila detenuti abbiamo 49mila persone sottoposte a esecuzione penale esterna. Il lavoro dei detenuti all’esterno ha abbattuto il tasso di recidiva, ma la gente ha ancora paura. Bisogna costruire un carcere che non solo punisca in ragione del reato commesso, ma commisuri la pena rispetto al percorso riabilitativo del detenuto. Noi stiamo lavorando per costruire l’accesso alle possibilità di studio e lavoro per i detenuti". Il ruolo della Chiesa è espresso dall’arcivescovo monsignor Michele Pennisi: "La Chiesa vuole contribuire alla redenzione di chi ha sbagliato infrangendo la legge, invitando alla conversione, al pentimento e a una riparazione costruttiva del male fatto. La pena dentro la prigione ha senso se, mentre afferma le esigenze della giustizia e scoraggia il crimine, serve al rinnovamento della persona, offrendo a chi ha sbagliato una possibilità di riflettere e cambiare vita, per reinserirsi a pieno titolo nella società - afferma l’arcivescovo di Monreale. La comunità cristiana è chiamata a educare, aiutare, riabilitare, far sentire ciascuna persona degna di essere amata e di essere promossa nella vita sociale". Emilia-Romagna: pericolo sovraffollamento, l’allarme della Garante regionale di Jacopo Frenquellucci Ristretti Orizzonti, 13 luglio 2016 In totale 3.128 detenuti a fronte di una capienza di 2.800 persone: "Meno ingressi, ma ancora troppe difficoltà per l’applicazione delle misure alternative". In Emilia-Romagna tra gli addetti ai lavori c’è di nuova "una forte preoccupazione per il problema del sovraffollamento nelle carceri, che pensavamo superato ma così evidentemente non è estato: il momento è delicato, anche a causa del caldo". A sollevare il problema, questa mattina durante la sua relazione davanti all’Assemblea legislativa sull’attività svolta nel 2015, è Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che rivela come al 30 giugno 2016 a fronte di una capienza regolamentare di 2.800 persone i ristretti nelle 11 strutture della regione sono 3.128, di cui 2.996 uomini e 132 donne. Alla Dozza di Bologna i detenuti sono 716, a fronte di una capienza di 497 unità. A Ferrara si contano 343 ristretti su 252 posti. A Modena la capienza regolamentare è di 372 posti, ma le presenze sono 431. Problemi con il sovraffollamento anche a Parma (585 detenuti rispetto ai 468 previsti) e Ravenna (49 posti, 65 detenuti). Meno gravi le situazioni a Rimini (133 detenuti su 131 posti) e Reggio Emilia (235 su 224). Al contrario la casa lavoro di Castelfranco Emilia (75 su 182), l’ex Opg di Reggio Emilia (45 su 82), il carcere di Forlì (118 su 144) e quello di Piacenza (382 su 399) sono strutture che risultano sottoutilizzate. "I problemi del tribunale di sorveglianza incidono sulla mancata applicazione delle misure alternative, e anche sull’espulsione dei detenuti stranieri- spiega la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa-. La carenza di educatori poi non aiuta certe a istruire le pratiche per le misure alternative, e a questo si deve aggiungere anche l’incremento delle custodie cautelari". Insomma, semplifica la Garante, "grazie alle nuove norme sulla giustizia registriamo meno ingressi, ma ci sono ancora troppe difficoltà per le uscite". Inoltre, prosegue Bruno, "si aggiungono i problemi con la custodia aperta: in assenza di occupazioni quotidiane si stanno creando conflittualità dovuta al sovraffollamento". In questo senso si registra, ricorda la Garante, che sin da questa primavera, il Capo dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, ha indirizzato ai Provveditori regionali e ai direttori degli istituti, una circolare orientata proprio a ovviare al lento ma costante incremento della popolazione detenuta determinato da flussi d’entrata prevalenti rispetto alle uscite in libertà. Le tre linee d’intervento prospettate dal vertice dell’Amministrazione Penitenziaria hanno indicato, riporta Bruno, "il recupero dei posti attualmente non disponibili attraverso procedura di finanziamento della Cassa delle Ammende per la manutenzione dei fabbricati", "l’ipotesi di segnalazione d’ufficio alla magistratura di sorveglianza competente dei detenuti condannati in via definitiva che rientrano nei termini per l’accesso alle misure alternative alla detenzione" e infine "il bilanciamento delle presenze negli istituti penitenziari, tenendo conto delle strutture con maggiori posti a disposizione, anche attraverso l’utilizzo delle colonie agricole di Is Arenas, Isili, Mamone e Gorgona". Napoli: lettere da Poggioreale "siamo dodici in una cella, tutto questo è inumano" di Conchita Sannino e Alessandro Vaccaro La Repubblica, 13 luglio 2016 I detenuti scrivono a Repubblica: "Giusto scontare la pena, ma viviamo con insetti e topi". IN dodici in una cella. Con "insetti e topi che ci fanno visita". E poi il vitto alle stelle, la carenza di adeguata assistenza sanitaria. Una situazione che "non fa altro che aumentare la nostra rabbia contro le istituzioni". Lettere da Poggioreale. Più che un grido di ribellione, ad animare i racconti che un gruppo di detenuti ha spedito a Repubblica, attraverso l’associazione guidata da Pietro Ioia, è la necessità di sensibilizzare sulla propria quotidianità il mondo che scorre al di là delle sbarre. I protagonisti narrano di condizioni "disumane". È il contesto del sovraffollamento dei penitenziari, di cui è simbolo da tempo la casa circondariale napoletana, e per la quale l’Unione Europea ci ha bacchettato più volte, come ricorda spesso il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Fogli di quadernoni da computisteria, espressioni dure e fatalmente un po’ sgrammaticate, grafie sconnesse e costruzioni azzoppate proprio come le vite di chi sta scontando la propria pena. I fatti denunciati, però, restano seri. Le testimonianze provengono dai vari padiglioni del carcere. Dal "Salerno", G. M. racconta: "In una piccola cella abbiamo sei brande e due finestre, una delle quali occultata. Ci sono tavoli e sgabelli rotti, usiamo pezzi di lenzuola per legarli e tenerli un po’ più saldi, in modo da sederci e mangiare. Il bagno è minuscolo, una sola persona riesce appena a entrarci. Le mura sono piene di muffa. L’amministrazione ci consente tre docce alla settimana. Nel nostro braccio funziona una doccia su quattro. Di sera, inoltre, arriva dai bagni un cattivo odore". L’elenco dei problemi è lungo. "I prezzi della merce che si compra all’interno - continua G. M. - sono elevati, la qualità dei prodotti è scarsa. Il diritto alla nostra salute non è assicurato al cento per cento, avere visite accurate dagli specialisti è un’utopia. La metà delle persone presenti in questo padiglione è affetta da disturbi psichiatrici. Non c’è un defibrillatore e dopo le 14 è attiva solo l’infermeria centrale, ma per accedere occorrono almeno venti minuti. Per la spazzatura, dobbiamo tenerla in stanza un’intera giornata, fino alle 6.30 del mattino seguente. Fare la differenziata non è consentito. La cucina centrale è piena di topi, non c’è igiene e i detenuti che vi lavorano non indossano l’abbigliamento adatto. Noi - conclude G. M. - non chiediamo nessuno sconto, chi sbaglia deve pagare, ma vorremmo essere trattati come esseri umani". Altre voci da dentro. Sono sei detenuti. In una lettera si dà atto anche dei passi avanti compiuti nella gestione del carcere: "Molto è cambiato tra le mura di questo mostro di pietra. Oggi possiamo incontrare i nostri familiari in sale da colloquio confortevoli. Pure l’attesa si è ridotta al minimo e il rapporto