In carcere a Padova il telefono ti allunga davvero la vita Il Mattino di Padova, 11 luglio 2016 C’è qualcosa per cui i detenuti di Padova sono “invidiati” dai detenuti di tutte le carceri italiane: le telefonate. Già il precedente direttore della Casa di reclusione aveva accettato di usare il suo “potere” di autorizzare telefonate straordinarie per concedere a tutti due telefonate in più dei miseri dieci minuti settimanali previsti dalla legge, e aveva concesso l’uso di Skype per fare colloquio a chi ha la famiglia lontana, il nuovo direttore ha scelto di non fare “il passo del gambero” e rimangiarsi queste concessioni, ma al contrario ha concesso a tutti altre due telefonate. Sembra una cosa da niente, è invece uno straordinario “regalo” per tutte le famiglie. Nella “contabilità” carceraria, due telefonate in più al mese sono ossigeno per l’anima, e ti permettono di “dividerti” un po’ più equamente tra figli, nipotini e altri famigliari, che di te possono avere solo quei pochi minuti di telefonata al mese, come racconta Antonio Papalia: “Oggi grazie alle due telefonate in più posso permettermi di sentire i miei sette nipotini, che abitano in Calabria, una volta la settimana, mentre prima potevo sentirli una volta ogni quindici giorni, poiché le sei telefonate erano suddivise tra mia moglie e mia figlia, che vivono a Milano, mia suocera, mia sorella e i miei due figli, che vivono in Calabria”. È ora che questa piccola conquista sia estesa a tutte le carceri, e che si lavori per liberalizzare davvero le telefonate, come già succede in tanti Paesi dell’Europa, perché telefonare di più è forse l’unico mezzo che ti aiuta a non perdere la famiglia e ti consola nei momenti più duri, quando la vita ti diventa insopportabile. Ma come si fa a curarsi dei propri affetti con il tempo contato? Aspetto che passi il tempo, aspetto la domenica come un bambino aspetta la cioccolata, aspetto il mio turno per telefonare, e intanto sale l’ansia con il pensiero di non trovare i miei cari o che magari sia successo qualcosa ed io non potrei fare nulla per aiutarli, sarei costretto a riprovare la prossima settimana. E passeggio, avanti e indietro davanti alla porta della cabina del telefono aspettando che si faccia l’orario. Com’è difficile in dieci minuti di telefonata a settimana potersi esprimere al meglio, qualche volta non si riesce ad esprimersi affatto, non sai neppure con chi parlare prima quando devi rincorrere il tempo. Ma come si fa a curarsi degli affetti con un cronografo in mano? Spesso era talmente complicato telefonare che in quel giorno l’ansia saliva al punto che nella cabina entravi come una persona “normale” e uscivi ancora più arrabbiato per non aver espresso niente di ciò che avresti voluto dire. Ho potuto riallacciare i rapporti con la mia famiglia quando sono arrivato a Padova. Non solo perché ho trovato la possibilità di telefonare ai miei famigliari in qualsiasi giorno e orario della settimana, ma ho avuto l’opportunità di trovare un direttore illuminato che ci ha concesso due telefonate supplementari in più, in questo modo, quando necessita l’urgenza di parlare con i miei ragazzi (i miei due figli gemelli) l’ho potuto fare senza dover aspettare che passasse una settimana, e affrontare così il problema nell’immediatezza. Da circa un mese il nuovo direttore Ottavio Casarano, sensibile sui problemi dei figli minori ha fatto di più, ha concesso due ulteriori telefonate, una decisione presa all’inizio per chi ha figli minori, ma visto che non ci sono figli di serie A e figli considerati di serie B solo perché hanno raggiunto la maggiore età, ha deciso di estendere le ulteriori telefonate a tutti i detenuti, in modo che tutti ne possono beneficiare senza discriminazioni. Come detenuto, come padre e come figlio non posso fare altro che ringraziarlo pubblicamente, e ritenere che sia un esempio che molti direttori dovrebbero prendere in considerazione, per la caparbietà e la determinazione di aiutare i detenuti a curare gli affetti. Mentre in Parlamento si cerca di fare cambiare la normativa sugli affetti in carcere, basta un direttore coraggioso che interpreta nel modo più umano l’ordinamento penitenziario là dove cita: Il Direttore può concedere telefonate…, e in attesa della liberalizzazione delle telefonate, a Padova ci viene concesso di fare otto telefonate al mese, e di curarti gli affetti con i tuoi familiari in modo quasi dignitoso, grazie Direttore. Agostino Lentini Le nostre famiglie ci possono ascoltare qualche minuto in più alla settimana A Padova, i detenuti che prima potevano usufruire di sei colloqui telefonici al mese, oggi ringraziano il nuovo direttore, Ottavio Casarano, per questa forte sensibilità verso coloro che sono privati degli affetti familiari che l’ha portato ad autorizzare altre due telefonate al mese. Il carcere deve tendere al reinserimento e questo è un atto di civilizzazione nonché di umanità, in quanto allevia la sofferenza delle nostre famiglie, che ci possono ascoltare qualche minuto in più alla settimana. Ci piacerebbe però che questa forma di buon senso fosse estesa a tutti gli altri istituti di pena. Avvicinare il detenuto alla famiglia è compito delle istituzioni, lo stato deve essere presente nelle circostanze, in cui una persona viene allontanata dalla sua famiglia, anche se per sua responsabilità, e deve fare in modo che il detenuto possa vivere una detenzione un po’ più serena, e certamente rasserena un po’ sapere di accedere a qualche colloquio telefonico in più. Basta pensare per esempio ad un compleanno dei nostri anziani genitori, ad una ricorrenza dei nostri figli o nipoti, alla possibilità di interloquire con la famiglia per sapere come vanno i bambini a scuola: tutto questo significa anche aiutare il detenuto ad avere delle responsabilità maggiori, a sentirsi un po’ meno assente nei confronti dei suoi cari. Ecco, oggi a Padova da questo punto di vista si fanno dei piccoli passi avanti significativi, che lasciano il segno dentro il detenuto stesso, che così riconosce anche i meriti delle istituzioni. Quando in un luogo di esclusione come il carcere si hanno dei confronti costruttivi, le persone crescono culturalmente e la vita di tutti i condannati migliora. Quello che è importante poi è che venga ascoltata anche la voce dei nostri famigliari e questo è stato fatto da questa direzione con esito positivo. Ora è importante che le leggi che riguardano le famiglie delle persone detenute nel nostro Paese vadano cambiate, liberalizzando le telefonate che vengono comunque pagate dai detenuti stessi, aumentando le ore di colloquio e autorizzando i colloqui riservati per le famiglie. La direzione di Padova merita comunque un elogio particolare anche perché ha fatto un atto di “uguaglianza” concedendo le telefonate in più a tutti, mettendo tutti sullo stesso piano educativo senza nessuna distinzione in base alla tipologia di reato. Tutto questo ci fa riflettere e anche elaborare un rapporto nuovo, più responsabile con chi svolge il proprio lavoro in questo istituto, a partire dagli agenti di Polizia penitenziaria fino al Direttore e agli altri operatori. Giovanni Zito Prescrizione, si tratta sull’“acceleratore”. Orlando: “Chiudiamo in settimana” di Sara Menafra Il Manifesto, 11 luglio 2016 Caldo fuori e caldissimo anche nelle aule del Senato. Mentre le tensioni nei rapporti tra Pd ed Ncd non sono state ancora del tutto dimenticate, si torna a dibattere del tema spinoso per eccellenza: la riforma della prescrizione inserita in quella di modifica dell’intero processo penale. In settimana si potrebbe arrivare al voto della commissione Giustizia. Se non sarà quello conclusivo, visto che la riforma è molto ampia, almeno la procedura potrà essere battezzata. Il ministro della giustizia Andrea Orlando e i democrats stanno limando l’ennesimo accordo e hanno un aria più ottimista del solito. Più tesi i centristi ai quali, per chiudere l’intesa, toccherebbe fare un passo indietro sull’ultima proposta emersa in queste settimane. Qualche giorno fa infatti, i tecnici di Ncd hanno elaborato un testo che al partito piaceva parecchio. Una norma “acceleratoria” che prevede di azzerare e “scomputare” il “bonus” della sospensione della prescrizione dopo la condanna di primo o secondo grado (il testo del governo, che piace pochissimo a Ncd, diceva per due anni dopo il primo grado e uno dopo l’appello) se il successivo grado non si conclude nei tempi previsti. Per essere pratici: se la corte sfora il “bonus” anche di un solo giorno, quegli uno o due anni in più vengono tolti dal conteggio complessivo della prescrizione che quindi si accorcia. La norma è già diventata il nuovo cavallo di battaglia di Ncd, anche se il pd David Ermini ha risposto immediatamente che non se ne farà nulla. Ora si tratterà di capire se l’intesa regge comunque. Nel corso degli ultimi mesi si è trovata la quadra su alcuni aspetti importanti. Prima di tutto, la durata del bonus che adesso diventa di 18 mesi sia nel passare tra primo e secondo grado sia tra appello e cassazione, invece dei 2 e 1 del testo approvato dal governo e degli 1 più 2 proposti dai centristi. L’anno e mezzo piace a tutti, perché dà effettivamente una mano là dove l’imbuto è più stretto, cioè tra primo e secondo grado, ma senza scontentare il partito di Alfano. Altro colpo andato a segno è l’aumento delle pene per i reati contro la pubblica amministrazione (corruzione e varie ed eventuali): rispetto alla situazione attuale si sale di un terzo. Anche qui l’intesa passa per una mediazione. La Camera aveva approvato il testo della presidente della commissione preposta, Donatella Ferranti, che raddoppiava tutto; l’idea attuale è di prendere solo in parte quelle modifiche. Per la corruzione propria, la clessidra si fermerebbe dopo 13 anni e 3 mesi (alla Camera se ne prevedevano 18,3). Insomma, tutto fa pensare che il traguardo sia ad un passo. Orlando ci crede e l’ha detto: “In quel pacchetto ci sono cose di grande importanza e non lo ridurrei solo al tema intercettazioni- prescrizione. C’è una risposta alla crisi del sistema penitenziario e alla domanda di sicurezza dei cittadini: penso, ad esempio, all’aumento delle pene per i furti in appartamento”. Ncd per ora resiste: negli ambienti centristi si continua a ripetere che l’accordo deve comprendere la norma “acceleratoria” altrimenti non se ne fa nulla. Ma è anche vero che il Partito democratico ha già pronto un piano B: se l’intesa non va in porto, punterà a tornare al testo approvato da palazzo Chigi che prevede il bonus di 2 anni tra primo grado e appello. Pur storcendo il naso, il partito di Alfano avrebbe difficoltà a non votare un testo che ha avuto l’ok anche dei ministri centristi. Davigo: i politici onesti non siedano accanto ai corrotti di Alessandro Di Matteo La Stampa, 11 luglio 2016 Il numero uno dell’Anm: “Non aspettare le sentenze per fare pulizia nei partiti”. È il solito castiga-politici, ma qualche segnale di apertura stavolta lo dà, Piercamillo Davigo. Il presidente dell’Anm sceglie di parlare ad un convegno politico, quello dei Cattolici democratici di Giuseppe Fioroni, e già questa è una notizia per l’uomo che un paio di mesi fa ha detto che “i politici rubano ancora, ma non si vergognano più”. La platea che ha scelto, poi, è una ulteriore notizia, perché uno come lui te lo immagini più a suo agio ad un convegno M5s che non ad una riunione di ex democristiani. Lui sale sul palco e inizia con un tono che è quello di una requisitoria: frasi secche, rasoiate, la denuncia di “tensioni” tra magistratura e politica che spesso sono “arrivate al calor bianco”. Su questo nessuna autocritica, la colpa è di un Paese dotato di un troppo basso livello di moralità e della politica che aspetta le sentenze per fare pulizia al proprio interno. Davigo se la prende con la “la devianza delle classi dirigenti” italiane, “non solo pubbliche, eh! Anche nel mondo dell’economia”, e poi incalza i politici per “la delega -non so quanto deliberata, ma di fatto rilasciata - alla magistratura per selezionare la classe politica”. Un lavoro, sottolinea che “non è il nostro compito, ma se si dice “aspettiamo le sentenze” significa delegare ai magistrati la scelta di chi deve fare politica. Mi si accusa di non rispettare la presunzione di innocenza, non si tratta di questo: si tratta di valutazioni che la politica può e deve fare sulla base di fatti non controversi rispetto all’iter del procedimento penale”. Le norme anticorruzione varate non sono sufficienti, perché “aumentare le pene non serve a niente” se poi non si prendono i delinquenti e “pensare di affrontare il problema con la normativa sugli appalti significa ignorare la realtà”. Servirebbero, semmai, “incentivi per chi parla, operazioni sotto copertura - ma il Parlamento non ne vuol sentir parlare - e una funzione pro-attiva delle forze di polizia che oggi non esiste”. Alla fine, però, dopo aver ribadito che “nel ‘92 molti (dei politici corrotti, ndr) si vergognavano”, aggiunge: “Questo non significa affatto che io pensi che tutti i politici rubano, ne ho