"Carcere, recupero per i detenuti e garanzie alle comunità" di Ilaria Sesana Avvenire, 9 giugno 2016 Occorre un "profondo rinnovamento del modello di detenzione" che sappia da un lato "garantire la sicurezza della comunità" e dall’altro consentire "l’opportunità dell’istruzione, del lavoro, l’apertura alla società esterna, per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell’integrazione". Questo uno dei passaggi principali del messaggio che ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, in occasione del 199esimo anniversario di fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria. Il pensiero del capo dello Stato è stato ripreso e rilanciato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, secondo cui "la detenzione non può più essere l’unica stella polare delle nostre politiche penali. Se vogliamo che la reclusione non sia soltanto una parentesi afflittiva, il punto di riferimento deve essere il momento del ritorno all’esterno", ha dichiarato il Guardasigilli. Dal 2013, anno della sentenza con cui la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per le condizioni di sovraffollamento delle sue carceri, la situazione negli istituti di pena ha visto un significativo cambiamento. A partire dalla riduzione del numero di detenuti, passati dai 66mila del giugno 2013 ai 52mila del dicembre 2015. Con un calo di circa 14mila unità. "Purtroppo, però, negli ultimi mesi questa decrescita si è fermata" sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Questo, probabilmente, è dovuto al fatto che alcuni provvedimenti adottati dal governo per ridurre l’affollamento hanno esaurito il loro effetto. Alcune (come l’estensione dei termini per la libertà anticipata) erano misure "a tempo", altre hanno già prodotto il massimo dell’effetto deflattivo possibile. "Il sistema è andato a regime e si è stabilizzato E c’è anche stato un piccolo aumento del numero dei detenuti dopo mesi di calo", riflette Gonnella. Che sottolinea poi l’esigenza di rendere sempre più residuale la custodia cautelare in carcere, puntando in maniera seria sulle pene alternative. Al calo del numero dei detenuti si è affiancato un aumento del ricorso alle misure alternative: 39.274 i soggetti che al 31 dicembre 2015 si trovavano in regime di esecuzione penale esterna. Una crescita di quasi 18mila unità rispetto al 2010. Mattarella e Orlando suggeriscono azioni dirette a favorire l’istruzione e il lavoro per combattere la recidiva. Ma per farlo occorrono investimenti. I detenuti-lavoratori sono circa 15mila (il 30% del totale), ma solo 2.800 sono impegnati presso aziende e cooperative esterne: una situazione che può facilitare il ritorno nella società abbassando i tassi di recidiva. Altro elemento essenziale (e che andrebbe potenziato) è quello della formazione: nel secondo semestre 2015, solo quattro detenuti su cento erano iscritti a corsi professionali (2.376 detenuti). In calo rispetto al 2009 quando i ristretti che scommettevano sulla formazione in carcere erano 3.864. Mattarella ha ragione: più lavoro ai detenuti fa calare la recidiva di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2016 Nel messaggio inviato in occasione della festa del Corpo della Polizia penitenziaria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parla della necessità di un "profondo rinnovamento del modello di detenzione". Ha indubbiamente ragione. Il processo di cambiamento, cominciato a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, non può fermarsi qui. Avremmo perso un’occasione storica per ripensare un modello penale e penitenziario che non ha funzionato, come i tassi elevatissimi di recidiva ci dimostrano inequivocabilmente. Mattarella ha parlato dell’importanza del lavoro in carcere. Come si legge nell’ultimo rapporto sulle carceri di Antigone, solo il 29,73% del detenuti è impegnato lavorativamente. Di questi, solo il 15% è alle dipendenze di un datore di lavoro privato. 612 detenuti, dei 53.495 presenti alla fine del marzo scorso, sono impiegati in attività di tipo manifatturiero, 208 in attività agricole. La stragrande maggioranza lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, impiegata in attività domestiche del tutto dequalificate fin dai nomi stessi che lo svilente gergo carcerario dà a questi mestieri: il porta-vitto che distribuisce le vivande, lo scopino che tiene pulita la sezione, lo spesino che prende le ordinazioni della spesa, lo scrivano che aiuta i compagni a presentare i vari atti necessari per la sopravvivenza penitenziaria. Il carcere ha sperimentato le prime e massime forme di lavoro atipico: chi lavora in carcere è occupato spesso per poche ore al giorno, per pochi giorni a settimana, per poche settimane al mese e guadagna in media 200 euro mensili. Quel 29,73% non riguarda dunque affatto persone impegnate a tempo pieno. Tutt’altro. Mattarella ha parlato anche dell’importanza dell’apertura alla società esterna. Un’apertura che non significa più pericoli bensì più sicurezza, visto che in coloro che scontano parte della pena in misura alternativa il tasso di recidiva cade in picchiata. La sanzione penale deve diventare qualcosa di responsabilizzante, non di inutile e passivizzante. Ha ragione Mattarella: dobbiamo rinnovare profondamente il modello di detenzione. Ma anche il modello di pena in sé e per sé, che non può essere sempre e solo schiacciato sul carcere, come per troppo tempo è capitato. Oggi abbiamo una grande occasione: un disegno di legge che, quando il parlamento riuscirà ad approvarlo, permetterà di scrivere un nuovo ordinamento penitenziario, a oltre quarant’anni da quello attualmente vigente. Cogliamola. E anzi non fermiamoci qui. Dobbiamo mettere mano anche al codice penale, innanzitutto per ripensare la dannosa e insensata politica proibizionista sulle droghe. Bravo Sergio Mattarella a festeggiare la polizia penitenziaria con parole che richiamano il compito più alto cui essa è chiamata, quello del rispetto del dettato costituzionale. Lo staff penitenziario merita rispetto e prestigio sociale. Troppo spesso allo staff penitenziario, anche nel recente passato, si è affidata una supplenza di ciò che la politica non ha fatto o non ha programmato. Non servono tuttavia più poliziotti. Ne abbiamo in numero sufficiente, tra i più alti percentualmente di tutta l’Europa. Servono invece più operatori sociali, più mediatori, più interpreti, più medici, più psicologi. Mattarella riceve il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma Adnkronos, 9 giugno 2016 Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto nel pomeriggio di ieri al Quirinale il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma. Un incontro che arriva proprio all’indomani del messaggio inviato dal Capo dello Stato in occasione del 199/mo anniversario della fondazione del Corpo della Polizia penitenziaria, nel quale aveva definito "obiettivo prioritario la concreta realizzazione di un sistema rispettoso del dettato dell’articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena e sul senso di umanità cui devono corrispondere i relativi trattamenti". Una necessità che va di pari passo con "l’esigenza di un profondo rinnovamento del modello di detenzione" e "di un modello organizzativo e di gestione che, nel garantire la sicurezza della comunità e il libero svolgimento delle relazioni sociali, sappia unire l’opportunità dell’istruzione, del lavoro, l’apertura alla società esterna, per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell’integrazione". La giustizia lenta fa male ai cittadini di Gianluca Di Feo La Repubblica, 9 giugno 2016 La rapidità dei processi dipende anche dall’usciere che spinge lentamente il carrello zeppo di faldoni fino all’aula. Un’immagine d’altri tempi che fotografa alla perfezione l’arretratezza della giustizia italiana. Non solo l’informatica è sostanzialmente assente, ma mancano persino gli uomini per fare le fotocopie, verbalizzare gli interrogatori, notificare le convocazioni. Operazioni solo in apparenza banali, perché ogni errore in queste procedure può provocare il rinvio dell’udienza. O addirittura l’annullamento dell’intero dibattimento. La "rispettosa denuncia" del procuratore di Torino Armando Spataro mette finalmente alla luce la faccia nascosta della macchina giudiziaria, che ha un ruolo determinante nella paralisi dei tribunali. Dietro il dilagare della prescrizione che divora le inchieste e fa trionfare l’impunità, dietro la montagna di fascicoli che restano ad ammuffire negli armadi, dietro la lentezza di qualunque giudizio ci sono anche le carenze negli organici, che lasciano gli uffici privi di personale e soprattutto creano il vuoto di figure qualificate. A pagarne il prezzo sono tutti i cittadini, quelli che chiedono invano giustizia, quelli che quotidianamente si trovano a fare i conti con una burocrazia lontana dagli standard europei. Ed è a loro che il governo deve dare urgentemente risposte. I problemi sono noti. Gli effetti pure. Il cattivo funzionamento dei tribunali penali e civili allontana gli investimenti stranieri, ostacolando la ripresa dell’economia e dell’occupazione. E alimenta la sfiducia di tutti gli italiani, che vedono scomparire nel nulla le loro denunce, che si tratti di un furto o di una causa condominiale, di un incidente stradale o di una truffa telematica. Un guasto che, nelle regioni meridionali e non solo, consolida l’autorità delle mafie, inflessibili nell’arbitrare le liti e garantire il recupero dei crediti. Per non parlare del danno alla credibilità delle istituzioni che nasce dall’ennesima prescrizione del corrotto di turno, un colpo di spugna legale che mette in salvo il bottino e la reputazione. Di sicuro ci sono gravi responsabilità del Parlamento, che nello scorso decennio con leggi spesso ad personam ha contribuito ad allungare i tempi dei processi. E ci sono responsabilità di una parte della magistratura, che non affronta in modo adeguato il problema della produttività e dell’efficienza degli uffici, apparendo più preoccupata di tutelare privilegi e interessi di corporazione che non del servizio alla collettività. Ma è innegabile che gli ultimi governi con una cattiva declinazione della riduzione dei costi - in nome del mantra della spending review - hanno dato un colpo micidiale al funzionamento dei tribunali. Il blocco dei concorsi ha aperto una voragine negli organici. In media manca un quinto del personale amministrativo. Ma in alcune sedi, come ad Aversa nel cuore del Casertano infestato dalla camorra, si arriva al 45 per cento di posti scoperti. Lo Stato si è rivelato un pessimo manager, con una disastrosa gestione delle risorse umane. Ci sono migliaia di dipendenti delle province senza un incarico, migliaia di marescialli delle forze armate in eccesso, centinaia di funzionari della Croce rossa di troppo, ma non si riesce a impiegarli per supplire alle carenze della Giustizia. Trasferimenti che non vengono decisi neppure sulla carta e che poi vanno gestiti, preparando i nuovi ranghi a compiti dove la distrazione non è permessa perché uno sbaglio in una singola proroga di intercettazioni innesca la dissoluzione di intere inchieste con centinaia di imputati. I numeri sono chiari. Nei tribunali mancano novemila persone. Forse entro l’estate si riuscirà a racimolare 2.500 rimpiazzi pescando dal soprannumero degli enti sciolti o riformati. Ma poi bisognerà rendere operativa e funzionale questa trasfusione, perché altrimenti potrebbe trasformarsi in un’altra zavorra o restare virtuale per anni. Al ministro Andrea Orlando bisogna riconoscere l’impegno nel cercare soluzioni concrete, senza cedere alla tentazione degli slogan. Ma non basta. Ci vuole un impegno di tutto il governo. Servono subito investimenti significativi e concorsi seri, che selezionino giovani capaci e diano linfa nuova agli uffici. E servono riforme, per introdurre un uso razionale degli strumenti informatici anche nel settore penale. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi sprona spesso i giudici a "fare processi rapidi". Lo ha ripetuto più volte, con toni alquanto provocatori, in particolare quando le indagini hanno coinvolto esponenti del Pd. E i provvedimenti per rendere possibili i "processi rapidi" dove sono? Persino le nuove norme sulla prescrizione - sulle quali a parole quasi tutti i partiti sono d’accordo - languono in Parlamento. Si tratta - è giusto ricordarlo - di misure necessarie che restano però un palliativo, perché il nodo della questione non è concedere più tempo per giudicare i corrotti ma portare la durata dei dibattimenti negli standard europei. Il che significa rendere la giustizia in grado di rispondere alle richieste di tutti i cittadini. Non è un aspetto secondario, ma l’essenza stessa dello Stato di diritto. Tribunali paralizzati per carenza di personale, interviene Mattarella di Donatella Stasio La Repubblica, 9 giugno 2016 La lettera-denuncia di Spataro finisce al Quirinale Nomine negli uffici giudiziari: scontro Davigo-Csm. E oggi la "gravissima situazione" del personale amministrativo che paralizza la giustizia - denunciata dal procuratore di Torino Armando Spataro - sarà sul tavolo del presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella. E domani su quello del ministro della Giustizia Andrea Orlando. A portarcela sarà il vice presidente del Csm Giovanni Legnini, che ha ricevuto la lettera di Spataro dal Guardasigilli e ha subito accolto l’appello-denuncia dopo averne parlato con i capi della Cassazione Gianni Canzio e Pasquale Ciccolo. Lo stesso Csm - le commissione sesta (Riforme) e settima (Organizzazione degli uffici) con i rispettivi presidenti Luca Palamara e Francesco Cananzi - presenterà la prossima settimana una risoluzione da inviare a Orlando. Legnini avrebbe voluto approvarla già ieri come prova di pieno appoggio a Spataro e "al problema dei problemi della giustizia", ma ha prevalso l’esigenza di approfondimento. La lettera di Spataro ha dominato la giornata al Csm nelle stesse ore il cui il procuratore la presentava con il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Mario Napoli e quello della Camera penale Roberto Trinchero. Ieri si sarebbe parlato solo di questo al Csm se, verso le 19, non fosse arrivata una stoccata, poi seccamente smentita, di Pier Camillo Davigo, il presidente dell’Anm, che a Milano, secondo le agenzie di stampa, avrebbe fatto una battuta polemica sul Csm: "Le nomine non convergono sul candidato migliore, ma temo che la prassi sia quella di uno a te, uno a me e uno a lui, che è una cosa orribile". Davigo, che sul Csm ha fatto buona parte della campagna elettorale per l’Anm come leader del gruppo Autonomia e indipendenza, chiede "la massima trasparenza perché è al buio che avvengono le porcherie e i baratti". Immediato l’allarme di Legnini, lunga riunione nel suo ufficio dove spicca il telefono rosso che lo mette in contatto diretto col capo dello Stato. Ma Davigo smentisce tutto con un "quelle dichiarazioni non sono vere". E i componenti della giunta Anm che erano con lui confermano la sua versione. Ma dal Csm, dove raccontano di un Legnini furibondo, arriva lo stesso una replica a Davigo per dire che "se le sue parole fossero vere sarebbe gravi, scomposte e sorprendenti, getterebbero discredito sulla magistratura e offenderebbero gli stessi magistrati meritevoli di guidare gli uffici, tra cui Davigo, solo qualche giorno fa nominato presidente di sezione della Cassazione". Insomma, "in cauda venenum". Dopo il botta-risposta, si può tornare a concentrarsi sul "problema numero uno", sulla "priorità delle priorità per far funzionare la giustizia in Italia", come stigmatizza Legnini. "Un problema non più rinviabile, di cui sono consapevoli tutti i capi degli uffici e tutti quanti noi, ma anche lo stesso Guardasigilli che da un anno si è speso per introdurre nella macchina della giustizia 4mila persone in mobilità". Sono le unità di cui parla di nuovo Orlando, ieri in missione in Lussemburgo, anche lui pronto a sottoscrivere l’allarme di Spataro perché "è vero che da un ventennio non si fanno assunzioni per la giustizia". Aggiunge il ministro: "Io e il governo siamo consapevoli di questo dato". Un dato inequivocabile, "i concorsi che non si fanno da quasi vent’anni" come ricorda Spataro. Ma proprio sulle assunzioni va registrata una polemica a distanza tra Spataro e Matteo Renzi. Il procuratore di Torino racconta ai cronisti torinesi quanto sia rimasto colpito nel sentire il premier, durante una puntata di Che tempo che fa di Fabio Fazio, dire "abbiamo fatto le assunzioni". Pronta la sua replica: "Con tutto il rispetto, affermazioni così categoriche e sotto forma di messaggio non sono sufficienti. Di quali assunzioni si parli io non lo so". È un fatto che la lettera di Spataro sortisce un indiscutibile successo anche tra i colleghi. Lui è subissato di mail, sms, telefonate. Messaggi come quello del procuratore di Modena Lucia Musti, "anche noi siamo alla frutta, a