con i custodi è migliorato. Ancora tanto, però, c’è da fare". Un altro aggiunge: "Alcuni padiglioni versano in situazioni penose. Non c’è riscaldamento, non funziona lo scarico del water e si tira avanti con il secchio, le mura sono fracide di umidità. In reparti come "Livorno", "Roma" e "Milano" non potrebbero vivere nemmeno le bestie". Spazio anche ai disagi sanitari: "Non abbiamo farmaci a sufficienza, chi ha disponibilità economica può comprarli, ma i tempi di consegna sono lunghi. Chi ne ha bisogno vede peggiorare le proprie condizioni, chi è povero si affida alla misericordia di Dio. Le visite esterne sono un miraggio. Per un esame angiologico un detenuto ha dovuto attendere diciotto mesi. Un altro, appena entrato in carcere, dopo aver usato una coperta ha preso la scabbia". E.R. scrive dal padiglione "Firenze": "Il problema di Poggioreale è sia nel vitto che nei comportamenti delle guardie. Alcuni ci trattano come animali. Se voglio stare pulito in cella devo comprarmi tutto il necessario, dal panno per i pavimenti alla scopa, al secchio, al detersivo. Nulla ci viene offerto. So con quali patologie sono entrato, ma non so con quali altre uscirò da qui". Dal "Milano", un’altra testimonianza: "È giusto che chi sbaglia debba pagare il suo debito con la giustizia, però vivere in dodici in una cella per cinque è inumano. Un atto criminale da parte di uno Stato che si crede democratico". C’è infine chi, come G.D.B., uno che legge, ricorda il caso di Federico Perna, il ragazzo morto in carcere nel novembre del 2013 in circostanze ancora tutte da chiarire: "Poggioreale può sbagliare, sentirsi parte di una cattiva condizione umana. Quel che resta, invece, è Federico Perna. Un nome che suscita pietà, dispiacere, sconcerto. Poteva capitare a chiunque, è capitato a lui. Poggioreale si è limitata a generiche scuse, al sovraffollamento carcerario, 2.680 detenuti, oltre una capienza massima di 1.450. Non si esce mai dalle leggi dei tribunali, certe vite sono solo faldoni da archiviare al più presto". Di questi disagi, dei diritti negati in prigione, si parlerà oggi dalle 11 nella sala dell’Unione forense, a Palazzo di Giustizia (piazza Cenni), alla presentazione del libro "Gli stati generali dell’esecuzione penale" promosso da Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere delle Camere penali. Interverranno, insieme a giornalisti e giuristi, Sergio Schlitzer, presidente della Onlus "Il Carcere Possibile", e il magistrato Massimo Russo. Varese: riqualificare il carcere, la risoluzione passa in Consiglio regionale varesenews.it, 13 luglio 2016 Con il voto si invitano Presidente e Giunta "ad attivarsi presso il Ministero di Giustizia. Il Consiglio regionale ha approvato all’unanimità due Risoluzioni sul tema della condizione dei detenuti e la situazione delle carceri, illustrate in Aula da Fabio Fanetti (Lista Maroni), Presidente della Commissione speciale situazione carceraria. La prima è un lungo e dettagliato documento che, alla luce degli incontri e delle visite della Commissione, elenca tutta una serie di misure utili a rendere più incisivi i processi di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, chiedendo più risorse per tale finalità. Nella seconda, conseguenza del sopralluogo della Commissione alla Casa circondariale di Varese, si invitano Presidente e Giunta "ad attivarsi presso il Ministero di Giustizia perché, entro 180 giorni dall’approvazione della risoluzione, proceda allo sblocco della situazione di inerzia in merito alla dismissione del carcere, per consentire al carcere di essere destinatario di risorse finanziarie da utilizzare per la riqualificazione e l’ampliamento". La Risoluzione chiede inoltre di individuare "mediante una efficace collaborazione tra le istituzioni locali e l’amministrazione penitenziaria regionale, le soluzioni più idonee per la riqualificazione e l’ampliamento strutturale del carcere al fine di garantire ai detenuti spazi adeguati e attrezzati per il loro recupero e per favorirne il reinserimento sociale". Infine, sollecita "una soluzione definitiva presso il ministero della Giustizia, anche alternativa alla riqualificazione esistente, mediante l’individuazione di un’area da destinare alla realizzazione di una nuova casa circondariale". "L’approvazione all’unanimità della risoluzione a favore del carcere di Varese- ha commentato il Presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Raffaele Cattaneo- è un fatto molto positivo per il nostro territorio: il Consiglio regionale è convinto che sia una priorità tutelare i detenuti al fine di garantire loro strutture e spazi adeguati. Sul nostro carcere si sono spese molte parole: il lavoro della nostra commissione speciale è stato molto serio e rigoroso e finalmente abbiamo portato in Aula un provvedimento che chiede impegni concreti a favore dei detenuti". Nel corso del dibattito è intervenuta l’assessore al Reddito di autonomia e inclusione sociale Francesca Brianza per illustrare le iniziative della Giunta in materia. Campobasso: il sottosegretario alla Giustizia Chiavaroli parla di carceri e di riforma primonumero.it, 13 luglio 2016 Prima al carcere di Larino, poi una visita aziendale al centro polifunzionale "La Vida", rinviata quella in un centro di accoglienza per i migranti e un incontro con il sindaco, Angelo Sbrocca. Visita in Basso Molise del sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli. La senatrice abruzzese ha incontrato la direttrice del penitenziario frentano, Rosa La Ginestra e si è complimentata per l’ottimo lavoro svolto: "Ho trovato una realtà molto positiva grazie al lavoro e all’impegno della direttrice e di tutto il corpo della Polizia Penitenziaria e dell’area degli educatori. È una struttura - ha aggiunto - nella quale c’è un grande lavoro nella formazione dei detenuti, ci sono diversi detenuti che studiano con l’istituto Agrario, l’Alberghiero e alcuni che studiano per conseguire la laurea. Io credo che questa sia la strada giusta, ossia quella che favorisce il reinserimento sociale e lavorativo perché questo è un investimento sulla sicurezza delle nostre comunità. Nel nostro paese - ha osservato il sottosegretario - abbiamo un problema che è quello dell’elevata recidiva dei nostri detenuti, il 70 per cento quando esce dal carcere torna a delinquere e quindi la strada per rendere le nostre comunità più sicure è quella di lavorare sulla formazione dei detenuti e sul loro reinserimento sociale e lavorativo. A Larino la strada è quella giusta". Per quanto riguarda il futuro della Corte d’Appello di Campobasso, dei Tribunali locali e della geografia giudiziaria del Molise rispetto al paventato rischio soppressione, la senatrice Chiavaroli ha risposto così: "In questo momento c’è una commissione che ha lavorato ed è la Commissione Vietti che ha proposto una nuova riforma della geografia giudiziaria con nuovi parametri e riferimenti. Questa riforma deve essere discussa dal Parlamento che sarà chiamato ad esprimersi. Chiedo - ha spiegato il sottosegretario - che ci siano tempi piuttosto lunghi perché il nostro Parlamento è impegnato su riforme importanti come la riforma del processo penale, del processo civile e delle procedure concorsuali, quindi questo non è un argomento al momento all’ordine del giorno e quindi ci sarà tempo per discutere e approfondire". Margini su un eventuale ripensamento? "Non so se ci saranno - ha concluso la senatrice Chiavaroli - ma ci saranno sicuramente i margini su un’ulteriore riflessione perché