conosciuti di adamantina onestà. Tutti rubano? No, rubano in molti ma è molto diverso dal dire che rubano tutti. Proprio per distinguere bisogna fare i processi, altrimenti si spegne la luce e tutte le pecore sembrano grigie, invece ci sono quelle bianche e quelle nere”. Anche questo riconoscimento, però è accompagnato da una critica: “Tuttavia una contestazione al mondo della politica la devo fare: non aspettare le sentenze, ma anche la relativa indifferenza anche di quelli per bene a star seduti di fianco a un mascalzone. Non credo affatto che siano tutti mascalzoni, anzi. Ma la maggior parte ha altre priorità e urgenze e comunque ritengono pericoloso scontrarsi con i vertici dei loro partiti perché è in gioco soprattutto l’ottenimento dei risultati politici legittimi che si prefiggono, dimenticando però che se si accetta il compromesso poi i risultati politici legittimi non si otterranno mai più”. “Dimenticate dallo Stato”: chiusi i Centri antiviolenza, l’ultimo schiaffo alle donne di Andrea Malaguti La Stampa, 11 luglio 2016 Tre chiusure in un mese e i soldi bloccati dalla burocrazia. Ma la Rete D.i.Re. assiste oltre 15mila donne ogni anno. Il 7 giugno Luigi Alfarano, 50 anni, dipendente amministrativo dell’Associazione nazionale tumori, ha ucciso a Taranto la moglie trentenne Federica De Luca e il figlio di quattro anni, poi si è ammazzato. L’uomo non accettava la fine del rapporto e la separazione, che doveva essere formalizzata proprio quel pomeriggio dagli avvocati. Esattamente un mese dopo l’Avo, Associazione Volontari Ospedalieri, di cui fa parte Rita, la mamma della vittima, ha organizzato una fiaccolata per ricordare la giovane mamma e il bambino. Ad aprire il corteo c’erano i genitori di Federica con la foto del cadavere della figlia, scattata in obitorio poche ore dopo il delitto, con evidenti segni delle percosse subite dalla donna prima di essere strangolata o soffocata con un cuscino: “È un monito per tutti. La nostra vita è finita il 7 giugno” hanno detto. L’avvocata Titti Carrano, presidente dell’Associazione Nazionale dei Centri Antiviolenza apre la mail del suo studio romano e non nasconde lo stupore. “Mi ha scritto la Boschi”. Cioè? “La ministra. L’abbiamo cercata a maggio, quando ha assunto le deleghe per le pari opportunità. Speravamo in un confronto”. “Lo abbiamo avuto con tutte le colleghe che l’hanno preceduta. E lo prevede la convenzione di Istanbul. Non ci ha mai risposto. Fino ad ora”. Beh, che dice la mail? “Che a breve saremo resi partecipi costituendo l’Osservatorio previsto dal piano nazionale contro la violenza. Dunque non dice niente”. Eppure le cose su cui discutere, spiega l’avvocata, sarebbero molte. Partendo da due domande facili: perché dopo avere firmato la convenzione di Istanbul sulla violenza di genere, varato una legge con l’intento di tutelare le donne che doveva essere una delle bandiere di questa legislatura e previsto con un decreto del 2013 la ripartizione delle risorse da destinare, lo Stato lascia morire i centri anti violenza? E perché i 16,5 milioni di euro distribuiti alle Regioni per i centri sono stati corrisposti solo in piccola percentuale, mentre i 18 milioni stanziati dalla legge 119 del 2013 per il 2015-2016 non stati ancora erogati? Temi non secondari in un Paese in cui ogni due giorni una donna viene ammazzata da un uomo. Spesso il suo compagno. E in cui ogni anno i 75 centri della rete D.i.Re. aprono le porte a quindicimila donne italiane e straniere in cerca di aiuto. “Nonostante la previsione normative e la dimensione del problema, solo sei regioni hanno organizzato confronti con noi. Il punto è che le leggi ci sono, ma è come se non ci fossero. Perché nessuno le rispetta. E con i soldi va anche peggio. I finanziamenti vengono stanziati. Ma la burocrazia li blocca”. Così, in attesa che qualcuno metta mano alla palude burocratica, i centri chiudono. Gli ultimi due sono stati Le Onde di Palermo che in vent’anni ha aiutato diecimila donne e che ora è ridotto all’ascolto telefonico e Casa Fiorinda di Napoli, struttura sequestrata alla camorra. Cicatrici che si moltiplicano, correndo dalla Sicilia alla Lombardia, dalla Sardegna, al Veneto. “Nel frattempo, secondo i dati Istat, in Italia una donna su tre continua a essere vittima di violenza”. Davvero i centri si possono trattare come se non fossero componenti chiave dell’organizzazione sociale? La voce di Aissa - Ieri sera, alla Rocca di Imola, davano “Fuocammare”, il film di Gianfranco Rosi che racconta l’emergenza immigrazione vista da Lampedusa, e la piazza era piena. È stato il centro antiviolenza Trama di Terre a organizzare l’evento. E quando è scesa la notte, prima che lo schermo si riempisse di immagini, Aissa, che viene dalla Nigeria e che a Trama di Terra ha ritrovato una parte di sé, si è messa a cantare con tutta la voce che ha nella pancia. Era il suo modo per dire che lei esiste. E soprattutto resiste. A 20 anni ha accumulato negli occhi e nel corpo mille volte di più dell’ orrore che un essere umano dovrebbe conoscere in una vita. Nel suo tragitto da Lagos all’Italia, passando per la Libia, l’hanno ripetutamente violentata, picchiata, costretta ad assistere alla decapitazione e alla tortura dei suoi compagni di viaggio e di prigionia. A ogni umiliazione ha risposto rifugiandosi nella melodia che continua a vibrarle dentro. Anche quando la barca che la portava verso la Sicilia si è ribaltata e il carburante che usciva dai serbatoi le ustionava la carne confondendosi con l’acqua salata, Aissa ha cantato. Non aveva più la pelle delle cosce quando una nave italiana l’ha caricata. Però si affidava alla voce, proprio come ieri sera, di fronte a un piccolo popolo ipnotizzato dal suo dolore. A questo serve Trama di Terre. A consentire alle donne come Aissa di non finire nella pattumiera dell’indifferenza. Stamattina il centro è aperto come sempre e Tiziana Dal Pra, che l’ha fondato nel 1999, è al lavoro con le sue dieci collaboratrici. Se stanno in piedi da diciassette anni è perché sanno come trovare i fondi - Bruxelles, i privati, la Regione, il Comune, uno sforzo estenuante che si sovrappone al lavoro quotidiano - e perché per Imola, 68mila abitanti, il 10% stranieri, sono diventati un punto di riferimento imprescindibile, uno spazio protetto, cresciuto nel cuore del paese, che offre accoglienza, ascolto, opportunità e ospitalità. Vi aiuta questo governo? “Il governo Renzi, dici?”. Lui. “Ma per carità, lasciamo stare. Però in Regione c’è grande sensibilità”. Trama di Terre - Di fianco alla biblioteca interculturale, piena di libri in inglese e francese, Giulia D’Odorico organizza la giornata assieme a una mediatrice culturale. Il problema del momento è come recuperare delle posate per una delle case e poi fissare l’appuntamento con un dentista per una madre e per il suo bambino. Ci si occupa di tutto, “dall’ago all’elefante” dicono in Romagna, e intanto ci si preoccupa di chiarire che lo si fa per una scelta di campo. “Una scelta politica”, precisa Tiziana. “O si parte dal presupposto che la violenza di genere è un fatto e non si può risolvere con interventi emergenziali o non si va da nessuna parte”. I centri rimangono il bastione più solido del femminismo. “Esatto, femministe. Guarda il nostro cartello. Dice: leali, orgogliose, grassottelle, pacifiste, intellettuali, operaie, belle, orgogliose, giovani, etero, lesbiche. E non sai per questa parola “lesbiche” le battaglie che abbiamo dovuto fare”. Si siede in una stanza di lavoro assieme ad Alessandra Davide, responsabile del Centro anti-violenza, versa nei bicchieri una bevanda allo zafferano e racconta di una signora settantenne, italiana, che dopo trent’anni di violenze ha bussato alla loro porta. “Il marito l’ha sempre menata. Ma quando le forze gli sono venute meno si è concentrato sulla violenza psicologica. Fai schifo, non sai cucinare, sei una madre di m.... Bene, questa signora è venuta e ci ha detto: per anni mi ha picchiata. E adesso vuole farmi passare da pazza. E io non ci sto più”. Viene voglia di festeggiare. C’è un caldo che squaglia in questo martedì di luglio, Nel cortile donne con bambini. Italiane e africane. Schiamazzi che arrivano dalla strada. “Serve un salto culturale. E una maggiore integrazione con le istituzioni che si occupano di donne. I servizi sociali, per esempio, che hanno un approccio neutro, e anche con gli ospedali, con i pronto soccorso”, dice Alessandra. Cioè? “Spesso si confonde il conflitto con la violenza. Il conflitto è fisiologico, la violenza - fisica o psichica - è patologica e inaccettabile. A quel punto è assurdo sentire parlare dell’importanza della bi-genitorialità, come tendono a fare i servizi, o addirittura vedere il tentativo di arrivare all’affido condiviso dei bambini. La donna va difesa. E con lei i bambini, che pagano costi altissimi. Quanto agli ospedali mi limito a osservare un dato: lo scorso anno, a Imola, 142 donne sono state ricoverato a seguito di maltrattamenti accertati. Sai quante sono arrivate al centro? Una”. Tiziana la pensa come lei. “Siamo in un Paese condizionato dalla Chiesa cattolica e spesso nei pronto soccorso, quando arriva una donna violentata, le danno il farmaco contro l’Aids, ma la pillola del giorno dopo no. Fanno obiezione di coscienza. In ginecologia otto medici su dieci. C’è una legge dello Stato. Ma loro non la applicano. Chiedi al San Camillo di Roma per capire”. Obiezione di coscienza - Il San Camillo, allora, dove il reparto che accoglie le donne decise a interrompere la gravidanza è in un seminterrato al quale si accede da una scaletta esterna. “Come se ci fosse un problema di cattiva coscienza”, dice la psicologa Augusta Angelucci. Eppure qui arrivano donne da tutta Italia. “Stamattina abbiamo incontrato dodici ragazze. Solo due di Roma. Le altre sono arrivate da Viterbo o da Latina. Ma spesso incontriamo ragazze siciliane o della Basilicata”. Il perché è semplice: a casa loro l’interruzione di gravidanza, prevista dalla legge 194, non viene praticata. I medici non vogliono. E se anche vogliono trovano primari che glielo impediscono. “Le sembra folle? È il caso di un mio collega con cui ero al telefono poco fa”, dice Giovanna Scassellati, primaria del reparto. “Dunque noi facciamo quindici aborti al giorno. Tremila in un anno. E lavoriamo come dei pazzi perché tra il diritto della donna e quello del medico obiettore secondo lo Stato vale più quello del medico obiettore. Ma sono convinta che si ci fosse un piccolo incentivo economico i medici obiettori si ridurrebbero di colpo. Pensi che quando per un mio problema personale sembrava che il mio posto fosse disponibile, quattro colleghi obiettori hanno firmato un foglio per dire che non lo erano più. Buffo no?”. Un problema culturale? “Un problema culturale grande come un palazzo”, dice Angelucci. Casa Fiorinda - Nord, centro, sud. La violenza non fa distinzione geografiche o di censo. I ricchi menano e offendono quanto i poveri. Tania Castellaccio, operatrice della cooperativa sociale Dedalus e di Casa Fiorinda a Napoli, racconta la storia di una proprietaria terriera, madre di quattro figli sposata con un ricco imprenditore. Lui la picchiava. Lei non voleva esporre la famiglia alla vergogna. Il marito la offendeva, spalleggiato dai due figli più grandi e lei ha trovato la forza di rivolgersi a Casa Fiorinda solo quando la figlia e il figlio dodicenne le hanno detto: mamma, andiamo via. “È venuta da noi. Si è rivolta a un giudice e ora è rifiorita”. Ad appassire è stata Casa Fiorinda. “Finito l’ultimo progetto non c’erano più i soldi. O meglio c’erano - ci sono - ma incastrati in qualche pastoia burocratica che vede contrapporsi lo Stato, la Regione e il Comune. Ma a pagare siamo noi. E le donne di Fiorinda, che ora sono state ricollocate in un centro di Pozzuoli gestito da un attivista pro life. I fondi non possono finire a chi non mette il bene delle donne in cima alle priorità”, dice Lella Palladino, una delle più note femministe campane. “Con Eva, la mia cooperativa, abbiamo assistito più di mille donne. Soldi pubblici zero. Ce li facciamo dare dalle multinazionali, che così si lavano un po’ la coscienza”. Sorride. Ma l’assenza dello Stato le fa male. “Gli interventi pubblici sono sempre a progetto. Così quando ne finisci uno non sai mai se potrai cominciarne un altro. Ma la violenza non si ferma. Anche se lo Stato non se ne accorge e. Però non ci fermiamo neanche noi”. Si alza. E abbraccia Tania che dice. “Casa Fiorinda è stata dedicata a una donna ammazzata a colpi d’ascia. Le pare che possiamo tirarci indietro?”