volte mi sento umiliata a lavorare così". O del procuratore di Firenze Giovanni Creazzo, per cui "la carenza di cancellieri è sotto gli occhi di tutti". O il ricordo di Lucio Aschettino, al Csm per Area: "Quando Orlando era responsabile Giustizia venne a Napoli e chiese a noi magistrati "qual è il vostro più grande desiderio?" e io risposi "avere 5 cancellieri coi quali in tre anni potrei azzerare i 3mila processi pendenti al tribunale di Nola". Lo stesso Canzio, il presidente della Cassazione, ricorda che nel suo ufficio la scopertura raggiunge il 30% e che la preoccupazione è forte in vista del referendum, poiché i 5 comitati hanno preannunciato 500mila firme ciascuno da controllare entro metà agosto. Per questo anche Canzio domani vede Orlando. Davigo attacca sulle nomine al Csm, poi smentisce. Il Consiglio: "Se vere, parole gravi" La Repubblica, 9 giugno 2016 Il presidente dell’Anm: "La prassi è uno a me, uno a te e uno a lui, una cosa orribile". Poi la precisazione: "Riferimento a quelle a pacchetto". Al Csm "le nomine non convergono sul candidato migliore, ma temo che" la prassi sia quella di "uno a me, uno a te e uno a lui", che è "una cosa orribile". Il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, prima attacca nell’Aula magna del Palazzo di Giustizia di Milano e poi smentisce e, in seguito, contattato telefonicamente, precisa che le sue parole si riferivano alle cosiddette "nomine a pacchetto", quelle che vengono decise raggruppando più incarichi in vari uffici giudiziari e assegnandoli a più magistrati. Il Csm, nel frattempo, "pur dando atto della successiva smentita del dottor Davigo", in una nota, "respinge con fermezza le espressioni sulle nomine ai vertici degli uffici giudiziari italiani che, se vere, sarebbero gravi, scomposte e sorprendenti". Palazzo dei Marescialli, tra l’altro, ricordando che Davigo "solo qualche giorno fa" è stato "nominato presidente di sezione di Cassazione", sottolinea che "le motivazioni" delle nomine "sono da chiunque verificabili dalle delibere pubbliche del plenum". Per Davigo, tornato oggi nel Palagiustizia milanese dove più di 20 anni fa faceva parte del pool ‘Mani Pulitè, l’occasione di auspicare una maggiore "trasparenza" da parte del Consiglio Superiore della Magistratura è arrivata nel corso di una riunione organizzata per fare il resoconto a Milano dell’attività della Giunta esecutiva centrale dell’Anm. Riunione alla quale hanno partecipato anche i rappresentanti della sezione milanese dell’associazione. E, dopo un primo accenno alla prassi "orribile" della spartizione correntizia delle nomine e dopo che la discussione ha virato anche su altri temi, è stato un intervento del giudice milanese Barbara Bellerio a riportare Davigo ad affrontare la questione. "Mi fa inorridire che queste scelte siano scelte lottizzate - ha detto, infatti, Bellerio - credo che la Giunta dell’Anm debba fare qualcosa e che non si possa dire che è un problema che non si pone e che va risolto all’interno. Su questo punto - ha aggiunto il magistrato - la Giunta ha intenzione di dire qualcosa o si va avanti così?". Una domanda a cui Davigo ha voluto subito rispondere: "L’unica misura è pretendere dal Csm la massima trasparenza e, quindi, che venga messo in ‘intranet’ tutto quello che è in valutazione, compreso il fascicolo personale di chi fa domanda per un incarico. E non si venga poi a parlare di privacy: chi ricopre un incarico pubblico - ha proseguito - rinunci alla privacy, perché è al buio che avvengono le porcherie e i baratti". Nel frattempo, un altro magistrato in forza a Milano, Mariolina Panasiti, ha fatto notare come nelle scelte per i ruoli direttivi "i pareri sono di solito sempre splendidi" e altri hanno sottolineato la necessità di "pareri più obiettivi e una selezione vera". "Le dichiarazioni che mi sono state attribuite non sono vere", ha precisato Davigo in serata, ma l’agenzia Ansa conferma quelle parole sulle nomine, riportandole come pronunciate davanti a un centinaio di magistrati nell’Aula Magna del Palagiustizia milanese. Il ‘numero unò del sindacato delle toghe, poi, contattato al telefono dopo la sua smentita, ha precisato che le sue parole si riferivano solo alle "nomine a pacchetto". Nell’incontro tra i magistrati milanesi e i vertici dell’Anm, tra l’altro, è stata espressa poi anche "preoccupazione" per "la soppressione della giurisdizione tributaria", cosa che, ha chiarito Davigo, "può schiantare la giustizia civile" già in difficoltà per le sistematiche carenze negli organici. Per il presidente dell’Anm, infatti, "sarebbe suicida accettare" che i procedimenti tributari passino in capo alla giustizia civile, come prevede un disegno di legge in discussione. Sullo stesso tema è intervenuto anche il presidente del Tribunale milanese, Roberto Bichi, secondo il quale "questa riforma porterà ad una situazione di collasso verticale nel settore civile". Davigo, ad ogni modo, ha anche precisato in un passaggio del suo intervento di aver "dato atto al ministro Orlando di parlare un linguaggio diverso da coloro che lo hanno preceduto" perché, in particolare, con "una inversione di tendenza" ha spiegato che "destinerà un miliardo di euro per l’assunzione di cancellieri". Risorse per risolvere l’annoso problema delle scoperture negli organici del personale amministrativo. Cascini: "intercettazioni tramite virus; tutelare la privacy, ma la norma sia generale" di Donatella Stasio Il sole 24 ore, 9 giugno 2016 "Condivido l’emendamento dei relatori sul Trojan horse ma credo sia sbagliato scriverlo così, disciplinando nei minimi particolari l’uso di una singola tecnologia che già domani potrebbe essere superata. Il legislatore non è un amministratore di condominio: si occupa di regole generali e astratte, non di dettagli. Tra l’altro, i criminali stanno già buttando via tutti gli smartphone e vanno a caccia di vecchi telefonini in cui non è inoculabile alcun virus informatico. Anche perciò sarebbe bene che il legislatore evitasse di occuparsi troppo di dettagli". Giuseppe Cascini, sostituto Pm a Roma, titolare dell’inchiesta Mafia capitale, commenta così una delle principali novità del Ddl sul processo penale, proposta dai relatori Casson e Cucca (Pd) con un emendamento sulle intercettazioni (n. 36.4000), che per la prima volta disciplina l’uso dei captatori informatici autoinstallanti, come il Trojan, attivati su smartphone e dispositivi mobili e capaci di intercettare ogni comunicazione (whatsapp, instagram, telegram ecc.). È la nuova frontiera delle intercettazioni, di cui si sono occupate di recente le sezioni unite della Cassazione, aprendo la strada all’utilizzo senza limiti del Trojan nelle inchieste di criminalità organizzata: non solo mafia e terrorismo ma anche corruzione e altri delitti comuni tutte le volte in cui sia ipotizzabile una struttura associativa. Un via libera che (in attesa del deposito della sentenza) ha spinto la maggioranza a intervenire in modo molto dettagliato, a tutela della privacy. All’emendamento dei relatori ha proposto subemendamenti soltanto il Movimento 5 Stelle per eliminare alcuni di quei dettagli e ampliare il ricorso al Trojan. Dottor Cascini, come valuta l’emendamento sul Trojan? "Ho molte perplessità. Da un lato, sembra ampliare la possibilità di utilizzare questo strumento di indagine rispetto alla decisione della Cassazione, consentendone l’uso per tutti i reati a condizione che l’attivazione degli ascolti possa avvenire da remoto e non con il semplice inserimento del virus; dall’altro lato, non capisco perché limiti l’uso solo alla funzione di registrazione audio, escludendolo per le intercettazioni telematiche, e perché l’audio debba funzionare solo in funzione di stand-by. Come dire che un messaggio di whatsapp non si può intercettare… Ma a parte questo, le perplessità sono di ordine generale". E cioè? "Non si può fare una legge su una questione così specifica. Le leggi devono essere generali e astratte, devono valere per l’oggi ma anche per il futuro. Oggi il captatore informatico è soltanto uno dei tanti strumenti tecnologici attraverso cui intercettare: il legislatore non può pensare di regolarli tutti nel dettaglio. Inoltre, la tecnologia viaggia a una velocità di gran lunga superiore a quella del procedimento legislativo ed è molto probabile che, prima che questa disposizione diventi legge, abbiano inventato qualche altra tecnologia che renderà obsolete anche queste disposizioni". Non vorrà dire che è meglio nessuna regola? "Il legislatore dovrebbe dettare regole generali e astratte, lasciando alla giurisprudenza la concreta applicazione delle norme nei casi particolari. Quindi, dovrebbe limitarsi a dire se è consentito l’uso di una tecnologia che, per le sue caratteristiche, comporta necessariamente l’acquisizione di dati anche oltre i limiti stabiliti dall’autorizzazione del giudice o addirittura dalla legge, con la conseguente inutilizzabilità delle acquisizioni non autorizzate; oppure se in casi come questi debba essere inibito l’uso di quella tecnologia. Questo, in fondo, era il quesito posto alle sezioni unite della Corte, che sembra abbiano scelto la seconda opzione". Gli avvocati sono contrari all’uso del Trojan perché troppo invasivo della privacy e dopo la sentenza della Cassazione - accusata di aver dato un’interpretazione creativa - hanno parlato di clima giustizialista. Se l’emendamento scavalca la Cassazione, non c’è da stare tranquilli… "La soluzione tecnica proposta dai relatori realizza il giusto equilibrio tra esigenze investigative e tutela della riservatezza. Ma ripeto: è sbagliato scrivere così una legge. Il legislatore dovrebbe individuare il punto di equilibrio sul piano generale: se dal punto di vista tecnologico non esiste un modo per controllare uno strumento, bisogna scegliere se il prezzo da pagare in termini di riduzione del diritto alla riservatezza sia troppo alto o no". Beh, quanto a invasività, il Trojan ricorda un po’ le perquisizioni per blocchi di edifici previste dalle leggi di emergenza degli anni 70. "In effetti è così. Se sparo nel mucchio, prenderò sicuramente ciò che mi interessa, ma colpirò anche molti bersagli innocenti. Tanti di più, quanto più potente è l’arma che uso. È il legislatore che deve stabilire un limite". Quindi, secondo lei l’emendamento va riscritto? "Sì, nei termini che ho spiegato. Già domani, infatti, potrei trovarmi a usare una tecnologia nuova che pone problemi che questa norma non mi aiuta a risolvere, mentre si dovrebbero fissare regole che valgano oggi per il captatore e domani per i suoi "discendenti". Roma, caso Cucchi: il pg Rubolino chiede cinque condanne per omicidio colposo di Rory Cappelli La Repubblica, 9 giugno 2016 Il processo era stato rimandato dalla Cassazione davanti alla Corte d’Assise d’Appello. Durissima requisitoria del procuratore generale. "Io non vorrei che Stefano Cucchi morisse per la terza volta: una prima volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in divisa, si tratta solo di stabilirne il colore, la seconda volta lo hanno ucciso servitori dello Stato in camice bianco" ha esordito così la sua requisitoria il procuratore generale Eugenio Rubolino nell’ambito del processo di appello-bis sul caso della morte di Stefano Cucchi. E l’ha conclusa con la richiesta di cinque condanne: 4 anni di reclusione per il primario Aldo Fierro, e di 3 anni e 6 mesi per i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite. Omicidio colposo. Per tutti l’accusa è quella di omicidio colposo. Stefano Cucchi morì il 22 ottobre del 2009 nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini, dove era stato ricoverato, una settimana prima, dopo il suo arresto. I cinque camici bianchi, dopo la condanna in primo grado, erano stati assolti in secondo. Giudizio, quest’ultimo, annullato dalla Cassazione e dunque tornato in aula davanti alla Corte d’Assise d’Appello. La pietra tombale. "La Cassazione, annullando l’assoluzione dei medici, ha evitato che sulla vicenda calasse una pietra tombale" ha continuato il pg Rubolino. "Già all’ingresso al Pertini sono state riportate circostanze chiaramente false sulla cartella clinica di Cucchi: era un bradicardico patologico, con 40 battiti cardiaci al minuto (rispetto ai 60 fisiologici) eppure i medici non gli hanno mai preso il polso". La frattura. "Presentava una frattura alla vertebra sacrale per il pestaggio avvenuto nelle fasi successive all’arresto" ha ricostruito. "Aveva un trauma sopraccigliare con scorrimento del sangue, per migrazione, sotto gli occhi, aveva un forte dolore fisico in conseguenza di quell’aggressione, eppure al Pertini gli è stato solo somministrato un antidolorifico che ha contribuito a rallentare il cuore, muscolo già indebolito perché non irrorato. L’apparato muscolare nel suo complesso, in quella cartella clinica fasulla, venne definito tonico e trofico ma il paziente non aveva neppure i glutei per poter avere una iniezione". Cinque giorni di agonia. E ancora: "Cucchi rifiutava le terapie e non mangiava perché nessuno lo metteva in contatto col suo avvocato. Nessuno si è preoccupato di riferire ad altri le sue esigenze. La sua morte è arrivata dopo cinque giorni di vera agonia". Per la Procura Generale, poteva bastare un farmaco che desse vigore al battito del suo cuore, poteva bastare un po’ di acqua con zucchero, forse, per migliorare una situazione gravemente compromessa. E invece niente di tutto ciò. "Cucchi - ha concluso Rubolino - non doveva stare in quel reparto perché non era stabilizzato. Eppure si è fatto in modo che venisse ricoverato lì, in quella struttura protetta lontana da occhi e orecchi indiscreti". "Cucchi torturato come Regeni" di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 giugno 2016 Processo d’appello. Dura requisitoria del pg contro i medici dell’ospedale Pertini. La pubblica accusa chiede la condanna dei sanitari che lo hanno "lasciato morire". E oggi nuova riunione dei periti dell’inchiesta sul pestaggio. "Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni, è stato ucciso dai servitori dello Stato, si tratta di stabilire solo il colore delle divise". L’eco delle parole pronunciate ieri dal procuratore generale Eugenio Rubolino davanti alla III Corte d’assise d’appello che celebra il processo bis ai medici dell’ospedale Pertini rimbombano nelle aule parlamentari italiane, dove la parola tortura rimane ancora un tabù o quasi. Al pari, dal punto di vista legislativo, dell’Egitto. Forse nemmeno Ilaria Cucchi e il suo avvocato Fabio Anselmo si aspettavano di sentire finalmente parole così forti e liberatorie nell’aula del tribunale che emetterà sentenza il 12 luglio prossimo. Per la pubblica accusa i cinque medici che ebbero "in cura" per cinque giorni il geometra romano arrestato per spaccio e morto sotto i loro occhi nel reparto detentivo il 22 ottobre 2009 "sono responsabili di omicidio colposo". "Per loro, nessuna attenuante generica", esorta il Pg Rubolino che ha chiesto di riformulare la precedente sentenza, annullata dalla Cassazione nel dicembre scorso, e condannare senza attenuanti il primario del reparto Aldo Fierro a 4 anni di reclusione (due, in primo grado), e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo a tre anni e mezzo ciascuno (un anno e quattro mesi ciascuno, le pena inflitta loro nel giugno 2013, quando la stessa Corte aveva assolto anche gli altri imputati, tre infermieri, tre agenti penitenziari e un sesto medico, "perché il fatto non sussiste"). "Cucchi è stato pestato, ucciso quando era in mano dello Stato, ucciso da servitori dello Stato in camice bianco. Occorre restituire dignità a Stefano e all’intero Paese. Bisogna evitare che muoia una terza volta", ha aggiunto Rubolino che nella sua requisitoria ricostruisce passo per passo perché "quell’ospedale per Stefano è stato un lager". "Già all’ingresso al Pertini sono state riportate circostanze chiaramente false sulla cartella clinica di Cucchi: era un bradicardico patologico, con 40 battiti cardiaci al minuto eppure i medici non gli hanno mai preso il polso". Se poi è vero, sostiene Rubolino, che tra le concause della sua morte c’è la sindrome di inanizione, come riconosciuto dai giudici di primo grado, allora va sanzionato il comportamento dei medici che "presenta profili di colpa ai confini di un dolo eventuale, una colpa con previsione, una colpa gravissima". I sanitari, infatti, sono stati "lontani non solo dal formulare una corretta diagnosi, ma anche dal verificarla". Il giovane geometra con lo stigma di "drogato" "è stato trascurato durante la degenza, non è stato per nulla curato. Gli imputati potevano e dovevano intervenire e invece fino all’ultimo al ragazzo è stata somministrata solo acqua, quando ormai era già cominciato quello che i periti hanno definito un catabolismo proteico "catastrofico". Viene privato anche del pane in quanto ciliaco. Stefano, cioè, si stava nutrendo delle sue stesse cellule e stava perdendo un chilo al giorno. Al