quella è la proposta di una commissione sulla quale né il Governo né il Parlamento si sono al momento espressi". Un tema, quello della geografia giudiziaria, trattato anche durante l’incontro con il sindaco, Angelo Sbrocca, che ha ribadito: "Il Tribunale di Larino non si tocca". Il sottosegretario si è poi soffermato con l’assessore regionale, Vittorino Facciolla, l’imprenditore, Nicola Cesare, e l’assessore alla Cultura, di Campomarino, Anna Saracino e altri ospiti. Pescara: protocollo d’intesa con il carcere, detenuti impiegati nei musei e nei Comuni di Flavia Buccilli Il Centro, 13 luglio 2016 In dodici sono impegnati in lavori di pubblica utilità, firmato il protocollo d’intesa con il carcere. Lavorare per il Comune, a Pescara e Montesilvano, o per il museo delle Genti d’Abruzzo. È l’esperienza che attende 12 detenuti del carcere di San Donato che in questo periodo si cimentano con un’iniziativa voluta dalla direzione della casa circondariale, dalle due amministrazioni comunali e dal museo. Ai 12 detenuti (ma il numero è indicativo e può cambiare) saranno affidati lavori di pubblica utilità, che possono riguardare la pulizia delle aree verdi, manutenzioni, trasporti e sgomberi, mantenimento di luoghi di pertinenza comunale e servizi di interesse pubblico, come prevedono i protocolli d’intesa già sottoscritti tra i soggetti coinvolti, con la supervisione del sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli. Il Comune di Pescara beneficerà dei servizi di cinque detenuti ammessi a misure alternative e cinque ammessi al lavoro esterno, e saranno destinati alla digitalizzazione degli atti e alla pulizia dei parchi, spiega il sindaco Marco Alessandrini ricordando il principio da perseguire, che è quello della "rieducazione della pena". Un detenuto troverà occupazione a Montesilvano e un altro, Guglielmo, è già all’opera al museo delle Genti d’Abruzzo. Il suo sorriso parla da solo, mentre descrive quest’esperienza. "Sono orgoglioso di lavorare qui", dice, "dal primo giorno mi fanno sentire come a casa, e mi fanno scrollare di dosso il pensiero del passato". È bello, per il presidente della struttura Roberto Marzetti, poter dire che non è stato poi così difficile far decollare quest’idea: "Tutto è partito da una telefonata", racconta, "e poi il progetto si è concretizzato". Marzetti lo aveva già fatto all’Aquila, quando era manager della Asl, "eppure", aggiunge il sottosegretario, "per le istituzioni ci vuole coraggio a promuovere questi protocolli e ad offrire una seconda opportunità a chi ha sbagliato". L’obiettivo finale è la "sicurezza", visto che "nel nostro Paese c’è una recidiva del 70% per cui 7 persone su 10 tornano a delinquere, uscendo dal carcere", sottolinea Chiavaroli. Ma con i lavori di pubblica utilità si punta ad abbattere questo dato statistico offrendo due vantaggi ai detenuti, come spiega il direttore della casa circondariale Franco Pettinelli, "e cioè la rieducazione e il reinserimento sociale". Foggia: detenuti al lavoro per i disabili? a guadagnarci sono tutti, Asl compresa foggiacittaaperta.it, 13 luglio 2016 Presentato il progetto "Atelier dell’Ausilio": per una volta, la provincia di Foggia volano nazionale. "La persona con problemi di giustizia è una risorsa che, se ben addestrata ed educata, se formata nel modo giusto, può farsi valere anche fuori dall’istituto di detenzione". Non nasconde la propria soddisfazione Paolo Tanese, rappresentante italiano di Escoop, la cooperativa sociale europea che ha fortemente voluto il progetto "Atelier dell’Ausilio", finanziato dalla Fondazione con il Sud nell’Iniziativa Carceri 2013 (Cod. Progetto 2013-CAR-060). Questa mattina, pertanto, da Palazzo Dogana-Sala della Ruota di Foggia, sono stati presentati i risultati di questa importante operazione socio-lavorativa che, in estrema sintesi, ha permesso di riabilitare e mettere al servizio della disabilità, in un arco di tempo compreso tra maggio 2014 e luglio 2016, i detenuti delle case circondariali di Lucera e Cerignola. Oltre all’intervento di Tanese - nella cui intervista è stata sottolineata la percentuale di risparmio in favore dell’Azienda Sanitaria Locale, dalla quale ci si attende una risposta più forte della bozza appena concordata - hanno preso parte ai lavori anche gli esponenti del Consiglio Regionale, uniti nel dare manforte al progetto, come confermano le parole dei consiglieri Giuseppe Turco e Marco Lacarra, intervistati da Foggia Città Aperta. Dall’ausilioteca di Cerignola, già avviata e potenziata grazie all’intervento congiunto delle varie sigle coinvolte - Escoop, L’obiettivo Onlus, Home Care Solutions, Lavori in Corso e, naturalmente, Innova e Fondazione con il Sud - alla creazione di una seconda Officina realizzata all’interno dell’Istituto carcerario di Lucera, con una incidenza in grado di riguardare tutto l’Appennino Dauno Settentrionale. Una vera e propria impresa sociale che ha permesso di trasformare - e pagare, secondo tutti i crismi del caso e con regolarità fino al 30 giugno scorso - alcuni detenuti in veri e propri operatori formati, impegnati nel servizio di ritiro, riparazione e manutenzione, ricondizionamento e sanificazione degli Ausili protesici rivolti a persone non autosufficienti. "In carcere - ha aggiunto Paolo Tanese, nel corso della conferenza - spesso si imparano mestieri che fuori, una volta usciti, non servono più, cosa che in questo caso non è avvenuta. Ci sono detenuti - ha continuato non senza emozione Tanese - che adesso, dopo questo progetto, non possono più tornare a fare quello che facevano prima e che li ha portati in carcere: per questo abbiamo il dovere di far continuare a lavorare la gente". La stoccata è sia all’Asl locale, presente in conferenza con Leonardo Trivisano (in sostituzione del direttore generale Vito Piazzolla), e sia alla politica regionale la quale però, in questo frangente, sembra essere concorde nell’adottare un modus operandi che ha in Foggia e nella sua provincia un interessante volano nazionale (sia la città di Alessandria che la Regione Calabria hanno avanzato le loro richieste nei confronti del progetto). L’intento è che l’Atelier dell’Ausilio, insomma, smetta di essere un progetto e si trasformi in un servizio, forte di quelle cifre che sia Tanese e sia i consiglieri regionali intervenuti, Turco e Lacarra, non hanno mancato di sottolineare. Ad oggi, infatti, gli ausili riparati sono 605 per un valore di oltre 250mila euro, con un risparmio medio per l’Azienda Sanitaria Pubblica di circa il 70% (l’ipotesi di risparmio, stando ai dati, ammonterebbe per la sola Asl di Foggia a circa un milione e quattrocentomila euro). Ben due polizze di garanzia inoltre, a sfatare qualsiasi titubanza da parte dell’azienda foggiana, renderebbero sicuri gli ausili che, al momento, sono conservati in un capannone nella zona industriale di Cerignola, in attesa di essere reimmessi al servizio della comunità. "Il sogno - ha concluso Paolo Tanese - è quello di dare vita, magari proprio nel nostro territorio, ad un vero centro di ricerca scientifica, fabbricando nuovi ausili in base ai bisogni della gente e lavorando sempre secondo la logica del dentro-fuori: con officine da realizzare dentro il carcere e centro di ricerca laboratoriale all’esterno". Facendo così della provincia di Foggia, per una volta, un modello sanitario, sociale, economico e scientifico da copiare ed esportare anche oltre i confini regionali. Rimini: madre morente, ma il permesso al detenuto per incontrarla arriva troppo