. Il Sottosegretario Ferri: “più fondi per i centri antiviolenza, hanno ruolo fondamentale” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 11 luglio 2016 “I Centri antiviolenza hanno un ruolo fondamentale sull’intero territorio nazionale, perciò sarà rafforzato il loro finanziamento per scongiurarne la chiusura”. Il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri si è occupato nei governi Letta e Renzi di tutti gli interventi legislativi contro il femminicidio e assicura “imminenti stanziamenti” per le strutture che garantiscono assistenza alle donne maltrattate dai compagni. In Italia ogni due giorni una donna viene uccisa da un uomo. Per scarsità di risorse sono a rischio chiusura i 75 centri che ogni anno accolgono 15 mila italiane e straniere in cerca di aiuto. Il governo, spiega Ferri, si impegnerà per un maggior coordinamento tra il centro e la periferia: “In alcune regioni, come la Toscana, c’è reale attenzione verso queste strutture, in altre no. Attraverso finanziamenti specifici aiuteremo i centri antiviolenza la cui attività sia stata valutata positivamente sia in termini di serietà sia di efficacia. I centri hanno una funzione insostituibile per l’emersione della violenza domestica e per spingere le donne a denunciare”. Nell’inchiesta pubblicata domenica da “La Stampa”, viene documentato come i 16,5 milioni di euro distribuiti alle Regioni per i centri siano stati corrisposti solo in piccola percentuale, mentre i 18 milioni stanziati dalla legge 119 del 2013 per il 2015-2016 non stati ancora erogati. Come si fa a impedire i femminicidi senza fondi? Dov’è lo Stato? “Le risorse - continua Ferri - saranno aumentate. Già la settima scorsa abbiamo messo 2,6 milioni nel fondo per indennizzare le donne sottoposte a violenze ed è al lavoro la commissione per attuare il piano anti-violenze, con 12 milioni. Una circolare del Csm indica alle procure la priorità di occuparsi delle donne maltrattate. L’ascolto nei centri è necessario ad attivare forze dell’ordine e magistratura dotate di pool specializzati”. Basterà? “Invitiamo le vittime a presentare denuncia prima possibile così che il questore possa disporre l’allontanamento del marito violento dal nucleo familiare. In sede processuale abbiamo esteso il gratuito patrocinio a tutte le donne maltrattate, indipendentemente dal reddito. E ora il magistrato deve comunicare alla vittima di lesioni quando rimette in libertà chi ha commesso violenze”. Reati fiscali, paga che ti passa di Marino Longoni Italia Oggi, 11 luglio 2016 Un accordo con l’Agenzia delle entrate e il versamento delle imposte (anche a rate) evitano sequestro, confisca e molti altri guai col penale. Paga che ti passa. In estrema sintesi è questo il concetto di fronte al quale si trovano i contribuenti con problemi in materia penale tributaria: l’accordo con l’Agenzia delle entrate e il pagamento delle relative imposte risolveranno la gran parte dei problemi che potrebbero arrivare dalle procure. Il cambio di passo è la conseguenza del decreto legislativo 158 del 2015 che ha subordinato la punibilità dei reti tributari alle esigenze dell’Agenzia delle entrate, cioè il gettito. Si fissa il principio che la confisca dei beni del contribuente (finalizzata al sequestro) non opera per la parte che questi si impegna a versare all’erario. Una recentissima sentenza della Corte di cassazione ha precisato che non è nemmeno necessario pagare tutto subito, è sufficiente un accordo con l’Agenzia delle entrate con il quale il contribuente si impegna a estinguere, anche a rate, il proprio debito. La conseguenza dell’introduzione di questo nuovo principio è il cambiamento radicale delle strategie difensive. Se fi no a poco fa conveniva attendere le formulazioni dei capi d’imputazione per poi impostare la difesa per l’udienza preliminare o il dibattimento, ora conviene fare esattamente il contrario. Evitare la concessione di un sequestro finalizzato alla confisca (con tutti i danni che questo può creare sull’attività di impresa) è oggi la prima preoccupazione del contribuente. E in questo senso si stanno orientando i consulenti più attenti e preparati. Anche perché ci sono altri incentivi che giocano a favore di una definizione anticipata delle pendenze fi scali. Prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, infatti, il pagamento del debito tributario rende non punibili i reati di omesso versamento di ritenute e omesso versamento Iva. Inoltre consente uno sconto del 50% delle sanzioni per gli altri reati. Il pagamento del debito tributario prima dell’udienza preliminare permette l’accesso al patteggiamento, prima della sentenza definitiva permette di evitare la confisca. Bisogna anche tener presente che in materia di reati economici normalmente la magistratura si pone come obiettivo quello di recuperare il gettito piuttosto che sanzionare il cittadino/ imprenditore. La sanzione penale è sempre più vista come una minaccia, a volte anche grave, finalizzata alla lotta all’evasione. Anche questo spinge nella direzione di un accordo il più veloce possibile con l’Agenzia delle entrate. Da un punto di vista giuridico si potrebbe obiettare che il pragmatismo di questo orientamento ha un solo limite: quello di liberare dalle conseguenze penali chi ha le disponibilità economiche sufficiente a saldare i propri debiti tributari. Al contrario chi, magari anche senza alcuna colpa, non è in grado di soddisfare, nemmeno con una promessa di rateazione, le pretese tributarie, rischia di andare incontro, alla fi ne del processo penale, a conseguenze molto pesanti. Altro dettaglio: le conseguenze di un sequestro preventivo possono essere così devastanti (si pensi solo ai rapporti con le banche, i fornitori, i clienti) che, pur di evitarlo, l’imprenditore può essere spinto ad accettare le pretese tributarie. Difficile portare avanti una trattativa seria con un coltello puntato alla gola. Detenuti lavoranti sottopagati, la parola del ministro Orlando di Beppe Battaglia (Associazione Casa Caciolle) Ristretti Orizzonti, 11 luglio 2016 Dodicimila persone detenute lavorano in carcere in qualità di dipendenti del ministero della giustizia. Dodicimila persone contrattualizzate che a fine mese riscuotono un salario che mediamente è inferiore al centinaio di euro. Si tratta di un piccolo esercito impiegato nei cosiddetti “lavori domestici”. Ossia: operatori ecologici, cucinieri, giardinieri, manutentori degli immobili, scrivani, addetti alla spesa, ecc. Dodicimila persone, quasi tutte impiegate part time, le cui tabelle orarie applicate dal Ministero della Giustizia risalgono ad oltre trentacinque anni fa! Dodicimila persone che guardano con invidia ai raccoglitori di pomodori e angurie del meridione. Con la differenza che in quel caso sono gli spregevoli caporali ad assumerli e nel nostro caso è il ministero della Giustizia. Di più, nel primo caso si tratta di persone libere che accettano per bisogno la loro riduzione in schiavitù, nel nostro caso si tratta di persone totalmente in mano allo stato e ridotte al limite della sopravvivenza (tant’è che alcuni decidono di non viverla più una vita così e si suicidano, non avendo altra via di fuga da una deliberata e quotidiana mortificazione). Non stiamo parlando di qualche cattivone che in fondo in fondo se l’è meritata altrettanta cattiveria, parliamo di dodicimila persone che di fatto, con le loro prestazioni lavorative, partecipano in modo rilevante ed essenziale alla gestione delle strutture carcerarie del nostro paese. Per assurdo, se queste persone decidessero insieme di incrociare le braccia, l’intero sistema carcerario si bloccherebbe inesorabilmente, collasserebbe letteralmente. Quasi un anno fa, da me sollecitato sulle pagine de Il Manifesto, così rispondeva il ministro Orlando dalle pagine dello stesso giornale: “Non vi è dubbio che esista un principio generale che obbliga chi ha responsabilità pubblica ad adempiere a quegli atti che evitino all’amministrazione di dover rispondere di danno rispetto alla gestione delle risorse. La pur dolorosa questione, sollevata dalla lettera di Giuseppe Battaglia al “manifesto”, rientra in tali obblighi: appartiene alla correttezza amministrativa provvedere all’adeguamento di tabelle e quindi oneri dovuti, come la norma stabilisce, per il mantenimento quotidiano in carcere...”. E ancora: “...Tuttavia la lettera coglie un punto di verità non eludibile: accanto al dovere di adeguare le cifre del mantenimento c’è anche quello di adeguare le retribuzioni per coloro che in carcere lavorano. Qui si evidenzia una simmetrica mancanza del passato che deve essere risolta. E che sarebbe stata risolta in contemporanea con l’altra se non avessimo preferito però ripensare completamente il sistema del lavoro in carcere, nelle sua varie modalità. L’apertura di un tavolo di lavoro su questo tema, l’avvio di un rapporto con le realtà imprenditoriali e il parallelo avvio di ambiti di studio in collaborazione con alcune Università ci ha portato a rinviare il mero adeguamento - che rischiava di restringere a questo un problema ben più complesso - e a proporre a breve un piano complessivo entro cui collocare il doveroso adeguamento delle retribuzioni del lavoro detentivo. Impegno che intendiamo mantenere con certezza e con rapidità”. (...) “Certezza e rapidità”, diceva un anno fa il ministro. È passato quasi un anno, sono passati diciotto tavoli di lavoro sugli Stati Generali delle carceri con tante chiacchiere e nessun fatto, un anno di sofferenze gratuite per dodicimila persone davvero ridotte in schiavitù non dall’odioso caporalato bensì dal Ministero della Giustizia. E tutto è rimasto come un anno fa! Ministro, non le sto parlando dell’imprenditoria privata che pure sul carcere e attorno al carcere fa affari sfruttando le persone detenute, sto parlando di persone alle sue dirette dipendenze che dovrebbero essere pagate, come prevede la Legge, peraltro coi nostri soldi! Lei è stato solerte a fare cassa su quelle buste paga raddoppiando la trattenuta alla fonte per il mantenimento carcere con decreto d’urgenza. Non altrettanto si può dire per il semplice adeguamento degli oneri dovuti alle persone detenute che per la sua Amministrazione prestano regolare attività lavorativa! Un dolo imperdonabile destinato a pesare come un macigno su tutti i discorsi di “legalità”, di “giustizia”, di “rieducazione”, di “decoro”, di “moralità”. Il carcere come scuola di violenza? Questa è sicuramente una lezione di quella scuola. Su quella cattedra, ministro, ora siede lei. Violenza contro le donne, l’inutile iniziativa dei camper della polizia di Simona Lanzoni (Vicepresidente Fondazione Pangea Onlus) Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2016 Gentile ministro dell’Interno Angelino Alfano, qualche giorno fa guardavo il Tg serale da Tallin, dove mi trovavo per partecipare ai lavori della conferenza del Consiglio d’Europa sulla parità di genere. Lei è comparso sullo schermo, sorridente, dentro a un camper gestito dalla Polizia di Stato, in piazza Montecitorio, mentre presentava la campagna “Questo non è amore!”, un’iniziativa promossa dal suo stesso dicastero. Era in compagnia della presidente della Camera Laura Boldrini, della ministra per i rapporti con il Parlamento e le deleghe alle Pari opportunità Maria Elena Boschi e della neo sindaca pentastellata di Roma Virginia Raggi, che si contendevano con lei la ripresa del miglior sorriso. Mi sono documentata sul vostro sito internet in che cosa consista la campagna: “Il progetto ha come finalità la creazione di un contatto diretto tra le donne e una equipe di operatori specializzati, pronti a raccogliere le testimonianze dirette di chi, spesso, ha paura a denunciare o a varcare la soglia di un ufficio di Polizia. Il primo e il terzo sabato del mese, a partire da luglio, in 14 Comuni italiani, sarà presente una postazione mobile della Polizia di Stato che ospiterà un gruppo di esperti costituito da un medico/psicologo della Polizia di Stato, un operatore della Squadra Mobile e un rappresentante della rete antiviolenza locale”. Non posso resistere dal farle alcune domande per facilitare la comprensione, soprattutto ai lettori e alle lettrici, tra cui me stessa. Le chiedo: l’iniziativa dei camper nasce perché siete ormai consapevoli che i commissariati di polizia non riescono, nei quasi 8000 Comuni, ad accogliere e proteggere le vittime di violenza in base ai loro diritti e alle diverse forme di violenza che subiscono (es. stupro, violenza fisica, psicologica, stalking, matrimoni forzati, mutilazioni genitali femminili, aborto selettivo, etc.)