Il Pm europeo e l’indipendenza dei magistrati di Guido Moltedo e Torquil Dick-Erikson Il Manifesto, 12 luglio 2016 Il ritorno del "Corpus Juris": ai giudici nazionali potrà essere chiesto di assisterli. Il tema dell’incompatibilità dei sistemi legali, in particolare di giustizia penale, è stato pochissimo considerato nel dibattito che ha preceduto il referendum in Gran Bretagna, anche se in effetti riveste un’importanza fondamentale. Se il referendum avesse dato l’esito opposto, sarebbe senz’altro emerso e avrebbe costituito un grosso ostacolo all’unione sempre più stretta prevista dai Trattati. Ottocento anni fa, nel 1215 in Inghilterra è stata redatta la Magna Carta. Alcuni dei suoi principi sono a tutt’oggi alla base del nostro sistema legale. La Magna Carta ha attraversato gli oceani, e questi principi sono alla base dei sistemi degli USA, del Canada, dell’Australia e della Nuova Zelanda. È molto amata da questi popoli, che la considerano una base inderogabile del loro concetto di democrazia. Ma non ha mai attraversato la Manica. Quando il Papa Innocenzo III ha saputo della Magna Carta, si è molto adirato. Nello stesso periodo, a Roma, egli stava istituendo la Santa Inquisizione. Si veda la documentazione imponente ammassata dal Professor Italo Mereu, nella sua opera "Sospettare e Punire" (1979). La Magna Carta restringeva, limitava, i poteri dell’Autorità sugli individui. L’Inquisizione invece li approfondiva e li estendeva. Dopo diversi secoli, gran parte del vecchio ordinamento in Europa veniva spazzato via dalla rivoluzione francese. Ma presto Napoleone prese il timone degli avvenimenti, e diede le basi della nuova forma di Stato, che è stata presa a modello da molti dei Paesi che egli ha conquistato. Per la giustizia penale, ha adottato ed adattato il modello inquisitorio, riorientandolo dal servizio della Chiesa al servizio dello Stato. Perciò la contrapposizione con il sistema inglese rimane fino ai giorni nostri. Le differenze sono abissali. In particolare, il sistema inglese ha l’Habeas Corpus, che significa che gli inquirenti devono ottenere delle prove abbastanza serie ("evidence of a prima facie case to answer") prima di poter arrestare ed incarcerare qualcuno, e devono essere pronti ad esibirle in pubblica udienza, con contraddittorio fra le parti, poche ore, o in casi estremi qualche giorno, dopo l’arresto. Invece nel sistema napoleonico-inquisitorio bastano degli indizi (sia pure "gravi e concordanti"), e le prove, o elementi di prova, vanno raccolte dopo l’arresto, mentre l’indagato può aspettare in "custodia cautelare" per molti mesi l’esito delle indagini senza nessuna pubblica udienza in cui la gravità e la concordanza degli indizi possa essere vagliata. Questo viola direttamente l’articolo 38 della Magna Carta. Un altro caposaldo del sistema ereditato dalla Magna Carta è l’istituto della giuria popolare (art. 39), che - senza interferenze da parte del giudice togato - si ritira da sola a considerare il verdetto, colpevole o non colpevole, in completa sovranità. Questa misura rappresenta una rivoluzione profonda nella forma dello Stato, perché allo Stato viene sottratto il potere di decidere chi può essere punito e chi no. Questa decisione viene rimessa direttamente nelle mani del popolo. Ci sono altre salvaguardie del sospettato innocente, ma sarebbe troppo lungo illustrarle qui. Infine una caratteristica di fondo del sistema anglo-sassone è l’assenza di una magistratura di carriera, come ad esempio quella italiana che comprende i giudici e i pubblici ministeri ma esclude i difensori. In Inghilterra i poteri e le funzioni che sono gestiti qui dalla magistratura, lì sono divisi fra vari corpi della società - la polizia esegue le indagini, un avvocato presenta l’accusa in aula come un altro avvocato conduce la difesa, il giudice è un vecchio avvocato, e come si è detto, la giuria di dodici cittadini tirati a sorte dice la parola decisiva di colpevolezza o meno. Estendere il sistema napoleonico-inquisitorio del continente alle isole britanniche verrebbe vissuto dai britannici come una violenza tremenda. Eppure è precisamente ciò che la Commissione Europea si proponeva di fare, con il progetto Corpus Juris di un codice penale europeo, con un pubblico ministero europeo, insediato a Bruxelles, armato di rilevanti poteri su tutto il continente. Nel 1997 fui invitato come giurista comparato a un seminario in Spagna dove la Commissione aveva presentato il progetto Corpus Juris. Ci fu poi una forte opposizione da parte della Gran Bretagna; il progetto nella sua interezza fu messo da parte, e si è preferito procedere per piccoli passi. Il primo passo è stato il mandato di cattura Europeo, che comunque suscitò indignazione in Gran Bretagna in diversi casi, in quanto alla corte nel Paese ricevente non è consentito chiedere di vedere le prove su cui dovrebbe basarsi la richiesta di estradizione. Ora che la Gran Bretagna ha votato per ritirarsi dall’Unione Europea, è prevedibile che il Corpus Juris venga riproposto per i paesi rimanenti. Esso prevede un delegato del PM europeo in ciascun Paese membro, e che i PM nazionali siano sottoposti all’obbligo di assisterli. Sarà interessante vedere come la magistratura italiana, assai gelosa della propria indipendenza, reagirà all’introduzione di tale principio gerarchico, a cui è sottoposta da parte di un potere esterno. Depistaggio, l’ennesimo reato che crea illusione di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 luglio 2016 Cosa c’è dietro la legge appena approvata dalla Camera. Dopo anni di clamore mediatico e accese polemiche, il 5 luglio scorso la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva la proposta di legge che introduce all’interno del codice penale il reato di frode in procedimento penale e depistaggio. I sì sono stati 325, i no uno, gli astenuti 14. Il provvedimento, come si ricorderà, è stato fortemente voluto da Paolo Bolognesi, deputato Pd e presidente dell’Associazione vittime della strage di Bologna. Il quale ha dichiarato: "Come dimostrano migliaia di atti processuali, da piazza Fontana alle stragi del 1993 il nostro Paese ha pagato l’assenza di questo reato con l’impossibilità di definire, con sentenze, esecutori e mandanti di molti stragi. Eccidi tutt’oggi impuniti a causa dei depistaggi messi in atto da quegli apparati che hanno agito per impedire di arrivare alla verità giudiziaria. L’approvazione definitiva di questa proposta di legge rende giustizia alle vittime, ai loro familiari e salvaguarda il futuro di tutti i cittadini dal rischio di assistere a nuovi processi per strage, terrorismo ed altri gravi reati, senza colpevoli". Vediamo, in dettaglio, cosa prevede la norma che sostituisce integralmente l’attuale articolo 375 del codice penale. Come cambia l’articolo 375 - Nella sua nuova formulazione, il delitto di frode in procedimento penale e depistaggio punisce con la reclusione da 3 a 8 anni - salvo che il fatto costituisca più grave reato - il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, con il fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale, assuma una delle seguenti condotte illecite: immuti artificiosamente il corpo del reato, lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone connessi al reato; richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale affermi il falso o neghi il vero ovvero taccia in tutto o in parte ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito. Inoltre, è prevista una circostanza aggravante a effetto speciale (da un terzo alla metà) qualora il fatto sia commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte, ovvero formazione o artificiosa alterazione, in tutto o in parte, di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta del reato o al suo accertamento. C’è, ancora, una circostanza aggravante autonoma (pena da sei a dodici anni) per i casi in cui la frode processuale e il depistaggio siano relativi a procedimenti penali per reati di particolare gravità. Sconto di pena, invece, per il "depistatore" che ripari alla condotta dannosa precedentemente messa in atto, adoperandosi per ripristinare lo stato dei luoghi, delle cose, delle persone o delle prove, nonché per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuti concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto oggetto di inquinamento processuale e depistaggio e nell’individuazione degli autori. L’ennesimo "reato mediatico" Nelle intenzione del legislatore, dunque, il reato di depistaggio vuole essere un’arma in più nelle mani dei magistrati per colpire, principalmente, alcuni "apparati deviati" dello Stato che negli anni avrebbero provveduto ad insabbiare la verità. E la memoria va subito ad alcune delle pagine più buie del Paese: la strage alla stazione di Bologna, il Dc9 di Ustica, piazza della Loggia a Brescia, il treno Italicus, il Rapido 904, via dei Georgofili. Ma, ed è forse questo l’aspetto più importante, la norma va ad incidere anche su casi di cronaca come le morti di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e Stefano Cucchi. Certo è che questo nuovo reato sembra però, più che favorire la ricerca della verità, strizzare un occhio all’opinione pubblica, ultimamente molto condizionata da campagne mediatiche agguerrite quando si tratta di inasprire pene a scopo preventivo. Basti pensare, infatti, ai reati di femminicidio e di omicidio stradale. Il codice penale, al netto delle strumentalizzazioni, già contemplava reati idonei a perseguire il cosiddetto "depistaggio". Quello che mancava era la suggestiva indicazione del termine nella descrizione della condotta. Sotto l’aspetto mediatico "depistaggio" è indubbiamente meglio di "frode processuale". Sanzioni più severe per chi abusa delle parole di Dacia Maraini Corriere della Sera, 12 luglio 2016 Oggi qualsiasi voce anonima può ingiuriare, calunniare, offendere senza conseguenze. Dal rispettoso confronto con l’altro si scende al brutale scontro di tutti contro tutti. Abbiamo bisogno di regole, quindi anche di censure. Sono contraria alla censura, ma mi chiedo: le regole non sono anche censura? Allora perché le censure ci appaiono oltraggiose? Il nostro è un Paese che non sopporta le regole e quindi considera ogni forma di censura come una offesa personale. Non puoi fumare in luogo pubblico? Ma siamo matti, questa è dittatura. Dobbiamo mettere la cintura di sicurezza in auto? È una prepotenza intollerabile. Dobbiamo pagare le tasse? Un’altra vessazione inammissibile. Come se le regole fossero solo un modo di porre pesanti limiti alla libertà personale. Non considerando che le regole sono la nostra salvezza, sono la pace, la meritocrazia, la parità, sono il rispetto dell’altro su cui si basa ogni forma di giustizia. Anche nel linguaggio ci sono regole da rispettare e dovrebbero essere i politici a osservarle per primi. Perché le parole sono pietre, come diceva Carlo Levi, e possono colpire e ferire, anche mortalmente. Se lo scopo degli avversari non è quella di discutere sulle idee, ma di screditarsi a vicenda, la politica si trasforma in pettegolezzo e oltraggio. Il Paese assorbe in fretta l’esempio dei potenti. Se lo fanno loro… perché non noi? Quanto abbia influenzato il linguaggio della classe dirigente sul linguaggio comune lo prova la diffusione sempre più evidente dell’insulto sistematico. E se anonimo, meglio. Una volta ricordo, le lettere anonime si stracciavano. Oggi qualsiasi voce anonima può ingiuriare, calunniare, offendere senza conseguenze. Dal rispettoso confronto con l’altro si scende al brutale scontro di tutti contro tutti. Abbiamo bisogno di regole, quindi anche di censure. Non c’è norma che non porti con sé un impedimento, un controllo e una sanzione. Una delle più severe dovrebbe riguardare proprio il linguaggio, che non è solo codice, cifra, segno, ma pensiero e comunicazione. Dovrebbe essere chiaro che non è permesso lanciare insulti razzisti per esempio. Ma non basta dirlo: bisogna che chi insulta, soprattutto se è un uomo in vista, venga condannato severamente. A me non interessa che vada in prigione, ma una condanna anche solo simbolica, che suoni chiara e forte, sarebbe di esempio per tutti. I casi di intolleranza si stanno moltiplicando. La radio, la televisione fanno da cassa di risonanza. Il razzismo lievita, avvelena i rapporti sociali. Abbiamo il dovere di chiedere regole più severe e certe per chi usa il linguaggio come arma di guerra. La Corte europea dei diritti umani avvia l’esame del ricorso presentato da Berlusconi La Stampa, 12 luglio 2016 Nel mirino l’applicazione retroattiva della legge Severino che aveva provocato la sua incandidabilità. Ma per un responso potrebbe volerci un anno. La Corte europea dei diritti umani ha avviato in via preliminare l’esame del ricorso di Silvio Berlusconi contro l’applicazione al suo caso della legge Severino. I giudici dovranno pronunciarsi sulla sua ammissibilità e sul merito dopo che si sarà svolto il contraddittorio tra le parti. Il ricorso, a quanto si è appreso, è stato comunicato