momento del decesso il suo peso si aggirava intorno ai 37 kg". E ancora: "Presentava una frattura alla vertebra sacrale per il pestaggio avvenuto nelle fasi successive all’arresto, aveva un forte dolore fisico in conseguenza di quell’aggressione, eppure al Pertini gli è stato solo somministrato un antidolorifico che ha contribuito a rallentare il cuore, già indebolito. L’apparato muscolare nel suo complesso, in quella cartella clinica fasulla, venne definito tonico e trofico ma il paziente non aveva neppure i glutei per poter avere una iniezione". Cucchi, ricorda infine Rubolino - rifiutava le terapie e non mangiava perché nessuno lo metteva in contatto col suo avvocato. Nessuno si è preoccupato di riferire ad altri le sue esigenze. Non doveva stare in quel reparto perché non era stabilizzato. Eppure si è fatto in modo che venisse ricoverato in quella struttura protetta lontana da occhi e orecchi indiscreti. La sua morte è arrivata dopo 5 giorni di vera agonia". "La verità finalmente in aula", ha commentato l’avv. Anselmo che oggi attende l’esito della nuova riunione dei periti incaricati dal gip di accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni subite da Stefano, nell’ambito dell’inchiesta bis che vede indagati 5 carabinieri. Per concludere il lavoro, i periti guidati da Francesco Introna (contestato dalla famiglia Cucchi) hanno chiesto altri 90 giorni. Tutto tempo guadagnato per la prescrizione. Gonnella (Antigone): "subito il reato di tortura" "Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni". A dirlo è stato il Pg Eugenio Rubolino nella sua requisitoria al processo d’appello bis per la vicenda della morte di Stefano Cucchi, a cui è seguita la richiesta di condanna di cinque imputati per omicidio colposo. "Ancora una volta - dichiara Patrizio Gonnella - in un’aula di tribunale italiana si torna a parlare di tortura e, ancora una volta, dobbiamo constatare la mancanza di questo reato nel codice penale". "Dopo essere stato approvato alla Camera nell’aprile scorso - prosegue il presidente di Antigone - il testo della legge è tornato al Senato dove si è arenato, fino ad essere tolto dall’ordine del giorno dei lavori". "Sono oltre 27 anni che l’Italia aspetta il reato e non possiamo più permetterci di far passare del tempo nel dare seguito agli impegni internazionali assunti". "Per questo - conclude Gonnella - chiediamo ancora una volta al Presidente del Consiglio Renzi di farsi garante dell’approvazione di una legge che punisca la tortura". Sulla vicenda Cucchi la giustizia perde sempre l’equilibrio di Davide Giacalone Libero, 9 giugno 2016 Una cosa è certa: Stefano Cucchi è morto mentre era nelle mani dello Stato, ricoverato, da detenuto, all’ospedale Pertini di Roma. Una seconda cosa è evidente: la giustizia non riesce a trovare equilibrio, in una vicenda precipitata nel mentre faceva il suo corso. Arrestato il 15 ottobre del 2009, Cucchi fu poi portato in ospedale. Dopo pochi giorni mori. Le fotografie del cadavere sono state pubblicate per ogni dove e si deve fare uno sforzo per attenersi ai canoni della civiltà: non tocca a noi formulare sentenze, ma ai tribunali, dopo un regolare processo. Vale sempre, anche se spesso lo si dimentica. Il processo serve a stabilire se in quella morte ci sono delle colpe ed eventualmente di chi. L’appello aveva già assolto tutti i medici. La Corte di cassazione, però, ha cancellato quella sentenza e rinviato a un nuovo appello, che ora è alle sue battute finali. Poi si tornerà in cassazione. Se va bene, alla fine, saranno passati otto o nove anni. È un tempo impressionante, considerato che il cittadino Cucchi, appunto, è morto in casa della giustizia. È un tempo impressionante, anche per gli imputati, naturalmente, che se confermati nella loro innocenza avranno passato troppo tempo in una condizione terribile, mentre se sono colpevoli hanno passato troppo tempo senza essere puniti. È un tempo impressionante perché nel suo scorrere altri cittadini si sono trovati come si trovò Cucchi, senza che una sentenza chiara facesse da punto di riferimento. Nel corso della requisitoria (le sue conclusioni) il pubblico ministero ha definito Cucchi: "Vittima di tortura, come Giulio Regeni, si tratta solo di stabilire il colore delle divise". Ho l’impressione che si fatichi ancora, a trovare equilibrio, in questa faccenda. Nel corso di un processo può ben starci il richiamo ad altri casi analoghi, ma avviene per richiamarne le sentenze, passate in giudicato. Serve per citare il precedente, cui si chiede al tribunale di avvicinarsi. Ma il caso Regeni non solo non ha sentenza, ma si è lontani assai dal ragionevole accertamento dei fatti. Le notizie giunte da Cambridge, con i suoi professori che si rifiutano di rispondere ai procuratori italiani, invocando la segretezza degli studi che svolgeva, hanno un che di inquietante. Lasciano supporre che il non detto sia ancora prevalente sul detto. E non sappiamo in che circostanze è stato ucciso Regeni, ancor meno da chi, non sappiamo se lo scempio si deve all’operato delle forze di sicurezza egiziane, o da chi, magari fra loro stessi, ha agito in quel modo per procurare problemi al governo e alla polizia, ne sappiamo se c’è lo zampino di qualche non egiziano, magari desideroso d’increspare le acque nei rapporti fra l’Egitto e l’Italia, sappiamo, però, che il corpo di Regeni è stato straziato. Il caso di Stefano Cucchi è molto diverso. Se i trattamenti fossero stati gli stessi, anche il capo d’accusa è sbagliato: non omicidio colposo, ma sevizie inferte con crudeltà, per uccidere. Le condanne richieste (la più alta è quattro anni di reclusione) sarebbero sproporzionate. Il compito dell’accusa è quello di dimostrare la colpevolezza degli imputati. Con le prove, non a poco convincenti e pertinenti chiacchiere. Caso Cucchi. Ospedale "Pertini", il reparto carcerario va chiuso di Carlo Picozza La Repubblica, 9 giugno 2016 Quattro anni per il primario e tre e mezzo per quattro medici del padiglione carcerario che, nell’ospedale Pertini, ospitò Stefano Cucchi, arrestato sano a 33 anni, la sera del 15 ottobre 2009 e morto con la schiena rotta e altre lesioni all’alba di una settimana dopo. La condanna è stata chiesta dal procuratore generale Eugenio Rubolino per il primario Aldo Fierro, per Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo, nell’ambito del processo di appello bis. "La morte di Cucchi", ha scandito il pg, "è arrivata dopo 5 giorni di agonia durante i quali al giovane non è stata neanche presa la frequenza cardiaca che era di 40 battiti al minuto all’arrivo al Pertini: è gravissimo; i medici non hanno fatto nulla". "Nel reparto protetto del Pertini", ha detto, "possono entrare solo detenuti in condizioni di salute stabilizzate ma Cucchi non era in queste condizioni". Il giovane sarebbe dovuto passare per il Pronto soccorso, per essere poi stabilizzato dagli specialisti. Fu dirottato, invece, nella corsia con le sbarre. Abbandonato al suo destino consumatosi con un ricovero pilotato. Un dirigente dell’Amministrazione penitenziaria, fuori servizio, bussò alle porte ferrate del centro per far accettare Cucchi, nonostante la gravità delle sue condizioni cliniche. Il dirigente del Dap chiese il rito abbreviato e fu condannato a due anni di reclusione dalla giudice Rosalba Liso. Fu assolto poi in Corte d’appello. Rubolino fece ricorso e la Cassazione annullò la sentenza rinviando gli atti ad altra sezione della Corte d’appello che assolse di nuovo il dirigente. Ora, nel "carcere" del Pertini è ricoverato Marcello Dell’Utri dopo essere passato, piantonato, nella Cardiologia dell’ospedale dove ha superato la fase acuta. "Quel padiglione", confida un medico, "è inutile e costoso: l’andirivieni dei pazienti verso il Pertini e degli specialisti verso i detenuti è uno sperpero di risorse ed energie". Il primario di allora ora dirige la Medicina dell’ospedale. Al suo posto si sono avvicendati due "facenti funzioni". Anche i suoi ex collaboratori non sono più dove Cucchi si spense il 22 ottobre 2009. L’ombra della camorra sul concorso per poliziotti penitenziari di Nino Materi Il Giornale, 9 giugno 2016 In America negli anni 30 la mafia si infiltrava sistematicamente nella polizia e nelle carceri per meglio controllare i propri affari. In Italia il fenomeno non è tale da suscitare allarme, ma qualche ombra esiste. Ne sono prova le inchieste che hanno individuato alcune "mele marce" nei vari corpi di polizia, cui va però riconosciuto il merito di aver saputo fare presto e bene pulizia al proprio interno. Eppure resta la sensazione che una presenza pervasiva di mafia, camorra e ‘ndrangheta tra gli uomini in divisa non sia del tutto da escludere. Negli ultimi giorni due casi hanno fatto riflettere. I sospetti di irregolarità nell’ultimo concorso per entrare in polizia e la sospensione dell’esame di per agenti penitenziari a causa del sospetto di "infiltrazioni camorristiche". E che non si tratti di pericoli immaginari lo dimostra l’apertura di due indagini giudiziarie e l’interessamento a entrambi i casi da parte di Raffaele Cantone, presiede dell’Autorità nazionale anticorruzione. Titolo del Messaggero del 18 maggio scorso: "Così la camorra truccava il concorso per guardie carcerarie"; titolo del Mattino di Napoli dell’altro ieri: "II concorso di polizia tra veleni e sospetti". A proposito del test per agenti penitenziari il sospetto è che la camorra abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane e che per farlo abbia intrapreso la via ordinaria del concorso ministeriale. E non è un caso che il fascicolo sullo scandalo della selezione per 400 agenti di polizia penitenziaria, sospesa dal Dap perché 88 concorrenti sono stati trovati durante le prove con radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni, sia all’esame della Procura distrettuale antimafia della Capitale. A coordinare l’indagine a carico degli 88, che alla fine di aprile erano sbarcati alla Fiera di Roma dalla Campania per superare le prove, è il procuratore aggiunto Michele Prestipino. Stessa storia per l’esame in polizia ora sub iudice a Napoli. In rete già parlano di "concorso miracoloso". Ma c’è anche chi lo ha soprannominato "concorso truffa": è quello per selezionare 559 allievi agenti della polizia di Stato. "La prima prova - riporta il principale quotidiano campano - si è tenuta il 13 maggio e ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, un record. 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno commessi 2. In totale 421 persone che si sono cimentate su un test a risposta chiusa di cui non era stata in precedenza pubblicata la banca dati risultando praticamente infallibili. Basta guardare il grafico dei risultati per notare un’impennata finale in corrispondenza proprio delle votazioni più alte, quelle superiori al 9. Un risultato definito da molti sospetto e che ha fatto scattare una serie di segnalazioni all’Authority anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che le sta verificando. Tra le varie anomalie, spicca il fatto che gli ammessi sono quasi tutti campani. Il segretario campano dello sindacato Silp, Tommaso Delli Paoli denuncia "lo stato di confusione in cui versa, ormai da anni, l’ufficio per le attività concorsuali, situazione questa diventata ormai insostenibile. Chiediamo quindi un’attenta attività ispettiva". Per non trovarci un domani con uomini in divisa, teoricamente al servizio dello Stato, ma in realtà a libro paga dei boss. Una vita in lotta contro la mafia di Alfredo Marsala Il Manifesto, 9 giugno 2016 Addio a Pina Maisano, protagonista con i suoi figli e insieme ai tanti "nipoti" di Addiopizzo di una battaglia esemplare per la dignità della Sicilia. Venticinque anni trascorsi nel nome di Libero Grassi, da quel giorno maledetto in cui trovò suo marito morto sparato davanti al portone di casa, a Palermo. Un "cittadino onesto", diventato icona dell’antimafia per aver sfidato la logica del racket. Venticinque anni trascorsi nel nome di Libero Grassi, da quel giorno maledetto in cui trovò suo marito morto sparato davanti al portone di casa, in via Alfieri. A fianco i figli, Alice e Davide. Infaticabile nella difesa dell’azienda di famiglia, eredità di un "cittadino onesto" e non di un eroe, divenuto icona dell’antimafia, quella vera, silenziosa e normale. Fuori dalle mura di casa, Pina Maisano ha avuto pochi ma veri amici. E tanti "nipoti". Non c’è mai stato il mondo delle associazioni imprenditoriali, troppo grande la ferita inferta da quel pezzo di Confindustria palermitana che aveva bollato la ribellione di Libero Grassi come il gesto di un pazzo. In casa le foto del marito, finito nel lungo elenco delle vittime di mafia, assassinato perché aveva osato sfidare il racket del pizzo, scrivendo di suo pugno la lettera al "caro estortore". Ucciso d’estate, Libero. Era il ‘91, a Palermo quasi ogni giorno un morto ammazzato per strada. Pina Maisano, piccola di fisico e grande d’animo, per le strade della città che amava e che odiava, vide quegli adesivi listati a lutto, scritta nera su fondo bianco, nessun nome, nessun logo: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Era il 29 giugno del 2004. Tredici anni senza Libero. "Mi chiama una giornalista e mi chiede cosa pensassi di quella frase, e ovviamente se ne conoscessi gli autori. Rispondo che non li conosco, ma che, se fossero stati dei giovani, li avrei adottati come nipoti miei e di Libero", racconterà Pina Maisano. E il giorno dopo nel suo studio citofonano dei ragazzi: "Siamo i tuoi nipoti". Con quell’"adozione" particolare nasceva Addiopizzo, l’associazione che raccogliendo il testimone di Grassi lancerà l’iniziativa del consumo critico anti-mafioso: un bollino per ogni negozio antiracket "certificato". E "rinasceva" anche Pina Maisano, non più la vedova di Libero Grassi, ma la "nonna" dei ragazzi che sfidano il racket, andando per negozi e imprese, infondendo coraggio e dando sostegno concreto a commercianti e imprenditori che pagano. La diffidenza che si portava dentro - Pina è morta a 87 anni. È spirata a Villa Sofia, a pochi giorni dall’inizio dell’estate. La sua è stata una vita di sacrifici e lotta nel nome del marito. Non amava i riflettori, anzi. Mai una parola in più. Mai presenzialista. Composta, diretta. A tratti dura, per quella diffidenza che si portava dentro. Dopo l’assassinio del marito prende le redini dell’azienda, la Sigma. Un anno dopo, era il ‘92 si candida con i Verdi. Scelta non di comodo la sua. Avrebbe potuto optare per l’ex Pci, che Achille Occhetto aveva appena trasformato nel Pds. Ma non lo fece. Era fatta così. Viene eletta in Senato. Ma non sono i siciliani a sceglierla: si candida nel collegio del Piemonte. Anche il figlio Davide, qualche tempo dopo tenterà l’ingresso con i socialisti in Parlamento, ma non ce la fa. Ai "nipoti" di Addiopizzo per il ventennale dell’omicidio del marito aprì il cassetto dei ricordi più intimi, raccontando Libero, le cui battaglie di legalità erano iniziate molto prima del 1991. A capo della Sigma, terza italiana del settore, un fatturato di 7 miliardi di lire, negli anni Sessanta s’era battuto perché il "sacco di Palermo" di Vito Ciancimino non inghiottisse il villino liberty del circolo Roggero di Lauria, a Mondello. Come consigliere d’amministrazione dell’azienda locale per l’energia, Grassi un decennio dopo si era speso perché la città fosse dotata di una rete di distribuzione del gas, mettendosi contro la lobby dei "bombolari". Aveva poi creato la Solange impiantistica, che avrebbe dovuto fare da battistrada in Italia per l’energia solare. E poi c’era il Grassi impegnato in politica. Quello che, in viaggio a Parigi con la moglie, trova sul parabrezza dell’auto il messaggio di un certo Marco, un italiano che si diceva in difficoltà economiche e chiedeva aiuto. "Era Marco Pannella - ricorderà Pina Maisano - tra lui e Libero si creò subito una certa intesa. Discutevano spesso su un punto: i politici, per poter davvero fare politica, non possono partecipare a più di due legislature, perché sennò perdono il contatto con la realtà di tutti i giorni". È così che Grassi si iscrive al Partito radicale, dopo una militanza con i repubblicani di Ugo La Malfa, col quale dà vita, insieme a pezzi di Democrazia proletaria, al Comitato opposizione Palermo, votato all’antimafia per denunciare "il sistema di potere Dc" come "espressione della "borghesia mafiosa". Di quel sistema, tredici anni più tardi, la senatrice Pina Maisano chiederà conto a Giulio Andreotti. "Era il giorno in cui la giunta per le autorizzazioni a procedere doveva esprimersi sull’azione penale contro di lui - racconterà Pina - Il primo documento a disposizione, 250 pagine, era la relazione dei pentiti: Buscetta, Calderone, Mutolo, Mannoja… Si parlava dei Salvo, di Ciancimino, del maxi processo… Per gli altri senatori, si trattava di fatti lontani. Per me, palermitana, erano ferite aperte sul mio corpo. E allora non potei