? Mi sembra quasi ci sia una sorta di dichiarazione di rinuncia dello Stato a compiere il proprio mandato nei confronti di tutte e tutti. Se non fosse così, allora, invece dei camper opterei per una formazione specifica di tutte le forze dell’ordine (e dagli ultimi arrivati ai dirigenti) sul fenomeno della violenza. Una formazione che permetta a tutta la Polizia di intervenire adeguatamente su come prevenire, accogliere, proteggere le vittime ovunque. Per garantire i loro diritti e la loro tutela in un momento così fragile e disperato. Per perseguire i maltrattanti, (non le vittime). Come chiede la Convenzione di Istanbul sottoscritta dall’Italia. Perché dite che i femminicidi sono in diminuzione se poi platealmente scendete in piazza con i camper stile “dell’esercito della salvezza” come se fosse un’emergenza estiva? Sembra che questa decisione nasca dall’esigenza di mostrare alla popolazione italiana, emotivamente colpita dalla raffica di orrendi femminicidi e violenze che riempiono le cronache nere del Paese che lo Stato c’è, “s’indigna e s’impegna” e lo dimostra così. Dite che la violenza è statisticamente in diminuzione, ma allora perché 3 mesi di azione “strombazzante” dei pulmini quando c’è bisogno di una silenziosa e ponderata azione sistemica? Che fine ha fatto il piano nazionale antiviolenza e i fondi che dovevano essere per questo stanziati? Chi copre il costo dei camper e del personale? La scelta di un camper davanti Montecitorio, al di là della visibilità, è stata fatta perché si verificano molti casi di violenza nelle aule del Parlamento più che in altre aree d’Italia? Di Roma? Come per esempio in via della Magliana dove è stata uccisa e poi bruciata Sara? E le donne che non si trovano nei 14 Comuni prescelti cosa devono fare? Continueranno a rivolgersi ai loro “classici” commissariati di polizia. E se la polizia non le accoglie bene? E per bene intendo con competenza, non con una semplice - seppur volenterosa - sensibilità. Avete un numero verde dove le donne possano denunciare i comportamenti sgradevoli e inadeguati delle forze dell’ordine? Sarebbe interessante capire se siete disposti a valutare anche questa possibilità. Potreste monitorare come vengono applicati nei fatti i diritti delle vittime di violenza. Monitorare come e se la cultura sessista e machista è presente tra le forze dell’ordine che, raccontano le donne vittime, troppo spesso non prendono in seria considerazione la volontà delle stesse di denunciare, di proteggersi, di chiedere aiuto. Di conseguenza le donne sono rimandate dritte dritte in mano al proprio aguzzino. E come la mettiamo con la questione della privacy? E se il maltrattante mi seguisse e mi vedesse entrare nel pulmino? Forse non ci andrei proprio. E dopo essermi confidata cosa mi succederebbe? Scatta una denuncia e la messa in sicurezza? Non si risolvono situazioni di violenza parlando una sporadica volta in un camper con qualcuno. Non banalizziamo. Davvero. Anzi, il seguito lo scriva lei, carpo ministro, o legga sui giornali cosa accade il giorno dopo. Gorizia: “squallore e abbandono”, il Garante dei detenuti stronca il carcere di Christian Seu Messaggero Veneto, 11 luglio 2016 Dossier-choc del Garante nazionale per i diritti dei detenuti: “Continue violazioni” Topi, insetti, mura deteriorate. E in direzione c’è ancora la foto di Napolitano. Le assurde vicende legate alla costituzione e alla gestione della sezione riservata ai detenuti omosessuali costituiscono soltanto la punta di un iceberg ben più massiccio. Il rapporto firmato da Mauro Palma, garante nazionale per i diritti dei carcerati, sul penitenziario di Gorizia, restituisce una fotografia impietosa della situazione complessiva in cui versa la casa circondariale di via Barzellini. Lacune strutturali, ma non solo: il dossier del garante - che ha visitato il carcere goriziano all’inizio di maggio - evidenzia tutta una serie di mancanze e di comportamenti superficiali. “La casa circondariale di Gorizia - scrive il garante nazionale - suscita molte e gravi perplessità relativamente alla sensazione di abbandono dell’istituto, trasmessa sia per le condizioni materiali che per la sua complessiva gestione”, caratterizzato da un “modello di detenzione sostanzialmente segregativo e vuoto”. La capienza regolamentare teorica del carcere - struttura di media sicurezza che non può ospitare dunque detenuti con pene prolungate - è di 58 detenuti, più di quelli (erano 43) effettivamente ospitati nell’istituto al momento dell’ispezione. Tutto regolare? Macché. Perché 39 dei 43 carcerati erano accolti nella seconda sezione, che ha una capienza di appena 25 posti. Preoccupante il quadro sulle condizioni strutturali dell’edificio di costruzione austroungarica: “Se si esclude la parte ristrutturata, il resto della struttura appare in condizioni fatiscenti, con un senso complessivo di vetustà e sporcizia - scrive Palma. La struttura, nella sua algida compostezza esterna, cela un concreto squallore, fatto di mura scrostate, intonaci ammalorati, cancelli arrugginiti, camere sovraffollate, servizi igienici fatiscenti, in alcuni casi non serviti da acqua corrente, i cui fori di scarico vengono occlusi con utensili di fortuna, onde evitare la risalita dalla fogna di insetti e animali”. Non solo: “La stanza della direzione non sembra essere minimamente vissuta in modo operativo: nessun fascicolo, nessuna carta sulla scrivania, nessun computer: alle pareti una foto dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: neppure questa è stata cambiata”, annota il garante. Nella relazione Palma evidenzia limiti anche nella metrature delle celle, “con uno spazio individuale di 2,1 metri quadri, che rileva profili di possibile violazione automatica della Convenzione europea per i diritti umani”. “Totalmente inaccettabile” poi le sale per i colloqui con i familiari. Infine, l’ultimatum di 30 giorni per sviluppare “un piano volto a migliorare le condizioni materiali” del carcere. Basterà? Genova: la stampa “verde” va oltre le sbarre di Donatella Alfonso La Repubblica, 11 luglio 2016 La lama di sole che supera le grate delle finestre e illumina i due giovani al lavoro sulle macchine silenziose che sputano cartoline colorate e piccoli fascicoli, ti fa capire cosa significhi quel nome - “Il cielo in una stampa” - che costituisce ben più di una suggestione. “Ero arrivato qui all’inizio perché, seguendo il Vangelo, volevo visitare i carcerati e fare quindi attività da volontario - dice, un po’ timido, Giacomo Chiarella, titolare della Grafica KC, l’azienda che ha aperto il laboratorio nel carcere di Pontedecimo, un vero ramo d’azienda - Poi ho capito che quello che serviva davvero era dare a queste persone un lavoro. Un impegno, intanto, una sfida nuova. Poi, chissà. Alcuni sono molto bravi”. E mentre il cardinale Angelo Bagnasco benedice il laboratorio di stampa e legatoria (già attivo da qualche mese) sottolineando l’importanza del lavoro per recuperare dignità e speranza cinque dei sei operatori detenuti si danno da fare intorno alle macchine. Storie e provenienze diverse per Johnny, Davide, Rosario, Franco, Andrej; che diventi un lavoro futuro, quando le porte del carcere si chiuderanno per sempre nel loro passato, chi lo sa. “Non saprei, io in Albania facevo il veterinario, qui il muratore - spiega Xhelal, albanese - Per me non è stato difficile imparare. Si vedrà”. Il lavoro è fondamentale perché dà dignità alle persone e permette loro anche un piccolo guadagno - spiega Maria Isabella di Gennaro, direttrice del carcere dal 2012 - Qui in tempi diversi sono state avviate una quarantina di attività, per le detenute e i detenuti. È anche una maniera per assumersi responsabilità, per rispettare orari, specialmente per alcune persone. E per riscoprire abilità personali e competenze che in alcuni casi erano state accantonate”. A Pontedecimo l’ufficio matricola ieri faceva contare 65 detenute donne e altrettanti uomini, in prevalenza “protetti”. “L’emergenza per noi nasce quando superiamo la quota 80 - precisa Maria Isabella Di Gennaro - anche perché il rispetto degli spazi ma soprattutto delle persone è fondamentale”. E quindi, il lavoro come punto di riferimento, per chi deve vivere una parte della sua vita dietro le sbarre. Insieme al lavoro teatrale di alcune donne con il Teatro dell’Ortica, i lavori di manutenzione del complesso carcerario, e anche i progetti “Una mano amica nei cimiteri” per lavori nei camposanti - che coinvolgerà anche alcune detenute - e quelli di studio universitario, così come quelli già avviati a Marassi d’intesa con l’Università di Genova. Ma c’è anche un altro elemento da tenere di conto per l’esperienza del “Cielo in una stampa”: “È la seconda tipografia europea in un carcere certificata a basso impatto ambientale, e visto che l’altra è in Gran Bretagna, diventerà la prima”, sorride Diego Florian, direttore nazionale di Fsc Italia, che certifica appunto la capacità “green” delle aziende. Qui si parla sia di carta riciclata che di inchiostri naturali e di energie rinnovabili per far funzionare le macchine. Tanti sorrisi, le congratulazioni, insieme a Bagnasco del procuratore Francesco Cozzi e del procuratore generale Valeria Fazio, insieme all’assessore comunale ai diritti Elena Fiorini. E musica, con la banda di Pontedecimo. Alessandria: ecco i primi vasetti di miele dei detenuti del carcere di San Michele radiogold.it, 11 luglio 2016 Nelle culture antiche si riteneva che il miele avesse effetti terapeutici sui dolori del corpo e dello spirito. E per questo motivo, probabilmente, il miele potrebbe aiutare i quattro detenuti che, da mesi ormai, si occupano della sua produzione nel carcere di San Michele. Sono 20 le arnie di lavorazione e mercoledì scorso il miele è stato invasettato per la prima volta. La sua produzione rientra nelle mansioni dell’azienda agricola e apistica che la cooperativa sociale Coompany & ha avviato a partire dalla fine del 2015. Oltre al miele, anche frutta e verdura utilizzate prevalentemente nelle cucine della ristorazione sociale. La peculiarità del progetto, però, è proprio la produzione del miele, presente solamente nel carcere di Alessandria. “È un modo per costruire un’attività all’interno del carcere”, ha raccontato a Radio Gold Renzo Sacco, della cooperativa Coompany &, “permette ai detenuti di trascorrere le giornate in maniera diversa. Non è un’attività ludica, ma un vero e proprio mestiere che potrà offrire un futuro una volta scontata la pena”. Il progetto è curato dall’apicoltrice Stefania Tavarone, che ha riportato a Sacco le impressioni dei detenuti. “I riscontri sono ottimi”, ha continuato Sacco, “un ragazzo ha detto che quando va a dormire si sogna le api e immagina come poter migliorare la produzione. Un’altra persona invece ha detto che il forte odore delle arnie gli trasmette quell’adrenalina che lo ha accompagnato nei momenti della sua vita. L’apicoltura implica uno stato mentale nuovo. Occorrono sensibilità e un approccio attento, e questi sono passaggi fondamentali per il recupero sociale e umano dei detenuti, dando loro speranza di una vita migliore”. Per ora la produzione è limitata e in via sperimentale. I primi vasetti saranno utilizzati dalla Ristorazione Sociale e venduti al Bar Orto Zero di piazza Santa Maria di Castello ad Alessandria, ma in futuro la cooperativa si attiverà per altri punti vendita. Intanto il progetto continua: “Il desiderio, assieme al direttore del carcere Domenico Arena, è quello di consolidare queste attività e aumentare il numero di detenuti coinvolti”, ha concluso Sacco. Latina: visita del Sindaco al carcere di Via Aspromonte ilfaroonline.it, 11 luglio 2016 Coletta: “l’Amministrazione darà pieno appoggio alle iniziative verso i detenuti, al fine di un loro pieno reinserimento sociale”. “L’Amministrazione Comunale darà ampio sostegno alle iniziative promosse dal terzo settore indirizzate ai detenuti del Carcere di Latina nell’ottica di un loro pieno reinserimento nel tessuto sociale, perché un percorso di recupero sociale passa anzitutto dalla possibilità per i detenuti di incontrare esperienze che valorizzino le loro capacità, attitudini e speranze” - così il Sindaco di Latina, Damiano Coletta, dopo la visita alla Casa Circondariale di Via Aspromonte di questa mattina. A ricevere il primo cittadino, la direttrice del Carcere dott.ssa Nadia Fontana con la quale Coletta ha potuto prendere visione degli ambienti della Casa penitenziaria e conoscere i numerosi progetti in corso di attuazione grazie anche al supporto di associazioni di volontariato che lavorano per agevolare il reinserimento di detenuti e detenute nella società. “Con la dott.ssa Fontana - aggiunge il Sindaco - ci siamo confrontati sulle possibili sinergie tra Comune e struttura carceraria e sul contributo che l’Amministrazione Comunale può offrire alle attività proposte dalla Casa Circondariale. Il Comune favorirà queste esperienze perché il reinserimento dei detenuti nella vita sociale è un tema che investe di riflesso tutta la comunità. Attiverò l’assessorato ai servizi sociali perché fornisca gli strumenti necessari a consolidare questi percorsi rieducativi propedeutici al ‘rientrò in società”. Porto Azzurro (Li): agente penitenziario aggredito con lamette da barba La Nazione, 11 luglio 2016 Nuovo episodio di violenza all’interno del carcere di Porto Azzurro alla vigilia della sua intitolazione a Pasquale De Santis, appuntato della polizia penitenziaria caduto nel settembre 1943 per difendere l’armeria del penitenziario elbano da un gruppo di detenuti rivoltosi, prevista per stamani alle 10.30 con la presenza del sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri. A denunciare l’episodio è il Cosp (Coordinamento Sindacale Penitenziario), uno dei sindacati di settore. “Ci è stato segnalato - si legge in una nota - che, nell’orario dell’apertura della cosiddetta vigilanza dinamica, quando le celle sono aperte, due detenuti del terzo reparto detentivo si sarebbero auto-lesionati cercando nel contempo di aggredire l’agente