al governo italiano affinché possa esporre le sue ragioni. L’ex premier ha già depositato le proprie ragioni ed ora spetta al governo italiano produrre le prove a proprio discarico. Nel ricorso, a cui è stato assegnato il numero 58428/13, Silvio Berlusconi contesta all’Italia il fatto di aver applicato retroattivamente la legge Severino al suo caso, violando cosi l’articolo 7 della Convenzione europea per i diritti umani (Cedu) che sancisce il principio di "nulla poena sine lege" (nessun a pena senza legge). L’ex Cavaliere afferma che la sua incandidabilità e conseguente decadenza del mandato parlamentare sono stati dovuti a una condanna per fatti avvenuti prima che la legge Severino entrasse in vigore. Nel ricorso Berlusconi sostiene poi che l’Italia ha violato anche l’articolo 3 del protocollo 1 della Cedu, che sancisce il diritto a libere elezioni, perché non gli è stato permesso di continuare il mandato per cui era stato eletto, e questo ha leso non solo il suo diritto ma anche quello degli elettori. Infine l’ex premier sostiene che è stato leso il suo diritto a un ricorso effettivo contro la decisione presa nei suoi confronti, sancito dall’articolo 13 della Cedu. Nel comunicare il ricorso al governo italiano la Corte di Strasburgo chiede in particolare a Roma le informazioni necessarie per valutare se la decisione del Parlamento di mettere fine al mandato del senatore Berlusconi costituisca una sanzione penale, una condizione essenziale perché vi sia una eventuale violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani. La Corte vuole inoltre sapere se la procedura che a messo fine al mandato prevede sufficienti garanzie contro un uso arbitrario della decisione. Infine, Strasburgo chiede a Roma se Berlusconi abbia potuto avvalersi di un rimedio efficace davanti alle istanze nazionali per ricorrere contro la decisione presa dal Parlamento. Prima di avere un vero e proprio responso, spiegano alcune fonti, ci potrebbe volere un altro anno. Utilizzabili nel penale le dichiarazioni al giudice delegato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale sentenza 6 luglio 2016 n. 27898. Possono essere utilizzate come prova documentale nel processo penale le dichiarazioni rese in sede civile al giudice delegato. Lo ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 27898 della Quinta sezione penale, respingendo in questo modo il ricorso presentato dagli amministratori, di diritto e di fatto, di una srl dichiarata fallita per il reato di bancarotta fraudolenta documentale. Le difese avevano sostenuto l’inutilizzabilità nel giudizio penale, e quindi il divieto del loro inserimento nel fascicolo del dibattimento, delle dichiarazioni rese al giudice delegato perché assunte in assenza del difensore e in violazione degli avvisi previsti dal Codice di procedura penale agli articoli 62 e 63. La Cassazione nell’affrontare l’impugnazione ricorda il valore probatorio che, per giurisprudenza ormai consolidata, deve essere attribuito alla relazione e alle dichiarazioni che provengono dal fallito o dall’amministratore di una società fallita raccolte dal curatore. Vanno cioè considerate "come prove documentali in ogni caso e non solo quando siano ricognitive di una organizzazione aziendale e di una realtà contabile". Si tratta di un insieme di elementi assai rilevante nella ricostruzione delle vicende amministrative della società. Principi che, se valgono per le dichiarazioni rese al curatore, devono valere anche, sottolinea la Cassazione, anche per le dichiarazioni raccolte dal giudice delegato, dal momento che svolgono la medesima funzione informativa, di ricostruzione delle vicende amministrative della società poi fallita. Infatti, osserva la sentenza, l’articolo 49 comma 2 della Legge fallimentare è chiaro nel puntualizzare che, se servono informazioni o chiarimenti per la gestione della procedura, l’imprenditore fallito o gli amministratori o liquidatori della società devono presentarsi indifferentemente davanti al giudice delegato, al curatore, o al comitato dei creditori, "avendo identica natura le informazioni che questi soggetti devono rendere, e ciò a prescindere dall’organo (dei tre indicati) che le raccoglie". In ogni caso, per la Cassazione non è convincente il richiamo effettuato dalle difese alle norme del Codice di procedura penale che disciplinano l’acquisizione di verbali di prove assunte nel giudizio civile in quello penale e a quelle sulla valenza probatoria delle sentenze irrevocabili. Quella fallimentare, infatti, è una procedura che ha come obiettivo la liquidazione dell’attivo fallimentare, all’accertamento del passivo e alla soddisfazione della massa dei creditori del fallito e non è certo indirizzata a sfociare in una sentenza suscettibile di passare in giudicato. Le dichiarazioni possono così essere ammesse come documenti sulla base di quanto stabilito dall’articolo 234 del Codice di procedura, mentre non può essere applicata la norma (articolo 63) sulle dichiarazioni indizianti e le relative garanzie che le devono assistere. In questo caso, infatti, come ha precisato la Corte costituzionale nella sentenza n. 136 del 1995 il giudice delegato on rientra nella nozione di autorità giudiziaria prevista. Vi rientrano il giudice penale e il pubblico ministero, ma non il giudice civile. Le garanzie del procedimento penale non possono infatti estese a un atto con obiettivi probatori del tutto diversi. Traffico di droghe: infiltrato salvo se fa arrestare il pusher di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 11 luglio 2016 n. 28810. Escluso il traffico di stupefacenti per l’agente provocatore che finge di comprare la droga, che il venditore già possiede, per "incastrarlo" e farlo arrestare. Al falso acquirente il reato non può essere contestato se con la sua condotta non realizza un pericolo effettivo per il bene tutelato creando una disponibilità di droga prima inesistente, dal momento che il trafficante ha di fatto commesso il crimine avendo già la droga nella sua disponibilità. Con la sentenza 28810 depositata ieri, la Cassazione accoglie il ricorso di un informatore dei carabinieri finito nei guai perché i giudici di merito non avevano creduto alla sua versione dei fatti. Il ricorrente sosteneva, infatti, di aver operato al servizio dell’Arma nella convinzione di aver svolto un’attività sotto copertura. Forte di questa certezza rivendicava il diritto, pur non essendo un ufficiale di polizia giudiziaria né un militare, ad usufruire della non punibilità prevista dal Testo unico sulla droga (Dpr 309/1990). Una norma in base alla quale (comma 4 dell’articolo 97) la non punibilità garantita agli ufficiali di polizia giudiziaria viene estesa anche ai loro ausiliari. Il problema stava però nel capire quale era stato realmente il ruolo svolto dall’agente provocatore "borghese". Nessun problema se l’"infiltrato" si limita a carpire informazioni o ad acquistare stupefacenti per acquisire una prova. La situazione cambia però se l’agente provocatore "istiga" a commettere un reato, mettendosi su un crinale piuttosto scivoloso. I giudici di merito erano stati contraddittori: da una parte avevano ritenuto credibile la versione dello spacciatore secondo il quale la droga era stata commissionata dal ricorrente per rivenderla, dall’altra, nella motivazione, avevano ritenuto plausibile la diversa ipotesi del finto acquisto dello stupefacente già nella disponibilità dello spacciatore. La Cassazione annulla con rinvio chiedendo di chiarire i fatti: non è secondario capire se c’è stato un "ordine" di droga o solo una simulazione di acquisto finalizzata a far arrestare il pusher. In ogni caso, precisa la Cassazione, non può essere considerato irrilevante l’aver agito per far incriminare un trafficante. Riciclaggio il cambio di targa all’auto rubata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2016 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 11 luglio 2016 n. 28759. Commette reato di riciclaggio chi acquista o riceve una macchina da uno sconosciuto e cambia la targa. La manomissione, fatta per rendere meno agevole il riconoscimento dell’auto prova la consapevolezza della sua provenienza illecita. Con la sentenza 28759 depositata ieri, la Cassazione respinge il ricorso contro la condanna. Secondo l’imputato dalle indagini era emerso solo che la macchina rubata, oggetto materiale del riciclaggio da parte di ignoti era entrata in suo possesso: il reato doveva dunque essere attribuito a terzi sconosciuti e non a lui. La Suprema corte non crede però nella buona fede. I giudici della seconda sezione penale, ricordano, infatti, che "integra elemento oggettivo del reato di riciclaggio qualsiasi operazione tesa a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene". Per escludere il delitto non basta che il bene resti astrattamente tracciabile se poi, in forza di una manomissione delle sue componenti se ne altera l’identità. L’alterazione non è però l’unica strada per confondere le acque: un bene può anche restare fisicamente identico ma comunque restare difficilmente tracciabile se si mettono in atto molteplici trasferimenti dopo averlo sottratto al legittimo titolare. Per finire, a prescindere dal cambio di targa o di numero del telaio, il risultato "incriminato" si può raggiungere anche smontando i pezzi dell’automobile. Sospeso il divieto di avere armi per i condannati, se il reato è di natura diversa di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2016 Tar Piemonte - Torino, sez. I, ordinanza n. 232 del 30.06.2016. Va sospeso il decreto emanato dal Prefetto che ha vietato al ricorrente la detenzione di qualsiasi arma o munizione, se le condanne subite dal ricorrente (nel 2005 e nel 2010) sono estranee all’ambito relativo al possesso ed uso delle armi. Manca quindi il collegamento con altri specifici elementi o circostanze, che possa fornire un giudizio di inaffidabilità dell’interessato. La prevalente giurisprudenza sottolinea che l’autorità di Pubblica Sicurezza possiede un ampio potere discrezionale, funzionale alle esigenze preventive che si correlano alle armi, ma è tuttavia evidente che ciò non esime dal rispetto dei fondamentali principi di coerenza e logica dell’agire amministrativo. Quindi, se il Prefetto non può emanare un provvedimento apodittico, che giunga alla conclusione di non affidabilità circa l’uso delle armi, desumendola dalla sussistenza a carico dell’interessato di un procedimento penale per reato estraneo al contesto proprio delle armi e in nessun modo ad esso connesso. A ciò va aggiunto che, nel caso specifico, mancano anche circostanze che, seppur non strettamente inerenti il contesto dell’uso di armi, possono far pensare ad una inaffidabilità del soggetto come nel caso di reiterazione di reati o di contiguità con ambienti malavitosi. L’interdittiva antimafia che colpisce un’impresa si estende alla socia di Alberto Barbiero Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2016 Un’impresa che diventa socia di un’altra impresa colpita da interdittiva antimafia è a sua volta esclusa dalle gare di appalto, quando il rapporto sia stabile ed evidenzi comuni finalità illecite. Il Consiglio di Stato, sezione III, con la sentenza n. 2774 del 2016 ha analizzato la particolare fattispecie delle informative antimafia "a cascata", prendendo in esame il caso della costituzione di una nuova società, tra un’impresa colpita da un’interdittiva e un altro soggetto imprenditoriale. Il "contagio mafioso" - La decisione evidenzia come possa ragionevolmente presumersi l’estensione del giudizio di pericolo di inquinamento mafioso sia alla nuova società, sia alla seconda impresa, divenuta socia di quest’ultima, insieme a quella inizialmente ritenuta esposta al rischio di permeabilità alle influenze criminali. Uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell’attività d’impresa (di per sé sufficiente a giustificare l’emanazione di una interdittiva antimafia) è stato infatti identificato nell’instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un’impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale. Il Consiglio di Stato rileva come la ratio di tale regola si rinvenga nella valenza sintomatica (del rischio di collusioni illecite con organizzazioni mafiose) attribuibile a cointeressenze economiche particolarmente pregnanti tra un’impresa gravata da controindicazioni antimafia e un’altra che fa affari con essa. Perché possa presumersi il "contagio" alla seconda impresa della "mafiosità" della prima è, ovviamente, necessario che la natura, la consistenza e i contenuti delle modalità di collaborazione tra le due imprese siano idonei a rivelare il carattere illecito dei legami stretti tra i due operatori economici. Qualora, pertanto, l’analisi dei rapporti tra le due imprese manifesti una netta condivisione di finalità illecite e una verosimile convergenza verso l’assoggettamento agli interessi criminali di organizzazioni mafiose, desumibili, ad esempio, dalla stabilità, dalla persistenza e dalla intensità dei