fare a meno di chiedere ad Andreotti: onorevole, mi scusi: ma lei, nella sua posizione, non poteva non sapere, visti i suoi rapporti con Lima e Ciancimino, quale fosse la situazione a Palermo. Non è così?". Il "divo Giulio" promise che avrebbe risposto a processo chiuso. Nel 2003, dopo la sentenza d’appello che dichiarava prescritti i reati di mafia del senatore a vita fino al 1980, Pina Maisano gli scrive ricordandogli quel vecchio impegno. E lui risponde a suo modo, mandando in prescrizione la memoria: "Grazie, cara collega, della lettera gentile e dei ricordi di un periodo interessante. Sinceri auguri e saluti". Due mondi diversi. Due mondi lontani. Senza guardarlo negli occhi - Libero fu ammazzato alle 7.45, a sparargli fu Salvino Madonia. Il killer, condannato all’ergastolo, rampollo di una potentissima famiglia lo attese sotto casa assieme a Marco Favaloro, poi pentito. Gli sparò alle spalle, senza neanche guardarlo negli occhi. Troppo pesante per Cosa nostra quella lettera che l’imprenditore qualche giorno prima scrisse al "Caro estortore…", pubblicata dal Giornale di Sicilia. Ogni anno Alice Grassi, proprio dove la mafia ha ucciso suo padre, scrive: "Qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato". Parole dure, parole vere. Come a ricordare quegli anni Novanta quando un giudice, Luigi Russo di Catania, stabiliva in una sentenza che non era reato acquistare la "protezione" dei boss, quando il presidente degli industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, urlava alla radio, proprio in risposta a Grassi, che "i panni sporchi si lavano in famiglia". Adesso che Pina non c’è più, tocca ai "nipoti" di Addiopizzo. "Hai segnato per noi una strada che ancora oggi proviamo a percorrere seguendo i passi tuoi e di Libero. Passi lievi, garbati e al tempo stesso determinati e forti. Non sempre siamo stati all’altezza della tua sagacia, della tua intelligenza e ironia, della tua generosità e della tua grande capacità di amare, ma siamo stati onorati di camminare insieme, accompagnati dal tuo esempio d’amore, sapiente e generoso, che trasformava ciò che fa star male, che provoca dolore e rabbia in capacità di essere qualcosa di diverso dalla violenza in cui siamo cresciuti. Grazie, nonna". Allontanarsi dal posto di blocco non è sempre reato di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2016 Tribunale di Genova, sentenza 11 marzo 2016, n. 1162. Frenare bruscamente per fermare il proprio veicolo prima di un posto di blocco delle forze dell’ordine e invertire il senso di marcia, evitando così il controllo da parte degli agenti, può integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale in caso di successivo inseguimento da parte degli agenti. Ma il reato non si configura se non è chiaro al guidatore che la pattuglia lo sta seguendo. Nel caso di specie, il conducente è stato assolto perché gli agenti che si erano messi al suo inseguimento con l’autovettura di servizio avevano attivato i lampeggianti ed azionato la sirena, senza però intimare l’alt (con la paletta, modalità prevista dal Regolamento di esecuzione del Codice della strada): la situazione poteva essere intesa come necessità degli agenti di eseguire un diverso intervento urgente. Ritorno al penale per l’ostacolo all’attività di revisione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2016 Commissione Giustizia, parere sullo schema di decreto sull’attività di revisione. Deve tornare ad avere rilevanza penale la condotta di chi ostacola l’attività dei revisori. Parola della Camera, che nel parere approvato dalla commissione Giustizia sullo schema di decreto legislativo sulla revisione (in attuazione della direttiva 2014/56/Ue) mette tra le condizioni un intervento del Governo che ponga rimedio alla situazione attuale. Oggi, infatti - per effetto del Dlgs 8/2016, in vigore da pochi mesi, che è uno dei due provvedimenti nei quali si è tradotta l’operazione di depenalizzazione (l’altro è il Dlgs 7) - l’impedito controllo è ormai fuori dal perimetro dei reati. La fattispecie in questione era fino al 6 febbraio un reato proprio degli amministratori della società assoggettata a revisione legale, che si realizzava in presenza di due modalità di condotta alternative: l’occultamento di documenti oppure il ricorso ad altri idonei artifici (quindi, mezzi truffaldini), che hanno l’effetto di impedire od ostacolare lo svolgimento delle attività di revisione. Soggetto passivo dell’impedito controllo era, così, il soggetto che esercita le funzioni di revisione legale. La sanzione prevista era esclusivamente pecuniaria, con un’ammenda fino a 75mila euro. Un assetto che è stato investito, dall’inizio di febbraio appunto, dalla depenalizzazione, che non considera più reato tutte quelle condotte in precedenza sanzionate con la sola multa o ammenda, traghettandole nel campo delle infrazioni amministrative punite con misure pecuniaria. La commissione Giustizia della Camera prende atto degli effetti che si sono venuti a creare e, in maniera difforme da quanto deciso dal Governo e in un intervento però di più ampio respiro, sollecita la "ripenalizzazione" dell’impedito controllo. Procedendo semmai a un rafforzamento del presidio penale, visto che viene chiesto l’abbinamento dell’arresto alla reintroduzione della sanzione pecuniaria. Quanto alle altre condizioni, l’altra richiesta di spessore che la Commissione ha presentato al Governo riguarda l’estensione dell’arco di tempo che deve essere trascorso prima di potere assegnare un nuovo mandato alla società di revisione, che lo ha già precedentemente svolto, nei confronti degli enti di interesse pubblico e di quelli a regime intermedio. Tra questi ultimi, una delle novità dello schema di decreto, rientrano per esempio, società emittenti, banche e assicurazioni. Il periodo di tempo che dovrebbe essere rispettato, secondo la Camera, dovrebbe essere di almeno quattro esercizi dalla data di cessazione del precedente incarico. L’ultima modifica sollecitata a livello di condizione riguarda i requisiti che devono possedere le società che stipuleranno convenzioni con il ministero dell’Economia per la formazione permanente dei revisori. Il testo attuale dello schema di decreto prevede che questi soggetti siano caratterizzati, tra l’altro, da un’adeguata struttura organizzativa, un’articolazione territoriale e un numero minimo di almeno otto dipendenti. Ora quest’ultimo requisito, che alla Commissione è apparso troppo restrittivo, dovrebbe essere sostituito da una richiesta di un numero "adeguato" di dipendenti. Avvocati-mediatori, il Cnf conferma gli standard minimi per la formazione di Marco Marinaro Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2016 Il Consiglio nazionale forense ha ribadito che, nella formazione degli avvocati-mediatori iscritti presso organismi di mediazione, è necessaria un’adeguata formazione in materia di mediazione con l’obbligo di percorsi di aggiornamento finalizzati. Ciò anche alla luce della sentenza del Consiglio di Stato n. 5230 (depositata il 17 novembre 2015). La precisazione giunge dalla commissione interna Adr, coordinata da Diego Geraci, che ha inviato ieri una nota ai presidenti dei Consigli degli Ordini forensi, dopo aver ricevuto diverse richieste di chiarimento. Secondo quanto reso noto, si è ritenuto di confermare la "validità attuale e la conformità ai princìpi espressi dal giudice amministrativo" della circolare Cnf del 5 marzo 2014 n. 6-C-2014 (adottata sulla base della circolare del ministero della Giustizia del 27 novembre 2013), che aveva fissato gli standard minimi. La circolare aveva previsto per la formazione di base un percorso di 15 ore teorico-pratiche integrate da un tirocinio con partecipazione a due procedure di mediazione (a fronte di un corso base standard da 50 ore) e per l’aggiornamento otto ore nel biennio dedicate principalmente allo studio di casi (rispetto alle 18 ore standard con 20 tirocini). Sempre secondo la circolare, questa formazione è affidata a Ordini e Cnf, con possibilità di accreditare singoli corsi, come per la formazione permanente (diversamente dai percorsi standard, con abilitazioni solo per gli enti di formazione specificamente accreditati alla mediazione presso il ministero). La nota Cnf si riferisce ai princìpi espressi dal Tar del Lazio (sentenza n. 1351, depositata il 23 gennaio 2015), che aveva reputato illegittima la mancata previsione dell’esclusione degli avvocati dalla formazione obbligatoria ivi prevista, a fronte del riconoscimento agli stessi della qualifica di mediatori di diritto. Pervenuta poi in appello, la questione è stata esaminata dai giudici di Palazzo Spada, i quali, nel riformare la sentenza di primo grado, hanno affermato invece che i percorsi di formazione gestiti per l’avvocatura dai relativi ordini professionali, pur se prevedono una preparazione all’attività di mediazione ("ma solo come momento eventuale e aggiuntivo rispetto ad una più ampia e variegata pluralità di momenti e percorsi di aggiornamento"), sono "ontologicamente" diversi, considerata la formazione specifica che la normativa primaria richiede per i mediatori. Nel valorizzare la qualifica di mediatori di diritto degli avvocati, il Cnf ha ritenuto dunque coerente con quanto affermato dal Consiglio di Stato ribadire la vigenza delle regole approvate nel 2014, chiarendo così i dubbi sorti sugli obblighi formativi dopo la sentenza n. 5230/2015. I detenuti scrivono a Pannella: il guerriero Marco vive nelle nostre battaglie Il Dubbio, 9 giugno 2016 Caro Marco, non vogliamo fare condoglianze ai vivi per la tua morte, per noi non sei davvero morto e dunque scriviamo una lettera indirizzata a te, come se tu potessi leggerla e chissà, forse, magari ci sbagliamo ed esiste davvero un luogo oltre a questo conosciuto dove adesso tu sorridi e ti godi il tuo meritato riposo da una vita piena di battaglie per rendere migliore questo mondo. Abbiamo ascoltato le tante persone che ti hanno voluto bene, bene davvero, e quelle che ti vogliono bene solamente adesso che non ci sei più. Noi detenuti viviamo in un altro mondo e vediamo con chiarezza, dall’esterno, il mondo che non ci appartiene più. Ma una cosa è certa, sia chi ti ha voluto davvero bene sia chi lo dice solo per le circostanze dovute, hanno detto di te qualcosa d’inconfutabile; l’elogio alla tua grandezza, al tuo essere lontano da ogni opportunismo politico e tutto l’interesse che gli sta dietro. Hai lottato fino a mortificare il tuo corpo, rendendo così il tuo spirito sempre più forte, per rendere il nostro Paese più civile. Non ti sei mai lasciato abbattere dalle sconfitte, anzi, ti hanno sempre dato più forza nel continuare nelle tue lotte, sì, tue, seppur per gli altri. Noi detenuti abbiamo perso molto, non abbiamo solo perso Marco Pannella, che altro non potrebbe essere che un nome, no, abbiamo perso un guerriero che con forza ha sempre battagliato per noi, a volte andando anche alla carica da solo sul tuo cavallo bianco contro dei nemici schierati a testuggine, ma tu non ti sei mai fatto intimorire e anche schiantandoti su di loro hai comunque cercato di aprire una breccia. L’ultima volta che ti incontrammo fu qui, a Opera. Ricordi quel tuo battere il ritmo di "Spes contra spem" con la mano sul microfono, e noi con il battito delle mani venirti dietro? È stato davvero bello, in quel suono cadenzato ci sentimmo, forse per la prima volta, parte di qualcosa, parte del mondo libero che spesso si dimentica di noi e questo grazie a te. Anche senza le tue parole, ma solo con dei colpi sul microfono, hai detto qualcosa e qualcosa di molto importante per il mondo dei detenuti, in quel momento ci hai detto: Non siete soli! Adesso un po’ più soli lo siamo, ma tu ci hai insegnato a non scoraggiarsi, a lottare per rendere migliore il mondo carcerario, che tu definivi luogo di illegalità. Cercheremo di fare tesoro dei tuoi insegnamenti e siamo sicuri che tu continuerai ad essere la nostra guida, il nostro spirito guida. Addio Marco o, forse, arrivederci, perché, come abbiamo detto, tu non sei morto, per noi, e continueremo, se non a vederti, a sentire la tua presenza nelle persone che ti sono state molto vicine, ti vedremo nei begli occhi di Rita che, siamo sicuri, con forza continuerà le tue battaglie, ti ascolteremo nelle belle parole di Sergio, a lui hai lasciato in eredità la voglia e la forza del cambiamento, dell’esserci, nell’impegno di Elisabetta che porta in Europa il concetto di tortura e vigila attenta che l’Italia non vada oltre al suo già errore di interpretazione della stessa tortura. No, adesso che tu non ci sei, caro Marco, non devi preoccuparti di averci lasciati soli, perché non l’hai fatto, queste persone straordinarie continueranno a starci accanto e lotteranno per noi, con noi, tutti insieme, con "Nessuno tocchi Caino". Allora, più che con un addio, ti salutiamo come in una lettera. Ciao, un abbraccio e a presto. Alfredo Sole Vito Baglio Francesco Di Dio Orazio Paolello Gaetano Puzzangaro Casa di Reclusione di Milano Opera I detenuti scrivono a Pannella: se in cella "respiriamo" è merito tuo Il Dubbio, 9 giugno 2016 Un’intervista ideale per ricordare il leader radicale. Caro Sergio, il dolore per la perdita di Marco è grande, ti affido questo mio pensiero per tutti i compagni del Partito. "Il saluto di un lottatore a un suo pari" Giacinto Pannella, conosciuto da tutti con l’appellativo di Marco, ha rappresentato il massimo lottatore e paradigma moderno della nonviolenza per la difesa delle garanzie, diritti individuali e civili degli ultimi, dei discriminati, delle libertà di espressione e di autodeterminazione. Viene a mancare un mito, come ci ricorda il suo nome di battesimo nella cultura greca, uno dei principali se non ancora unico lottatore puro dei diritti civili e dei più deboli. La società prima e la politica dopo hanno perso un pezzo di lealtà intellettuale che oggi non esiste più. Oggi è un giorno di tristezza. L’ambiente carcerario è in lutto, ha perso il suo Messia: il suo Direttore per eccellenza; il Difensore di tutti i detenuti; il Fratello ideale di tutti i reclusi privati della libertà personale. Desideravo tantissimo incontrarlo e salutarlo, dopo che aveva annunciato pubblicamente che sarebbe venuto a trovarmi nel Carcere di Badu e Carros di Nuoro, proprio perché stava in condizioni precarie. E perché, dopo 40 anni di detenzione, desideravo tanto conoscerlo di persona, nonostante avessimo portato avanti e vinto, insieme, tante battaglie. Dieci domande ideali da porre a un detenuto in onore di Marco 1 - Il primo pensiero dopo la scomparsa di Marco? Spero che i radicali continuino sulla stessa strada lasciata in eredità a loro e al prossimo, che le sue lotte, idee e propositi non svaniscano nel nulla coltivando la stessa determinazione e disinvoltura. 2 - Cosa ispirava ad una persona detenuta? Fiducia e speranza. Ti aiutava a credere e ad impegnarti in ogni proposta ed iniziativa. Con la sua irruenza trasformava i desideri in realtà, anche se poi non si avveravano però ti coinvolgeva; quella partecipazione attiva e non passiva ti faceva vivere e programmare un futuro. 3 - I detenuti senza Marco come affronteranno la detenzione? Sicuramente perderanno molta speranza perché lui si era guadagnato (storicamente stoicamente) la loro fiducia e, lo vedevano come una punta di diamante, dall’altro vi è il conforto di credito nei confronti dei preziosissimi: Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, Emma Bonino, Sergio d’Elia e gli altri autentici amici radicali. Questa fiducia è il motivo per cui ho conosciuto e mi sono iscritto al Partito Radicale. 4 - Se avesse potuto affidare a Marco un impegno cosa le avrebbe affidato? La Direzione delle Carceri o a Capo del Dap e ancora il ministro della Giustizia; perché se oggi il carcere "respira" è tutto merito dei radicali. Contro domanda: di certo non gli avrei affidato un pacchetto di sigarette? 5 - Se potesse rimproverarlo cosa le direbbe? Di essere meno prolisso sia nelle trasmissioni che negli interventi e interviste, perché era affamato di dare più notizie possibili nelle finestre pubbliche che gli concedevano i media, così gli ascoltatori non seguivano bene i suoi discorsi. Ma solo a fin di bene. 6 - Cosa avrebbe voluto fare insieme a Marco? Abolire l’ergastolo e approvare la legge contro la tortura. 7 - Chi l’ha tradito secondo lei? Le istituzioni che hanno fatto finta di non capirlo, talvolta oscurandolo, perseguendo l’interesse del consenso elettorale a danno di motivi e lotte giuste. Così pure i mass media, che lo ignoravano e, solo a partite vinte lo osannavano e gli tributavano elogi e meriti. 8 - Cosa avrebbe meritato? Mi amareggia in onore della sua memoria e per la storia dei posteri che Ciampi, Napolitano e Mattarella non gli abbiano riconosciuto il merito attribuendogli la nomina a Senatore a vita. 9 - Come saluterebbe Marco l’ultima volta? Ciao Marco, continua a non arrenderti dovunque tu sia. Nel mio cuore ci sarai sempre. 