tardi riminitoday.it, 13 luglio 2016 Chiede un permesso per andare al capezzale della madre in fin di vita, che gli viene concesso quando la donna è deceduta. Così intraprende per protesta uno sciopero della fame e della sete. È la storia di un detenuto nel carcere di Rimini avvenuta nel 2015, sottolineata dalla Camera penale della Romagna per denunciare la situazione critica dell’ufficio del magistrato di Sorveglianza. Si tratta in questo caso di Franco Raffa, presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna, sulla cui situazione le Camere penali di tutta la regione scioperano mercoledì e giovedi". "Già dal maggio del 2015 - spiega la Camera penale romagnola- erano stati segnalati gravissimi ritardi nelle decisioni sulle istanze per la concessione di misura alternative alla detenzione da parte del magistrato di Sorveglianza, il dottor Raffa, competente territorialmente per le Case circondariali di Forli, Rimini e Ravenna". Peraltro, sottolineano gli avvocati "senza che mai si potesse avere una celere fissazione del’udienza in Camera di consiglio del Tribunale, proprio perché non c’era un formale provvedimento di rigetto". Le problematiche maggiori, aggiunge la Camera penale, "riguardano la gestione delle istanze di permesso e di liberazione anticipata". La situazione di "sostanziale paralisi dell’ufficio - concludono i penalisti romagnoli - e" ancora più grave in quanto il dottor Raffa svolge funzioni di presidente e ciò ha determinato l’impossibilità di sottoporre allo stesso qualsiasi situazione afferente istanze o procedimenti, in quanto ha interrotto i colloqui con i difensori". Nuoro: Caligaris (Sdr); ha preso servizio la nuova direttrice del carcere, Silvia Pesante Ansa, 13 luglio 2016 Arrivata nel capoluogo nuorese ieri ha iniziato subito a prendere contatto con la realtà di Badu e Carros. Ricoprirà l’incarico almeno per sei mesi con trattamento di missione. Ne dà notizia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. "La nuova direttrice subentra nell’incarico a Carla Ciavarella, trasferita al Ministero dopo quasi quattro anni alla guida dell’Istituto nuorese, e a Patrizia Incollu, titolare a Sassari, che ha operato negli ultimi mesi temporaneamente - spiega Caligaris. Il nuovo trasferimento, che si aggiunge a quello di Carla Mauro a Tempio-Nuchis, non risolve del tutto il deficit di direttori e vice nelle strutture penitenziarie della Sardegna, ma garantisce una boccata d’ossigeno ai titolari in servizio tutto l’anno su più Istituti. Attualmente infatti fruisce delle ferie Gianfranco Pala mentre la dott.ssa Incollu è in malattia. I due nuovi arrivi, aldilà delle indubbie qualità professionali, sono particolarmente apprezzati per poter gestire in modo più appropriato le esigenze degli operatori penitenziari e dei detenuti". Vicenza: al carcere di San Pio X detenuto dà fuoco alla cella, 5 agenti feriti vicenzatoday.it, 13 luglio 2016 Un detenuto di origine italiana, apparentemente senza alcuna ragione e per futili motivi, ha dapprima distrutto la propria cella per poi subito appiccare il fuoco. Immediatamente si è propagato del fumo tossico in tutta la sezione, mandando nel panico gli altri detenuti del reparto. Immediato l’intervento degli agenti per domare le fiamme. Il sindacato: "Situazione insostenibile". Momenti di tensione e paura, martedì sera, nel carcere San Pio X di Vicenza. Un detenuto di origine italiana, apparentemente senza alcuna ragione e per futili motivi, ha dapprima distrutto la propria cella per poi subito appiccare il fuoco. Immediatamente si è propagato del fumo tossico in tutta la sezione, mandando nel panico gli altri detenuti del reparto. Ne dà notizia il Segretario Generale Triveneto della Uil Pa polizia penitenziaria Leonardo Angiulli, che aggiunge: "Provvidenziale e rapido l’intervento degli agenti di Vicenza, a cui bisogna sicuramente fare un grande elogio, perché incuranti del pericolo e grazie alla tempestività d’azione sono intervenuti con idranti ed estintori per placare le fiamme e nel contempo mettendo in sicurezza l’intera sezione provvedendo ad evacuarla e mettendo in salvo anche l’autore di tale gesto". Subito dopo, allertati dal centralino del carcere sono intervenuti anche i vigili del fuoco di Vicenza che sono intervenuti effettuando i dovuti accertamenti. Durante le fasi dell’intervento, 5 agenti sono rimasti feriti per intossicazione ed escoriazioni varie. Attualmente gli stessi sono presso i pronto soccorsi dell’ospedale di Vicenza per ricevere le cure. "A tutti loro il plauso e tutta la nostra gratitudine per aver impedito, con il loro coraggio, conseguenze molto più gravi - prosegue Angiulli. Purtroppo non è un caso isolato, nei giorni scorsi per tre sere consecutive si sono registrati episodi di violenza al carcere vicentino, dove addirittura su un reparto di 20 camere detentive risultano distrutte ben 13, senza contare anche gli ingenti danni economici che subiamo. Le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria presso la Casa Circondariale di Vicenza sono ormai divenute insostenibili e molto difficili, turni di lavoro di otto ore anziché delle 6 previste, ferie arretrate da smaltire, riposi settimanali in molti casi revocati che si aggiungono ai restanti problemi, tipo le disastrate condizioni della caserma, problemi con la mensa solo per citarne alcuni. Il personale previsto sarebbe di 197 unità, allo stato Vicenza conta un contingente di 169 uomini, che tra distaccati in altre sedi ed altro si assottiglia a solo 153 in servizio". Ad aggravare tale situazione, aggiunge Angiulli, sarà l’imminente aperture, prevista per fine Luglio 2016, di un nuovo padiglione che ospiterà circa 200 nuovi detenuti. "Allo stato non è previsto nessun aumento di organico come confermato dal Dirigente dell’istituto, se non un misero, e solo previsto per ora, incremento di 10 unità, tra l’altro solo in missione e quindi per un breve lasso di tempo. Crediamo che ci sia poco da aggiungere... questi i numeri e la situazione del carcere di Vicenza! Troppi i casi di violenza e aggressione che si stanno registrando in quest’ultimo periodo, che si vanno ad aggiungere all’ormai cronica carenza di personale. Auspichiamo quindi che l’Amministrazione Centrale intervenga con adeguati e urgenti provvedimenti, individuando le giuste soluzioni e assumendo le dovute iniziative per garantire sicurezza e incolumità agli uomini in servizio e dell’intero istituto"." Pescara: cerimonia di chiusura dell’anno scolastico per gli studenti detenuti lopinionista.it, 13 luglio 2016 Cerimonia di chiusura dell’anno scolastico, lunedì pomeriggio, per gli studenti detenuti nella casa circondariale San Donato di Pescara. All’incontro hanno partecipato l’assessore regionale all’Istruzione, Marinella Sclocco, il direttore del carcere, Franco Pettinelli, la dirigente scolastica dell’Itc Aterno Manthoné, Antonella Sanvitale, la responsabile del corso serale scuola carceraria, Marina Di Crescenzo, i docenti, Antonio Di Luzio, Daniela Di Pietrantonio, Luigi Mincucci, Gianluca Patriarca, l’educatrice dell’area psicopedagogica Anna Laura Tiberi. Le classi attive dell’Aterno Manthoné (unica scuola superiore in una casa circondariale abruzzese), quest’anno, sono state tre: prima, terza e quarta del corso Sistemi informativi aziendali. I detenuti, oltre a seguire i regolari corsi scolastici, nel corso dell’anno sono stati autorizzati a svolgere gli esami di Microsoft Word, Excel, Power point per poter ottenere la certificazione della