vincoli associativi o delle relazioni commerciali, può presumersi l’esistenza di un sodalizio criminoso tra i due operatori. Quando, invece, l’esame dei contatti tra le società riveli il carattere del tutto episodico, inconsistente o remoto delle relazioni d’impresa, deve escludersi l’automatico trasferimento delle controindicazioni antimafia dalla prima alla seconda società. Il sintomo della costituzione di un nuovo soggetto - La costituzione di un nuovo e stabile soggetto giuridico tra le due imprese permette quindi di estendere le controindicazioni antimafia anche alle imprese partecipate o socie di quella già verificata come "mafiosa", mentre non altrettanto può essere affermato per la mera ed episodica associazione temporanea tra le due imprese o per la sussistenza tra di esse di "inconsapevoli" relazioni commerciali. Conseguentemente, la costituzione di una società tra un’impresa già destinataria di una interdittiva antimafia e un’altra sola impresa (che detiene una quota significativa della nuova società) integra senz’altro gli estremi di quella situazione che impone di reputare automaticamente estesa a quest’ultima la valutazione sulla permeabilità mafiosa già posta a fondamento dell’informativa ostativa nei riguardi della prima. La costituzione di un vincolo stabile e qualificato, come quello ravvisabile tra i due soci di una società, fonda, in particolare, la presunzione che la seconda impresa (quella, cioè, non già attinta da un’interdittiva), sia stata scelta per la condivisione degli interessi inquinati e illeciti già ravvisati nella gestione della prima. Per il Piano carceri un incarico "a titolo gratuito" contraddittorio e impraticabile di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2016 Da quando in Italia vige la spending review, almeno per quanto riguarda vicende legate alle infrastrutture penitenziarie, è stato introdotto l’uso della prestazione fornita "a titolo gratuito". A questo titolo ha operato nel recente passato il Commissario Straordinario al Piano Carceri, a questo titolo, si vocifera negli ambienti romani di Via Arenula 70 (Ministero della Giustizia) e di Largo Daga 2 (D.A.P.), starebbe per essere affidato, ad un architetto libero professionista esterno all’Amministrazione penitenziaria, un incarico di consulenza per la definizione di nuovi modelli spaziali carcerari, in collaborazione con i tre dirigenti (un architetto e due ingegneri) dell’ufficio tecnico dello stesso D.A.P. Se così fosse si configurerebbe un quadro palesemente contraddittorio ed impraticabile per i seguenti motivi. Contraddittorio perché in contrasto con le indicazioni operative fornite, al Ministro della Giustizia Onorevole Andrea Orlando, dal Tavolo 1 - Spazio della pena: architettura e carcere degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, per superare le criticità in atto nella dimensione architettonica del nostro carcere costituzionale. Tali indicazioni si possono riassumere in un coinvolgimento più ampio di professionalità e competenze esterne all’Amministrazione penitenziaria, selezionate le prime secondo modalità di evidenza pubblica sulla base di curricula specifici e le seconde per la comprovata esperienza maturata sul "campo". Gli obiettivi in tal senso indicati sono quelli di definire criteri di progettazione in conformità alle direttive europee, di definire criteri per la ristrutturazione degli istituti esistenti secondo i parametri della "vigilanza dinamica", di coinvolgere e responsabilizzare i detenuti e gli operatori penitenziari, nella riqualificazione e gestione degli spazi, di definire criteri di progettazione delle strutture territoriali per l’esecuzione delle misure alternative, di valorizzare le colonie penali esistenti e individuare modalità per il reperimento di nuove strutture, di gestire la manutenzione degli Istituti anche con l’ausilio di detenuti in possesso dei requisiti professionali e organizzare cantieri scuola per la formazione edile. È evidente come suddette attività - volte in sostanza a dare completezza alla definizione delle soluzioni spaziali da porre a base delle future edificazioni penitenziarie ed alla ristrutturazione delle esistenti - si possano arricchire con un più ampio spettro di professionalità ed esperienze, non tutte reperibili all’interno dell’Amministrazione penitenziaria, senza nulla togliere ai tecnici interni coordinati dai tre dirigenti (un architetto e due ingegneri) attualmente in forza all’Ufficio tecnico del D.A.P. Esemplare in tal senso è stato il coinvolgimento delle persone che a vario titolo utilizzano un carcere, realizzato recentemente dalla Fondazione Re Baldovino del Belgio, in occasione della progettazione del nuovo carcere di Haren, per definire preliminarmente i bisogni in termini di architettura e di organizzazione dei nuovi istituti penitenziari. Impraticabile per la norma che disciplina gli appalti delle opere pubbliche. In questo caso ci è di aiuto la deliberazione 6/2016 della Corte dei Conti Sezione Regionale di Controllo per la Calabria, che pur ammettendo la liceità di decidere, da parte di una pubblica amministrazione, di far ricorso a collaborazioni di tipo gratuito, tale decisione deve comunque accompagnarsi all’indizione di una procedura selettiva tra i professionisti interessati ad offrire gratuitamente la propria prestazione d’opera. (…). In merito a questa deliberazione, già si sono espresse negativamente le categorie professionali interessate rappresentate dai rispettivi presidenti, con riferimento tra il resto, all’Art. 20 comma 2 del Codice deontologico degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti, Conservatori, Architetti Iunior e Pianificatori Iunior, che recita: (…) la rinunzia, totale o parziale, al compenso è ammissibile soltanto in casi eccezionali e per comprovate ragioni atte a giustificarla. La rinunzia totale o la richiesta di un onorario con costi sensibilmente ed oggettivamente inferiori a quelli di loro produzione e di importo tale a indurre il committente ad assumere una decisione di natura commerciale, falsandone le scelte economiche, è da considerarsi comportamento anticoncorrenziale e grave infrazione deontologica. Potrebbe succedere che il Ministro della Giustizia in carica decidesse per un incarico "a titolo gratuito" dipendente dalla sua esclusiva volontà. Per convenienza politica allora spiegazioni sarebbero opportune. Siffatti scenari, se confermati, sconcertano e preoccupano. Sia dunque il Ministro della Giustizia Onorevole Andrea Orlando a fugare ogni sconcerto e preoccupazione illustrandoci la sua chiara volontà in merito, nel il rispetto delle regole e nell’esclusivo interesse della collettività. Gratteri e Davigo: ma quanto chiacchierano quei due! di Piero Sansonetti Il Dubbio, 12 luglio 2016 Non è che noi del "Dubbio" abbiamo la fissazione di fare le bucce a tutto quello che dicono i magistrati. Ne faremmo volentieri a meno. Il problema è che i magistrati parlano moltissimo, molto più - ad esempio - dei politici: escluso Renzi. Il numero di dichiarazioni che alcuni di loro rilasciano in un mese sono di gran lunga superiori al numero di sentenze che emettono o ottengono. Negli ultimi tempi i due più facondi sono stati il dottor Gratteri, procuratore di Catanzaro, e il dottor Davigo, presidente dell’Anm. Sono due persone sicuramente simpatiche e certamente oneste (Davigo è anche piuttosto colto). Ma con una idea evidentemente molto particolare del proprio compito. E del tutto all’oscuro, probabilmente, di quel vecchio e noioso principio della dottrina liberale che stabilisce che in uno stato di diritto i poteri sono separati e non sono previste invasioni di campo. Che vuol dire? Per esempio che il potere esecutivo non può intervenire nell’esercizio della giustizia. Non può stabilire se un processo si fa o se non si fa, o se le prove sono sufficienti, o se una sentenza va confermata o revocata. In Italia il potere esecutivo è ancora più limitato, perché non può intromettersi neppure nelle questioni che riguardano le carriere dei giudici, come invece succede in altri paesi dove la magistratura dipende dal ministero della Giustizia (in Francia, per esempio, o negli Stati Uniti). Questo stesso principio però prevede anche che i magistrati non devono impicciarsi di come si fanno le leggi, o - peggio - di come sono organizzati i partiti o le istituzioni rappresentative. Ecco, a Davigo e a Gratteri questa idea non entra in testa. E così nell’ultimo fine-settimana nuovamente hanno esternato con invasioni di campo. Il primo ha detto che i politici onesti dovrebbero rifiutare di sedersi accanto ai politici disonesti. Il secondo invece ha detto che i dipendenti pubblici, in Calabria, sono più pericolosi della ?ndrangheta. La prima dichiarazione pone problemi di logica. La seconda problemi di diritto. Vediamo. È giusto che i politici onesti siedano lontani dai disonesti? (intanto prendiamo atto della novità: Davigo ammette l’esistenza di politici onesti). Il problema è che la distinzione tra onesti e disonesti è complessa. Davigo probabilmente si riferisce a un famoso passo evangelico: "E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra". Il problema è che questo brano (che è di Matteo: Matteo l’evangelista....) si riferisce a un "lui" che non è il capo dell’Anm ma è Dio, o almeno suo figlio. Chi è che stabilisce -in assenza di dio - senza neanche un processo, chi siano gli onesti? Davigo, evidentemente, ha in mente una società organizzata non sulla giustizia ma sul sospetto. Il "sospetto" come Dio della politica. Nonvi sembra preoccupante che il capo dei Pm italiani abbia in mente questa idea? Non ci vedete un piccolo rischio di autoritarismo? Quanto a Gratteri il discorso è diverso. Il suo ragionamento in politologia viene definito, usualmente, di criminalizzazione. Ed è sempre grave criminalizzare una categoria. Ma è particolarmente grave se a farlo non è un opinionista reazionario, o un giornalista, o un politico populista, ma è un magistrato, o addirittura - come in questo caso - un Procuratore. Cosa deve pensare un lavoratore della PA, magari onestissimo (ce ne sarà qualcuno, no?) che si sente accusato dal Procuratore di essere peggiore della ?ndrangheta? Il ragionamento di Gratteri può anche avere un fondamento. Nel senso che lui ci avverte che i mali della Calabria non sono solo nell’organizzazione della ?ndrangheta. Ma il suo compito non è quello di guarire la Calabria ma quello di perseguire i reati. È questo che non gli entra in testa, in nessun modo. Lui resta convinto di non essere un semplice magistrato, ma di essere il messo del Signore, che punisce, e riforma, e vendica. Parma: la Garante regionale dei detenuti in visita al carcere "ancora fermi i lavori" parmadaily.it, 12 luglio 2016 Nel carcere di Parma "i lavori per la costruzione del nuovo padiglione avevano visto l’avvio sul finire del 2013", ma "dal 31 luglio 2014, con la mancata proroga delle funzioni del Commissario straordinario alle infrastrutture penitenziarie, c’è stato il blocco del cosiddetto Piano carceri", e quindi nonostante ad aprile 2015 ci sia stata "la conferma che verranno portati a termine i lavori di ampliamento del penitenziario parmense", ad oggi gli interventi sono ancora fermi. L’auspicio è allora che "i posti della nuova struttura vengano dedicati a ospitare spazi per l’ampliamento del Centro diagnostico terapeutico". A sollevare il caso è Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, che nei giorni scorsi ha effettuato una visita agli Istituti penitenziari di Parma per effettuare un sopralluogo nel circuito della Media sicurezza e incontrare per dei colloqui i ristretti. Il carcere di Parma conta 585 detenuti, di cui 184 stranieri, con 451 condannati in via definitiva, di cui 98 ergastolani. 