10 - Un’ultima domanda: un termine carcerario che lo identifica. Un irriducibile. Con affetto. Domenico Papalia Casa di Reclusione di Oristano Milano: "non spostate il carcere, San Vittore deve restare al centro della città" di Elisabetta Longo Tempi, 9 giugno 2016 Intervista a Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. "La struttura ha bisogno di un rinnovamento radicale, ma esistono altre soluzioni". San Vittore, Regina coeli e Poggioreale potrebbero non essere più carceri, potrebbero essere riqualificate, per lasciare il posto ad abitazioni o centri commerciali. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha dichiarato di voler "vendere" le mura degli istituti alla Cassa depositi e prestiti, e con il ricavato costruire nuove strutture, più al passo con i tempi. In tutte e tre le città, Milano, Roma e Napoli, sono in corso le elezioni del sindaco, ma il ministro della Giustizia ha aggiunto che il progetto potrebbe partire proprio dopo i ballottaggi di metà giugno. Per quanto riguarda la Casa circondariale di Milano, cosa pensare? Da un lato, l’idea di avere un carcere più moderno e più funzionale - tutti conosciamo i problemi legati al sovraffollamento - potrebbe essere una buona idea. Dall’altro, però, l’idea di trasferire San Vittore dal centro della città alla periferia avrebbe il sapore simbolico di "spostare" il problema lontano dagli occhi e dal cuore. Per questo abbiamo chiesto a Giovanna Di Rosa, presidente facente funzioni del Tribunale di sorveglianza di Milano ed ex membro del Csm, cosa ne pensa. Presidente Di Rosa, non è la prima volta che si discute di un ipotetico trasferimento di San Vittore. "La presenza della Casa circondariale di San Vittore è strettamente legata al tessuto storico della città, toglierla da lì vorrebbe dire privare Milano di un pezzo della sua storia. È innegabile che la struttura di per sé avrebbe bisogno di un rinnovamento radicale, basta guardarla dall’esterno per notare le infinite crepe delle sue mura. All’interno, poi, ci sono tanti problemi di riscaldamento, perdite d’acqua e molto altro. Non tutti i raggi al momento sono occupati, proprio per i motivi appena spiegati, si potrebbe pensare di cominciare a rendere migliore quelle celle vuote. Penso che il trasferimento sia l’ultima ipotesi da considerare, prima ce ne sono molte altre fattibili". Crede che spostarlo in periferia farebbe sentire ancora più emarginati i detenuti? "Non solo loro. San Vittore, come tutte le case circondariali e gli istituti penitenziari, ha al suo interno una città di persone. Ci sono cuochi, personale di servizio, agenti, ma soprattutto ci sono le famiglie, che vanno a fare visita ai propri cari, ci sono i bambini. Spostare San Vittore dal centro città, ben servito dai mezzi pubblici, alla periferia, farebbe sorgere subito il problema del trasporto. Non basterebbe aggiungere una linea di autobus pubblica, perché avrebbe comunque degli orari fissi, magari incompatibili con gli orari delle visite. Pensiamo poi alla difficoltà che avrebbero anche i bambini che vanno a trovare i genitori in carcere, magari rischierebbero di perdere un’intera giornata di scuola. Io stessa quando mi devo recare al carcere di Bollate, parto in anticipo, calcolando il tempo di tragitto come una vera trasferta. E ogni volta che vado là, mi cade lo sguardo sul capannello di persone che aspetta l’autobus nei pressi del carcere". Secondo lei i milanesi sentono la presenza di San Vittore? O, se venisse spostato, non se ne accorgerebbero nemmeno? "Innanzitutto lo vedono, e quindi anche solo una piccola riflessione guardandolo possono farla, cosa che non accadrebbe se fosse spostato altrove. Inoltre, all’interno della casa circondariale vengono fatte spesso iniziative, penso ad esempio all’annuale "Frutti del carcere", che si terrà sabato 11 giugno, o all’aperitivo organizzato dalle detenute donne presenti a San Vittore, nata con Expo e che verrà replicata questa estate. Iniziative che aprono le porte, che invitano i milanesi e che rispondono sempre con enfasi. Sono iniziative di incontro, che hanno successo proprio perché si trovano al centro della città. Nel carcere di Bollate è stato aperto il ristorante "InGalera", in maniera fissa, e sta richiamando molti avventori. È stata pensata questa formula proprio perché si trova in una zona periferica, mentre a San Vittore funzionano di più altre modalità, in grado di sviluppare socialità e far conoscere la realtà delle cooperative carcerarie. Sarebbe un peccato perdere quest’occasione". Uno dei problemi più gravi di San Vittore è il sovraffollamento. Un problema che d’estate, con il caldo, diventa emergenza. Cosa si potrebbe fare per trovare una soluzione? "A San Vittore si scontano pene brevi, molto spesso inferiori all’anno. In quanto presidente del Tribunale di Sorveglianza, ritengo che bisognerebbe ricorrere di più alle misure di pena alternative, valutando caso per caso, perché potrebbe essere anche un mezzo di contrasto al sovraffollamento delle carceri. Inoltre un detenuto che sconta una pena alternativa avrà un rischio di recidiva di reato nettamente inferiore rispetto a uno che rimane in carcere senza far nulla, e magari non ha l’occasione di poter far parte di una cooperativa. È stato lo stesso Dap a ribadire l’importanza delle misure di pena alternative in una recente circolare del 1° aprile 2016. Il pensiero comune spesso ritiene che il carcere non debba essere troppo tenero, che alla fine sia quasi giusto che il detenuto in cella sia scomodo, soffra il caldo, non abbia agi. Non dobbiamo cedere alla tentazione di pensarla così, anzi, la pena scontata sarà tanto più giusta quanto più non metterà il detenuto in condizione di soffrire più del dovuto. Un detenuto sta già soffrendo per la perdita della libertà, fargli patire anche il freddo che valore potrebbe mai aggiungere alla sua rieducazione?". Genova: diminuiscono i detenuti nel carcere di Marassi di Matteo Macor La Repubblica, 9 giugno 2016 Il bilancio della direttrice Maria Milano dopo i suoi primi sei mesi alla festa della Polizia Penitenziaria. Meno affollato, "più curato nelle strutture e negli spazi comuni", gestito e pensato con nuovi ruoli tecnici all’interno "per migliorare la qualità della vita detentiva". È "positivo", "nonostante le tante criticità che può comportare la guida di una realtà come questa", il bilancio dei primi sei mesi alla direzione del carcere di Marassi di Maria Milano, da fine 2015 a capo della casa circondariale genovese. L’ex direttrice dei penitenziari di Chiavari e Pontedecimo lo ha commentato questa mattina, alla cerimonia annuale del corpo di Polizia Penitenziaria, al Teatro dell’Arca, il teatrino nato due anni fa nel cuore del carcere. "Una prima volta, per me, di questa festa della nostra polizia" - è la definizione - che è diventata l’occasione per spiegare obiettivi, criticità e futuro del penitenziario genovese. Sul palco della cerimonia, tra gli altri, insieme alla direttrice del carcere di Pontedecimo, Maria Isabella De Gennaro, la neo direttrice di Marassi ha parlato di calo dei detenuti ("siamo scesi a 650", fa sapere, anche se sono comunque ancora troppi rispetto ai 400 che dovrebbe ospitare il carcere genovese), di "soddisfazione per questi mesi di conoscenza della struttura, di come era impostato il lavoro, di lento apprendimento per poter perseguire e valorizzare i punti di forza e correggere il tiro sugli elementi da migliorare", e in generale, "a fronte di tutta una serie di difficoltà, dei tanti riscontri positivi avuti in questo inizio di esperienza a Marassi". Tra questi, il calo degli episodi di autolesionismo in cella, il calo degli incidenti all’interno del complesso penitenziario, per ultima la relazione positiva del Comitato europeo contro la tortura, che - in visita alla struttura genovese il mese scorso - "ha avuto modo di constatare e riferire un clima di armonia tra il personale e la popolazione detenuta". E più o meno indirettamente, l’appoggio arrivato dal nuovo Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, già numero uno dell’Associazione Antigone, che dopo aver annunciato una visita a Marassi entro la fine di questo giugno - anche a seguito del caso sollevato da Repubblica lo scorso 28 febbraio, per denunciare la presenza nel carcere genovese di troppi detenuti da destinare a misure alternative al carcere - nei giorni scorsi ha fatto sapere di aver rinviato a fine anno la sua puntata ligure. In parte per altri impegni più pressanti ("in questo periodo abbiamo da seguire la delicata questione degli hotspot", spiega Palma), in parte "per lasciar lavorare la nuova direttrice, che penso stia facendo bene", e in generale in attesa che in Liguria, prima o poi, "si risolva il problema delle Rems". Le cosiddette "Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza", le strutture residenziali sanitarie che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari (e secondo nuova legge dovrebbero ospitare tutti quei detenuti che in carcere non possono stare, e la Giustizia dovrebbe affidare a strutture di detenzione alternative) esattamente come quattro mesi fa - quando il nostro giornale sollevò il caso - in Liguria ancora non ci sono. Per ora, per gli internati in arrivo dalla Liguria, continua a funzionare solo quella di Castiglione Delle Stiviere, nel mantovano, a 300 chilometri da Genova, che la Regione paga profumatamente (tra i 300 e i 500 euro al giorno a internato) per ospitare ad oggi 19 detenuti, e "l’emergenza rimane", ammette ancora Maria Milano. "Considerando" - continuano da Marassi - che ancora non partono i lavori per realizzare la struttura di Calice al Cornoviglio, nello Spezzino, che la Regione ha scelto per allestire la sua Rems territoriale. "Ad oggi ci risulta sia tutto fermo - conclude sul tema Catia Taraschi, dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del provveditorato regionale della Liguria, sotto il palco del Teatro dell’Arca - e l’emergenza permane perché a Castiglione delle Stiviere non c’è più posto, la lista d’attesa si sbloccherà solo a fine giugno, e i casi che si destinerebbero alla Rems non si possono affidare alle sezioni ordinarie del carcere. Con il risultato che si risolve tutto in una situazione di temporaneità e precarietà grave". Ariano Irpino (Av): celle solo per dormire, più libertà ai detenuti in carcere di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 9 giugno 2016 Cambia il regime penitenziario, Ariano è già in linea con le direttive nazionali. Un regime penitenziario aperto, una concezione di carcere non più fatto solo di sbarre, celle considerate ormai luogo di pernottamento con la vita del detenuto da svolgersi al di fuori di esse. Un trattamento penitenziario conforme a umanità e dignità ponendo come punto focale della propria azione la centralità della persona detenuta e la garanzia dei diritti fondamentali. Ariano è già un modello di tutto questo tra le realtà carcerarie in Campania. Ne parla con soddisfazione il direttore della Casa Circondariale arianese Gianfranco Marcello, nel giorno della festa del corpo. "Questo è stato un anno per noi molto importante. Dopo l’apertura del padiglione nuovo, grazie all’impegno di tutto il personale, abbiamo raggiunto obiettivi importanti. Dopo aver inaugurato un padiglione innovativo, siamo riusciti, con gli stessi detenuti-lavoranti a recuperare anche la vecchia struttura, eliminando così la differenza con il nuovo. In contemporanea, stiamo sperimentando a pieno, il regime di carcere aperto, che consente ai detenuti di poter svolgere con maggiore libertà le varie attività trattamentali". La Spezia: "il carcere non è la fine di tutto, siamo il trait d’union tra legge e detenuto" cittadellaspezia.com, 9 giugno 2016 Annuale della Polizia penitenziaria qieri mattina al Porto Mirabello. Il capo del personale Mazzeo: "Sono orgoglioso di voi". Lavorano in silenzio, lontano dai riflettori ma ci sono e operano con costanza e sono un ponte tra due realtà il carcere e la società civile. Su questi argomenti si sono sviluppate le celebrazioni del ventiseiesimo l’Annuale della Polizia penitenziaria, tenutasi questa mattina al Porto Mirabello della Spezia. Nel corso della mattinata sono stati anche illustrati gli interventi operativi condotti dal Corpo che con le ultime evoluzioni non si limita alla sola attività all’interno della casa circondariale della Spezia. I dati. Negli ultimi dodici mesi nella casa circondariale di Villa Andreino sono entrate 335 persone, di cui 165 dalla libertà e 170 da altri istituti. Le dimissioni sono 334, 27 persone sono in arresto domiciliare, mentre 12 si trovano agli arresti domiciliari. Infine sono 16 gli affidamenti in prova ai servizi sociali. Il Nucleo traduzioni e piantonamenti ha effettuato 589 traduzioni su tutto territorio nazionale, per un totale di 819 detenuti tradotti. Il nucleo conta 11 unità in servizio. Un lavoro nell’ombra, costante. Le cerimonia si è aperta con la lettura degli interventi delle massime autorità dello Stato ai quali sono seguiti quelli della comandante del reparto di Polizia penitenziaria della Spezia Maria Luisa Tattoli, la direttrice della casa circondariale Cristina Biggi e del capo del personale Polizia penitenziaria di Liguria, Piemonte e Val d’Aosta di Salvatore Mazzeo. "Il nostro lavoro - ha dichiarato la comandante Tattoli - si svolge nell’ombra. Nonostante le variegate specializzazioni del Corpo assunte e l’altissimo valore dei compiti, non può sottacersi che parte della Società non ne ha ancora una conoscenza sufficientemente approfondita. Si tende infatti, a pensare che il carcere sia la fine di tutto. La maggior parte - forse inconsciamente, forse per l’ancestrale diffidenza nei confronti del diverso, non vuole guardare. Rimuove. Nel momento del primo ingresso, comincia, invece, il difficile e nobile compito demandato al poliziotto penitenziario che, lontano dai riflettori e dal clamore mediatico, quotidianamente serve Io Stato, coniugando i compiti di Polizia con il pesante onere di essere trait d’union tra la legge e il detenuto". "Abbiamo sempre trovato massima collaborazione da parte di tutti - ha dichiarato Cristina Biggi. Alle funzioni principali del corpo sono state aggiunte nuove competenze. Tutto per dotarsi di maggiore efficienza. L’opinione pubblica sa poco e molto è stato fatto per fare in modo che sia più puntuale. La nostra funzione non si riassume nelle sole misure restrittive, noi portiamo avanti questo compito nel rispetto della dignità. Siamo pronti a nuove sfide e la prima è nella lotta all’integralismo islamico. Nell’operare di voi agenti mi avete sorpreso e commosso siete stati capaci di affrontare situazioni difficili. Con orgoglio vi ho visto operare con disciplina onore e fiducia nelle istituzioni". A chiudere gli interventi è stato Salvatore Mazzeo. "Sono orgoglioso e ho scelto di essere qui - ha detto. Voglio ringraziare i nostri pensionati, perché senza loro non saremmo cambiati. Il personale ha ampliato le sue competenze sempre al servizio della comunità. Oggi sono contento che questa manifestazione sia all’esperto perché il carcere deve esserlo. La Polizia penitenziaria è un corpo specifico e atipico, crea la cultura di integrazione. Siamo ancora in evoluzione. Sono fiero di voi". Bollate (Mi): l’officina dei carcerati rimette in strada i veicoli della Polizia penitenziaria di Simone Bianchin La Repubblica, 9 giugno 2016 L’officina del carcere di Bollate è aperta tutti i giorni dalle 7,30 alle 18,30. Ci lavorano, a turno, sette detenuti che hanno imparato bene a fare i meccanici e oltre a tagliandi e revisioni sanno anche rifare completamente un motore. In un anno e mezzo, da quando è partito il progetto pilota regionale che viene ora esportato nelle carceri di Roma, Catania e nel penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) hanno rimesso in funzione la flotta della polizia penitenziaria, circa 300 mezzi tra furgoni blindati e auto. Fanno i meccanici 6 ore al giorno, e sono diventati bravi a riparare furgoni e auto. Tanto che hanno recuperato l’intero parco auto della polizia penitenziaria della Lombardia, composto da quasi 300 mezzi. Vengono pagati (tra 500 e 600 euro al mese) e rifanno anche completamente i motori. Sette detenuti del carcere di Bollate, 5 italiani e 2 africani, condannati per reati contro il patrimonio, fanno i turni a tre, quattro per volta dandosi il cambio dalle 7,30 alle 18,30 in un’officina completa di ponte che è stata realizzata e allestita tra la prima porta d’ingresso e la cinta muraria del carcere. L’iniziativa è stata avviata un anno e mezzo fa, da quando è partito il progetto del provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi. L’officina dei carcerati permette di risparmiare il 70 per cento delle spese per riparazioni e tagliandi dei veicoli della polizia penitenziaria. Il progetto sperimentale è andato talmente bene che ieri