della polizia penitenziaria di servizio nel terzo reparto e tentando anche di tagliarlo con lo stesso strumento, si pensa a lamette da barba. Pronto e professionale è stato il gesto conseguente del poliziotto penitenziario che, vista la delicatissima situazione e l’aggressività dei due detenuti, è riuscito a chiudersi nel proprio ufficio destinato a Corpo di Guardia e a dare l’allarme chiamando i propri colleghi. Immediato - prosegue il racconto del Cosp - è stato l’intervento del comando di reparto e della direzione che, con l’aiuto di altri agenti di servizio accorsi sul posto, hanno riportato la sicurezza e l’ordine reparto detentivo, isolando i detenuti, ai quali sono state praticate le cure necessarie del caso per il gesto autolesionistico”. Il sindacato Cosp, che di recente con i suoi vertici aveva effettuato una visita al carcere di Porto Azzurro incontrando il direttore Francesco D’Anselmo e il comandante di reparto, auspica che “le proprie osservazioni sulla gestione della vigilanza dinamica e la questione sicurezza nel terzo reparto abbiano una corsia d’urgenza e privilegiata finalizzata a tutelare ancor più e ancor meglio il personale di polizia che lavora nell’istituto di pena”. “Come sindacato Cosp - si conclude la nota - siamo vicini a tutta la polizia penitenziaria di Porto Azzurro, così come siamo vicini a quelle istituzioni che porteranno migliori condizioni di lavoro per la stessa. Esprimiamo vicinanza e solidarietà al collega che ha saputo autoregolamentarsi in un momento critico e di estrema delicatezza”. Teramo: Polizia penitenziaria, nuova astensione dalla mensa di servizio abruzzoweb.it, 11 luglio 2016 I sindacati di categoria Sappe (Pallini), Sinappe (Liberatori), Osapp (Brandimarte), Uspp (Leporini), Uil (Pinelli) e Cgil (Fallini), hanno proclamato lo stato di agitazione del personale di polizia penitenziaria del carcere di Teramo con il ripristino dell’astensione della mensa di servizio a partire da lunedì 11 luglio. Le organizzazioni denunciano “il reiterato comportamento scorretto da parte della ditta appaltatrice della mensa di servizio continuando a fornire alimenti di scarsa qualità e quantità della scarseggiante igiene e dell’insalubrità dei locali con arredi fatiscenti”. Per tali motivi già lo scorso 13 giugno era stato attuato lo “sciopero” della mensa da parte del personale di polizia penitenziaria in forza all’istituto di pena di Teramo poi sospesa il 20 giugno a seguito di rassicurazioni da parte della ditta e della stessa direzione del carcere. Monza: “Rime in libertà”, sul palco i detenuti-rapper di via Sanquirico di Simona Calvi nuovabrianza.it, 11 luglio 2016 I detenuti protagonisti di una serata rap. Il sogno? Realizzare uno studio di registrazione in carcere. Una serata divertente e fuori dall’ordinario quella che si è svolta sabato 9 luglio all’Arci di via Montegrappa, a Monza. A tenere banco sono stati i detenuti del carcere cittadino che hanno partecipato al progetto “Parole oltre i muri” sostenuto da Fondazione della Comunità di Monza e della Brianza con il Centro servizio per il volontariato MB. I rapper - Mario Mof, Manna, Giacomo, Patrice e Kiave - si sono alternati sotto le luci della ribalta in perfetto stile metropolitano. Storie di vita vissuta, di disagio e rabbia, ma non solo. Anche di nuovi percorsi come quello offerto dalla musica. I detenuti che si sono esibiti hanno partecipato durante l’anno al corso di rap tenuto dal rapper Mirko Kiave, presente ieri sul palco. Si tratta in realtà del terzo anno in cui la cultura hip hop varca i muri di via Sanquirico. L’edizione 2016 ha visto anche la partecipazione del rapper Musteeno all’interno della biblioteca del carcere. Alla serata erano presenti anche le famiglie che hanno partecipato alla cena che ha preceduto lo spettacolo. Una cena, anche questa del tutto speciale perché in tavola è stata servita la pasta fresca e altri prodotti provenienti dal laboratorio della casa circondariale. La serata è stata preceduta, inoltre, nel pomeriggio da un laboratorio di graffiti le cui realizzazioni sono state messe in vendita con l’obiettivo di raccogliere fondi per allestire uno studio di registrazione all’interno del carcere. Il progetto “Oltre i muri” ha visto lo scorso 29 giugno anche un altro evento dedicato invece a cinema e letteratura con i due gruppi che hanno partecipato al corso di scrittura creativa tenuto da Alessandro Mari e al cineforum curato da alcuni volontari. L’obiettivo è infatti quello di creare cultura ad ampio raggio e offrire non solo ai detenuti nuove prospettive, ma soprattutto ai cittadini gli strumenti per andare oltre i luoghi comuni. Tra gli organizzatori dell’evento c’è, infatti, anche l’associazione “Perché il razzismo è una brutta storia” che dal 2011 opera nella sensibilizzazione contro le discriminazioni con iniziative culturali e progetti didattici nelle scuole, biblioteche, librerie e carceri. Un Paese che non può dividersi nel mondo di “noi” e di “loro” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 11 luglio 2016 Non basta proclamare “non sono razzista!”. È tempo di sciogliere gli equivoci, prendere atto che menti deboli possono fraintendere uno slogan come “Prima gli Italiani”. Che fomentare l’idea secondo cui saremmo depredati dai migranti esaspera la tensione. Solo in un modo si poteva aggiungere altra infamia all’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi: dividendosi sul senso di quella morte, relativizzandolo fino a farne campo di battaglia e di fazioni. Neppure questo ci è stato risparmiato. Forse non siamo (ancora) un Paese di razzisti. Ma siamo un Paese che, non avendo saldato su solidi valori condivisi le faglie ideologiche del secolo scorso, le ripropone a se stesso - più mefitiche e pericolose che mai - in nuova sembianza, in questo nuovo e ancora abbastanza ignoto territorio fatto di “noi” e “loro”, ultimi e penultimi, che le grandi migrazioni e le fughe di migliaia di profughi dalle guerre spalancano sotto i nostri piedi. Nel giorno dei funerali di Emmanuel, giovane nigeriano morto a Fermo per difendere sua moglie Chinyere da un razzista del posto, Amedeo Mancini, che le strillava contro “scimmia africana”, basta un’occhiata ai social network per percepire l’abisso. Su Twitter ha spopolato un hashtag di solidarietà all’arrestato, #IoStoConAmedeo, pura spazzatura xenofoba, mentre cominciano ad emergere i distinguo nel dibattito: se si tratti addirittura di legittima difesa, nell’ipotesi che Emmanuel abbia per primo alzato i pugni, prescindendo dall’elemento a monte più grave e non controverso, l’insulto razzista. Quello non lo nega neppure Mancini (un armadio di muscoli, ultrà della squadra di calcio locale). Anzi, suo fratello, in alcune lunari dichiarazioni, dice di più: Amedeo è un buontempone, “se vede un negro gli tira le noccioline, ma lo fa per scherzare”. Come no. Nel giorno in cui papa Francesco ricorda che “Dio è nel migrante che tanti vogliono cacciare”, si può provare pena anche per il “buontempone”, vittima della propria stessa ferocia, che ha spezzato una vita rovinando la propria. Ma non si può, davvero, cercare di mettere sullo stesso piano i protagonisti di questa tragedia: perché Emmanuel e Chinyere (cattolici, con buona pace degli arcigni difensori d’una cristianità tutta identitaria), erano agnelli che scappavano dai lupi, sfuggiti ai terroristi islamici di Boko Haram, passati attraverso i tormenti della Libia, fino a trovare la fine del loro percorso in una cittadina marchigiana. Ieri la chiesa di Fermo strapiena dava una risposta importante davanti a Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. Rammendi di consolazione e conciliazione con la comunità nigeriana, un punto di riferimento nello sbando, in sintonia col messaggio di Francesco. Ma ora è la politica che deve parlare. Soprattutto quella destra che ritiene, anche legittimamente, di voler contrastare scelte di accoglienza in nome della sicurezza. Non basta proclamare “non sono razzista!”. È tempo di sciogliere gli equivoci, prendere atto che menti deboli possono fraintendere uno slogan come “Prima gli Italiani” (ricordando il Britain First dell’assassino di Jo Cox). Che fomentare l’idea secondo cui saremmo depredati dai migranti (è vero l’inverso, dice l’Inps di Tito Boeri: ci pagano le pensioni) esaspera la tensione. Che la cambiale della paura può fruttare voti oggi ma domani li volgerà in lacrime e sangue. L’avvocato di Mancini ha, a fini difensivi, certo, chiamato in causa chiaramente il cattivo esempio di certi politici su cervelli deboli come quello del suo cliente: non parlava a casaccio. A volte la storia si riavvolge su se stessa. Ieri in chiesa, a consolare la vedova di Emmanuel assicurandole che l’Italia non è razzista, c’era Cécile Kyenge, congolese d’origine, che da ministro fu paragonata a un orango dal leghista Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato. Calderoli, scampato al processo grazie ai colleghi senatori, s’è scusato allora ma ieri - forse in imbarazzo a causa del ritorno d’attenzione sul caso - non ha trovato di meglio che attaccare Boldrini e Boschi per la loro presenza a Fermo. Tirando in ballo i funerali dei nostri morti a Dacca. Le “bombe sociali”, di cui la Lega parla anche in questi giorni, le innesca chi non riesce a soppesare le parole, magari derubricando poi le peggiori a battuta da bar. Il vicepresidente del Senato Calderoli avrebbe una straordinaria opportunità di pedagogia politica: non diede le dimissioni quando molti le pretendevano, potrebbe farlo ora che nessuno gliele chiede. Per dire, con coraggio, “basta” a chi può averlo frainteso. Per fermare emuli e teste marce simili a quella di Amedeo Mancini con la forza di un esempio virtuoso (la piena assunzione di responsabilità di ciò che diciamo, condizione tipica dell’età adulta). Persino la severità della Lega con i clandestini apparirebbe più credibile, mondata da inflessioni razziste. Emmanuel, bisogna punire chi istiga all’odio di Fabio Marcelli Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2016 Diciamolo chiaramente. In questo mondo in crisi, dove la gente fatica non solo a mettere insieme il pranzo con la cena, ma anche a trovare uno straccio d’identità e dove i sentimenti umani sono ogni giorno vilipesi e contraddetti dal funzionamento del sistema, i venditori di odio riescono a piazzare facilmente la propria merce. Al contrario di altre, costa poco e si regala in grandi quantità. Gli imprenditori che operano su questo mercato sono molti e in numero crescente. Alcuni, come l’Isis, spacciano l’odio sotto forma di religione, in realtà falsata e contraffatta per soddisfare le esigenze del loro mercato. Altri, come il giornale Libero, lo spacciano sotto forma di notizie false, come quelle relative ai venditori ambulanti del Bangladesh che finanzierebbero i terroristi. I social media si prestano molto bene a ospitare questo mercato. Sappiamo quanto l’Isis o simili raggruppamenti terroristici ne facciano uso per farsi pubblicità. Conosciamo le bufale razziste che girano su facebook. Sono notizie palesemente false volte a mobilitare la gente comune, quella che magari ritiene che il Bangladesh sia popolato da arabi o che i rifugiati ricevano stipendi principeschi a spese del contribuente italiano. Il primo è un dato di ignoranza e si può sanare solamente con l’istruzione e la diffusione della cultura. La seconda è chiaramente una notizia falsa, diffusa dolosamente da chi ha interesse a creare odio verso rifugiati e migranti. Il discorso d’odio (hate speech) va sanzionato penalmente. La libertà di opinione non c’entra nulla. Razzismo, fascismo, fondamentalismo islamico non sono opinioni. Chi fa discorsi razzisti o fondamentalisti va colpito per istigazione all’odio. Bisogna impedire ai propagandisti dell’odio di seminare la loro malapianta. Si tratti di un predicatore sedicente islamico o di un piccolo razzista non fa alcuna differenza. Tanto è vero che, sia pure da versanti apparentemente opposti, costoro convergono nell’impresa comune di minare le basi stesse della nostra società. La storia di Emmanuel, giovane nigeriano ucciso a calci in una città italiana per avere difeso la sua compagna da insulti di stampo razzista, ne è la triste testimonianza. Fuggito dai fondamentalisti di Boko Haram che avevano ucciso la sua figlioletta di due anni, Emmanuel è caduto a sua volta vittima di uno o più razzisti. C’è davvero da vergognarsi di essere italiani. Sono i frutti avvelenati di una propaganda intrisa di odio che forze politiche come Lega Nord o Casa Pound portano avanti da anni indisturbate. Costoro dipingono i richiedenti asilo come parassiti. Si spingono fino all’insulto razzista più becero. La compagna di Emmanuel era stata definita una “scimmia” dagli aggressori che poi lo hanno ucciso a calci. Nel luglio 2013, un senatore leghista della Repubblica, Roberto Calderoli, aveva definito “un orango” l’allora ministra per l’Integrazione Cecile Kyenge. La Corte europea dei diritti umani, con una sua sentenza del 2009 (caso Féret), ha avallato la condanna a 250 ore di