200 sono nel padiglione di Alta sicurezza, 70 nei reparti 41bis, di cui 7 ricoverati presso il Centro clinico, e 294 negli spazi di Media sicurezza. Altre 13 persone sono ricoverate nel Centro clinico. Solo nove gli ammessi al lavoro all’esterno, e sempre nove sono anche i detenuti semiliberi. "Nel recente periodo il numero delle presenze ha subito un sensibile aumento in linea con la tendenza nazionale", sottolinea la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa. La struttura infatti al 30 giugno 2016 avrebbe una capienza regolamentare di 486 posti. Come ricorda la Garante, al Centro diagnostico terapeutico del carcere di Parma "è costante la totale copertura dei posti disponibili" e di conseguenza "un numero eccessivo di detenuti affetti da gravi patologie, in ragione dei posti limitati a disposizione, viene collocato nelle ordinarie sezioni detentive, ambienti ovviamente inidonei per una persona malata", il tutto "nell’attesa, spesso lunga, che si liberi un posti, con la conseguenza quindi di criticità, a più riprese segnalate dalla Garante, e lamentate in maniera ricorrente da parte dei detenuti, soprattutto quelli con lunghe pene da scontare, legata alla promiscuità determinata dalla convivenza di persone sane e malate, che comporta un peggioramento delle condizioni di vita complessive". Infatti, ribadisce, "risulta fondamentale per la tutela del diritto alla salute delle persone detenute che i trasferimenti e le assegnazioni per motivi sanitari, giustificati per assicurare cure più adeguate al detenuto rispetto al carcere di provenienza, intervengano solo previa valutazione dell’effettiva sostenibilità della presa in carico nel breve periodo". A conclusione della visita la Garante ha avuto un colloquio di confronto con il direttore della struttura, Carlo Berdini, che ha illustrato l’offerta trattamentale: in particolare è in fase avanzata il progetto, sostenuto dalla Fondazione Cariparma, per il finanziamento di attività che possano offrire una concreta possibilità di occupazione ai detenuti attraverso il coinvolgimento degli imprenditori e artigiani del territorio locale e nazionale che potranno utilizzare gli spazi e la forza lavoro del carcere della città ducale. Tra i problemi riportati dai ristretti della media sicurezza, Bruno segnala "la limitata aerazione della cella, anche in ragione delle calde temperature, per l’impossibilità di apertura completa della finestra a causa della seconda branda" e "la problematica relativa all’acquisto di generi alimentari freschi dal sopravvitto". Infatti, conclude la Garante, "manca l’indicazione del prezzo al kg, del peso effettivo del prodotto acquistato e non viene apposto lo scontrino fiscale". Tra l’altro, conclude la Garante, "sul tema la Commissione ministeriale per le questioni penitenziarie aveva chiesto che venisse stabilito l’obbligo, al momento non esistente, di apporre lo scontrino fiscale a ciascuna richiesta del detenuto proprio al fine di operare il controllo sui prezzi praticati". Potenza: i Radicali in visita al carcere denunciano situazioni di sofferenza e di disagio trmtv.it, 12 luglio 2016 Un’accusa precisa all’indirizzo del Magistrato di sorveglianza di Potenza è stata mossa da Rita Bernardini, Presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino, "perché - ha detto - ritengo non svolga i compiti che gli sono istituzionalmente assegnati". Nel carcere di Potenza infatti, secondo i Radicali che hanno effettuato una visita le condizioni sono di sofferenza e di disagio. Nelle celle non c’è acqua calda e in alcuni casi vi sono letti a castello, "gabinetto a vista" oppure bagni senza finestre né impianti di aerazione e molti muri sono "scrostati". Gli educatori - "molto importanti considerato il numero elevato di persone che scontano una pena definitiva", ha sottolineato Bernardini - sono solo tre sui sette previsti e "lo psichiatra della Asl fa quello che può in dieci ore di attività al mese, di fronte ad un numero consistente di detenuti con problemi di varia importanza". Nel carcere di Potenza, infine, i detenuti rimangono nelle celle 18 ore al giorno, con quattro ore di "passeggio" e due di "socialità", perché non è in vigore la "sorveglianza dinamica". Il segretario dei Radicali lucani, Maurizio Bolognetti (alla conferenza stampa ha partecipato anche il presidente della Provincia di Potenza, Nicola Valluzzi), citando dati resi noti nelle relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, ha evidenziato la condizioni della giustizia penale e civile nel distretto e ha definito l’amnistia "necessaria e indispensabile per uno Stato criminale". Rimini: la Garante regionale "Magistrato sorveglianza non incontra detenuti da un anno" di Jacopo Frenquellucci Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2016 La figura di garanzia dell’Assemblea si è incontrata con la Garante del Comune di Rimini. Critici anche gli avvocati penalisti. Sono passati sei mesi dall’ultimo appello, datato febbraio 2016, della Garante delle persone private della libertà dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, sull’assenza del magistrato di sorveglianza competente per il carcere di Rimini (insieme a quello di Forlì e Ravenna), e già allora era da più di un anno che i detenuti non avevano modo di incontrare il magistrato: un problema che ha influito soprattutto sulle istanze di provvisoria concessioni di misure alternative alla detenzione, peraltro senza essere possibile una celere fissazione della camera di consiglio del tribunale, proprio perché spesso non vi era un formale provvedimento di rigetto. Sul tema, "caldo e ben più volte rappresentato a chi di competenza" la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa si è confronta con la Garante comunale di Rimini, Ilaria Pruccoli, dopo che la vicenda è stata segnalata anche dal Coordinamento regionale delle camere penali dell’Emilia-Romagna nel documento che spiegava le ragioni della loro astensione dalle udienze il 12 e 13 luglio. "Le problematiche maggiori si rilevano nella gestione delle istanze di permesso, di liberazione anticipata ordinaria e speciale e nella totale non applicazione della legge 199 sull’esecuzione domiciliare delle pene", scrivono gli avvocati penalisti. "Oggi la situazione di sostanziale paralisi dell’Ufficio è ancora più grave in quanto il dottor Raffa svolge funzioni di presidente, e ciò ha determinato l’impossibilità di sottoporre allo stesso qualsiasi situazione afferente istanze o procedimenti, in quanto ha interrotto i colloqui con i difensori". Bologna: la Garante regionale "situazione gravissima al Tribunale di sorveglianza" di Jacopo Frenquellucci Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2016 Secondo la figura di garanzia dell’Assemblea "l’insufficienza dell’organico ha comportato ai detenuti sofferenze in preoccupante aumento". Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, condivide le ragioni della scelta del Coordinamento regionale delle camere penali dell’Emilia-Romagna di astenersi dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per il 13 e il 14 luglio e di fissare per il 13 una manifestazione regionale degli avvocati penalisti a Bologna per protestare contro "la situazione gravissima e insostenibile nella quale versa ormai da troppi anni il Tribunale di sorveglianza di Bologna". Come scrivono i rappresentanti di tutte le camere penali locali nella delibera con cui sanciscono l’astensione, la condizione del tribunale "comporta pesanti ricadute sul diritto di difesa, ormai ampiamente menomato, e sui diritti delle persone coinvolte in procedimenti di competenza della magistratura di sorveglianza, soprattutto in relazione agli inaccettabili ritardi che si riscontrano anche nella decisione di istanze di semplice risoluzione, come quelle di riabilitazione". Inoltre, proseguono gli avvocati, "non sono meno gravi i ritardi nella decisione di istanze volte ad ottenere misure alternative alla detenzione di soggetti liberi, con ingiustificata attese di anni e anni nella definizione dei procedimenti", e a ciò si aggiunge "la condizione dei detenuti, i quali spesso non hanno un magistrato di sorveglianza a cui poter fare riferimento per un colloquio o per la decisione di un reclamo". Proprio a questo fa particolare riferimento Desi Bruno per motivare la sua condivisione del dissenso dimostrato dai penalisti: "I ritardi nelle decisioni su reclami e istanze mi è stato segnalato da detenuti e ristretti di tutta l’Emilia-Romagna con numerose lettere collettive- commenta la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa-. L’insufficienza dell’organico ha comportato ai detenuti sofferenze in preoccupante aumento, nonostante l’impegno del magistrato supplente a fare fronte a una situazione critica e che presenta realtà difficili come la Casa lavoro di Castelfranco, le due Rems e il reparto ad Alta sicurezza di Parma". Trapani: al carcere di Castelvetrano una sala dedicata ai bimbi migranti morti Giornale di Sicilia, 12 luglio 2016 È stata dedicata alle decine di bambini migranti che hanno perduto la vita nel corso dei viaggi sui barconi che solcano quotidianamente il Mediterraneo la nuova sala colloqui pedagogica della casa circondariale di Castelvetrano dove altri bambini, i figli dei detenuti, potranno incontrare i loro papà. Al termine del corso di arti grafiche e computerizzate organizzato dall’associazione Euro di Palermo, finanziato dalla Regione e cofinanziato dal Fondo sociale europeo, otto detenuti hanno dipinto sulle pareti della stanza gli animali protagonisti di quattro favole di Esopo. Obiettivi dell’iniziativa sono stati quelli di favorire la crescita personale e di migliorare le competenze professionali dei detenuti in modo che esse possano essere utilizzate nel mondo del lavoro una volta che concluderanno l’espiazione della pena. Torino: nel Cie di Corso Brunelleschi le condizioni sono al limite della vivibilità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2016 Il centro di identificazione ed espulsione di corso Brunelleschi, a Torino, continua a destare preoccupazione per il mancato rispetto dei diritti umani. A denunciarlo durante la conferenza stampa del 27 giugno è stato Bruno Mellano, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, assieme a Monica Cristina Gallo, Garante dei detenuti per il Comune di Torino. "I Cie non possono più essere luoghi dove non esiste rispetto dei diritti umani e delle libertà. Nel compito del Garante regionale dei detenuti c’è il monitoraggio di queste strutture, nella nostra ultima visita del 23 giugno al Cie di corso Brunelleschi abbiamo trovato una situazione ancora peggiore di marzo. Dobbiamo intervenire su una detenzione amministrativa di dubbia valenza costituzionale, anche costruendo buoni rapporti con la Questura e la Prefettura", così Bruno Mellano ha aperto la conferenza stampa organizzata in collaborazione con il Garante del Comune di Torino, Medici per i Diritti Umani (Medu) e associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (Asgi). Attualmente la struttura, a fronte di una capienza residua (a seguito di incendi e danneggiamenti), ospita 43 persone in prevalenza provenienti dal Nord Africa, di cui 37 con precedenti penali. "Durante la visita abbiamo trovato unità abitative fatiscenti - ha spiegato Monica Cristina Gallo, Garante dei detenuti per il Comune di Torino - la mia intenzione è, subito dopo le visite di monitoraggio, approfondire quali sono gli obiettivi per cui una realtà come il garante va in visita in un Cie, a partire dall’assistenza legale e altre tutele, anche in mediazione con il carcere". Per Marco Zanchetta di Medu, corso Brunelleschi rispecchia il panorama nazionale. In Italia ci sono 4 Cie attivi sui 13 previsti. A Torino si verificano continue sommosse a causa della situazione invivibile, il clima di tensione è una costante, non esiste forma di ricreazione o impegno culturale. Anche la situazione sanitaria è drammatica, non c’è più la convenzione con l’AslTo1 per le visite mediche, non c’è assistenza psicologica per le persone che hanno subito tortura o violenze. Insomma, i Cie sono centri inefficaci dal punto di vista degli obiettivi preposti, cioè identificazione ed espulsione". Il Cie di corso Brunelleschi è stato al centro dell’attenzione per le numerose proteste messe in atto dagli immigrati ristretti, supportate all’esterno dal movimento anarchico torinese. Diverse aree del centro sono diventate inagibili a causa degli incendi provocati dagli immigrati: dopo l’Area bianca, bruciata a febbraio, anche l’Area blu del Cie non potrà più rispettare la capienza massima di 35 posti. Fino alla scorsa settimana ? come riscontrato dai garanti - ospitava 17 persone. Il Cie in questione continua a consumare denaro pubblico con grande voracità. Aperto nel 1999 e gestito in appalto dalla Croce Rossa, il centro è passato da 90 a 180 posti con un ampliamento costato 13 milioni di euro nel 2011. Nel 2014, l’associazione temporanea di imprese composta dalla società francese Gepsa, leader nella gestione dei penitenziari e dei servizi ausiliari, in cordata con la Associazione Acuarinto di Agrigento, si è aggiudicata al massimo ribasso e senza alcuna concorrenza l’appalto triennale avviato nel 2015. La gestione dei Cie, infatti, viene man mano affidata alla Gespa, una multinazionale francese. L’ingresso ufficiale di Gepsa nel mondo della reclusione in Italia non è una novità di poco conto. Gepsa, filiale di Cofely, società a sua volta appartenente alla multinazionale dell’energia Gdf-Suez, è stata creata nel 1987 per poter sfruttare le possibilità che lo Stato francese stava allora offrendo alle imprese private di partecipare al mercato della gestione e costruzione dei penitenziari d’Oltralpe. Un’apertura al privato legata alla decisione dello Stato francese di aumentare il numero dei posti disponibili nelle sue prigioni, cui Gepsa in questi anni ha sicuramente fornito un contributo importante, tanto da esser considerata come uno dei partner principali dell’Amministrazione Penitenziaria. Il suo acronimo rivela che è specializzata nella "gestione dei servizi ausiliari negli stabilimenti penitenziari" ed effettivamente, in quella che è la logistica della detenzione, Gepsa fa un pò di tutto: manutenzione generale