il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, ha annunciato che verrà esportato e sarà realizzato anche fuori regione. Al momento hanno aderito le carceri di Roma, Catania, e Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino). Il commissario capo Mario Piramide è il coordinatore dell’officina del carcere di Bollate: "I detenuti che fanno i meccanici sono molto contenti, non vogliono quasi andar via quando vengono scarcerati. Hanno messo a norma tutti i mezzi della penitenziaria, che erano in buona parte fermi perché il parco auto è un po’ obsoleto, furgoni e macchine con anche 400mila chilometri alle spalle". Due meccanici che sono stati scarcerati da poco, e che avevano lavorato a Bollate, sono stati assunti in officine esterne: "Uno in quella della Fiat che collabora in convenzione con noi, e che ha i tecnici che dopo ogni riparazione dei detenuti certificano che il loro lavoro è stato fatto a regola d’arte - spiega il commissario. E l’altro è andato a lavorare in una carrozzeria. Anche noi stiamo preparando la carrozzeria, in un capannone accanto all’officina del carcere, quindi presto potranno fare anche quel tipo di intervento". I detenuti destinati a fare i meccanici vengono selezionati e spesso hanno già avuto esperienze simili. "Vengono seguiti e preparati, ci sono 5 agenti tra il personale di polizia penitenziaria che, avendo un’esperienza pregressa di officina, controllano il loro lavoro", dice il direttore del carcere Massimo Parisi. "Noi cerchiamo di mandare delle persone affidabili, selezionandole nel percorso educativo. Possono anche fare revisioni e tagliandi". Alcuni detenuti avevano già lavorato in officine esterne come misura alternativa alla detenzione: "E quando escono sono pronti all’inserimento mentre nella nostra officina si può fare il turnover inserendone altri". Il risparmio rispetto a preventivi delle officine esterne si calcola anche in 5mila euro in meno per ogni riparazione. Il lavoro è costante sui furgoni blindati utilizzati per i trasferimenti dei detenuti ma vengono rimesse a posto anche le auto sequestrate o confiscate alle organizzazioni criminali, che poi entrano a far parte della flotta della polizia penitenziaria. Reggio Calabria: i cittadini in piazza per il Tribunale dei minori, le istituzioni no di Alessia Candito Corriere della Calabria, 9 giugno 2016 Assenti al sit in di Reggio Calabria Comune, Provincia e Regione. Le associazioni antimafia si stringono attorno ai magistrati dopo le minacce della ‘ndrangheta. Nessuno. Nè Comune, né Provincia, né Regione hanno sentito la necessità di essere presenti. Scampata la pioggia di comunicati seguita alla notizia delle minacce arrivate all’indirizzo della Procura e del Tribunale dei minori e del magistrato Rosario Di Bella, nessuno dei rappresentati istituzionali locali ha sentito il dovere di stringersi attorno a chi sta tracciando un solco importante nel contrasto giudiziario alla ‘ndrangheta. Proprio Reggio Calabria ha iniziato ad adottare provvedimenti rivoluzionari nei confronti dei figli di famiglie di ‘ndrangheta, allontanati da madri e padri cui per ordine del Tribunale viene revocata la patria potestà. Una linea d’azione che ha fatto breccia e inizia a portare risultati: ragazzi che si allontanano dal percorso per loro stabilito dalle famiglie di ‘ndrangheta da cui provengono, madri che si rivolgono alla Procura per iniziare un percorso di collaborazione che emancipi i loro figli da un destino da "uomo d’onore", o semplicemente che chiedono aiuto. Dinamiche che non piacciono - per nulla - ai clan, che proprio sui figli investono per perpetuare il proprio potere nel tempo, e sono costate a Procura e Tribunale dei minori le pesanti minacce degli ultimi mesi. Intimidazioni che giudici e pm hanno affrontato in splendida solitudine istituzionale. Con loro si sono invece schierate - in maniera visibile e determinata - le associazioni antimafia della città e gli avvocati della Camera minorile distrettuale di Reggio. ?Ieri mattina, con striscioni e megafoni, c’erano tutti al sit in convocato di fronte al Tribunale dei minori. Una manifestazione organizzata per dimostrare la vicinanza della città, ma anche per rompere la cappa di silenzio e isolamento che opprime i magistrati che lì lavorano. Una nebbia che lascia giudici e pm a far fronte da soli alle insuperabili carenze di organico, come di personale amministrativo, alle palesi insufficienze del budget pensato per quella struttura, come al deserto di strutture sociali che con il Tribunale possano lavorare. Ostacoli che Procura e Tribunale affrontano ogni giorno con la consapevolezza che solo privando la ‘ndrangheta dell’infinito esercito di riserva che la progenie le assicura, sarà possibile sconfiggerla. Per questo, ieri attivisti, semplici cittadini e legali non hanno esitato a schierarsi con i magistrati incaricati di portare a termine tale delicato compito. Le istituzioni locali invece no. Catanzaro: gli amici a quattro zampe per rafforzare la genitorialità dei detenuti cn24tv.it, 9 giugno 2016 Quello del "Rifugio Fata" è un progetto sperimentale ed innovativo a livello nazionale. Da un’idea dell’assistente sociale Francesca Sorrento - sposata dall’associazione animalista di Lamezia Terme, oltre che dall’associazione "Diamoci la zampa" di Marcellinara ed "I Dog", e dalla Commissione alle Pari Opportunità della Provincia di Catanzaro che ha concesso il gratuito patrocinio - prenderà il via una nuova forma di sostegno alla genitorialità in carcere attraverso l’apporto riabilitativo di cani randagi. Facendo seguito alla campagna europea "Carceri aperte", che pone l’Italia come capofila della richiesta dell’Unione Europea di garantire, ai circa 900mila bambini europei figli di genitori detenuti, il diritto alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in regime di detenzione, "Rifugio Fata" si avvarrà di operatori cinofili e volontari, afferenti alle associazioni partners, per rafforzare la genitorialità all’interno della realtà carceraria attraverso la mediazione emozionale dei cani. Il cane, quindi - come è stato ben spiegato alla presentazione del progetto, nella sala giunta di Palazzo di Vetro, dalla stessa Sorrento, dall’educatrice cinofila Vincenza Costantino di "I Dog", dalla presidente di "Rifugio Fata" e della Lega Nazionale Difesa del Cane, Rossana Longo, e dalla presidente della Commissione provinciale alle Pari Opportunità, Elena Morano Cinque (presenti anche Massimo Orlando di "Diamoci la zampa" e volontari delle associazioni coinvolte) - non viene utilizzato come strumento ma come "mediatore emozionale", per il suo essere socievole, duttile all’educazione e fedele all’uomo in maniera incondizionata. La sua presenza servirà a stimolare l’incontro tra sei padri "selezionati", detenuti nel carcere di Siano, ed i loro rispettivi figli (nel numero massimo di tre, e tutti dai sei ai dieci anni), che verranno agevolati nell’abbattimento del muro che in un carcere è facile a crearsi. L’attenzione verso il cane, infatti, che verrà appositamente introdotto durante i momenti di contatto che i detenuti vivono nelle aree verdi con le famiglie, servirà a concentrarsi di meno sul luogo in cui l’incontro si consuma. E per i detenuti, che già vivono la frustrazione della mancanza di libertà, sarà più facile dimostrare cura ed attenzione al proprio figlio con un cane scodinzolante, e compiutamente addestrato dagli operatori cinofili, che è presente agli incontri. Al termine dei sei mesi, previsti per il progetto, saranno resi noti i dati di un nuovo modello educativo che, si spera, possa essere avviato anche in altre carceri italiane. Milano: "Un bel coraggio", il rugby dei detenuti esce dal carcere di Paolo Ligammari Corriere della Sera, 9 giugno 2016 Miracoli del rugby: da qualche anno la palla ovale è entrata nelle mura del carcere (di Bollate, alle porte di Milano). E i detenuti-rugbisti, dopo tante sfide a porte chiuse, escono dal penitenziario per una sfida davvero "in trasferta", al centro sportivo "G.B. Curioni", in riva all’Idroscalo, da 12 mesi nuova casa dell’As Rugby Milano. Per i ragazzi di Bollate è un ritorno al Curioni, dopo la partita del giugno 2015, in occasione dell’inaugurazione della nuova struttura dell’Asr. Ed è l’occasione per una sfida nella sfida: muscoli, cuore, grinta, come ogni partita di rugby che si rispetti. Ma anche l’occasione per guardarsi dentro e stupirsi un po’: un "saggio" di fine anno per misurare il proprio coraggio e per vedere quanta strada si è fatta in un anno di allenamenti e sacrifici. È vero, a ideare iniziative del genere ci vuole "Un bel coraggio". Che poi è anche il nome del documentario girato da Marcello Pastonesi (sceneggiatura a quattro mani con Giorgio Terruzzi) e realizzato in collaborazione con Edison e Banca Popolare di Milano. Così, mentre in campo si gioca, a bordo campo si potrà scoprire qualcosa in più sui protagonisti di questa bella storia di impegno e altruismo: il film, proiettato in anteprima al Curioni, racconta del progetto avviato ormai 5 anni fa dai tecnici e volontari della società milanese con i detenuti del carcere di Bollate, dopo quello nel carcere minorile Beccaria. Un viaggio lungo e straordinariamente emozionante: i detenuti hanno formato una squadra e l’hanno battezzata "Barbari Bollate". Cercano di cogliere una piccola, preziosa opportunità: fare parte di un gruppo e mettere a frutto gli insegnamenti più preziosi del rugby. Ovvero imparare a gestire l’aggressività, condividere un sistema di regole e apprendere il significato di tre parole semplici, che sono l’anima del gioco (e a ben vedere della vita, dentro e fuori dal carcere): condivisione, appartenenza, sostegno. Alla scoperta del senso profondo di una meta. L’appuntamento: sabato 11 giugno 2016, dalle 16,30 - Centro Sportivo "Prof. G.B. Curioni" - Circonvallazione Idroscalo 51, Milano. Partita tra AS Rugby Milano e Barbari Bollate, eccezionalmente impegnati in trasferta. Presentazione del documentario "Un Bel coraggio - Rugby al carcere di Bollate", regia di Marcello Pastonesi, soggetto e sceneggiatura di Marcello Pastonesi e Giorgio Terruzzi. Con la partecipazione di Massimo Parisi (direttore Casa di Reclusione Bollate Milano), Gherardo Colombo, Sergio Carnovali, Federico Pozzi, Luca Mosseri, Giorgio Mosseri, Roberto Moiraghi e i detenuti del carcere di Bollate. Vigevano (Pv): detenuti attori con "Gli eroi vanno al supermercato" La Provincia Pavese, 9 giugno 2016 Gli eroi vanno al supermercato. La regista Alessia Gennari trasforma, di nuovo, i detenuti della sezione maschile del carcere di Vigevano in attori, proponendo un spettacolo che parla, o meglio, che cerca di definire chi davvero siano gli eroi. "Chi è un eroe? - spiega Gennari - questa la domanda a cui cercheranno di dare risposta Fatjon, Dragoslav, Hassan, Aldo, Jerrick, Pomak, Erando ed Enrico, tutti detenuti del carcere di Vigevano. Lo spettacolo, che andrà in scena alle 20 di giovedì 16 giugno, è l’esito di un percorso creativo che ha visto i detenuti impegnati in prima persona nella scrittura e nell’allestimento del tutto, a partire dalle improvvisazioni e dalle riflessioni scritte dai partecipanti al laboratorio, elaborate poi dalla regia. "Gli eroi vanno al supermercato" nasce dal percorso che i partecipanti hanno fatto dentro e fuori di sé, e riporta, senza giudizio, le riflessioni e le convinzioni raccolte in questi mesi". Gli attori detenuti del carcere di Vigevano hanno già lavorato con Alessia Gennari, che li ha persino portati ad Expo con lo spettacolo "Io che non sono nessuno", ispirato all’Odissea, misto di recitazione e musica. "Dopo l’esito fortunato dell’esperienza laboratoriale e di spettacolo dello scorso anno - conclude la Gennari - abbiamo continuato il nostro lavoro che ha la duplice funzione di educare al fuori chi sta dentro, e portare all’interno del carcere chi sta fuori, creando un ponte, un incontro, e forse, una comprensione". L’ingresso è libero ma la prenotazione è obbligatoria, entro venerdì 10 giugno, scrivendo a teatroincontroarl@gmail.com. Milano: musica dal carcere, il progetto nella Casa di reclusione di Opera di Mauro Michelotti La Sentinella del Canavese, 9 giugno 2016 Rivarolo, liceo musicale, Avp di Ivrea e detenuti coinvolti. Un cd a fine anno. "Nei primi due anni di carcere, ne avevo appena 18 quando ci sono entrato, ho vissuto l’inferno. Poi, ho incontrato la musica, e attraverso la musica ho conosciuto la scrittura. Cerco le parole, le intrappolo nel profondo e le sprigiono. Sì, la musica ha cambiato la mia vita". Nella casa di reclusione di Opera, alla periferia di Milano, Erjugen Meta, costruisce violini. Ha imparato a farlo, lui come altri detenuti che si dedicano all’artigianato, grazie ai preziosi insegnamenti di una cooperativa e di maestri liutai di Cremona, e quei violini, per l’alta qualità del manufatto, sono stati acquistati dal Conservatorio di Milano e vengono utilizzati dai musicisti. Quei musicisti, che suonando quei violini, assieme ad altri strumenti, naturalmente, nell’auditorium del carcere si sono esibiti suscitando la comprensibile emozione, commozione, in alcuni casi, tra i reclusi. Quella di Erjugen è una delle tante storie di riscatto che hanno per protagonisti uomini che hanno la consapevolezza d’aver sbagliato e sanno che dovranno pagare fino in fondo per quanto fatto, ma c’è dell’altro, al di là del muro, e questo non può essere il niente. Sabato mattina, a Rivarolo, nella sede del Liceo musicale, Erjugen, Giuseppe Catalano, ed altri detenuti si sono raccontati perché sono parte di un progetto ambizioso che entro la fine dell’anno vedrà la sua conclusione: la realizzazione di un cd musicale (nove brani sono stati scritti, testi e musiche, dallo stesso Catalano, il decimo sarà la sintesi di questa esperienza straordinaria) al quale stanno collaborando il liceo rivarolese, l’Associazione volontari penitenziari di Ivrea "Tino Beiletti", Cisproject - Leggere Libera-Mente (associazione culturale progetti sviluppo e promozione umana). Il lavoro è stato illustrato, alla presenza del sindaco di Rivarolo, Alberto Rostagno, e dell’assessore alla Cultura, Costanza Conta Canova, da Paolo Bersano, presidente di Avp di Ivrea, e Barbara Rossi, presidente di Cisproject. Il nome scelto per il progetto è una sintesi del messaggio che si intende mandare, in particolare ai giovani: "Amico mai", e quel mai è un’esortazione a non incorrere nello stesso errore, quello che può segnare un’intera esistenza, come avvenuto per Pino, per Alfredo, altri due detenuti che nei locali del liceo hanno portato la loro testimonianza. "Sono entrato a 15 anni in carcere per fare musica, e la cosa che più mi ha colpito è l’affetto che ho percepito, più delle sbarre, più delle divise -ha sottolineato Bersano -. In carcere ci sono persone, e tra i detenuti si possono trovare grandi risorse. Bisogna trovare il modo di farle venire fuori". No, non è mai troppo tardi. Roma: morta di droga a 16 anni nei reparti abbandonati dell’ospedale Forlanini di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 9 giugno 2016 La ragazzina, che era tossicodipendente, viveva in uno dei padiglioni dismessi e occupati abusivamente con la madre e altre persone. Il corpo trovato dalla mamma. Una "girl" alla "fine", aveva scritto il 27 gennaio scorso in un sms alla madre. Sara Bosco, 16 anni, era scomparsa da due settimane dalla sua abitazione a Santa Severa. E proprio la mamma, Katia Neri, rivolgendo un appello a "Chi l’ha visto?", aveva manifestato timori che la figlia fosse finita in un brutto giro fra l’Ostiense e il Pigneto. Ieri mattina è stata ancora lei a chiamare i soccorsi dopo aver trovato la figlia priva di sensi su una lettiga arrugginita all’interno di un padiglione abbandonato nel Forlanini, l’ex ospedale al Portuense in gran parte ridotto a un vergognoso dormitorio per sbandati e spacciatori. Sara e anche la madre, secondo la polizia, frequentavano quel posto, e sembra ci dormissero spesso. La ragazzina, che aveva lasciato gli studi in una scuola a Ladispoli e aveva abbandonato anche una comunità di recupero da pochi giorni vicino Perugia, è stata probabilmente stroncata da un’overdose da eroina. Droga fumata, forse crack (insieme con la cocaina), che l’ha uccisa nella notte di martedì. Poi qualcuno l’ha abbandonata lì. La madre sapeva dove andarla a cercare e ha anche tentato di rianimarla. L’allarme alle 9.30, poi per tutto il giorno la polizia ha svolto rilievi nella casbah del Forlanini. Gli agenti del commissariato Monteverde sarebbero sulle tracce di chi ha ceduto l’eroina alla sedicenne: pusher che si trovano dalle parti della stazione Termini, forse asiatici. Rischiano l’accusa di omicidio o di morte come conseguenza di altro reato. Ma bisogna capire chi, fra gli sbandati del Forlanini, abbia materialmente consegnato la droga a Sara. Era sola quando l’ha fumata? Per tutta la giornata di ieri gli agenti di Monteverde e della Squadra