patente europea del computer (Ecdl), nella sede dell’Istituto pescarese. "Nella vita si può sbagliare ma l’essere grandi, significa ammettere l’errore, puntare di nuovo su di sé e cercare il cambiamento", ha sottolineato la dirigente scolastica Sanvitale. Il direttore Pettinelli ha voluto ringraziare, oltre ai docenti, i detenuti: "ci mettete tutto l’impegno possibile e un esempio ce l’avete già, il vostro collega Guglielmo, a cui è stata accordata la possibilità di lavorare fuori dalla struttura. Questo è uno degli esempi concreti di come si va avanti e si cerca l’inserimento nel mondo del lavoro". Infine, ma non certo per ultimo, l’assessore Sclocco ha spronato gli studenti: "I vostri professori sono quelli maggiormente coinvolti in questa bellissima iniziativa e sono loro che puntano su di voi, sulla vostra rimessa in gioco". Il direttore Pettinelli, in conclusione, ha sottolineato che quest’anno, lavorano all’esterno della struttura carceraria dieci detenuti al Comune di Pescara, uno al Museo delle Genti d’Abruzzo e anche il Comune di Montesilvano ha manifestato la propria disponibilità ad accoglierne altri. Milano: "Cucine galeotte" sbarca a Cascina Torrette felicitapubblica.it, 13 luglio 2016 Accendere i riflettori sull’importanza della cucina nei percorsi di riabilitazione e riscatto con i detenuti attraverso buone pratiche di formazione nelle carceri italiane, tra cibo e fotografia è l’intento dell’imperdibile appuntamento "Cucine galeotte" che si terrà giovedì 14 luglio 2016 presso Cascina Torrette, a Milano. Cucine galeotte è il secondo incontro organizzato nell’ambito dell’United Food Of Milano, lo speciale percorso tra cibo, arte e società, curato da Daniele de Michele, noto come Don Pasta, e da "Mare culturale urbano", il centro di produzione artistica nato nella zona ovest di Milano per realizzare un nuovo modello di sviluppo territoriale delle periferie, in cui sono previsti una serie di appuntamenti estivi ideati per condividere il piacere del cibo e dell’arte e approfondire alcuni temi di attualità. L’evento avrà inizio alle 18.00 con un appuntamento rivolto alle buone prassi di formazione professionale all’interno degli istituti penitenziari italiani, a cui interverranno: Lucia Castellano, direttore generale esecuzione penale esterna e di messa alla prova, Valeria Verdolini, presidente della sezione Lombardia dell’Associazione Antigone, Cosima Buccoliero, vice direttore del carcere di Bollate, Davide Dutto di Associazione Sapori Reclusi. A coordinare il dibattito la giornalista Tiziana Barillà del settimanale Left. Dalle 19.00 in poi dietro ai fornelli ci saranno 6 cuochi detenuti, provenienti dalle limitrofe carceri di Opera, San Vittore, Bollate, dalla casa circondariale di Pozzuoli (Coop. Lazzarelle) e dall’istituto di detenzione San Michele di Alessandria. Ogni chef servirà i propri piatti al pubblico con l’accompagnamento musicale curato da Paolo Minella, conduttore di "Il sabato del villaggio" di Radio Popolare. Durante la cena sarà visitabile l’installazione fotografica "Sapori Reclusi" realizzata da Davide Dutto della stessa associazione, in collaborazione con Associazione Antigone. La degustazione prevede: "orecchiette alla San Michele" da Alessandria, parmigiana di melanzane da Pozzuoli, panzerotti con mozzarella e pomodoro e cannelloni al sugo da Bollate, coni di pasta sfoglia con mozzarella, pomodorini e crema di basilico da San Vittore, pasta con verdure al forno e torta di mele da Opera. Il vino è offerto dalle cantine Cincinnato e Le Grotte. L’ingresso alla serata costa 25 euro, è gratuito invece per i bambini fino agli 8 anni, e include la degustazione di 6 piatti con un calice di vino. I biglietti si possono acquistare al sito maremilano.org oppure in biglietteria la sera stessa. Dal 15 al 17 luglio, inoltre, la Cascina ospiterà un mercatino per la vendita di prodotti artigianali e gastronomici realizzati proprio nelle carceri italiane. "Mai avrei immaginato di provare un dolore così forte", la malagiustizia diventa un film di Maurizio Tortorella Tempi, 13 luglio 2016 Il documentario di ErroriGiudiziari.com racconta le storie di cinque persone qualunque che un giorno, senza sapere perché, finiscono nel tritacarne giudiziario. Avete mai visto quel capolavoro del cinema che è "Detenuto in attesa di giudizio", con un immenso Alberto Sordi ingiustamente arrestato e oscenamente sballottato dalla giustizia italiana per mesi, prima di essere liberato senza alcuna scusa (anzi, prima del rilascio un magistrato lo rimprovera, assai seccato: "Ma non poteva dirlo prima, che era innocente?")? Ecco, se lo avete visto non potrete che ripensarci con sottile inquietudine, forse addirittura con angoscia. Perché Non voltarti indietro, il nuovo docu-film prodotto da ErroriGiudiziari.com e diretto da Francesco Del Grosso che racconta cinque storie vere d’ingiusta detenzione, agita gli stessi spettri, nascosti dietro le medesime sbarre arrugginite, ficcati nelle stesse buie celle, e corre su e giù per le identiche scale tortuose di quel castello kafkiano che è la malagiustizia italiana. Con un problema, drammatico, in più: la pellicola di Nanny Loi, pietra miliare nel nostro cinema di denuncia, uscì nel 1971. Ma 45 anni dopo, come mostra il film di Del Grosso, nulla è cambiato. E di certo se la giustizia non portasse una benda sugli occhi, proverebbe orrore per i suoi errori. In 75 minuti, Non voltarti indietro racconta cinque storie di persone normali (un impiegato delle poste, un pubblico dipendente, l’assessore di un piccolo Comune, uno stilista, una commercialista), che all’alba di un giorno qualunque, senza nemmeno saperne il perché, si trovano sminuzzati dal tritacarne giudiziario. Sbattuti in cella da innocenti, e come Sordi in attesa di un giudizio di cui non capiscono né le origini né la logica. E in questo stato trascorrono giorni, settimane, mesi… "In Italia" dice Del Grosso "non erano mai stati realizzati documentari che mettessero insieme più vittime sul tema. C’erano stati racconti per il piccolo schermo, nulla di cinematografico". Le immagini girate in carcere (si riconoscono San Vittore e Rebibbia) si alternano a quelle dei volti delle cinque vittime (la cui fissità dello sguardo ben descrive il terrore evocato dallo sforzo del ricordo), ma anche a disegni in bianco e nero, tanto simili agli schizzi dei cronisti giudiziari americani. I cinque ricordano il loro ingresso nel carcere ("Mai avrei immaginato di provare un dolore così forte". "Inizi a scoprire un mondo completamente nuovo, irreale". "La struttura era così vecchia da causare il magone solo a entrarci un attimo". "Pensi: il giudice ha sicuramente sbagliato, ma poi ti chiudono la porta alle spalle…"), e la vita all’interno della prigione ("Ti senti un delinquente: io le avevo viste solo in tv queste cose, nei film". "Nell’ora d’aria passeggiavo come un folle da un muro all’altro". "Dopo, ho saputo che mio padre passava ore davanti al portone di Rebibbia, aspettando che io uscissi"). Le immagini feriscono gli occhi, le voci dei cinque ti restano dentro. Sono vite segnate per sempre, quelle che ti scorrono davanti. Ascolti le loro parole, e un’immensa malinconia ti prende alla gola. "Mi avevano messo lì come un pacco postale". "Mi interrogarono e mi resi perfettamente conto dai loro sguardi che non sarei mai uscita". "Di continuo pensavo: cedo, e m’ammazzo, oppure resisto e combatto?". "Alla fine, quando mi hanno assolto per non avere commesso il fatto, in aula il pubblico