e degli impianti elettrici, idraulici e termici, pulizia dell’edificio, consulenze informatiche, cura degli spazi verdi, vitto, trasporto e lavanderia per i detenuti, ristorazione per il personale carcerario. Altra attività in cui Gepsa si distingue è lo sfruttamento del lavoro dei detenuti attraverso la gestione di numerose officine all’interno dei penitenziari. Attualmente la Gepsa, in Francia gestisce 34 carceri e 8 Centri per immigrati senza documenti per una superficie pari a 715 000 m², e partecipa ad un consorzio per la costruzione e la gestione di altri 4 penitenziari, che garantisce il lavaggio di quasi 8 tonnellate di indumenti e la preparazione di 14500 pasti al giorno. Sono 400 infine i suoi dipendenti. Cifre che aiutano a dare un’idea di cosa sia Gepsa e che la rendono una della possibili candidate a diventare quel gestore unico dei Cie di cui ormai da tempo le autorità discutono. L’eventualità che Gepsa diventi il futuro gestore unico dei Cie italiani o anche solo che sostituisca la Croce Rossa nella gestione di un gran numero di Centri è reale. Pescara: "La città" di Voci di dentro, un progetto sperimentale nel carcere di Francesco Lo Piccolo felicitapubblica.it, 12 luglio 2016 Lo possiamo chiamare in una decina di modi. Possiamo chiamarlo carcere o istituto penitenziario, casa mandamentale o casa circondariale, casa di reclusione o casa penale, carcere speciale o supercarcere, istituto penale minorile o casa di lavoro. Potremmo continuare e trovare altre definizioni, ma il risultato non cambia: è un luogo che, in grande sintesi, da una parte serve a tranquillizzare le vittime e soddisfare quello che viene definito il senso di giustizia, dall’altra a punire chi commette reati, isolarlo dalla società, recuperarlo e reinserirlo (rieducato) una volta espiata la pena. Inutile dire che è un meccanismo che costa una montagna di soldi (due miliardi e mezzo all’anno) e che non ha certo grandi risultati (una volta scontata la pena e messi in libertà, quasi sette ex detenuti su dieci tornano a violare le leggi e ritornano in carcere. E non capita una volta, ma più volte. E spesso dopo aver compiuto un reato più grave di quello commesso la prima volta. Insomma un fallimento sia dal punto di vista dei conti economici, sia dal punto di vista degli effetti reali). È a partire da queste considerazioni, peraltro condivise da tanti che si occupano di sistema penale, che nel carcere di Pescara, l’associazione Voci di dentro ha proposto alla direzione e avviato un progetto sperimentale chiamato "La città". Una specie di isola dentro il carcere (6 grandi stanze e un lungo corridoio) che vuole essere un luogo il meno possibile simile a un carcere (sezioni e celle dove stanno i detenuti, solo loro) e il più possibile simile a una città con le sue strutture (scuola, posto di lavoro, biblioteca, piazza, bar, cinema, eccetera, frequentato oltre che dai detenuti dai volontari dell’associazione, studenti, docenti, uomini e donne, ragazzi e ragazze). Il progetto è partito due anni fa, grazie anche all’aiuto di un gruppo di universitari dell’Associazione "Viviamolaq": in pochi mesi detenuti e volontari hanno arredato e dipinto i locali e tutte le mattine dalle 9 alle 12, ma con la prospettiva di estendere il progetto a tutta la giornata, una trentina di detenuti hanno cominciato a fare i conti con questa realtà. Una realtà che in definitiva altro non è che un posto normale che mette al primo posto le relazioni tra le persone. Un non-carcere, un luogo di senso per rompere l’isolamento del detenuto, per liberarlo dal gruppo che si forma in carcere e che è uguale a quello che c’è fuori nei rioni degradati di Napoli, nei quartieri dove vivono i rom, nelle strade dello spaccio. Certo, "La città" non è partita subito con queste idee, inizialmente c’erano solo l’aula studio, l’aula lavoro, l’aula bar, l’aula giornalismo. È col tempo che le cose sono cambiate. Per i volontari dell’associazione Voci di dentro e per i detenuti. Per quanto riguarda i volontari si è modificato il loro modo di essere. Non più soci di un’associazione vecchia maniera a spot con piccoli progetti o corsi, ma progetto complessivo dove ciascuno opera insieme agli altri modificando giorno dopo giorno la stessa realtà. A piccoli passi, momento dopo momento si sono create dinamiche, relazioni, rapporti inaspettati oltre che insperabili in una istituzione totale come quella del carcere. Un cambiamento che ha coinvolto anche i detenuti. Per loro ha significato uscire dalla passività del loro ruolo per diventare attivi o almeno cercare di diventarlo. Cosa non facile, anzi la più difficile. Perché passivi e detenuti si diventa: per difendersi, per resistere, per sopravvivere. E allora non resta che adattarsi: all’interno del clan, in cella o in sezione, relazionandosi con gli altri detenuti, si continua ad essere quello che si è stati fuori, mentre davanti all’agente o davanti all’educatore o direttore si finge di essere cambiati per ottenere un qualche beneficio. Per il resto è solo un aspettarsi, un chiedere e un non dare, tenendosi stretta addosso la corazza o l’abito del carcerato. Un vestito che in realtà traveste, che conferma una identità. Un vestito dal quale bisogna invece spogliarsi…perché solo così si può cambiare, si può comprendere l’errore e finalmente uscire dal carcere, dalla cosiddetta carcerite, e una volta per tutte. Questo in definitiva sta cercando di fare "La città". Un cambiamento enorme. E a due anni dall’inizio, tra alti e bassi, delusioni, battute d’arresto e ripartite, qualcosa sta funzionando, il seme del cambiamento è piantato. Certo va coltivato, va curato, giorno dopo giorno, ma la volontà non manca, soprattutto non mancano le forze. Tante e fresche. Perché l’altra novità di questo progetto è l’aiuto che viene dall’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara. Grazie a una convenzione con il corso di laurea di psicologia e di sociologia-criminologia, sono decine gli studenti della triennale e della magistrale che prendono parte attiva al lavoro di Voci di dentro. Sono tirocinanti e stagisti, i loro studi sono verificati sul campo, ma soprattutto sono persone della società che si relazionano con altre persone e che portano il mondo di fuori nel mondo di dentro, rompendo appunto quell’isolamento che non porta e non ha mai portato a nulla di buono. Grazie a loro sono stati avviati decine di laboratori come quello di immagine, di fotografia, di scrittura e lettura, la sartoria. Non corsi, ma incontri, e poi dibattiti sul sé e sull’altro, sulle cose e sulla vita. Marianna, una delle tirocinanti ha scritto: "In carcere non è facile concedersi alla consapevolezza delle proprie emozioni, in carcere non ci si ascolta, ma si sopravvive in mezzo alla rabbia, alla frustrazione ed ai rimorsi che giorno dopo giorno affliggono le persone detenute come una goccia che scava nella roccia. L’obiettivo del nostro progetto è quello di aiutare i ragazzi a non aver paura di emozionarsi e di esprimere liberamente tutte le emozioni senza barriere o vincoli". E in uno dei testi del laboratorio di scrittura un detenuto ha scritto: "Qui si torna a vivere, a ridere, qui a "La città" si riscoprono valori dimenticati, ci si riconcilia con gli altri, si scopre la vita che abbiamo buttato via e che domani potremo finalmente riavere…diversa". Diversa, proprio così. Una vita fuori dagli schemi e dalle gabbie, senza i marchi che vengono imposti e che per tanto tempo sono serviti per nascondersi. Insomma, questo il progetto de "La città": un’isola per superare il carcere e dare orizzonti e futuro a delle persone che inutilmente vivono in uno spazio e in un tempo morti, soggetti e non più oggetti. Affinché la pena non sia una pena a vita. Salerno: detenuto islamico si barrica in cella. Il Sappe: vogliamo anche qui l’esercito Il Mattino, 12 luglio 2016 Tre episodi di violenza a distanza di poche ore. È allarme all’istituto penitenziario di Fuorni. E il Sappe, dopo l’ennesima giornata di sommossa, chiede (provocatoriamente) l’invio dell’esercito anche in carcere. "Gli eventi critici" come si precisa nella nota, sono accaduti domenica. Il primo episodio si è verificato intorno alle 15 nella prima sezione quando uno straniero, detenuto con incarico di lavorante, è stato aggredito selvaggiamente da altri detenuti. L’immediato intervento della polizia penitenziaria ha fatto sì che l’ordine potesse ristabilirsi immediatamente e, nel frattempo, sono state avviate serrate indagini per capire quale siano i motivi alla base della violenza. Nello stesso reparto, poco dopo, un detenuto islamico si è barricato all’interno della cella, nello stesso reparto, mettendo le reti dei letti a protezione dell’ingresso e scagliando con gli agenti oggetti di diverso genere. Per fortuna, senza colpire nessuno. È stato però necessario intervenire per "convincerlo" a resistere dai suoi intenti aggressivi. Ma la trattativa è andata avanti per tutta la notte. E sempre domenica, ma nel reparto femminile, una detenuta ha aggredito due agenti e l’ispettore di sorveglianza generale con schiaffi e graffi. Le tre poliziotte sono state medicate e refertate senza, per fortuna, alcuna conseguenza grave. La donna aveva preso un estintore e lo ha svuotato in reparto creando caos tra le detenute. Intervista a Edoardo Albinati: vi spiego dov’è il vero successo del volontariato di Claudia Farallo retisolidali.it, 12 luglio 2016 Fare i conti con il fallimento non è facile, eppure il disincanto aiuta a lavorare nelle situazioni più difficili. E il successo è una briciola. Fallimento e volontariato. Edoardo Albinati, vincitore del Premio Strega 2016 con il libro "La scuola cattolica", insegnante in carcere e ospite dell’ultima assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, parla con "Reti Solidali" di Questo stretto legame. "Diffido delle persone convinte di poter cambiare tutto, perché più dall’alto si cade e più pesante è il tonfo", dice, ma rassicura: "Già andare in pareggio, non peggiorare il mondo, sarebbe un risultato straordinario". All’ultima assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha parlato dello stretto legame che esiste tra fallimento e volontariato. Ci spieghi meglio… "Nel caso del volontariato in carcere il fallimento è in agguato su due lati. Il primo è legato alle persone per cui si lavora, i detenuti, che se sono reclusi è perché hanno avuto una caduta, un incidente di percorso, un errore di fondo nella loro vita. Il fallimento non ha neanche bisogno di essere spiegato: è in atto. Quello invece dal lato dei volontari è legato all’incertezza dei risultati del proprio operare. Questo andrebbe messo in conto fin dall’inizio, e le persone più avvedute lo fanno. È uno strano caso quello del volontariato: si nutre di un’illusione, ma al tempo stesso deve essere sufficientemente disilluso o disincantato per poter operare sul serio in situazioni molto spesso difficili o emergenziali, dove uno spirito di ottimismo puro e cieco provocherebbe più guai di quante buone cose potrebbe combinare". Quindi è più una premessa necessaria per evitare illusioni o è davvero inevitabile? "Si può vedere da due punti di vista. Uno meramente statistico: se lo misuriamo con i numeri, il fallimento non è inevitabile, ma è più che probabile. Lo mostra l’alta recidiva dei reati commessi: cosa sono riuscito a cambiare della vita delle persone se poi tornano a delinquere? Poi c’è invece il fallimento dell’ideale stesso di una riabilitazione, che se viene posto troppo in alto lo si manca per forza. Diffido delle persone convinte di poter cambiare tutto, perché più dall’alto si cade e più pesante è il tonfo. L’incertezza è un dato di partenza, ma è anche una scommessa positiva, perché è proprio nell’interstizio di questa incertezza che poi si riescono a fare le cose. La pienezza è impossibile nella vita e in qualsiasi lavoro, in quella dei volontari lo è ancora di meno. Occorre la piena consapevolezza che anche un briciolo di risultato è uno intero e non è invece un aver mancato tutto il resto". Ridimensionare le aspettative. Ma quale motivazione allora può spingere il volontario a impegnarsi tanto? Perché lo facciamo? "Perché vogliamo spendere noi stessi. Sono cose che si fanno a perdere se stessi e in parte anche contro se stessi. Non è calcolabile in modo utilitaristico. Faccio qualcosa e magari 9 obiettivi su 10 li manco, ciò non toglie che l’energia è stata impiegata, il tentativo è stato fatto e 1 ostacolo su 10 è stato superato. Già andare in pareggio - non peggiorare il mondo - sarebbe un risultato straordinario. Trovo più idealistico e nobile questo atteggiamento rispetto a quello, invece, che vorrebbe avere tutto e se non raggiunge questo tutto poi rimane frustrato". Non si rischia una spirale di frustrazione? Come se ne esce? "Non bisogna uscirne, bisogna starci dentro e viverla totalmente dall’interno. Apprezzo moltissimo il lavoro dei volontari. Io ho uno stipendio statale per fare l’insegnante e quindi potrei guardare anche un