lavori di pubblica utilità recentemente inflitta da un tribunale belga a un parlamentare razzista dirigente della formazione Front National, che aveva dipinto gli immigrati come inclini al crimine e al parassitismo. Quante migliaia di ore di lavori di pubblica utilità dovrebbero essere inflitte oggi a politici e giornalisti italiani che ogni giorno contribuiscono ad alimentare la macchina dell’odio che ha ucciso in Italia Emmanuel? Nel momento in cui piangiamo le vittime italiane incolpevoli barbaramente trucidate a Dacca, dobbiamo porci con lucidità e freddezza il compito di riflettere sulle cause del terrorismo e sui migliori modi per combatterlo. Sicuramente le cellule terroristiche vanno annientate in modo preventivo, colpendo gli estesi appoggi di ordine internazionale di cui essi si giovano. Non è ormai un mistero per nessuno che determinati stati hanno sostenuto e continuano a sostenere le formazioni terroristiche. Fra di essi in primo luogo la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar. Ma questi stati non solo non vengono per nulla sanzionati ma anzi coccolati con prebende finanziarie e vezzeggiati per indurli ad acquistare le armi prodotte in Occidente. E si chiudono entrambi gli occhi sui crimini che questi Stati commettono ad esempio in Kurdistan o in Yemen. Quale efficace lotta al terrorismo può avvenire con questi presupposti? Parallelamente, occorre bloccare il discorso d’odio intrapreso da determinati giornali e siti internet, procedendo alla loro chiusura e a sanzioni penali, richieste dal diritto internazionale e da quello europeo, nei confronti di chi vi ricorre. Ma ovviamente non basta. Occorre una mobilitazione della società all’insegna dei valori dell’antifascismo e dell’antirazzismo. Non è d’altronde un caso che chi, come i combattenti kurdi, ha saputo sconfiggere i terroristi, professi in modo coerente tali valori. O siamo capaci di tornare a praticarli o l’Europa in decadenza debilitata dal neoliberismo e infetta di corruzione sarà destinata a perire stritolata nella morsa dei costruttori dell’odio, si tratti degli assassini dell’Isis e simili o dei piccoli Hitler che tornano a germogliare dalle nostri parti. Le troppe parole che l’Islam non dice di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 11 luglio 2016 Verso la memoria delle vittime di Dacca dovremmo prendere un impegno di serietà e di verità. Parlando di ciò che li ha condotti alla morte, sarebbe giusto rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi programmaticamente tranquillizzanti, agli equilibrismi. Chissà se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver saputo rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà pensato che i suoi compatrioti avrebbero preso l’impegno di vendicarlo. Penso proprio di no, dal momento che quegli italiani erano certamente esperti del mondo e della vita. Non sta bene covare sentimenti di vendetta, e tantomeno dirlo: loro sapevano che noi la pensiamo così, e dunque non potevano certo farsi illusioni. Verso la memoria di quelle vittime però, dovremmo tutti prendere almeno un impegno di serietà e di verità. Dunque, parlando di ciò che li ha condotti alla morte, rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi programmaticamente tranquillizzanti, agli equilibrismi. Che ad esempio i maggiori quotidiani del loro Paese, quasi per farsi perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento il sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione islamica c’entrasse qualcosa, che quei giornali, dicevo, immediatamente dopo si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una presunta obiettività, di pubblicare articoli volti a rigettare il sospetto di cui sopra giudicandolo calunnioso e frutto di ignoranza, ebbene che una cosa simile sarebbe accaduta questo forse nessuna di quelle vittime è arrivata certamente a pensarlo. Invece è andata proprio così. Anche questa volta è andata così. Per la strage di Dacca, come in tante altre occasioni da anni. E non certo solo da noi. Da anni infatti terroristi islamici seminano dovunque la morte ma l’opinione pubblica occidentale si sente puntualmente ripetere che la loro religione non c’entra nulla. Il più delle volte con l’argomento (evidentemente reputato in grado di chiudere la bocca a chiunque) che, a tal punto il terrorismo islamico non c’entrerebbe nulla con la religione islamica che spesso le sue vittime sono proprio gli stessi islamici. Come chi dicesse che poiché le guerre di religione nell’Europa del Cinque-Seicento vedevano dei cristiani ammazzare altri cristiani, proprio per questo la religione con quella violenza non avesse nulla a che dividere. Le cose stanno ben altrimenti. “I jihadisti - ha scritto Tahar Ben Jelloun, conosciutissimo teorizzatore dell’Islam tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale - prendono a riferimento dei versetti che erano validi all’epoca della loro rivelazione ma oggi non hanno più senso”. Già. Ma mi chiedo: e chi è che lo decide quali versetti del Corano continuano ad “avere senso” e quali invece sono per così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuol forse dire quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono parole e precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso della violenza? Certo, tutti sappiamo che il monoteismo in quanto tale intrattiene un oscuro rapporto con la violenza. Ma fa qualche differenza o no - mi chiedo ancora sperando di non incorrere per questo nell’accusa di islamofobia - fa qualche differenza o no se nel testo fondativo di un monoteismo i riferimenti alla violenza ci sono, espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto assenti? Fa una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non registrano nella predicazione di Gesù di Nazareth alcuna azione o proposito violento contro coloro che non credono? Non ha significato forse proprio questo la possibilità nell’ambito del monoteismo cristiano di mantenere aperto costantemente uno spazio di contraddizione, di obiezione nei confronti della violenza pur commessa in suo nome che altrove invece non ha mai potuto vedere la luce? Mi pare assai dubbio insomma che tutte le cosiddette religioni del Libro adorino davvero lo stesso Dio come sostengono gli instancabili promotori delle tante occasioni di “dialogo interreligioso” che si organizzano dovunque tranne però, chissà perché, nei Paesi musulmani. Per la semplice ragione che in realtà quel Libro è per ognuna di esse un Libro dal contenuto e dal significato ben diversi. In realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un problema specifico tutto suo con la violenza. Ne è prova non piccola, a me pare, come esso continui a praticarla nei suoi riti i quali sembrano non aver conosciuto in misura decisiva il processo di trasfigurazione simbolica avutosi in altri monoteismi. Chiunque ad esempio si è trovato in una località islamica il giorno della Festa del Sacrificio (che ricorda il sacrificio del primogenito richiesto da Dio ad Abramo) ha potuto assistere allo spettacolo di ogni capofamiglia che, armato di coltello, sgozza sulla pubblica via un agnello procuratosi in precedenza. Certo, la pratica non è più universale ma è ancora abbastanza diffusa da impedire di credere che essa non costituisca tutt’oggi un paradigma dal potentissimo richiamo emotivo per l’insieme dei credenti. Così come ancora oggi - per menzionare un altro ambito fondamentale - l’ambiente familiare islamico appare dominato da un tratto gerarchico-comunitario e da un’arcaica fissità di ruoli maschile e femminile, l’uno e l’altro ispirati dai precetti religiosi. Ora, sarà pure tutto ciò fonte preziosa di protezione e solidarietà per l’individuo, sarà pure benefico elemento di coesione del gruppo, ma di certo una tale struttura familiare sembra fatta apposta per essere una continua palestra di costrizione, di repressione e alla fine di violenza. Non è davvero singolare - almeno all’apparenza e a quel che è dato di sapere: ma in caso contrario perché non ci è dato di sapere? - che le banali osservazioni appena fatte non siano oggetto di alcuna discussione nelle società islamiche, che di fronte a ciò che sta accadendo non ci si chieda se per caso la tradizione religiosa, sia pure al di là di ogni sua intenzione, non sia implicata per qualche verso nei comportamenti di non pochi dei suoi adepti? Come mai i processi di analisi storico-culturale che si sono così largamente sviluppati nei Paesi cristiani e altrove, nel mondo islamico invece sembrano non avere alcun corso, almeno pubblico? Che cos’è che lo impedisce? Perché ancora oggi nei Paesi islamici non si traduce quasi nulla della letteratura scientifica mondiale riguardante la società, la religione, la psiche, il sesso, la storia? Perché questa ferrea cortina d’ignoranza calata sul futuro di quei popoli? Con queste e analoghe domande, se volessimo realmente onorare i morti di Dacca, non dovremmo stancarci di incalzare il mondo islamico. Ripetutamente, insistentemente, ogni volta che chiunque prenda la parola in qualche modo a suo nome. Così come, per parlare infine di politica, dovremmo una buona volta porre anche il problema dell’Arabia Saudita, l’Arabia Saudita è il vero cuore della violenza terroristica islamista perché ne è di gran lunga il maggiore finanziatore. Da anni tutti gli osservatori lo dicono e lo scrivono, sicché la cosa è in pratica di dominio pubblico. I soldi per le armi e le bombe destinati a seminare strage da Bombay a Parigi vengono quasi sempre da Riad. Ma egualmente da Riad proviene il fiume di soldi con cui negli ultimi decenni l’élite saudita ha acquistato in mezzo mondo (ma di preferenza in Occidente, naturalmente) partecipazioni azionarie, interi quartieri residenziali, proprietà e attività di ogni tipo. Trascurando nel modo più assoluto qualunque solidarietà islamica - ai disperati, spessissimo musulmani, che ogni giorno tentano la traversata del Mediterraneo, da loro non è mai arrivato un centesimo - ma curandosi solo di arricchirsi sempre di più e di mutare a proprio favore la bilancia del potere economico mondiale. Ma perché, mi chiedo, non si possono immaginare nei confronti dell’Arabia Saudita e dei suoi dirigenti misure di sanzione, diciamo pure di rappresaglia, volte a colpire gli interessi di cui sopra? Proprio l’idea che agli occidentali interessi più il denaro di qualsiasi altra cosa è tra le cause di quel disprezzo culturale che ha non poco a che fare con lo scatenamento della violenza specialmente contro di essi. Quale migliore occasione, allora, per dimostrare che le cose non stanno proprio così, che ci sono anche per noi cose più importanti del denaro? La strage di Dallas e l’omicidio di Fermo, dall’età della paura a quella dell’odio? di Francesca Paci La Stampa, 11 luglio 2016 Daniele Albertazzi, docente di storia politica dell’Europa: i nodi stanno venendo al pettine tutti insieme. “I nodi stanno venendo al pettine tutti insieme” osserva Daniele Albertazzi, docente di storia politica dell’Europa e grande esperto di nuovi populismi all’università di Birmingham. La tensione razziale che mette Dallas e l’intera America di fronte a un problema paradossalmente ingrossatosi durante i due mandati del primo presidente nero, la Gran Bretagna tentata prima dall’addio a Bruxelles e poi dall’incolparne in qualche modo i connazionali di origine straniera, l’Italia che si sveglia attonita di fronte alla rabbia omicida di Fermo: l’occidente sembra in preda al panico e l’amplificazione digitale dell’hate speech, l’incitazione all’odio, trasforma quelle che un tempo sarebbero state tensioni sociali territorialmente contenute in piccole guerre glocal. I dati disegnano un quadro quantomeno preoccupante. Un nuovo rapporto del Southern Poverty Law Center indica che nelle scuole degli Stati Uniti crescono paura e tensioni razziali: due terzi dei professori intervistati sostengono che gli studenti immigrati e i musulmani hanno paura delle elezioni di novembre, un terzo ha notato una effettiva crescita dell’intolleranza in classe e 40% evita di parlare delle presidenziali. In Gran Bretagna, secondo la British Social Attitude, il post Brexit ha visto crescere fino al 50% la popolazione con una impressione negativa della immigrazione e il National Police Chief’s Council stima che una settimana dopo il referendum del 23 giugno gli episodi di xenofobia erano aumentati del 400% (331 casi di hate crime contro una media settimanale di 63). In Italia, registra il Cospe, il 205 ha visto lievitare antisemitismo, islamofobia e xenofobia. Ma le cosse vanno male anche in Germania, dove uno studio di giugno di Amnesty International (“Living in insecurity: how germany is falling victims of racist violence”) documenta un boom di attacchi contro i centri che ospitano rifugiati e richiedenti asilo (solo lo scorso anno gli hate crime sono stati 15 volte di più che nel 2013 e gli hate speech l’87% in più). In Polonia, uno dei Paesi ex sovietici entrati nell’Ue con l’allargamento, Adam Bodnar della locale Commissione for Human Rights denuncia alla Gazeta Wyborcza