mobile hanno interrogato la madre della ragazza, il compagno (uno straniero che vive sempre nelle corsie dell’ex ospedale finite più volte anche in inchieste tv per lo stato di degrado e di disperazione) e altri occupanti della struttura per ricostruire le ultime ore di Sara. Sembra che la ragazza fosse viva nel tardo pomeriggio di martedì, e bisognerà accertare se a Termini si sia recata anche lei per comprare lo stupefacente. Sono state controllate delle camerate trasformate in certi casi in piccoli appartamenti, qualcuno perfino con le chiavi, alla ricerca di droga dello stesso tipo di quella che avrebbe ucciso la sedicenne. E saranno ascoltati anche i responsabili della comunità in Umbria per capire se la giovane prima di allontanarsi alla fine di maggio avesse avuto contatti con persone di Roma. Ma quel "fine girl" di sei mesi fa non prometteva niente di buono. Per i migranti diritti umani, non solo miliardi ai Paesi di origine e di transito Osservatore Romano, 9 giugno 2016 L’Europa assicura altri fondi per i paesi di origine ma le organizzazioni umanitarie chiedono rassicurazioni sugli standard di gestione dei flussi. Potenzialità e rischi nel piano sui migranti presentato dalla Commissione europea. Vengono aumentati i fondi ma, secondo l’organizzazione umanitaria Oxfam, il piano europeo "rischia di delegare a paesi terzi il controllo delle frontiere europee, lasciando decine di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga da guerre, persecuzioni e fame senza la tutela e la protezione di cui hanno bisogno". Meno di due mesi dopo la presentazione del "migration compact" da parte dell’Italia, che promuoveva una cooperazione mirata con i paesi extra Ue di origine e transito dei migranti, Bruxelles fa sua l’idea di strumenti finanziari innovativi e mette in campo 65 miliardi di euro. La strategia, che passerà al vaglio del prossimo Consiglio dei capi di Stato e di Governo a fine giugno, punta alla riduzione dei (lussi migratori verso l’Europa attraverso progetti finanziati dal bilancio dell’Ue ma anche da singoli paesi dell’Unione e, grazie alle garanzie fornite dalla Banca europea degli investimenti, Bei, prevede un intervento dei privati. Beneficiari sono soprattutto paesi africani e del Medio oriente. Si mira ad aumentare il numero dei rimpatri, permettere a richiedenti asilo e rifugiati di restare più vicini al proprio paese. Nel lungo periodo, l’intento dichiarato è quello di sostenere lo sviluppo dei paesi terzi, eliminando così alla radice le cause dell’immigrazione irregolare. Primi destinatari delle nuove risorse, saranno, in Africa, l’Etiopia, il Mali, il Niger, la Nigeria e il Senegal. E, in Medio oriente, il Libano e la Giordania. Ma nel progetto della Commissione c’è "l’intenzione di intensificare l’impegno anche in Tunisia e in Libia". Le risorse di cui si parla si vanno ad aggiungere al fondo Ue per l’Africa istituito lo scorso novembre, al vertice internazionale tra leader europei e africani che sì è svolto a La Valletta, a Malta. In quel caso erano stati promessi 1,8 miliardi di euro, sempre con contributo misto di Ue e singoli Stati, con un finanziamento aggiuntivo di un miliardo tra contributi comunitari dal Fondo europeo per lo sviluppo e altri nazionali. In sostanza, secondo la Commissione europea, alla fine nei prossimi cinque anni dovrebbero arrivare ai paesi di origine delle migrazioni otto miliardi di curo. Ma il punto è che questi soldi, al momento solo promessi, sono vincolati ad accordi "tagliati su misura" con i singoli paesi. C’è da dire che, intanto, il Commissario per le migrazioni, Dimitris Avramopoulos, ha presentato al Parlamento europeo un altro piano di azione che riguarda invece l’integrazione dei lavoratori immigrati regolari già presenti in Europa. Si tratta di 20 milioni di persone, che rappresentano meno del 4 per cento della popolazione dell’Unione. In questo caso, si tratta di iniziative nazionali per la formazione, l’accesso ai servizi di base, la partecipazione attiva e l’inclusione sociale. E c’è la riforma del sistema delle cosiddette "carte blu". Si tratta della carta riconosciuta a chi ha un’alta qualifica professionale e che si vuole concedere anche a chi vede riconosciuto un livello professionale adeguato ma magari meno alto. Secondo Avramopoulos, "L’Europa invecchia" e "avrà bisogno di lavoratori in futuro". L’aspetto importante è che in questo modo si vogliono "creare canali legali per l’immigrazione". Sui tentativi invece di bloccare i flussi, c’è chi esprime perplessità. Dopo l’accordo tra Ue e Turchia raggiunto a marzo scorso, la direttrice delle Campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti, sottolinea i rischi insiti nella "scelta di affidare i migranti a paesi che non appaiono in grado di gestire un percorso di accoglienza nella piena tutela dei diritti umani fondamentali". Da qui l’appello all’Europa a "assicurarsi che i fondi stanziati non finanzino difesa o sicurezza ma piuttosto sviluppo e difesa dei diritti umani". Rosarno, dramma nella tendopoli: carabiniere ferito, spara e uccide immigrato di Francesco Viviano La Repubblica, 9 giugno 2016 È accaduto nell’accampamento di San Ferdinando che ospita migliaia di braccianti impegnati nella raccolta delle arance nella piana di Gioia Tauro. La vittima si chiama Sekine Triore, ha 26 anni, ed è originario del Mali: "Ha aggredito il militare con un coltello". Tragedia nella tarda mattinata nelle tendopoli di San Ferdinando, alle porte di Rosarno, baraccopoli di braccianti che nel periodo invernale ospita migliaia di immigrati impegnati nella raccolta delle arance nella piana di Gioia Tauro. Il militare è intervenuto insieme ad un collega per sedare una lite tra due ospiti del campo. Alla vista degli uomini in divisa, uno dei due avrebbe estratto un coltello e si sarebbe scagliato contro uno di loro. Il carabiniere però ha reagito e contro l’uomo ha esploso un colpo di pistola mortale. Questa almeno è la prima ricostruzione ma via via emergono nuovi elementi, non tutti concordi. Il bracciante ucciso da un colpo di pistola allo stomaco si chiama Sekine Triore, 26 anni, ed è originario del Mali. La lite sarebbe scoppiata all’ interno di una sorta di bar abusivo allestito all’interno della tendopoli dove vivono centinaia di migranti ingaggiati per la raccolta dei vicini campi agricoli. "La vittima, stando alle prime testimonianze - dice il Procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza che si trova sul posto - era in evidente stato di agitazione, non si sa ancora se per abuso di alcool o di altre sostanze e quando sono intervenuti i carabinieri l’ uomo si è scagliato contro i militari con un coltello ferendo un carabiniere al volto vicino all’ occhio destro e che è stato curato in ospedale dove gli hanno dato cinque punti di sutura". Un altro carabiniere è rimasto ferito non gravemente. "Il carabiniere dovrà essere iscritto nel registro degli indagati", spiega il Procuratore, "ma il quadro che si delinea é di una legittima difesa da parte del militare". Tutto è accaduto poco prima di mezzogiorno all’ interno dello "spaccio" abusivo allestito dentro la tendopoli, luogo di ritrovo dei migranti quando hanno delle pause durante la giornata di lavoro. Sekine Triore a un certo punto ha cominciato a litigare con altri migranti e ha tirato fuori il coltello. Qualcuno ha chiamato i carabinieri che dopo alcuni minuti sono intervenuti sul posto per tentare di sedare la lite. Ma sarebbero stati aggrediti con il coltello ed a quel punto uno dei tre carabinieri ha sparato un colpo di pistola che ha raggiunto Triore allo stomaco. Il giovane è morto sul colpo. Subito è scattato l’allarme e sul posto sono intervenuti, oltre al procuratore Sferlazza anche i vertici del Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria. Ora chi indaga sta ricostruendo cosa sia accaduto anche col racconto dei molti testimoni. E la dinamica non è stata ancora del tutto chiarita. La lite sarebbe scoppiata forse perché uno aveva cercato di derubare l’altro o forse solo per una sigaretta negata. Quando gli uomini in divisa hanno riprovato a riportare la calma tra i due, da parte di uno di loro, il giovane originario del Mali, sarebbe partito un lancio di oggetti contro gli uomini in divisa, anche un grosso pezzo di ferro ha colpito alla fronte uno dei militari, procurandogli una ferita. Poi è apparso un coltello, con cui lo straniero si sarebbe avventato contro il carabiniere, colpendolo al volto con almeno 3 coltellate, una delle quali lo ha ferito ad un occhio. Poi avrebbe minacciato altri immigrati che vivono nella tendopoli. E si parla anche di almeno un altro collega del carabiniere rimasto ferito, con la mandibola fratturata nella colluttazione nata con l’immigrato nel tentativo di immobilizzarlo. Attualmente la tendopoli ospita circa 500 persone, la gran parte impegnate nella raccolta di agrumi e ortaggi. La tendopoli, realizzata dalla Protezione Civile regionale, non è al momento gestita da nessuna organizzazione, a causa della mancanza di fondi. Dei braccianti di Rosarno, i disperati dei campi di Gioia Tauro, si era a lungo parlato nel gennaio del 2010, quando, in seguito al ferimento di due di loro con una carabina ad aria compressa, diedero vita ad una notte di guerriglia urbana. Armati di spranghe e bastoni, attraversarono le strade di Rosarno distruggendo auto, finestre di abitazioni e incendiando cassonetti dell’immondizia. Solo l’intervento di carabinieri e polizia in assetto antisommossa riportò la calma, dopo cariche di alleggerimento e sassaiole. Gli immigrati allora erano baraccati in una fabbrica dismessa alla periferia della cittadina, e furono poi trasferiti nella tendopoli nel comune di San Ferdinando, allestita dalla Regione Calabria. Nella baraccopoli una morte annunciata di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 9 giugno 2016 Di questi tempi, la baraccopoli di San Ferdinando avrebbe dovuto essere vuota o quasi. La stagione degli agrumi è finita da tempo e altre colture attendono la migrazione stagionale degli africani: ortaggi e pomodori dalla Piana del Sele alla Terra di Lavoro casertana o alle campagne del foggiano. Invece sono ancora tutti lì. Molti in attesa del permesso di soggiorno prima di muoversi, altri perché dopo anni di sfruttamento non ce la fanno più e preferiscono accontentarsi di nulla nei tuguri della zona industriale della Piana di Gioia Tauro, a volte usurati dall’alcol o da chissà cos’altro. Ne avevamo incontrati alcuni qualche anno fa (e il manifesto titolò in prima pagina L’inferno di Rosarno). Abbiamo rivisto le stesse facce, sempre più rassegnate e incattivite, pochi giorni orsono. Da allora, la bidonville si è ingrandita: attorno alle tende montate dal ministero dell’Interno nel 2010, ormai luride e sbrindellate, proliferano le capanne improvvisate degli ultimi arrivati, mentre a poca distanza un capannone abbandonato è stato occupato e trasformato in dormitorio. Gli immigrati si sono autorganizzati e San Ferdinando ha assunto le sembianze di una sorta di favela autogestita: ci sono bancarelle che vendono indumenti, il bar dove sarebbe scoppiata la lite durante la quale il carabiniere avrebbe sparato, una macelleria e pure una moschea. I dati raccolti tra novembre e marzo dai Medici per i diritti umani, che hanno curato gli immigrati con una clinica mobile, fotografano una situazione disperata: nella baraccopoli di San Ferdinando vivono duemila persone, quasi tutti under 35, mentre altre centinaia abitano in casolari abbandonati e fatiscenti nelle campagne della Piana, senza servizi igienici, acqua ed elettricità. Il 52 per cento di loro non ha la tessera sanitaria e le patologie più comuni sono disturbi gastrointestinali (23 per cento), sindromi delle vie respiratorie (22 per cento) e problemi muscolo-scheletrici (13 per cento). Inoltre, l’86 per cento dei lavoratori africani non ha un contratto e la retribuzione media è di 25 euro al giorno, cinque dei quali finiscono al caporale che li ha reclutati. La deflazione sta facendo il resto: un chilo di mandarini viene pagato dai produttori ormai 18 centesimi al chilo, un prezzo non sufficiente a garantire una retribuzione del lavoro minimamente equa. Nella tendopoli di Rosarno l’incidente era dietro l’angolo. Appena qualche settimana fa, solo per caso sei ragazzi non sono saltati per aria insieme alla loro tenda, distrutta dallo scoppio di una bombola del gas. Non si sono fermate neppure le aggressioni: nei giorni del sesto anniversario della rivolta, a gennaio, sono stati presi di mira gli africani che rientravano dal lavoro a piedi o in bicicletta. Gli antirazzisti locali, che stanno lavorando a una legge regionale per agevolare gli affitti di case ai migranti in modo da poter sgomberare la baraccopoli, sono convinti che "c’è qualcuno che sta fomentando un’altra rivolta". Difficile capire chi e perché sta soffiando sul fuoco. Quel che è certo è che, dopo la rivolta del 2010, nel cono d’ombra della tendopoli di San Ferdinando tutto è tornato come prima, e non risulta che nessuno dei tre ministri dell’Interno che si sono susseguiti nel frattempo (Roberto Maroni, Anna Maria Cancellieri e Angelino Alfano) abbia fatto alcunché per evitare una nuova degenerazione. Al contrario, la situazione è perfino peggiorata. Per questo che un africano sia stato freddato da un carabiniere, una mattina di fine primavera, non può stupire. La notizia suona come la cronaca di una morte annunciata. Legittima la difesa, illegittimo il lager di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 9 giugno 2016 Non è difficile perdere la ragione tra i dannati di Rosarno. Sekine Traore aveva appena 27 anni ed è stato ucciso ieri a S. Ferdinando di Rosarno. Non è facile la vita nelle tendopoli allestite per gli immigrati. In inverno le piogge riducono l’accampamento in uno stagno e l’acqua penetra nelle tende e nelle ossa. L’estate il sole brucia e non dà scampo. La giornata lavorativa è lunga, il cibo scadente, le condizioni igieniche disastrose. I soldi pochi, le angherie da sopportare molte e drammatiche. Una vita senza pace trascorsa tra il lavoro duro nei campi e le lunghe file di attesa per ottenere il permesso di soggiorno o per una visita medica in ospedale. Niente cinema, niente pizzeria, niente sesso, niente svaghi. Nessun assistente sociale. Le giornate sempre uguali e sempre cariche di tensione che in qualche circostanza sfociano all’esterno com’è successo in occasione della "rivolta di Rosarno". Normalmente il nervosismo si scarica all’interno della tendopoli, producendo risse e momenti di quotidiana tensione a cui nessuno fa caso. I carabinieri hanno detto che ieri mattina Sekine Traore era "in evidente stato confusionale". C’è da crederci! Non è difficile perdere la ragione tra i dannati di Rosarno. I profughi del Mali vivono da anni in un dramma senza fine. Scappano da una terra sconvolta dalla guerra ed oggi "pacificata" dalle truppe degli antichi colonizzatori francesi. Generalmente diffidano dagli uomini in divisa, soprattutto quando le divise sono indossate da europei. Oltre che per la guerra, fuggono dal loro Paese a causa della siccità, per la fame, per le malattie, per l’oppressione, per il deserto che avanza. La gente vive triturando il miglio nei mortai di pietra e portando le capre sino ai confini del deserto, dove i pascoli sono particolarmente avari. Sekine Traore Traore è partito da uno di questi villaggi del Mali attraversando il deserto e incontrando i negrieri libici abituati da tempo a speculare sulla miseria dei disperati della Terra. Ha attraversato Il Mediterraneo su una delle tante carrette del mare. Pensava di aver raggiunto l’Europa ma è finito in un ghetto di disperati. Non saprei dire se questi disgraziati che vivono nei campi, la notte hanno tempo per sognare. Non so se maledicono il giorno in cui hanno lasciato l’Africa. Non so se sognano la pace del deserto dinanzi ad umanità crudele ed insensibile che li respinge. Quello che sembra certo è che Ieri mattina il caldo nella tendopoli era insopportabile. Ciò che possiamo immaginare è che ad un certo punto il cervello di Sekine Traore ha ceduto. Avrebbe avuto bisogno di un medico, di un posto in ospedale, di un po’ di pace. Probabilmente le sue urla, il suo coltello, la sua rabbia, erano invocazioni per chiedere aiuto. Ha visto le divise e probabilmente è stato assalito dalla paura e della disperazione. Ha trovato una pistola puntata alla sua testa e che ha messo fine alla sua breve esistenza. Ovviamente non metto sotto accusa il carabiniere che ha sparato, vittima anche lui di questo dramma. So che vivrà per tutta la vita con un senso di colpa. Probabilmente in casi come questo, più che la pistola sarebbe stata necessaria una adeguata preparazione professionale adatta ad affrontare la disperazione che può diventare follia. Il bilancio è che un ragazzo che cercava la felicità, o almeno un po’ di serenità, ha trovato la morte nella