occhio critico queste persone il cui lavoro è reso gratuitamente. Ma nella gratuità c’è il massimo spreco inteso come dispendio di sé. La generosità è spendere se stessi senza avere nulla in cambio, se no non è più generosità. Senza provare compiacimento od orgoglio nell’atto di darsi, se no siamo d’accapo: è quella la ricompensa che uno cerca e allora tutta la nobiltà dell’investimento si perde". Come diceva lei stesso, i detenuti conoscono bene il fallimento. Quale insegnamento trasmettere? "C’è un primo aspetto terra terra: è stato commesso un errore e questo ha condotto a delle conseguenze pessime, non solo per loro, che sarebbero anche pronti ad accettarle, ma anche per le vittime dei loro reati e per i loro cari e i loro figli. Poi c’è anche il fatto di avere seguito, spesso in modo pedissequo, senza minimamente metterlo in discussione, un percorso che era un pò segnato per loro. È il caso di tutti quei detenuti che vengono da ambienti già criminali e criminogeni, dove non diventare delinquenti è quasi impossibile. È più difficile riuscire a rompere questa continuità esistenziale che era segnata fin dall’inizio". Ma possibile? "È sempre possibile farlo, per chi come me insegna, con le armi della cultura, che mostra la possibilità, sempre presente, di un destino e un percorso diverso: se non è stato fino ad adesso, forse lo sarà in un’altra parte della vita. Però sempre a partire dalla consapevolezza che se volevano diventare ricchi, fare i soldi e avere belle macchine, e non ci sono riusciti, o ci sono riusciti e poi sono finiti in galera, allora devono cessare di desiderare quello che non è possibile desiderare e non considerare questo come un fallimento. Prendiamo per esempio il lavoro: molti miei studenti detenuti, in realtà, il lavoro lo hanno schivato e schifato. Bisogna mostrare che una persona che lavora, anche se porta pochi soldi a casa, non è un fallito. Ho avuto molti detenuti giovani che dicevano: "Io non volevo fare la fine di mio padre che ha lavorato tutta la vita e non c’ha una lira". Consideravano le persone oneste come dei falliti. Bisogna anche rovesciare questo punto di vista, io gli dicevo: "E tu, che stai tre anni qua dentro, ti sembra di aver fatto un bel risultato?". Bisogna dirlo in modo crudo, diretto ed esplicito". Si rischia l’effetto del gioco d’azzardo? Sento di aver perso, allora rilancio e riperdo e così via, e dunque cado in un vortice di fallimento continuo e sempre più profondo? "Il Freud dell’"Al di là del principio di piacere" ci mostra chiaramente che noi dalle esperienze negative non sempre siamo allontanati, anzi tendiamo morbosamente a replicarle, quindi più affondiamo e più ci piace affondare. Più falliamo e più insistiamo nel nostro fallimento, anche perché cerchiamo di dimostrare che non è tale oppure finiamo per provare piacere nel fallire. Allora è importante rompere questo circolo vizioso, e lo dico per tutti noi, non solo per i detenuti. È compito dei volontari, degli insegnanti e dei detenuti per primi cercare di uscire da questa spirale viziosa. Quando si è totalmente derelitti, quando non si ha più alcuna fiducia in se stessi e ci si considera vocati al fallimento, c’è una specie di voluttà di perdersi: che me ne frega, tanto ormai sono destinato a questo e al diavolo tutto. Rompere questo circolo è un’impresa". E quindi è un successo. "Le poche volte che ci si riesce è un successo enorme. Ma spesso è il detenuto che lo compie da solo, ha solo bisogno di qualcuno che lo stia a guardare mentre lo fa. Quindi forse anche il nostro compito non è nient’altro che accompagnarlo". Allora possiamo dire che il successo è anche interrompere una spirale di fallimento. Magari nessuno se ne accorgerà, ma la nostra vita acquisirà lì la dimensione del successo. "Diventerà una vita che merita di essere vissuta". Noi e il mondo arabo: gli errori sul confine del mare di Massimo Franco Corriere della Sera, 12 luglio 2016 La miscela composta da bomba demografica più terrorismo di matrice islamica sta rimodellando la frontiera geopolitica europea. E costringe a ristabilire gerarchie strategiche che sembravano archiviate. Dopo l’entusiasmo per l’"allargamento a Est" tra il 2004 e il 2008 e le vecchie e nuove pulsioni antirusse della Polonia e dei Paesi baltici, si era assistito a una torsione del Vecchio Continente. Il "cuore" geopolitico si era spostato a Nord e nell’area orientale. E il Mar Mediterraneo era stato declassato a periferia irrilevante, facendo perdere qualsiasi centralità al fronte meridionale europeo. Di questi equilibri, il vertice della Nato appena chiuso a Varsavia doveva celebrare la consacrazione. Invece, di colpo è apparso eccentrico rispetto alle sfide che l’Europa ha davanti. La riunione nella capitale polacca si è presentata come un prolungamento postumo della Guerra fredda, mentre il "muro liquido" che corre dalla Turchia alla Spagna, e dal Libano al Marocco, rivendica il proprio primato. Lo Stato Islamico costringe a riconoscere gli errori dell’Occidente e le contraddizioni di molti Paesi arabi; e a riportare l’attenzione nel profondo Sud marittimo. Ci si era illusi per qualche anno di poter trascurare quel "Mare Nostrum" ribattezzato "Mare Mortuum" pensando ai migranti annegati nella traversata. Da quella sottovalutazione colpevole è spuntato come un virus letale e globale lo Stato Islamico. E il Mediterraneo si conferma il luogo nel quale si specchia il Vecchio Continente: anche quando si rifiuta di farlo, fingendo che quanto accade in quelle acque riguardi l’Italia o la Grecia e la Spagna, e non Germania o Olanda; e che coordinare le politiche mediterranee sia una sorta di carità economico - strategica concessa ai sobborghi poveri europei, e non a se stessa. La storia si sta prendendo un’amara rivincita. Il fronte sud si ripropone come epicentro delle ambizioni marittime della Federazione Russa, e di una migrazione di dimensioni epocali e strutturali; e soprattutto del terrorismo. Quando si riuniscono a Roma quarantatré Parlamenti dell’Unione per il Mediterraneo sotto la presidenza degli italiani Piero Grasso (Senato) e Laura Boldrini (Camera), e si accorgono di avere interessi comuni ma di essere divisi, il ritorno alla realtà è brusco: brusco ma salutare. Costringe a rileggere parole come dialogo e cooperazione in modo meno superficiale; a chiedersi se le "primavere arabe" del 2011 siano sfiorite solo per la litigiosità tribale, o anche per egoismi e miopia occidentali. Domande non oziose, se in Tunisia l’esperimento della democrazia ha successo, mentre è fallito in Libia e in Egitto. Vista da lì, l’Europa è un vicino egocentrico, litigioso eppure indispensabile. Diviso da una vistosa frattura tra nazioni di Nord e Sud; eppure chiamato, nelle parole del Premio Nobel per la pace, il tunisino Abdessattar Ben Moussa, a "una strategia consensuale contro il terrorismo". Forse perché il jihadismo, secondo il sociologo Olivier Roy, "è l’unica ideologia globale" anti-sistema. E molti dei ventimila "combattenti stranieri" dell’Isis percorrono le rotte mediterranee. Si tratta, per il sottosegretario ai servizi segreti, Marco Minniti, della più numerosa "legione straniera" mai conosciuta. Per combatterla serve un coordinamento che non può permettersi distinzioni tra Est e Ovest; e soprattutto deve sancire "un’alleanza chiara e netta con il mondo arabo. Altrimenti si perde". Sarà una sfida prolungata, che richiede un "pensiero lungo" quanto quello, aberrante e sanguinario, che l’Isis cerca di inculcare col suo califfato. In questo conflitto, il Mediterraneo avrà il ruolo di confine cruciale. E l’Italia, lo voglia o no, ne sarà l’avamposto. Populismo e xenofobia: ecco le cause di Fabrizio Cicchitto Il Dubbio, 12 luglio 2016 L’Occidente sta vivendo una fase di grande difficoltà derivante da fattori oggettivi e soggettivi. Quelli "oggettivi" sono gli imprevisti riflessi della globalizzazione, il terrorismo islamico e il conseguente fenomeno dell’immigrazione di massa. Quelli "soggettivi" sono costituiti per un verso dalla politica economica austera e rigorista imposta dalla Germania che - insieme ai fattori "oggettivi" prima richiamati - è fra le cause dell’esplosione di populismo, di razzismo, di lepenismo che è in atto in Europa. L’altro elemento soggettivo è costituito dal sostanziale fallimento politico, per ragioni quasi opposte, degli ultimi due presidenti degli Usa, Bush jr e Obama. Bush jr ha sbagliato due volte in Iraq, in primo luogo intervenendo, in secondo luogo, una volta intervenuto, procedendo allo scioglimento dell’esercito e del partito Baath, di fatto consegnando il paese agli sciiti e all’influenza dell’Iran, in questo modo rovesciando quella che era la strategia di fondo degli Usa. Questa catena di errori è fra le cause del terrorismo di marca sunnita, che da un certo momento in poi si è tradotto nell’Isis o Daesh che dir si voglia, cioè in un terrorismo divenuto esercito, conquista del territorio e quindi un atipico stato, prima in Iraq, poi in Siria (e anche lì gli errori statunitensi sono stati rilevanti). Per parte sua, a nostro avviso, Obama ha fatto errori di opposto segno a quelli di Bush jr in politica estera e adesso vediamo con grande preoccupazione (perché la vittoria di Trump sarebbe pericolosissima) anche in politica interna. Nel 2011 in Libia Obama ha sostenuto la linea interventista della Gran Bretagna e della Francia che fu contrastata in modo esplicito dalla Germania (Berlusconi era nel suo foro interno contrario sia all’intervento militare in Iraq sia a quello in Libia, ma non esplicitò mai quei dissensi). Invece successivamente egli ha posto in essere un affrettato ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq e dall’Afghanistan, dovendo poi parzialmente contraddirsi perché talebani e Isis stavano nuovamente dilagando. Di conseguenza in entrambi i paesi in extremis gli Usa sono stati costretti a mettere in campo nuove forme di intervento. Se Dio vuole in Siria Obama ha commesso errori ancora più gravi. Checché affermi la propaganda russa, Assad è un criminale che ha provocato la morte di circa 240mila siriani, che ha favorito la crescita di Isis per emarginare le altre opposizioni e che ha provocato migrazioni di massa. In effetti in Siria era esplosa una genuina rivoluzione democratica fatta dai poveri, dai ceti medi, da una parte dell’esercito. Quella rivoluzione laica si rivolse all’Occidente che girò lo sguardo dall’altra parte. Nel 2013, in seguito all’uso da parte di Assad delle armi chimiche, Obama ebbe l’occasione di intervenire militarmente: non lo fece lasciando a Putin uno spazio enorme, da questi subito riempito per affermare il ruolo di grande potenza della Russia. Così in Siria, in seguito alla défaillance americana, è avvenuto che da un lato si è innestata sulla rivoluzione siriana l’azione jihadista che insieme al gioco tattico della Turchia, ha favorito la nascita dell’Isis, dall’altro lato la Russia e l’Iran hanno sostanzialmente salvato il regime di Assad. Il risultato è che oggi in Siria le carte le sta dando in larga parte Putin e che solo con grande ritardo Obama ha cambiato la sua linea sostenendo sul piano militare alcuni gruppi e inviando truppe d’élite. Il recente vertice di Varsavia si è dovuto misurare con questi problemi e con quelli derivanti dall’iniziativa russa nell’Europa del nord, con l’occupazione della Crimea e l’attacco militare all’Ucraina che prosegue sia pure a bassa intensità. Emerge in sede Nato un problema di fondo. Sia la Russia, che la Cina, in scacchieri molto diversi, si muovono secondo una logica geopolitica di grandi potenze talora contrapposte agli Usa e all’Occidente (in Europa Putin sostiene tutte le forze populiste, in primis Le Pen, la Lega Nord e adesso il Movimento 5 Stelle, nel mare della Cina questa punta ad affermare la sua piena egemonia). Allora valutare e gestire le sanzioni in una chiave puramente economica è un tragico errore. Prima le sanzioni e adesso i limitati stanziamenti di truppe Nato in Polonia e in altri paesi baltici non sono un’operazione aggressiva, ma casomai un’operazione difensiva volta a inviare un preciso segnale a Putin perché blocchi la sua crescente aggressività. Non a caso le sanzioni sono state proposte dalla Merkel: è notorio che la Germania ha un atteggiamento morbido nei confronti della Russia, ma questa flessibilità non può tradursi in arrendevolezza e subalternità alle altrui intenzioni aggressive. In questo quadro Brexit è una tragedia, e un’altra tragedia è quello che sta avvenendo negli Usa. A questo proposito credevamo che, iniettando liquidità nel sistema, Obama avesse superato la crisi finanziaria del 2008. Così evidentemente non è se gli Usa sono spaccati in più spicchi: da un lato i bianchi anziani che si riconoscono in Trump e i giovani nel "socialismo" di Sanders: entrambi odiano l’establishment e i primi anche i "blacks". Dall’altro lato c’è una polizia razzista che usa le pistole laddove anche la più dura e aggressiva polizia europea userebbe gli sfollagente, gli