ministero mi ha dato un colpetto sulla spalla e mi ha detto: "Dai, certe esperienze nella vita possono servire". Forse ancora peggio della battuta riservata ad Alberto Sordi 45 anni fa. È un film che dovrebbe essere proiettato nelle scuole medie superiori, di certo nella Scuola della magistratura. Uno si augura che lo veda soprattutto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Sparizioni forzate, torture, prove falsificate: ecco come al Sisi tiene in scacco l’Egitto di Brahim Maarad L’Espresso, 13 luglio 2016 Un dossier di Amnesty International ricostruisce decine di testimonianze di ragazzi, anche minorenni, detenuti illegalmente e sottoposti alle peggiori torture. Ecco le loro storie e le richieste dell’organizzazione all’Occidente perché isoli il dittatore. "Pensi di avere un prezzo? Noi possiamo ucciderti, avvolgerti in una coperta e buttarti in un bidone della spazzatura qualsiasi e nessuno verrà mai a chiedere di te". Così si è rivolto uno dei boia della polizia egiziana a un innocente che è stato torturato per oltre quattro mesi. La sua colpa era di portare lo stesso nome di battesimo di un ricercato. Con lui erano stati arrestati anche il padre e il fratello, solo per obbligarlo a confessare crimini mai commessi e che gli avrebbero portato una condanna a vita. È una delle tante orribili storie raccolte da Amnesty International nel rapporto "Egitto: ufficialmente tu non esisti, scomparsi e torturati in nome della lotta al terrorismo". Il dossier include 17 testimonianze dettagliate di alcune delle centinaia di vittime di torture e sparizioni forzate nel 2015 e 2016, tra cui ragazzi di 14 anni. Per l’occasione è stato organizzato anche un flash mob per ricordare Giulio Regeni e le altre vittime di queste terribili pratiche in atto nel paese. L’appuntamento è oggi alle 10.30, in piazza Pantheon a Roma. L’iniziativa raccoglierà numerose attiviste e attivisti dell’organizzazione che si raduneranno davanti al Pantheon a torso nudo e con bende e cappucci neri a rappresentare alcuni dei casi documentati nel rapporto. Difficile non pensare a Giulio leggendo quel dettaglio della coperta. Perché si è sempre parlato di una coperta, di quelle fornite ai militari, trovata vicino al corpo del ricercatore italiano. Buttato, come immondizia, sul ciglio della trafficata strada che collega il Cairo ad Alessandria, quasi sei mesi fa. Una ennesima conferma del coinvolgimento degli apparati egiziani nel caso del giovane friulano. Chi conosce bene l’Egitto di al Sisi non ha mai avuto dubbi. Ora lo dicono anche i numeri riportati nell’ultimo rapporto stilato da Amnesty. Amnesty International ha ricostruito in un dossier decine di testimonianze di ragazzi, anche minorenni, detenuti illegalmente e sottoposti alle peggiori torture. Persino le cifre ufficiali del governo sono spaventose: tra il 2013, anno del golpe militare, e il 2014 le forze di sicurezza hanno arrestato quasi 22mila persone. Nel 2015, secondo il ministero dell’Interno, sono finite in manette quasi 12mila ulteriori sospetti. Tra loro studenti, accademici, ingegneri, medici professionisti. Altre centinaia sono detenute in attesa di esecuzione, tra cui l’ex presidente Mohamed Morsi, i suoi sostenitori e i leader dei Fratelli musulmani. In totale quindi ufficialmente i prigionieri politici sono 34mila. Alcuni gruppi per i diritti stimano però che almeno 60mila persone sono state arrestate per motivi politici dal luglio 2013. Così tanti che è in corso la realizzazione di dieci nuovi penitenziari. Spesso però chi viene arrestato non finisce in carcere. Viene bendato e portato via verso destinazione ignota. Di lui non viene lasciata nessuna traccia. Nessuna documentazioni che indichi lo stato di detenzione. Sono le sparizioni forzate, quelle che stanno caratterizzando questo buio periodo del Cairo. A riassumere la sofferenza dei familiari ci sono due testimonianze riportate nella pubblicazione. La prima è del padre di Karim Abd el-Moez, scomparso per quattro mesi, torturato e costretto a confessare di appartenere allo Stato islamico. Ha detto: "Tutto quello che volevo sapere era se mio figlio era vivo o morto, l’incertezza mi stava devastando psicologicamente". La seconda è invece di una madre a cui hanno strappato il proprio figlio: "Non mi rivolgo a lei come agente di polizia, ma come padre, e le chiedo di provare a immaginare il dolore di una madre che non riesce a trovare il proprio figlio". Sono le parole della mamma di Abd el-Rahman Osama a un agente di polizia che aveva ripetutamente negato che suo figlio fosse in custodia. Quel figlio invece ce l’avevano loro. Lo hanno arrestato, torturato e tenuto in prigione per undici mesi. Ora rischia di essere condannato a quindici anni di carcere. Ha 17 anni ed è accusato di appartenenza ai Fratelli musulmani, partecipazione a proteste non autorizzate e possesso di armi. Amnesty International non è in grado di dire con precisione quante persone sono state sottoposte a sparizione forzata dalle autorità egiziane dall’inizio del 2015 o specificare il numero attuale. Per loro natura, i casi di sparizioni forzate sono particolarmente difficili da identificare e documentare a causa del segreto d’ufficio che li circonda e le paure di alcune famiglie che potrebbero inavvertitamente mettere i detenuti in maggior pericolo segnalando la loro sparizione. Tuttavia, attraverso la documentazione e i dati forniti da diverse Ong e gruppi dei diritti egiziani, è evidente che almeno diverse centinaia di egiziani siano scomparsi dall’inizio del 2015 con una media di tre o quattro persone ogni giorno. La Commissione egiziana per i diritti e le libertà ha riferito lo scorso aprile di aver documentato 544 casi di sparizione forzata per un periodo di otto mesi, tra l’agosto 2015 e il marzo 2016, per una media di due o tre persone al giorno. Il Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà ha riportato invece nel gennaio 2016 di aver documentato 1.023 casi di sparizioni forzate durante i primi otto mesi del 2015, e un totale di 1.840 casi sono stati segnalati in tutto il 2015. Una media di 4-5 persone ogni giorno. "Siamo un’autorità sovrana, non abbiamo bisogno di mandati per arrestare le persone". Con questa arroganza i militari della Sicurezza nazionale egiziana sfondano porte e mettono sottosopra appartamenti per portare via i sospettati. Anche quando questi hanno a malapena 14 anni. Lo fanno in piena notte o la mattina prima dell’alba. Si presentano con un convoglio di veicoli blindati accompagnati da un pulmino bianco anonimo e senza targa, condotto dagli uomini della Sicurezza nazionale e utilizzato per trasferire i detenuti che poi risulteranno scomparsi. Durante l’intervento, come hanno raccontato diversi testimoni ad Amnesty, si dividono in tre gruppi: uno in strada per scoraggiare curiosi, arrestando chiunque si spinga troppo avanti, uno agli ingressi dell’immobile e il terzo, tra cui i funzionari della Sicurezza nazionale, all’appartamento. Una volta all’interno, ammanettano e bendano il sospettato, perquisiscono tutte le stanze e portano via cellulari, computer e spesso anche il denaro che trovano. Il tutto senza presentare uno straccio di documentazione. Chi si ribella viene minacciato di essere arrestato o aggredito. Già sul posto controllano la rubrica dei telefoni e i messaggi scambiati. Basta un’immagine o un contatto sospetto per essere incriminati. In particolare se è legata all’ex presidente Morsi e ai Fratelli musulmani. È successo a Mazen Abdallah, studente di 