un’impennata di razzismo (la Gazeta sta pensando di chiudere la sezione commenti online per i toni xenofobi dei lettori): “Ciò che è interessante e rappresenta probabilmente il nuovo trend è che la gente non ha più remore a dire ciò che pensa ad alta voce, ogni due settimane abbiamo notizie di attacchi razziali”. Per capire cosa sta accedendo, continua Albertazzi, non basta però la crisi economica che dal 2008 ha visto notevolmente impoverirsi la classe media occidentale: “Il problema che abbiamo di fronte è un problema d’identità. Se prendiamo la Gran Bretagna come esempio, ciò che ha funzionato per i sostenitori del Brexit è stata la campagna contro la libera circolazione dentro l’Ue, se in Italia ci si concentra su gli extra-comunitari nel Regno Unito l’attenzione e la paura sono rivolte invece verso chi arriva da dentro l’UE nonostante Londra sia stata tra i maggiori sponsor dell’allargamento a est in funzione anti Russia. Sul piano economico l’economia britannica ha beneficiato dell’allargamento e anche la ripresa dalla crisi del 2008 è molto forte, ma il Brexit prova come l’idea che l’immigrazione sia economicamente utile non funziona. I partiti populisti non prosperano solo nei periodi di crisi ma anche in quelli di vacche grasse. Basta guardare la Findalia felix o l’Austria che in barba all’opulenza nazionale potrebbe eleggere un presidente di estremissima destra. Da almeno due decenni le destre radicali crescono anche dove non si sta affatto male. E allora? Allora è utile guardare al parallelo degli Usa, dove chi oggi sostiene Trump, così come i pro Brexit, viene anche da quella classe media bianca che ritiene di essere stata privata dalla globalizzazione di identità e ciance. Al referendum gli inglesi non hanno risposto se fossero o meno contenti dell’Europa ma se i propri politici avessero o meno fatto i loro interessi (e hanno risposto di no)”. Se parliamo di crisi d’identità più che di finanze domestiche, argomento su cui sono d’accordo anche altri esperti di “politica e linguaggio dell’odio” come Arthur Goldwag, autore di una specie di Bibbia della materia (The New Hate: A History of Fear and Loathing on the Populist Right ), bisogna di nuovo ricorrere alle statistiche. Tra gli studi più documentati ci sono quelli del Center for problem-oriented politicing che citando il National Crime Victimization Survey disegna questo quadro. Dall’inizio degli 2000 gli hate crimes (i crimini motiva dall’odio) sono diminuiti in generale ma sono aumentati molto tra i giovani (circa 169 mila vittime l’anno), il 90% sono motivati da scontri razziali o etnici, sono più violenti dei non hate crimes (oltre l’85% sono violenti e solo il 13% riguarda reati tipo furti, l’opposto dei non hate crimes), il 54% delle vittime non denuncia l’aggressione alla polizia, nel 58% dei casi la tensione è legata alla razza. “Nella storia dell’uomo c’è sempre stata un componente minoritaria della popolazione di orientamento di estrema destra pronta ad attivare l’odio identitario, c’è stata nel XVIII secolo, nel XIX, nel XX ci siamo distratti con la guerra fredda ma il razzismo è sempre stato lì, appostato in qualche angolo - ragiona Arthur Goldwag -. Poi è arrivata la crisi economica e più ancora che ridurre alla fame la classe media ha mostrato come la globalizzazione fosse stata molto buona per i molto ricchi e chi non lo era si è sentito ingannato e ha reagito con rabbia crescente. La paura e l’odio sono il termometro di una crisi che è quella del capitalismo, una crisi identitaria oltre che economica in cui le classi non ritrovano più il loro posto, il lavoro fatto non corrisponde alla rendita che produce, il nazionalismo non funziona più a difendere gli interessi del popolo che gli corrisponde, le diseguaglianze culturali sono aumentate rendendo tutto molto più confuso perché oggi il livellamento è transazionale e ad essere più tolleranti sono i più colti, benestanti e cosmopoliti”. Da questo punto di vista anche i due mandati del primo presidente nero d’America possono aver nuociuto a chi, nella middle class bianca, i leggendari wasp, si sente sotto assedio, minoranza in casa propria. Mala tempora, concordano gli studiosi. Goldwag nota che “storicamente le rivoluzioni non esplodono quando le cose vanno molto male, esplodono quando vanno abbastanza bene in generale ma una parte della popolazione va male”. Gli arrabbiati di oggi, continua, “sbagliano ma hanno ragione su un punto, le cose non torneranno più indietro e il futuro dei loro figli sarà certamente diverso in peggio da quanto hanno vissuto loro. E questa sensazione di sconfitta è moltiplicata dalla comunicazione sul web, è la stessa vissuta dagli uomini dei secoli passati ma circola di più, così come oggi via internet i Protocolli dei Savi di Sion sono più diffusi di quando furono scritti e smascherati come falso”. E c’è la Rete, croce e delizia del villaggio globale. “Internet fa da cassa di risonanza - spiega Albertazzi -. Twitter ormai influenza la vita politica più della realtà. I social sono media anarchici, senza controllo, quando Beppe Grillo non rilasciava interviste tutte le prime pagine dei giornali erano su cosa scriveva il suo blog e in questo modo Grillo influenzava l’agenda delle notizie. È la stessa cosa del video su Facebook in cui la ragazza nera filma il poliziotto che spara al suo compagno, l’effetto è immediato, incommensurabile con quando in passato si distribuivano volantini. Il messaggio magari è lo stesso ma viaggia alla velocità della luce, dietro al razzismo c’è il disagio di chi non ha più neppure l’illusione di controllare il suo futuro e reagisce con rabbia contro le elite anche quando le elite non sono responsabili di tutto. Obama, per esempio, al netto dei suoi errori, non è imputabile della perdita di potere globale degli Stati Uniti in un mondo multipolare. In questo senso l’odio a cui assistiamo è legato all’identità: quello del passato era legato allo schiavismo e a un’idea folle di superiorità, l’odio di oggi è legato all’autodifesa di chi si sente diventato una minoranza in casa sua, al disagio dei bianchi nei quartieri molto etnicizzati che danno la sensazione di un’invasione di stranieri anche se numericamente invasione non è, alla voglia di vendetta contro le elite politiche che per farsi eleggere promettono quanto in un mondo globalizzato non possono mantenere, è un odio che monta dalla pancia e colpevolmente i populisti di ogni latitudine cavalcano per essere rilanciati dai media”. E poi a un certo punto tutti i nodi vengono al pettine. Bauman: “La paura e l’odio si nutrono dello stesso cibo” di Francesca Paci La Stampa, 11 luglio 2016 Il filosofo: la xenofobia in Europa e a Dallas figlie della cronica incertezza. La paura è il demone più sinistro del nostro tempo”, ammoniva già anni fa il filosofo polacco Zygmunt Bauman. A guardare il mondo occidentale, che dagli Usa all’acciaccata Europa, pare aver ceduto alle pulsioni più rabbiose quasi si fosse “mediorientalizzato”, gli spettri evocati dal teorico della società liquida nonché una tra le menti più acute del pensiero contemporaneo assumono dimensioni epiche. Dallas ma anche gli episodi xenofobi ripetutisi nel Regno Unito dopo la Brexit e, nell’Italia porto dei migranti, il rifugiato nigeriano ucciso a Fermo. Professor Bauman, stiamo passando dall’età della paura a quella dell’odio? “Non c’è alcun passaggio dalle paure nate dalla nostra cronica incertezza all’esibizione di odio a Dallas o ai mini pogrom avvenuti dopo la Brexit nelle strade inglesi: sono contemporanei, solo di rado li sperimentiamo separatamente. Paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere tutta la vita in compagnia reciproca: in molti casi non solo sono nati insieme ma possono solo morire insieme. La paura deve per forza cercare, inventare e costruire gli obiettivi su cui scaricare l’odio mentre l’odio ha bisogno della spaventosità dei suoi obiettivi come ragion d’essere: si rimpallano a vicenda, possono sopravvivere solo così”. C’è consequenzialità tra la diffusione dell’”hate speech” (incitamento all’odio) e le nuove tensioni etniche e razziali? “La loro coincidenza non è casuale ma neppure predeterminata. Come ogni alleanza è una scelta politica. Per quanto stiamo vivendo la scelta è stata dettata dalla simultaneità di due fenomeni. Il primo, individuato dal sociologo tedesco Ulrich Beck, è la stridente discrepanza tra l’essere stati assegnati a una “situazione cosmopolita” in assenza di una “consapevolezza cosmopolita” e senza gli strumenti adatti a gestirla. Il conseguente scontro tra strumenti di controllo politico territorialmente limitati e poteri extraterritoriali incontrollabili e imprevedibili ha prodotto la “deregulation” multi-direzionale delle condizioni di vita e ha saturato le nostre esistenze di paura per il futuro nostro e dei nostri figli. Quella paura era e resta una trinità avvelenata, l’incontro di tre sentimenti ossessionanti, ignoranza, impotenza e umiliazione. I poteri distanti e oscuri che ci condizionano vanno al di là del nostro sguardo e della nostra influenza, così come le nostre paure si muovono tra forze che siamo incapaci di addomesticare o contenere. Se non sappiamo respingere queste forze che minacciano tutto quanto ci è caro, non potremmo almeno tenerle a distanza, interdire loro l’accesso alle nostre case e ai luoghi di lavoro?”. Non potremmo, professore? “L’afflusso massiccio e senza precedenti di rifugiati è il secondo fenomeno a cui accennavo e ha contribuito a dare a questa domanda una risposta credibile e “di buon senso” seppure falsa e fuorviante, una risposta elevata a rango di dogma da aspiranti politici che vi annusano la chance di un forte sostegno popolare. È balsamo per le anime tormentate: le paure senza sbocco e perciò tossiche non possono riversarsi sulle loro vere cause - forze poderose e così distanti da essere immuni al nostro risentimento - ma possono facilmente e tangibilmente rovesciarsi su chi appare e si comporta da straniero, dagli ambulanti ai mendicanti. Le aggressioni etniche e razziali sono la medicina dei poveri contro la propria miseria. La loro efficacia si misura non dal fatto che risolvano la fragilità della vita ma dal dare temporaneo sollievo al tormento psicologico dell’impotenza e dell’umiliazione”. La paura, certo. Ma non hanno responsabilità anche la diffusione delle armi in Usa, l’inanità europea sui migranti, Internet? “Queste non sono cause: facilitano, anche molto, le azioni che quelle cause producono. Internet e i “social” possono servire altrettanto efficacemente all’inclusione come all’esclusione, al rispetto e al disprezzo, all’amicizia e all’odio. La responsabilità di scegliere ricade direttamente sulle nostre spalle di navigatori. Possiamo usare lo stesso coltello per tagliare pane o gole: a qualsiasi uso lo destini, chi lo tiene lo vuole affilato. Il web affila gli strumenti ma noi ne scegliamo l’applicazione”. È ancora “sonno della ragione”? “Come diceva il filosofo tedesco Leo Strauss, ci sono sempre stati e ci saranno sempre degli inattesi cambiamenti di punto di vista che modificano radicalmente il sapere precedente: ogni dottrina, per quanto definitiva sembri, sarà prima o poi soppiantata da un’altra. L’hanno già detto altri, il tribalismo è la risposta al perché le differenze tra gruppi della popolazione siano sempre ridotte a un rapporto inferiore/superiore”. La reazione contrastata della Nra alle ultime uccisioni di neri da parte della polizia e alla strage dei poliziotti bianchi a Dallas ha aperto una faglia nella potente lobby. L’associazione non ha esitato a fare le condoglianze ai familiari degli agenti uccisi, ma ha glissato sulla morte dei due afroamericani Sterling e Castile limitandosi a un blando comunicato che non prendeva posizione “dal momento che c’è una indagine in corso”. La supertassa sui permessi di soggiorno discrimina gli stranieri di Zita Dazzi La Repubblica, 11 luglio 2016 Governo condannato a risarcire. La sentenza del tribunale di Milano che bacchetta ministeri e presidenza del Consiglio e apre la strada ai rimborsi di quanto pagato dal 2011. “Sproporzionata” la tariffa da 100 a 245 euro chiesta per il rilascio e il rinnovo del documento rispetto a quanto pagano gli italiani per certificati analoghi. Il ministero dell’Interno, quello dell’Economia e la presidenza del Consiglio dei ministri sono stati condannati dalla prima sezione civile del Tribunale di Milano a risarcire i danni a sei cittadini stranieri che avevano pagato la “supertassa” per il rinnovo o la richiesta del permesso di soggiorno, che varia dai 100 ai 245 euro. Nell’ordinanza firmata dal giudice Martina Flamini si legge che è “discriminatoria” e “sproporzionata” la tariffa richiesta agli stranieri residenti per la domanda di rinnovo o rilascio del permesso di soggiorno, anche non di lungo periodo. La tassa sul permesso di soggiorno è stata introdotta dal Decreto ministeriale del 6 ottobre 2011. Il decreto era stato annullato dal Tar del Lazio nel maggio scorso, su ricorso promosso dalla Cgil, a seguito di una pronuncia