idranti e i lacrimogeni. Infine la comunità nera contesta Obama per non aver in alcun modo disinnescato la bomba "razzista" e per altro verso è anch’essa solcata da una drammatica contrapposizione perché quello che oggi non si dice è che molti giovani negri muoiono per gli scontri armati fra le loro gangs. Conclusioni: ci auguriamo vivamente che tutto quello che sta accadendo non rafforzi Trump perché se egli diventasse presidente degli Usa potrebbe accadere di tutto. Seconda conclusione: oggi Barroso è stato assunto come alto dirigente della Goldman Sachs, ieri Schroeder è diventato un manager di primo piano della russa Gazprom. Ogni commento è inutile. Emmanuel, pianti e ipocrisia di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 luglio 2016 Fermo. I funerali della vittima, mentre Amedeo Mancini resta in carcere per omicidio preterintenzionale aggravato dall’odio razziale. La responsabilità morale, almeno quella, l’ha ammessa. Amedeo Mancini, sentito ieri mattina dal Gip di Fermo che ne ha convalidato l’arresto per omicidio preterintenzionale aggravato dall’odio razziale, ha sì negato ogni addebito di carattere giuridico, però allo stesso tempo non è riuscito a non dirsi responsabile per quanto accaduto a Emmanuel Chidi Namdi, il 36enne nigeriano morto di botte mercoledì scorso nei pressi del Seminario. Il suo avvocato, Francesco De Minicis, probabilmente imposterà la difesa parlando di legittima difesa da parte di Mancini, ma non ha potuto negare la natura del gesto, assestando uno schiaffo ai tanti fan dell’ultima ora, nascosti su Twitter dietro l’hashtag #IoStoConAmedeo o estensori di improbabili tesi sul "razzismo al contrario", cioè contro gli italiani, con la vittima che diventa carnefice e il carnefice spacciato per vittima del buonismo. Per il tribunale di Fermo, comunque, non esiste il pericolo di fuga dell’indagato, ma c’è la possibilità che Mancini possa inquinare le prove o reiterare il reato e per questo rimarrà nel supercarcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno. Il 38enne fermano dalle conclamate simpatie di estrema destra - malgrado i tanti che provano a negare o a minimizzare, i social network ormai pullulano di sue foto a manifestazioni di Casapound e altre fascisterie varie - si è anche detto disponibile a lasciare i propri beni (un terzo di una casa colonica e un appezzamento di terreno) a Chimiary, la moglie della vittima, la donna che lui aveva chiamato "scimmia" prima dello scontro mortale con Emmanuel. "L’inchiesta stabilirà se e quanta responsabilità penale ha Amedeo - ha detto De Minicis, se e quanta consapevolezza del valore delle proprie azioni aveva quando le ha commesse. Quando ha parlato con il giudice era provato e sincerissimo: è un uomo che sta anche lui tra gli ultimi della terra". Domenica pomeriggio, intanto, è andato in scena il funerale della vittima. Il Duomo di Fermo era pieno di autorità (il sindaco Paolo Calcinaro, svariati politici locali, la presidente della Camera Laura Boldrini, Maria Elena Boschi, Cecile Kyenge), di forze dell’ordine, di ragazzi rifugiati che indossavano fascette rosse simbolo di lutto. C’era anche (almeno) una parte della città, quelli cioè che sono riusciti a non rimanere indifferenti davanti a un omicidio dal chiaro carattere razzista avvenuto a due passi da casa. Corone di fiori, messaggi di cordoglio, canti africani e addirittura una nota del governo nigeriano: "Speriamo che questa sia l’ultima morte di questo tipo". Chimiary, vestita di bianco in prima fila, si è anche sentita male. Ricominciare non sarà facile per lei, anche se si registrano alcune iniziative di solidarietà: dall’Università di Ancona che si è detta disposta a farle proseguire gli studi in medicina a quella di Perugia che la aiuterà a perfezionare il suo italiano. Don Vinicio Albanesi, il prete di frontiera che ha accolto e sposato la coppia di nigeriani, in coda alla funzione ha ribadito che non resterà in silenzio a guardare come pure qualcuno gli aveva chiesto. È una risposta alla provincia crudele, più attaccata alla difesa del proprio buon nome che alla necessità di riflettere sui propri conflitti e le proprie contraddizioni. "C’è chi prende voti con il razzismo", ha detto l’ex ministra Kyenge. Bella scoperta, i semi dell’odio sono sparsi ormai ovunque e i germogli portano la loro dose di sangue e di dolore. "Ammettiamolo: se qualcuno ritiene di potersi rivolgere impunemente a una persona diversa da sé con l’epiteto di "scimmia africana" - sintetizza bene il consigliere comunale a Fermo Massimo Rossi -, è perché sa di interpretare nel modo più esplicito e sincero il sentire di una parte della comunità". Oggi la città si fermerà in segno di lutto e in serata piazza del Popolo ospiterà una grande manifestazione di tutte le realtà antirazziste e democratiche delle Marche. Si cerca la risposta di un popolo che, a sorpresa ma neanche tanto, un giorno di luglio si è scoperto fragile, a disagio, imbarazzato. Tra le piccole fabbriche e la retorica del buon borghese, Fermo non è poi così diversa dal resto del Paese. Ora tutti non vedono l’ora di poter tornare alla normalità, ma l’omicidio di Emmanuel è una di quelle ferite destinate a lasciare una cicatrice impossibile da ignorare. Nell’odio una ragione di vita di Angelo Ferracuti Il Dubbio, 12 luglio 2016 Fermo, lo specchio dell’Italia. L’intolleranza qui iniziata con il pestaggio di due profughi somali, operai calzaturieri, davanti a un bar nell’indifferenza di molti, l’uccisione di due ragazzi kosovari ad opera di un mio conterraneo proprietario di 17 fucili, che poi si è suicidato in carcere, la piccola strategia della tensione orchestrata da gruppi di estrema destra contro le parrocchie (quattro attentati in pochi mesi) ree di ospitare profughi politici, e adesso l’omicidio di Emmanuel, un uomo già toccato da una storia dolorosissima come quelle di molte persone che scappano da conflitti bellici, guerre civili, persecuzioni. Quando Emmanuel Chidi Namdi è stato ucciso mi trovavo in vacanza in Croazia, e forse anche questa distanza fisica, l’impossibilità corporale di esserci, ha amplificato il mio disagio. L’idea che in una via centrale della mia piccola città dove passeggio tutti i giorni, e ho passeggiato tranquillo nei miei 56 anni di vita, sia diventato improvvisamente lo scenario di un omicidio a sfondo razzista mi ha creato un’angoscia infinita, ma anche un senso di impotente vergogna. Tornando a Fermo, ascoltando le parole del bar e i parlamenti degli amici, il telefono senza fili della piccola città, arrivando fino al luogo dell’omicidio, è come se quell’angoscia fosse diventata improvvisamente angoscia reale. Di fianco alla panchina con i fiori dove si è consumato il fattaccio, i bigliettini affettuosi, di fronte un cartello con una frase di Pier Paolo Pasolini, impressionante quanto vera: "Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre". Cresce un’intolleranza che è iniziata qui con il pestaggio di due profughi somali, operai calzaturieri, davanti a un bar nell’indifferenza di molti, l’uccisione di due ragazzi kosovari ad opera di un mio conterraneo proprietario di 17 fucili, che poi si è suicidato in carcere, la piccola strategia della tensione orchestrata da gruppi di estrema destra contro le parrocchie (quattro attentati in pochi mesi) ree di ospitare profughi politici, e adesso l’omicidio di Emmanuel, un uomo già toccato da una storia dolorosissima come quelle di molte persone che scappano da conflitti bellici, guerre civili, persecuzioni. In meno di due anni Fermo, nel cuore antico e mite della provincia italiana, ha prodotto queste brutalità, segno che la violenza del mondo globalizzato ormai non ha più limiti e confini, nessuno può più ritenersi al riparo, nemmeno in un luogo che ho sempre percepito nella mia vita come uno dei più sicuri, e lo era, e che nonostante questi ultimi, gravissimi fatti, è ancora un territorio civile, come lo pensava il mio amico fotografo Mario Dondero, uno che ha girato mezzo mondo e l’ha scelto come piccola patria. Questo significa che anche dentro le mura di quella che consideravo una cittadina democratica, mite, è cresciuto un odio politico che forse non ricordo dagli anni 70, quando gli scontri tra noi ragazzi di sinistra e quelli di destra finivano in una sberla data o presa, niente di più che qualche scaramuccia da Ragazzi della via Pal, mentre in contesti metropolitani poteva diventare tragedia. È quest’odio che mi interessa come scrittore ma soprattutto come cittadino, e quest’odio che voglio capire. Già il fatto che esiste e si è espresso, già il fatto di non essere riusciti a bloccarlo è una sconfitta per tutta la comunità e significa, intanto, che c’è stata un’evidente sottovalutazione del rischio e la perdita definitiva della nostra innocenza. Se poco più di cento profughi in una comunità di 40.000 persone, cioè una goccia in un mare, sono capaci di provocare tutto questo risentimento, tanto da spingere a compiere attentati a luoghi sacri e a uccidere, ci deve essere qualcosa di altro a spiegarlo. Forse sottovalutiamo, intanto, quello che è successo in Italia, e quindi anche a Fermo, negli ultimi trent’anni di vita della Repubblica, cioè il misto di consumismo e sottocultura che hanno provocato una ulteriore mutazione antropologica, seguiti ai crolli delle ideologie novecentesche, ben peggiore di quella di cui parlava Pasolini, o una sua prosecuzione barbarica, cioè l’abbassamento del senso critico e della cultura diffusa che hanno creato l’uomo consumistico e narcisista, l’imbecille perfettino, il devoto egoista dello spreco; a questo si aggiunga la lunga stagione del berlusconismo, che ha riattivato in tutto il paese quella cultura popolare di destra sopita e di senso comune ridandole fiato e veemenza solo per bassi scopi elettorali, ma che si è diffusa e radicata nel Paese nelle sue molteplici metastasi diventando sotterraneamente egemone. Basti pensare a quotidiani come Libero, che per oltre un ventennio ha dato becchime velenoso alle pance della "laida e meschina italietta" di cui parlava Giorgio Caproni, che non è mai morta, ma è più viva che mai. Per non parlare di politici leghisti come Salvini, che corre da nord a sud dell’Italia per fare la manutenzione del razzismo, o come Calderoli: "Quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango". A Fermo, tanto per dire, per dieci anni ha governato una giunta di centro-destra che ha alimentato questa cultura e occhieggiato agli estremisti di Casa Pound in più occasioni, come quando fu invitato in pompa magna il condannato per concorso in associazione mafiosa Marcello Dell’Utri a presentare il suo libro sulle lettere patacca di Benito Mussolini, accolto da industriali calzaturieri, giornalisti locali, politici. È il ventre antico e gretto, fascista del paese, riemerso come un miasma, come scoria tossica del ‘900, il più vergognosamente tradizionalista e nazionalista, mischiato all’ignoranza, all’analfabetismo di ritorno, alla mancanza di memoria storica, all’incuria delle coscienze, il fascismo postmoderno da curva sud, ruvido e barbarico quanto forte anche fuori dallo stadio. Conosco certi onesti e bravi padri e madri di famiglia dell’universale classe media, la loro devozione alla chiesa cattolica, magari, il battersi il petto la domenica, sognatori di merci superflue, conosco l’odio che può scatenarsi in un tinello davanti a uno schermo tv, le maschere facciali contro i meridionali, quelli della "bassa Italia", i "tripolini", contro i "negri di merda", li conosco e come questi nascosti benpensanti che fanno opinione diffusa ma che in pubblico si mostrano come irreprensibili democratici. È la vera zona d’ombra del Paese reale. Sono gli stessi che considerano le donne corpi privati da possedere. L’assassino di Emmanuel, Amedeo Mancini, è una testa calda di quartiere, orfano di entrambi i genitori, uno che ho visto girare più volte col suo pitbull e con il quale ho parlato, un povero cristo al quale hanno dato una ragione di vita nell’odio, perché la sua vita era niente, consisteva nell’allevare tori e girare nei bar, bere birra e ringhiare contro gli stranieri ai quali lanciava noccioline per dimostrare di esistere, e apostrofarli come "scimmie africane". È il prodotto di scarto di una società che ha saputo creare solo sottocultura, povertà intellettuale, disagio. Pronto a entrare in azione quando le trame della Storia gli hanno offerto una tragica chances. Altri sono i mandanti morali, altri sono gli ispiratori che stanno nella zona grigia della paura, ostili ai valori dell’Europa unita, a quei principi di solidarietà e umanità che saldano le nostre culture, e che in un momento di crisi economica non vogliono perdere neanche un piccolo pezzo dei propri privilegi. C’è un saggio illuminante che lessi da ragazzo, Come si diventa nazista di William Allen. È la storia di una piccola cittadina tedesca tra il 1930 e il 1935, diecimila anime, ma anche un libro che spiega scientificamente come una popolazione tranquilla si trasformò