14 anni, portato via e torturato per settimane a causa di un messaggio ricevuto da alcuni suoi amici. A raccontare la sua storia ad Amnesty è la madre. La notte del 30 settembre 2015 è stata svegliata da violenti colpi alla porta. Erano le 3 e a casa sua si erano presentati trenta militari armati fino ai denti. Cercavano suo figlio perché dovevano fargli delle domande. Non ha potuto quindi fare altro che accompagnarli nella sua stanza, dove dormiva senza immaginare quale incubo lo avrebbe svegliato. Si sono messi a controllare il suo cellulare e quando hanno trovato alcuni riferimenti a proteste contro il regime hanno comunicato alla madre che lo avrebbero portato via per qualche ora. Senza dirle dove. Per dieci giorni Mazen ha subito ogni forma di tortura, compresi stupri e scosse elettriche. Lo hanno tenuto sempre bendato e ammanettato. A volte è rimasto appeso per ore al muro. Prima di finire davanti al giudice è stata falsificata la sua data di arresto. Secondo le carte in tribunale Mazen è stato fermato solo il giorno prima dell’udienza, quindi nel pieno rispetto della legge. In realtà erano passati dieci giorni. Chi deve sparire forzatamente per più di quattro giorni non viene portato nelle stazioni di polizia. Perché queste sono considerate luoghi di detenzione ufficiale e quindi soggette al controllo da parte della magistratura. I luoghi preferiti dei boia sono invece gli uffici della Sicurezza nazionale e i campi di addestramento e alloggio della polizia antisommossa. Qui nessun giudice o pubblico ministero ha la facoltà di ispezionare gli uffici e, in quasi tutti i casi documentati da Amnesty International, le famiglie e gli avvocati non sono stati in grado di conoscere la sorte dei propri familiari mentre erano tenuti in isolamento in questi luoghi. Al Cairo la destinazione più temuta da ogni sospettato è l’ufficio della Sicurezza nazionale a Lazoughly, situato nella sede del ministero degli Interni. A pochi metri da piazza Tahrir, simbolo della liberazione. Chiunque sia passato da qui ha raccontato le violenze subite, dall’uso di scariche elettriche alla sospensione per gli arti al soffitto per lunghe ore o addirittura giorni. Non è un caso che i detenuti l’abbiano soprannominato l’inferno del quarto piano. Un luogo che è più volte venuto fuori nel caso Regeni. L’elenco delle torture e dei maltrattamenti cui vengono costretti i detenuti che finiscono in queste celle superano ogni manuale dell’orrore. Le testimonianze raccolte nell’ultimo rapporto sono raccapriccianti. Rappresentano a parole quel male che la madre di Giulio ha visto sul volto di suo figlio. Pestaggi, sospensioni per gli arti al soffitto o ad una porta, mentre sono ammanettati e bendati per lunghi periodi, scosse elettriche al viso, al corpo, ai denti, alle labbra, ai genitali e ad altre aree sensibili per lo più con taser e in pochissimi casi con cavi. Un altro metodo usato in alcuni casi è noto come la "griglia" - in cui le mani e le gambe della vittima sono fissate un’asta di legno in equilibrio tra due sedie e vengono sospesi nel vuoto e fatti ruotare. I detenuti hanno anche riferito che sono stati ammanettati da un polso ad un altro detenuto e con un alto muro tra l’uno e l’altro, impedendo ai detenuti sia di dormire sia causando lesioni ai loro polsi, braccia e spalle. Ex detenuti, famiglie e avvocati hanno detto ad Amnesty International che di solito sono stati torturati durante gli interrogatori, in genere durante le prime due settimane della loro detenzione in isolamento. Gli interrogatori andavano da una fino a sei o sette ore. I detenuti restano bendati e ammanettati per tutto il tempo della loro permanenza. A volte anche mesi. Amnesty ha raccolto nel rapporto 17 testimonianze di casi di sparizioni forzate e di tortura. Riflettono quelli che sono migliaia di episodi avvenuti negli ultimi tre anni in Egitto. "Sono stato interrogato due volte al giorno e mi hanno fatto sempre le stesse domande. Sono stato minacciato di violenza sessuale e di essere ucciso. Gli agenti mi hanno minacciato con scariche elettriche e hanno utilizzato il taser vicino alle mie orecchie per minacciarmi durante l’interrogatorio, sono stato anche minacciato di venire accusato di reati che si sarebbero tradotti in una condanna all’ergastolo", ha raccontato Nour Khalil, l’attivista liberale arrestato insieme al fratello e al padre. Karim Abdel Moez ha invece raccontato all’amico Mohamed Magdy, che gli ha fatto visita in prigione, che durante i continui interrogatori nel corso dei suoi oltre cento giorni di detenzione gli agenti lo hanno ammanettato e bendato, picchiato con bastoni e utilizzato scariche elettriche sia con taser che con cavi, compreso sui genitali, per costringerlo a "confessare" che aveva in mente di unirsi allo Stato islamico, e di implicare anche altre persone. A lui e agli altri detenuti non è stato permesso di parlare l’uno con l’altro sotto la minaccia di percosse da parte delle guardie o di sospensione in posizioni di stress. Nelle testimonianze raccolte da Amnesty diversi detenuti hanno raccontato di essere stati non solo costretti a confessare crimini mai commessi, di cui alcuni anche molto gravi, ma anche che sono stati fotografati dagli stessi agenti davanti ad armi e munizioni. Tutto fabbricato ad arte per alimentare una campagna mediatica e incolpare gli innocenti. È il caso del 15enne Ebada Ahmed Gomaa che dopo essere stato arrestato ha raccontato alla sua famiglia di "non aver visto il sole per cinquanta giorni" e che gli ufficiali lo hanno fotografato due volte con le armi, prima presso la loro vecchia casa di famiglia e poi alla stazione di polizia, e lo hanno portato in un veicolo della Sicurezza nazionale a indicare gli indirizzi dei suoi contatti di telefonia mobile e delle persone che aveva coinvolto nella sua "confessione" forzata. Le fotografie di Ebada sono state successivamente pubblicate sui media, dipingendolo come un "terrorista" che fabbricava armi. D’altronde non c’è traccia di un equo processo. Giudici e pubblici ministeri hanno sempre finto di non vedere le tracce delle torture che gli imputati mostravano. Anzi, in un caso documentato nel rapporto è stato lo stesso pubblico ministero a minacciare il sospetto quando ha tentato di ritrattare la confessione. "Sembra che tu voglia tornare alle scosse elettriche", ha ammonito un procuratore capo della sicurezza nazionale rivolgendosi a uno studente di 14 anni, Aser Mohamed. Alle dichiarazioni del governo egiziano ormai siamo abituati anche noi con il caso Regeni. Non c’è quindi da stupirsi nel leggere le affermazioni del ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar del marzo scorso: "In Egitto non esistono sparizioni forzate" negando fermamente che i detenuti siano tenuti in segregazione e non soggetti a controlli giurisdizionali o trattenuti in violazione della legislazione egiziana. Ha inoltre ribadito che "il ministero degli Interni e le forze dell’ordine operano nel quadro della legislazione egiziana senza violarne le disposizioni" e ha dichiarato che "l’utilizzo, da parte dei gruppi impegnati nella difesa dei diritti umani, del termine "sparizione forzata" è stato istigato dai leader esiliati della Fratellanza musulmana, i quali desiderano frapporsi agli sforzi profusi dal ministero degli Interni alla lotta al terrorismo e alla presenza della Fratellanza musulmana stessa, un gruppo di "terroristi"". "Tutti gli Stati che intrattengono relazioni diplomatiche, commerciali o di altra natura con