della Corte di Giustizia europea del settembre 2015 che aveva ritenuto la tassa un ostacolo eccessivo al conseguimento del permesso di soggiorno (sia a tempo determinato, che indeterminato). Annullamento arrivato anche perché la “tassa” era molto più alta di quella necessaria per qualsiasi analogo documento amministrativo richiesto agli italiani. Nonostante i due pronunciamenti, della Corte europea e del Tar, il ministero fino ad oggi non aveva ancora provveduto alla modifica della normativa e sinora nessuno straniero aveva ottenuto il rimborso di quanto pagato in passato. Ora, nel provvedimento del Tribunale milanese il giudice condanna il due ministeri e il capo del Governo alla restituzione parziale di quanto versato dai sei ricorrenti, tutti immigrati regolarmente residenti a Milano, difesi dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione). I due legali e l’associazione - specializzata in ricorsi contro la pubblica amministrazione quando ci sono gli estremi per la denuncia di razzismo o discriminazione - reputano che la decisione del Tribunale sia importante non solo perché ribadisce l’illegittimità della tassa nella misura prevista dal decreto (che ancora oggi viene richiesta dalle Questure “del tutto illegittimamente” secondo gli avvocati) ma anche perché apre la strada ai rimborsi di quanto pagato dal 2011 (anno in cui la “supertassa” è stata introdotta) da tutti gli stranieri che in Italia hanno chiesto o rinnovato il permesso di soggiorno. “Ora, anche il Tribunale di Milano decreta che l’aver richiesto un pagamento in misura non consentita dall’ordinamento europeo costituisce anche discriminazione e viola il principio di parità di trattamento previsto dalla Direttiva 109/2003, proprio in quanto pretende degli stranieri una tassa sproporzionata rispetto a quanto previsto per analoghi documenti per i cittadini italiani”, spiegano i due avvocati delll’Asgi. “L’importanza della pronuncia milanese deriva soprattutto dal fatto che, per la prima volta, viene affermato il diritto al rimborso di quanto pagato dagli stranieri dall’entrata in vigore del decreto”. Nella sentenza si legge: “La discriminazione per motivi di nazionalità opera, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato allo straniero quale effetto della sua appartenenza ad una nazionalità diversa da quella italiana (...). La parte ricorrente ha dimostrato che i cittadini stranieri, costretti a corrispondere le somme per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, sono vittima di discriminazione diretta fondata sulla nazionalità”. Pertanto il giudice “condanna le pubbliche amministrazioni” a restituire a tre che hanno fatto ricorso “la somma di euro 245,00 ciascuno, nonché a restituire” agli altri “la somma di euro 145,00 ciascuno” e anche al pagamento delle spese legali per 6.100 euro. Al mercato nero 250 mila dollari per un rene: i grandi affari dei mercanti di organi di Antonio Maria Costa* La Stampa, 11 luglio 2016 Dall’America Latina all’Europa dell’Est le rotte del commercio illegale dei trapianti. In Cina mutilati i condannati a morte, amputazioni tra i migranti del Mediterraneo. Non c’è maggiore generosità. Un benefattore dona un proprio organo a qualcuno la cui sopravvivenza dipende dal suo trapianto. Un altro samaritano autorizza nel testamento l’espianto di una parte del proprio corpo, post-mortem. Gesti ripetuti nel mondo migliaia di volte l’anno: generosi, ma non sufficientemente frequenti. L’organizzazione Onu per la salute (Oms) stima che in Europa, Usa e Cina si trapiantino annualmente circa 20 mila organi, con una spesa aggregata di 1 miliardo di dollari l’anno in ciascuna regione (3500 trapianti in Italia nel 2015). Eppure le liste di attesa attestano una richiesta aggregata di 100 mila organi. In media, il fabbisogno è 5-8 volte superiore alla disponibilità. Con la maggioranza della domanda di organi insoddisfatta, le opportunità di arricchimento, per chi non teme sanzione terrena né celeste, sono illimitate. L’umanità è trasformata in un immenso giacimento di tessuti organici, dal quale si estraggono reni, cornee, fegato, pancreas e, persino cuore e polmoni - offerti a prezzi esorbitanti, che riflettono l’ansia di pazienti disposti a pagare qualsiasi ammontare pur di avere l’innesto necessario alla sopravvivenza. A sfruttare la miniera umana ci pensa la mafia internazionale, assistita da agenzie di viaggio, società di trasporto ed enti sanitari. Pur di lucrare sulla disgraziata necessità di malati ricchi, professionisti in camice bianco (chirurghi, anestesisti e urologi) non esitano a causare la diminuzione permanente nella condizione fisica del donatore - inevitabilmente povero e spesso involontario. I guadagni ammontano a 15-20 volte il capitale investito. All’espianto un organo vale 5-10 mila dollari. Il suo prezzo al trapianto raggiunge i 70-100 mila dollari, fino a 250 mila, a seconda dell’organo e soprattutto della lunghezza della lista di attesa. Il terzo protocollo Onu contro la criminalità organizzata (la convenzione di Palermo), sanziona le origini criminali degli organi immessi sul mercato: movimenti migratori rendono i soggetti vulnerabili ad amputazioni forzate (i casi scoperti nel Mediterraneo); violenza su manodopera coatta per indurla a donare una parte del corpo; cessione contrattuale di un organo mai remunerata (in Africa); espianto forzato a degenti in ospedale per altra terapia (America Latina). Notorio è poi il commercio di organi asportati da avversari politici spariti nel nulla, da prigionieri di guerra appositamente assassinati (nei Balcani), e da cadaveri di condannati a morte (in Asia). Quando l’espianto è volontario, le vittime sono generalmente giovani, indigenti e inconsapevoli dei rischi: riduzione permanente dell’attività fisica a seguito dell’amputazione, inadeguata cura post-chirurgica, e condizioni psico-fisiche degradate fino alla morte. Annunci online - La Convenzione del Consiglio d’Europa in materia (2014), protegge il sacrosanto diritto al trapianto eseguito rispettando le procedure. Eppure internet, che pubblicizza disponibilità, ubicazione e prezzi, mostra la globalità del contrabbando di organi. Informazioni desunte da Lexis/Nexis, MedLine e PubMed, oltre che da comuni motori di ricerca mostrano 2000 innesti illegali di reni in Pakistan negli ultimi anni, 3000 nelle Filippine, 500 in Egitto e diverse centinaia, recentemente, in Moldavia. L’industria del trapianto consiste in una catena logistica dove l’efficienza nel raccordo tra donatore e recettore, sono fondamentali. Le opzioni sono tre: il donatore raggiunge il malato; oppure quest’ultimo e i suoi medici viaggiano per incontrare il donatore; oppure l’organo è trasportato tra i due. Problemi di frontiera (visti d’ingresso) ostacolano la prima opzione: i donatori dal terzo mondo hanno difficoltà nel raggiungere i malati nei paesi ricchi. Il terzo caso è più frequente ora, grazie alla migliore farmacologia anti-rigetto. La seconda opzione, nota come turismo del trapianto, coinvolge il malato e i suoi professionisti: l’intera squadra raggiunge il donatore, complici autorità corrotte, al fine di ridurre il rischio di deterioramento dei tessuti nel trasporto. I profitti nelle cliniche - In Kosovo, il cui primo ministro è accusato di omicidi di prigionieri serbi a scopo di trapianto, diversi medici sono stati identificati per innesti illegali da vittime russe e moldave. In Sudafrica centinaia di trapianti illegali su ricchi occidentali hanno accumulato un profitto milionario in cliniche locali. In Usa recenti indagini hanno identificato 110 trapianti su cittadini americani, eseguiti in 18 paesi esteri. Susumu Shimazono, il maggiore esperto in materia, stima che il 10% dei trapianti effettuati nel mondo comportano organi trafficati, con il coinvolgimento di malati di oltre 100 nazionalità: 700 dall’Arabia Saudita, 450 da Taiwan, 131 in Malesia, migliaia da Australia e Giappone. Pur se orrende, queste sono probabilmente una sottovalutazione: qualche anno addietro, nella sola Cina sono stati fatti 11 mila espianti da cadaveri di condannati a morte (molteplici asportazioni dallo stesso corpo sono comuni). I Principi Guida dell’Oms sanciscono che “il corpo umano, e ogni parte di esso, non possono essere fonte di lucro”. In ossequio, i paesi non sanzionano né donatori, che perdono parte del corpo, né recettori, per lo più inconsapevoli dell’approvvigionamento clandestino dell’organo. Il destinatario delle sanzioni è l’intermediario criminale che, con inganno o violenza, mercifica il corpo umano. I trafficanti di migranti nel Mediterraneo sono tra essi. *Antonio Maria Costa, ha ricoperto per oltre 40 anni ruoli di vertice in organismi internazionali come l’Onu, l’Ue, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) e l’Ocse. L’Italia accoglie un detenuto di Guantánamo “per motivi umanitari” La Repubblica, 11 luglio 2016 Dal ministero degli Esteri ok all’istanza di un cittadino yemenita prigioniero da oltre 14 anni nel campo statunitense dove furono rinchiusi i Taliban accusati di fare parte di al Qaeda. Washington ha espresso “gratitudine” al nostro governo. L’Italia ha detto sì all’istanza di Fayiz Ahmad Yahia Suleiman, cittadino yemenita detenuto nel campo di Guantánamo, di essere accolto “per motivi umanitari” “L’Italia accoglie per motivi umanitari un detenuto della base di Guantánamo”, aperta dopo l’invasione dell’Afghanistan avvenuto in seguito all’attentato delle Torri Gemelle. Lo rende nota la Farnesina spiegando che l’Italia, acconsentendo alla richiesta degli Stati Uniti, ha accettato l’istanza di Fayiz Ahmad Yahia Suleiman, cittadino yemenita detenuto nel campo di Guantánamo, di essere accolto per motivi umanitari”. La decisione del governo italiano “è in linea con la dichiarazione congiunta Ue-Usa del 15 giugno 2009 a sostegno della chiusura del campo di detenzione e con quella della Commissione Ue di aprile 2013. Con il trasferimento in Italia di Suleiman, scende a 78 il numero dei detenuti a Guantánamo. Washington “è grata al governo italiano per il suo gesto umanitario” di aver accolto un detenuto da Guantánamo e “per la volontà di sostenere gli attuali sforzi americani di chiudere la prigione”. Lo dichiara in una nota il Pentagono. Gli Usa, si legge, si sono coordinati con il governo italiano per garantire che questo trasferimento avvenga rispettando le misure di sicurezza e il trattamento umano. Dal gennaio del 2002 nella base Usa a Cuba sono stati imprigionati, su ordine dell’allora presidente George W. Bush, i cosiddetti “nemici combattenti”. Per Guantánamo - dove furono rinchiusi i Taliban accusati di fare parte di al Qaeda - sono passati circa 800 persone e al picco della sua attività, nel 2003, la struttura ne ospitava 650. Suleiman, 41 anni, nato in Arabia Saudita, era detenuto da più di 14 anni. Il suo trasferimento era stato autorizzato sin dal 2010. Dei 78 prigionieri ancora a Guantánamo, 28 sono, come Suleiman, considerati dalle autorità Usa “trasferibili” in un altro Paese ma che non può essere quello d’origine dove rischierebbero di finire di nuovo in prigione o peggio. Barack Obama, che il 20 gennaio 2009 (giorno del suo insediamento alla Casa Bianca) promise solennemente di chiudere Guantánamo, non riuscirà a vedere realizzato questo obiettivo entro la fine del mandato, a gennaio 2017. Il Congresso, ora a maggioranza repubblicana ma anche quando i democratici avevano la maggioranza in Senato, ha sempre boicottato i progetti del presidente di trasferire negli Usa i detenuti. Secondo le statistiche della stessa amministrazione Usa, il 13% dei detenuti liberati dopo l’insediamento di Obama hanno ripreso le armi. Tra questi 14 hanno partecipato ad attacchi in cui sono morti americani, ha riferito l’inviato speciale di Obama per la chiusura di Guantánamo, Paul Lewis. Turchia: tremila violentatori evitano il carcere sposando le vittime di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 11 luglio 2016 La triste e agghiacciante verità è stata resa nota dal capo del dipartimento della Cassazione che si occupa dei reati sessuali, Mustafa Demirdag, durante un’audizione al Parlamento di Ankara: sono almeno 3 mila in Turchia i casi registrati di uomini che hanno evitato condanne per molestie o abusi sessuali accettando un “matrimonio riparatore” con le vittime che nella maggior parte dei casi hanno tra i 12 e i 15 anni ma possono essere anche molto più piccole. I violentatori se la cavano anche nel caso di stupri di gruppo. Demirdag ha citato i casi in cui alcuni tribunali hanno annullato condanne penali dopo che uno degli stupratori ha deciso di sposare la vittima, evitando così il carcere anche agli altri. Ad invocare le “nozze riparatrici” sarebbero spesso le stesse famiglie delle vittime. “Questo tipo di matrimonio non è accettabile - ha detto Demirdag al Daily Hurriyet. È crudele obbligare qualcuno a sposare una persona che non vuole”. Il capo della Corte di Cassazione ha annunciato una norma che aggrava le pene fino a 16 anni e 8 mesi in casi simili che coinvolgano vittime minorenni.