in poco tempo in una spietata sostenitrice di una dittatura sanguinaria, quella di Hitler. Se dovesse raffigurare uno come Mancini, l’assassino di Emmanuel Chidi Namdi, l’autore scriverebbe: "Una singola unità non può mai rispecchiare adeguatamente l’intero Tuttavia in essa si riscontrano caratteristiche rappresentative". Come spiega Luciano Gallino nell’illuminante prefazione: "Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà; tra l’impulso di ridurre l’angoscia del futuro e del dover scegliere". Questo è il rischio che stiamo correndo. Cannabis: Gratteri proibizionista, ma il Procuratore antimafia chiede la depenalizzazione di Giuseppe Candido (Segretario associazione "Non Mollare") Il Dubbio, 12 luglio 2016 "Uno Stato democratico non può permettersi il lusso di depenalizzare qualcosa che fa male". È così che Nicola Gratteri - Procuratore della Repubblica di Catanzaro - dice No e liquida la proposta di legge di legalizzazione della cannabis sostenuta da un intero gruppo parlamentare di duecentoventi deputati e senatori guidati dal Radicale Benedetto Della Vedova e che sarà discussa il prossimo 25 luglio alla Camera. Aggiungendo di essere "contrario anche alla vendita di sigarette, liquori e videopoker". Anche se legalizzata, secondo Gratteri, "i canali di vendita di contrabbando della cannabis resterebbero in mano alla criminalità organizzata", mentre, "se il costo fosse troppo basso "potrebbe aumentare, e molto, l’area del consumo". Così, per Gratteri, dovremmo tornare agli anni Venti del Secolo passato quando Al Capone e i suoi gangster conducevano lucrosi affari proprio grazie al proibizionismo sull’alcol. E (ri) dare alle organizzazioni criminali - come se non bastasse quello della cannabis - anche il monopolio dell’alcol e del tabacco. Ovviamente, la ?ndrangheta - che col proibizionismo è sempre andata a nozze ed è divenuta grazie ad esso una tra le sette organizzazioni criminali più potenti al mondo - ringrazierebbe vivamente il dottor Gratteri. Gli affari crescerebbero ancora. Quanto affermato Gratteri fa a cazzotti non solo col buon senso ma soprattutto con quanto sostenuto dal capo della Direzione Nazionale Antimafia, Franco Roberti nella "relazione annuale (gennaio 2015) sulle attività svolte dal Procuratore Nazionale Antimafia e dalla Dna", inviata al parlamento a febbraio 2015. Dopo aver spiegato che i dati relativi ai sequestri di cannabis (hashish, marijuana e piante di cannabis) evidenziano "un picco che appare altamente dimostrativo della sempre più capillare diffusione di questo stupefacente", il procuratore nazionale antimafia Roberti afferma testualmente che: "di fronte a numeri come quelli appena visti - e senza alcun pre-giudizio ideologico, proibizionista o anti-proibizionista che sia - si ha il dovere di evidenziare a chi di dovere, che, oggettivamente, e nonostante il massimo sforzo profuso dal sistema nel contrasto alla diffusione di cannabinoidi, si deve registrare il totale fallimento dell’azione repressiva (e degli effetti di quest’ultima sulla diffusione dello stupefacente in questione) ". Aggiungendo che: "Oggi, con le risorse attuali, non è né pensabile né auspicabile non solo impegnare ulteriori mezzi ed uomini sul fronte anti-droga inteso in senso globale,... ma, neppure, tanto meno, è pensabile spostare risorse all’interno del medesimo fronte, vale a dire dal contrasto delle (letali) droghe pesanti al contrasto al traffico di droghe leggere. In tutta evidenza sarebbe un grottesco controsenso". Mentre in America, la legalizzazione operata nello Stato del Colorado sta dando i suoi frutti in termini positivi sia dal punto di vista economico sia da quello della lotta alla diffusione della sostanza che, da quando è stata legalizzata, non ne è aumentato il consumo, in Italia è la Direzione Nazionale Antimafia che chiede al Parlamento di "valutare se sia opportuno una depenalizzazione della materia tenendo conto, da una parte, le modalità e le misure concretamente (e non astrattamente) più idonee a garantire il diritto alla salute dei cittadini (specie dei minori) e, dall’altra, le ricadute che la depenalizzazione avrebbe in termini di deflazione del carico giudiziario, di liberazione di risorse disponibili delle Forze dell’ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali e, infine, di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte, è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite". Gratteri vorrebbe proibire anche le sigarette! Ma Mafia, camorra e ?ndrangheta si alimentano col proibizionismo. Più di recente, sempre il Procuratore Antimafia Roberti - in un’intervista rilasciata alla Stampa - ha spiegato che per battere i talebani, che in Afghanistan si finanziano con le coltivazioni di papavero da oppio, occorre legalizzare le droghe leggere in Italia (e nel resto del mondo). Perché? In pratica Roberti riconosce che la lotta al narcotraffico si trascina stancamente, che la guerra la stanno vincendo i trafficanti. E che se si vuole dare un colpo alle mafie in Italia (e nel mondo) bisogna togliere dalla illegalità questo straordinario canale di finanziamento. Ma a Gratteri mi permetto di ricordare ciò che sempre diceva Marco Pannella: "Se tu vuoi vietare qualcosa che è così diffuso, capillare, sarà naturale che tu sia destinato al fallimento e alla necessità di dover assumere comportamenti autoritari". Ci siamo preparati male all’Iraq del dopo Saddam di Niall Ferguson (Traduzione di Maria Sepa) Corriere della Sera, 12 luglio 2016 Blair ha portato più svantaggi che vantaggi all’Inghilterra appoggiando la guerra di Bush contro Baghdad ma l’errore più grave è stato sottovalutare lo scenario successivo. E non possiamo essere sicuri che con il Raìs ancora al suo posto il Paese sarebbe in una condizione migliore della Siria di oggi. "Tutte le carriere politiche, se non si interrompono a metà per qualche felice circostanza, finiscono con un fallimento", osservò una volta Enoch Powell. Sia Tony Blair che David Cameron sanno fin troppo bene che cosa intendesse. Ma chi dei due è finito peggio? A giudicare dalla stampa britannica, la risposta è inequivoca. "L’eredità di Tony Blair? Infliggere a un mondo fragile e instabile una tempesta di fuoco terrorista". Questo era il titolo dell’editoriale di Trevor Kavanagh sul Sun di giovedì scorso, a seguito della pubblicazione della tanto attesa Inchiesta sull’Iraq presieduta da Lord Chilcot. "Ho forti dubbi sulla salute mentale di Tony Blair", ha scritto Steven Glover sul Daily Mail. "Una mostruosa illusione", diceva un altro titolo del Mail della scorsa settimana. "Tony Blair ha pensato di essere il Messia e spesso si truccava il viso, afferma l’ex amico dell’ex primo ministro". Questo era l’Express di venerdì. Tutti questi giornali erano stati favorevoli alla Brexit. Hanno quindi contenuto le critiche sul fallimento di David Cameron, l’aver indetto un referendum sull’adesione britannica alla Ue per poi perderlo. È troppo presto per dire quanto gravi saranno le conseguenze della Brexit, ma Fleet Street è ancora piena di ottimisti strabici che fantasticano sul fatto che Theresa May o Andrea Leadsom possano essere la prossima Margaret Thatcher. Nessuno ancora mette in dubbio la salute mentale di Cameron. Il fallimento di Tony Blair ha preso una forma diversa. Come scrissi il 14 marzo del 2003, sei giorni prima dell’invasione americana dell’Iraq, il suo errore fu quello di "allinearsi più o meno acriticamente alla politica del presidente americano sull’Iraq, che mirava esplicitamente a un cambio di regime con l’impiego di mezzi militari". I benefici di questa politica, per il Regno Unito, mi sembravano "inconsistenti", mentre "il prezzo di un sostegno a Bush è immediatamente evidente: dobbiamo combattere una guerra e forse sostenere un’occupazione destinata a costare sangue e denaro, divenendo il terzo bersaglio preferito dei fanatici islamici (non dimenticate Israele)". Non tutti la vedevano in questo modo, si badi bene. In effetti, alcuni tabloid britannici hanno preso una posizione del tutto diversa. Il 13 marzo del 2003, proprio Trevor Kavanagh lodò Blair per aver "calpestato quel verme di Jacques Chirac, contrario alla guerra... in una tempestosa performance alla Camera dei Comuni". Altrove, il Sun augurò sia a Blair che a Bush "ogni successo" nel "lungo e difficile cammino verso la pace" in Medio Oriente. Melanie Philips, sul Mail del 17 marzo, salutò l’avvento di un "nuovo ordine mondiale". Il senno di poi è una bellissima cosa. Significa che se il successo ha molti padri, il fallimento ne ha sempre e solo uno. Anche noi storici possiamo beneficiare del senno di poi. Nel giudicare, però, cerchiamo di capire cosa sapeva nel momento della decisione chi aveva il potere di decidere. Il grande merito del Rapporto Chilcot è ricostruire quel processo decisionale meticolosamente, mostrando dove si è sbagliato. Sappiamo dell’intelligence errata, che ha convinto tante persone che Saddam possedesse armi di distruzione di massa. A mio avviso è stato però più grave per i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito aver sottovalutato la difficoltà di governare l’Iraq post Saddam. È stato particolarmente grave se si considera la ben documentata esperienza britannica in Iraq dopo la Prima guerra mondiale. La storia non era stata del tutto dimenticata. Grazie al rapporto Chilcot (punto 3.6.855), ora sappiamo che nel gennaio 2003 il Dipartimento per il Medio Oriente del ministero degli Esteri avvertì che "un contributo del Regno Unito sarebbe stato molto difficile da sostenere... se ci fosse stata un’opposizione alla nostra occupazione dell’Iraq". Secondo il rapporto del ministro degli Esteri al primo ministro, il Regno Unito non "doveva rischiare che si ripetesse la situazione del 1920", alludendo all’insurrezione che aveva allora infiammato l’Iraq. Ma questo è tutto. Solo dopo l’invasione, mentre il Paese era scosso da un vortice di violenza, la lezione della storia si è rivelata dolorosamente evidente. Oggi, tredici anni dopo, chi ha visto ignorati i propri avvertimenti è in una posizione migliore per criticare Tony Blair rispetto a chi lo ha incoraggiato. Eppure io mi sento in dovere di difenderlo. A differenza dei suoi critici voltagabbana, Blair ha avuto il coraggio di esprimere "dolore, rammarico e scuse". Come ha detto Blair la scorsa settimana nella sua appassionata apologia: "È importante ricordare l’atmosfera di quel momento... poco più di un anno dopo l’11 Settembre". Ha pregato i suoi critici di mettersi nei suoi panni: "Vedete l’intelligence parlare di armi di distruzione di massa. E questo nel mutato contesto di migliaia di vittime causate da una nuova e virulenta forma di terrorismo. Dovete almeno prendere in considerazione la possibilità di un altro 11 Settembre qui in Gran Bretagna. E la vostra responsabilità primaria... è quella di proteggere il vostro Paese". Su questa base, decise di sostenere Bush - "una decisione approvata dal Parlamento, con i leader dell’opposizione che avevano accesso alle identiche informazioni dell’intelligence che avevo io". L’Onu era paralizzato, dopo che la Francia e la Russia avevano posto il veto all’azione che la risoluzione 1.441 riteneva giustificata. Abbiamo allora appoggiato la guerra di Bush, perché - dice Blair - "ho pensato che il costo umano... di lasciare Saddam al potere sarebbe stato più alto per la Gran Bretagna e per il mondo". Sostenni un punto di vista diverso, come abbiamo visto. Ma come posso sapere che avevo ragione? Come ha fatto notare Blair la scorsa settimana, dobbiamo chiederci cosa sarebbe potuto accadere se la scelta fosse stata opposta: e se Saddam fosse stato lasciato al potere? La successione di eventi alternativi che Blair ci chiede di immaginare non è del tutto improbabile. Se le forze riunite nel marzo 2003 non fossero state utilizzate, "le sanzioni si sarebbero rapidamente erose", il sistema di ispezioni si sarebbe frantumato, e un Saddam "immensamente... rafforzato" avrebbe ripreso i suoi programmi di armi di distruzione di massa. Inoltre, se Saddam fosse stato ancora al potere nel 2011, non avrebbe potuto esserci una rivoluzione araba anche in Iraq? "In quel caso", ha affermato Blair, "l’incubo che vive la Siria di oggi ci sarebbe anche in Iraq". Lo so, lo so. Dopo tutto quello che è andato storto in Iraq a partire dal marzo del 2003, è difficile immaginare uno scenario peggiore. Ma questo illustra perfettamente il motivo per cui tutte le carriere politiche sono destinate a concludersi con un fallimento. Perché i leader devono agire sulla base di ipotesi, oltre che di informazioni dell’intelligence. Nel 2003 Tony Blair pensava che lasciare Saddam al potere sarebbe stato peggio che rovesciarlo. Nel 2003 la maggior parte di Fleet Street era d’accordo con lui. Oggi ai giornalisti che una volta acclamavano Blair sembra ovvio che si era sbagliato. La realtà è che non possiamo esserne sicuri. Tutto quello che possiamo fare è essere onesti con noi stessi. Anche il fallimento ha molti padri.