l’Egitto dovrebbero prendere provvedimenti per manifestare al governo egiziano la propria preoccupazione riguardo il continuo impiego di sparizioni forzate, tortura e altri maltrattamenti, processi iniqui e altre gravi violazioni dei diritti umani e dovrebbero usare la propria influenza per fare pressione e ottenere, così, la fine immediata di queste violazioni. In particolare, tali Stati dovrebbero: sollecitare l’Egitto a porre fine alle sparizioni forzate e fermare i trasferimenti di armi ed equipaggiamenti che facilitano le violazioni dei diritti umani". Obama: il razzismo c’è ancora, ma dal nostro dolore nascerà un’America migliore di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 13 luglio 2016 Il presidente arriva a Dallas per rendere omaggio ai poliziotti uccisi. "Un bianco e un nero hanno lavorato fianco a fianco per superare il dolore e tenere insieme non solo Dallas, ma tutto il Paese". Barack Obama indica Michael Rawlings, democratico, il sindaco, bianco, della città e poi David Brown, il capo, nero, della polizia. La platea raccolta nel Meyerson Symphony Center è in piedi: è l’applauso più convinto alle parole del presidente degli Stati Uniti. Quaranta minuti di discorso, sul filo delle emozioni, del ragionamento, con una battuta su Stevie Wonder, il cantante preferito di "chief Brown", citazioni bibliche. Fede religiosa e valori repubblicani, mescolati insieme. Era una prova difficile per Barack Obama. Solo nei prossimi giorni vedremo se il leader del Paese è riuscito a invertire la deriva che sta dividendo l’America, con una larga parte della comunità afroamericana che protesta da Chicago a Miami contro i metodi violenti della polizia. "Questa è l’America che conosco, l’America di questo sindaco e di questo capo della polizia. Non possiamo dare nulla per garantito, ma sappiamo che se ci mettiamo insieme, se apriamo il nostro cuore, come se fosse un cuore nuovo, se ci sforziamo di guardarci gli uni con gli occhi degli altri, possiamo superare qualsiasi momento. L’America è una sola famiglia". Dall’alba un grande drappo a stelle e strisce quasi nasconde l’ingresso dell’auditorium di Dallas. Lungo le strade, annodati agli alberi pendono nastri blu e gialli: i colori della polizia. Il pubblico è stato selezionato con cura dalla coppia Rawlings-Brown. Si mettono in coda i rappresentanti delle comunità religiose, delle organizzazioni afroamericane più moderate. E poi le donne e gli uomini in divisa: anche qui numerosi "black people". Sono tutti eleganti, quasi fosse una prima teatrale. Obama arriva come da programma alle 12.50 (le 19.50 in Italia). È accompagnato da Michelle, in nero, dal vice presidente Joe Biden e consorte. Ci sono anche l’ex presidente repubblicano George W. Bush con la moglie Laura, che vivono a Dallas dal 2009. In prima fila cinque poltrone. Su ognuna il berretto da poliziotto, la bandiera americana ripiegata come prevede il protocollo dei funerali. È quel che rimane dei cinque agenti uccisi nell’imboscata di giovedì scorso. I loro nomi vengono ricordati dall’ex presidente Bush, che tiene una breve orazione e poi dallo stesso Obama: Lorne Ahrens, 48 anni; Michael Krol, 40 anni; Michael Smith, 55 anni; Brent Thompson, 43 anni; Patrick Zamarripa, 32 anni. Ciascuno di loro ha una storia, un particolare che commuove. Zamarripa lascia una figlia di 2 anni; Thompson si era sposato solo due settimane fa. "Sono cinque eroi da cui tutti dobbiamo trarre ispirazione", dice Obama. Nella prima parte dell’intervento il presidente fa appello alla Bibbia come per cercare un sostegno da cui risalire: "Nelle scritture si legge che dalla sofferenza nasce la perseveranza e dalla perseveranza il carattere e dal carattere la speranza". Una forza spirituale che nella costruzione retorica del leader della Casa Bianca diventa una proposta politica. È il momento di affrontare il passaggio più delicato: "Non siamo ingenui. Sappiamo quanto sia difficile eliminare i pregiudizi che vengono dalla nostra storia. Noi sappiamo che nessuno di noi ne è immune. Vale per gli insegnanti, vale anche per il Dipartimento di polizia. La stragrande maggioranza degli agenti svolge con grande sacrificio il suo dovere e noi tutti dobbiamo essere grati. Ma sarebbe sbagliato far finta di niente, voltare le spalle davanti alle proteste della minoranza nera. Davanti alla richiesta di giustizia e verità che viene dalle famiglie di Alton Sterling e di Philando Castile". I due afroamericani uccisi dalla polizia la settimana scorsa a Baton Rouge, in Louisiana e a St. Paul, nel Minnesota. Ora Obama cambia direzione, per restare in equilibrio: "Ho vissuto sulla mia pelle i grandi progressi nella relazione tra le razze che sono stati fatti negli ultimi cinquant’anni, dopo la legge sui diritti civili. Negarlo vuol dire sconfessare la lotta e i sacrifici che sono stati fatti per ottenerli. Non è attaccando la polizia che i protestanti otterranno la giustizia che cercano". Ha detto Il dolore che sentiamo potrebbe non passare presto, ma la mia fede mi dice che i poliziotti non sono morti invano. Il dolore può renderci un Paese migliore Nessun individuo, nessuna istituzione è interamente immune dal pregiudizio razziale. Il razzismo non è finito. Se siamo onesti, sentiamo i pregiudizi dentro di noi Appello all’unità "Lavorare insieme, bianchi e neri, per tenere insieme il Paese". Stati Uniti: lo spaccio americano degli oppiacei "legali" di Matteo Persivale Corriere della Sera, 13 luglio 2016 Quando, dopo il fallimento della Lehman, il dipartimento del Tesoro americano si trovò nella sgradevole posizione di dover spiegare le dimensioni della più grande crisi dal 1929 in una conferenza stampa, preparò prima le risposte a tutte le possibili domande dei giornalisti. Tranne una: perché nessuno fece nulla per fermare la speculazione? La risposta è che tutti stavano guadagnando troppo per pensare di cambiare qualcosa. Ma sarebbe stato spiacevole ammetterlo. È la stessa risposta che viene in mente davanti alla domanda ovvia suscitata nei lettori dall’inchiesta del Los Angeles Times che sta facendo discutere l’America: come è possibile che una anziana dottoressa di una fantomatica clinica creata da un criminale possa prescrivere ogni giorno migliaia di pillole del più potente oppiaceo in commercio senza che nessuno si accorga che qualcosa non va? Risposta: Perché tutti - dalla casa farmaceutica ai farmacisti - stavano guadagnando troppo per farsi venire troppi scrupoli. Del resto, come si costruisce un business da cento milioni di euro apparentemente legale? Si mette un anziano medico in un ufficio a scrivere a catena ricette per prescrivere Oxycontin - un oppiaceo talmente potente che un dottore può tranquillamente andare in pensione senza averne mai prescritta una pillola - a fantomatici pazienti che in realtà sono senzatetto reclutati nei bassifondi e convinti con 25 dollari a prestarsi alla truffa. A quel punto ogni pillola ottenuta con regolare ricetta da farmacisti disposti a coprirsi ambedue gli occhi e le orecchie, veniva poi rivenduta a 80 o 90 dollari da una rete di spacciatori della mafia armena di Los Angeles. Qualcuno, alla casa produttrice delle pillole, la Purdue Pharma, come dimostrato dall’inchiesta del quotidiano, non poteva non vedere che c’era un’ improvvisa epidemia di malati terminali a downtown Los Angeles che andava contro la logica e la statistica (ogni ricetta di oppiacei viene registrata per legge). Ma hanno taciuto per anni, finché la bizzarra gang non è stata arrestata.