sabbia sporca di una tendopoli. Siamo giustamente indignati per il giovane Giulio Regeni che i boia dei servizi segreti egiziani hanno torturato ed ucciso. Siamo stati indignati verso l’India che tratteneva i "nostri fucilieri". Vi chiedo un po’ di indignazione anche per questa morte così assurda. Più vecchia e più povera, questa sarebbe l’Italia senza i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 9 giugno 2016 Rapporto Censis. Con una minore natalità la scuola pubblica perderebbe 35 mila classi. Se non ci fossero, come vorrebbe qualcuno, non è detto che le cose andrebbero meglio, anzi. Molto probabilmente sarebbero peggiori per tutti. Perché con il loro lavoro i circa 2,3 milioni di cittadini stranieri attivi nel nostro paese contribuiscono a creare ricchezza, pagare una bella fetta delle pensioni degli italiani e far crescere una popolazione altrimenti a rischio crac demografico. Chi ogni giorno polemizza su quanto ci costa accogliere i migranti non pensa - o meglio nasconde - il fatto che senza quanti in passato sono arrivati prima dei disperati che oggi cercano rifugio in Europa questo sarebbe un paese più povero e più vecchio. Immaginarlo non è difficile. Un aiuto lo ha dato ieri il Censis e la descrizione che ne deriva è sconfortante. Ad esempio - spiega l’istituto guidato da Giuseppe De Rita - ci sarebbero 450 mila imprese in meno, tante sono infatti quelle create e condotte da cittadini stranieri. Ma ci sarebbe anche il 20% di bambini in meno con conseguenze sulla scuola pubblica che si tradurrebbero nel taglio di 35 mila classi e 68 mila insegnanti, pari al 9,5% del totale. Gli alunni stranieri nella scuola (pubblica e privata) nel 2015 erano 805.800, il 9,1% del totale. Anche sul mercato del lavoro la perdita dei migranti significherebbe dover rinunciare a 693 mila lavoratori domestici (il 77% del totale), che integrano con servizi a basso costo e di buona qualità quanto il sistema di welfare pubblico non è più in grado di garantire. Gli stranieri mostrano anche una voglia di fare e una vitalità che li porta a sperimentarsi nella piccola impresa, facendo proprio uno dei segni distintivi del nostro essere italiani. Nel primo trimestre del 2016 i titolari d’impresa stranieri sono 449.000, rappresentano il 14% del totale e sono cresciuti del 49% dal 2008 a oggi, mentre nello stesso periodo le imprese guidate da italiani diminuivano dell’11,2%. Una radiografia di queste imprese è stata fatta a novembre dell’anno scorso dall’Unioncamere che sottolineava come nell’anno passato ad aprire nuove imprese siano stati soprattutto immigrati provenienti dall’India (+25,8%), dal Bangladesh (+21,1%) e dal Pakistan (+20,3%). Un terzo di tutte le imprese a guida straniera è invece rappresentato da soli tre paesi; Marocco (15,3%), Cina (11,1%) e Romania (11%). Un modo che punta soprattutto sui giovani: un’impresa su quattro è infatti guidata da un under 35, contro il 10% del totale delle imprese italiane. Tutto questo no può non avere un peso anche dal punto di vista contributivo, dove il rapporto dare-avere sicuramente a vantaggio degli italiani. Ricorda infatti il Censis che i migranti che percepiscono una pensione in Italia sono 141.000, meno dell’1% degli oltre 16 milioni di pensionati italiani. In compenso contribuiscono a pagare le nostre pensioni con un gettito previdenziale calcolato dalla Fondazione Leone Moressa in 10,3 miliardi di euro, soldi che nel 2014 sono risultati indispensabili per pagare la pensione a 630 mila italiani. Infine la concentrazione geografica. Dei 146 comuni italiani che hanno più di 50 mila abitanti - registra ancora il Censis - solo 74 presentano una incidenza di stranieri sulla popolazione che supera la media nazionale. Tra questi, due si trovano al Sud: Olbia in Sardegna, con il 9,7% di residenti stranieri, e Vittoria in Sicilia, con il 9,1%. Brescia e Milano sono i due comuni italiani con più di 50.000 residenti che presentano la maggiore concentrazione di stranieri, che però in entrambi i casi è pari solo al 18,6% della popolazione. Seguono Piacenza, in cui gli stranieri rappresentano il 18,2% dei residenti, e Prato con il 17,9%. "Ha fatto molto bene il Censis a mettere in luce un aspetto troppo spesso dimenticato o rimosso: l’importanza economica e sociale dell’immigrazione per il nostro Paese. Senza immigrati, l’Italia e l’Europa muoiono" ha commentato i dati del Censis monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della fondazione Migrantes. Boss dei trafficanti o profugo? Dubbi della Bbc sull’eritreo estradato di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 9 giugno 2016 Catturato in Sudan e condotto in Italia, per i pm di Palermo è il "re degli scafisti". Ma un testimone sostiene alla tv britannica che si è verificato uno scambio di persona. Chi è l’uomo condotto in manette da due poliziotti sulla pista di Fiumicino? Per la procura di Palermo si tratta di Medhane Yehdego, detto "il Generale", trafficante d’uomini dal Sudan attraverso la Libia. Secondo testimonianze raccolte dall’emittente britannica Bbc, si tratterebbe invece di un eritreo innocente e di un caso di omonimia. I testimoni - Lo sventurato sarebbe Mered Tesfamarian, rifugiato come centinaia di migliaia d’altri in Sudan in attesa di raggiungere le coste nordafricane e di imbarcarsi per l’Italia. La tv di Londra ha registrato la convinzione di Hermon Berhe, profugo in Etiopia, che sostiene di aver riconosciuto nelle immagini diffuse dalla polizia italiana l’amico d’infanzia col quale è cresciuto in Eritrea: "Non credo che nel suo corpo ci sia nemmeno un osso che possa coinvolgerlo in un’attività simile. È una persona amorevole, amichevole e gentile". Pure Meron Estefanos, giornalista svedese di origine eritrea che ha intervistato il trafficante l’anno scorso, si è dichiarato perplesso:"L’uomo nella foto è solo un poveraccio - ha detto al quotidiano Aftonbladet - un rifugiato che si trovava a Khartoum". Dunque, secondo il reporter, il 24 maggio nella capitale sudanese, all’indirizzo indicato dai servizi segreti locali, non sarebbe stato catturato l’uomo ricercato. Le indagini - I britannici della National crime agency, che hanno partecipato all’operazione assieme agli italiani, non hanno confermato la linea della Bbc, ma hanno fatto sapere di "essere in contatto con i nostri partner: è stata un’operazione complicata, è troppo presto per fare congetture". In sostanza: verificheremo. In Italia, non risulterebbe un’indagine per accertare l’identità dell’uomo estradato. L’inchiesta partita da Palermo lo individua come uno dei trafficanti più attivi e cinici lungo la rotta africana. Intercettato al telefono, Mered sosteneva: "Dicono che ne faccio salire troppi (di rifugiati sui barconi, ndr) ma sono loro che hanno fretta di partire...". Il pm palermitano Calogero Ferrara stima che il Generale "in soli tre mesi, nel 2014, ha fatto imbarcare circa 10.000 persone, guadagnando per ogni viaggio tra i 700.000 e 1 milione di euro". Nella descrizione del direttore del Servizio centrale operativo della polizia Renato Cortese "Mered è un individuo che occupa un ruolo fondamentale nella cabina di regia di un network criminale che movimenta milioni di euro". Egitto: caso Regeni, la faida tra Servizi dietro la fine di Giulio di Carlo Bonini, Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 9 giugno 2016 Spiato fin dal suo arrivo in Egitto, poi torturato: il ritrovamento del cadavere fu un messaggio ad Al Sisi. Giulio Regeni ha cominciato a morire poco dopo il suo arrivo al Cairo, nel settembre del 2015, quando la Sicurezza Nazionale, il Servizio segreto interno egiziano, apre sul suo conto il fascicolo riservato 333//01/2015 con le accuse di spionaggio, cospirazione e appartenenza a una rete terroristica interna al Paese che progetta l’eliminazione del presidente Al Sisi. Per tre mesi, ignaro dell’occhio paranoico che lo osserva, Giulio diventa "fair game", preda indifesa di una caccia libera tra gli apparati dello Stato - Servizi militari e Servizi civili - in lotta per contendersi un posto al sole nella gerarchia del regime. Fino all’esito finale. Prima il sequestro, la sera del 25 gennaio sulla riva destra del Nilo, all’uscita della stazione metropolitana di Naguib, quindi le torture per mano dei Servizi militari. Infine, l’oltraggio del cadavere, scaricato seminudo lungo la desert road Cairo-Alessandria con accanto un oggetto di cui sin qui nulla si era saputo. Una coperta in uso all’esercito. La traccia lasciata da chi, all’interno degli apparati egiziani, ha deciso, "per vendetta", di offrire un’indicazione sulle responsabilità dell’omicidio. Per comporre questo nuovo quadro "Repubblica" è tornata al Cairo. Ha raccolto nuove evidenze da fonti di Intelligence e investigative. Ha ottenuto un documento in lingua araba, datato 25 aprile, che è stato recapitato alla nostra ambasciata in Svizzera, a Berna, e da qui trasmesso nelle scorse settimane alla Procura di Roma. Un Anonimo (il secondo in questa storia. Il primo fu inviato a "Repubblica") che si definisce il tramite di "informazioni sul caso Regeni provenienti da una delle principali istituzioni dell’esecutivo in Egitto". Una "voce di dentro" che per bucare l’omertà del regime utilizza l’unico strumento concesso. Un racconto privo di nome e tuttavia ricco di dettagli su cui la Procura ha avviato i suoi accertamenti. IL fascicolo 333//01/2015. Settembre 2015, dunque. "Subito dopo il suo ingresso nel Paese - si legge nell’incarto recapitato alla nostra ambasciata in Svizzera - la Sicurezza Nazionale (il Servizio segreto civile, ndr) apre il fascicolo numero "333//01 intelligence anno 2015", il cui supervisore è l’allora Capo del Servizio, il generale Salah Hegazy (...)". Lo scartafaccio si ingrassa delle informazioni che, con il passare delle settimane, raccoglie la squadra che sta addosso a Giulio. E della cui attività, per quanto ricostruito da "Repubblica", esistono almeno tre tracce obiettive. La prima. Le foto scattate a Regeni nel corso di un’assemblea sindacale l’11 dicembre 2015. La seconda: una visita, sempre in quel mese di dicembre, di un ufficiale della Sicurezza Nazionale nell’abitazione di Giulio nel quartiere di Dokki. La terza. Una telefonata dello stesso ufficiale del Servizio al coinquilino di Giulio pochi giorni dopo il suo sequestro. Ragionevolmente, parliamo dello stesso ufficiale - "un maggiore", annota il dossier - che guida la squadra assegnata all’italiano. Quella che annota ossessivamente le sue "relazioni con autorevoli dirigenti dell’Unione generale dei sindacati operai, con l’Unione nazionale dei sindacati liberi a Bruxelles e l’Organizzazione generale del lavoro a Ginevra". Fino a quando le accuse nei confronti di Giulio non vengono così formalizzate. "Spionaggio per conto di Italia e Gran Bretagna. Istigazione ad assassinare il presidente della Repubblica e autorevoli personalità dello Stato. Istigazione al sabotaggio e lo sciopero al fine di bloccare il ciclo produttivo. Manipolazione dell’immagine e dell’azione operaia in Egitto. Perpetrazione di azioni specifiche al fine di suscitare conflitti tra le fila operaie, creare disordine all’interno del Paese nonché calunniare l’Egitto con l’accusa di guidare il terrorismo. Istigazione degli operai a manifestare contro la legge e le istituzioni al fine di sovvertire il governo". Una costruzione paranoica che conosce il suo culmine quando Giulio entra in contatto con un ragazzo. L’amico Whalid. "Verso la fine di novembre del 2015 - prosegue il dossier ora nella disponibilità della Procura di Roma - il maggiore della Sicurezza Nazionale incaricato dell’indagine su Regeni presenta una nuova informativa al generale Salah Hegazy". Giulio ha infatti incontrato un giovane egiziano che "viene chiamato Whalid". "È uno dei ragazzi conosciuti come i "Giovani della Rivoluzione del 25 gennaio 2011" e appartiene al gruppo "Al Ishtirakyun al Thawryun", i Socialisti Rivoluzionari, con sede in via Mourad 7 a Gyza". Mourad street è nel quartiere di Dokki, dove Giulio viveva e dove Whalid lavorerebbe in banca. Non lontana dall’Università del Cairo. Il palazzo al civico 7 è stretto tra un negozio della Vodafone e un caffè. E dei "Rivoluzionari" non si annusa neppure l’odore, che non siano un graffito con profili operai dai pugni chiusi e la battuta con cui, al telefono, Kamal Khalil, uno dei leader del gruppo, liquida "Repubblica": "Non parlo con i giornalisti". L’edificio è fatiscente, la porta è scardinata e le stanze della sede, completamente svuotate, mostrano i segni di uno sgombero recente. Giulio e Whalid, a stare alle annotazioni della Sicurezza Nazionale, si incontrano sulla riva destra del Nilo. "Mangiano al "Koshary Abou Tarek"", in via Chambollion, un locale di quattro piani, tra i ristoranti più famosi in città per il koshary, un pasticcio di riso, pasta, lenticchie, ceci, cipolla, aglio e pomodori. Ma spesso vengono pedinati nella zona dei caffè di Garden City, a ridosso dell’American University, "in via Mohamed Farid; via Kasr al Nihil; via e piazza Talà Herb, via Sharif; via e piazza Tahrir". E la ragione di tanta attenzione è che Whalid non è un nome neutro di fronte all’occhio paranoico dei Servizi. "Ha un legame familiare di secondo grado con il generale Salah Hegazi", il Capo del Servizio. Wahlid, dunque. Nei diari di Giulio di quel nome non vi è traccia. Gli amici italiani del Cairo dicono di non conoscerlo. L’Anonimo al contrario, fornisce alla nostra ambasciata il nome di due cittadini egiziani in grado di mettere in contatto i nostri investigatori con il ragazzo ("Repubblica" ne tace l’identità e qualsiasi elemento utile a identificarli per tutelarne l’incolumità). Ma, soprattutto, esiste una traccia di questo ragazzo egiziano agli atti dell’inchiesta della Procura di Roma. Un contatto telefonico dell’ottobre del 2015 di Giulio proprio con un tale "Whalid". Una circostanza significativa, a maggior ragione perché sin qui ignota. E che evidentemente conferma come l’autore del dossier possieda informazioni di primissima mano. Il boia dell’intelligence. Il 19 dicembre del 2015, il generale Salah Hegazi viene rimosso dall’incarico di Capo della Sicurezza Nazionale e sostituito dal generale Mohammed Shaarawi. Pagherebbe due colpe. La pigrizia con cui ha gestito il fascicolo Regeni, ma soprattutto la decisione di sollevare dall’incarico il maggiore che ha scoperto il contatto tra Giulio e Whalid, il ragazzo che del generale è parente. L’ufficiale defenestrato si lamenta infatti con il generale Abbas Kamil, uno degli uomini più potenti del Regime, capo dello staff di Al Sisi e suo potente braccio destro. E Kamil reagisce. "Dispone - si legge nel dossier - che il fascicolo Regeni venga trasferito dalla Sicurezza Nazionale alla direzione dei Servizi segreti Militari, sotto il controllo del generale Mahmud Farj al Shihat". La pratica ha un nuovo numero - M.1/25,2009/ ? - un nuovo supervisore - il generale Al Shihat - e, soprattutto, un nuovo capo dell’indagine. È l’ufficiale Jalal al Dabbagh conosciuto con il nome di battaglia di "Al Dhabbah", il Boia. Nella descrizione che ne offre il dossier, è uomo "irascibile", "superbo", "ingegnoso nell’applicare tutto ciò che di nuovo esiste nel campo della tortura". Una "belva umana", che presiede all’industria dei desaparecidos del Regime. Il Boia si mette a lavoro su Giulio che, ignaro, è in Italia per le vacanze di Natale. Al Cairo, scoppia l’inferno tra la Sicurezza Nazionale e i Servizi Militari, che ormai si contendono il giovane ricercatore italiano come un trofeo che dà corpo a tutte le paranoie del regime. Lo Spionaggio esterno e il Nemico interno. Il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar entra nella contesa. Con una lettera inviata ad Al Sisi (di cui il dossier riporta quello che ne sarebbe il testo), denuncia il "trasferimento illegale della pratica", l’"umiliazione" della Sicurezza Nazionale e del suo lavoro che "ha consentito di sollevare il coperchio sul ragazzo italiano e sulla rete cospiratrice a cui era collegato" e chiede che il caso venga restituito alla Sicurezza Nazionale. Il rapimento alla fermata della metro. Le cose vanno altrimenti. I Servizi Militari sequestrano Giulio la sera del 25 gennaio. E non alla stazione della metropolitana di Dokki. Ma sulla riva destra del Nilo, come spiega a "Repubblica" una fonte di Intelligence: "Un Servizio segreto alleato ha recentemente acquisito informazioni confidenziali interne agli apparati egiziani che proverebbero come Giulio venga sequestrato all’uscita della stazione della metropolitana di Naguib". Dunque, esattamente nella zona dei caffè dove Giulio - secondo il dossier - era stato per mesi pedinato dai Servizi civili e militari e dove quella sera, lo attendeva inutilmente un amico italiano. Quella firma per depistare. Sappiamo che Giulio muore nelle 48 ore precedenti il suo ritrovamento, nella tarda mattinata del 3 febbraio. Ma perché far ritrovare il corpo? È ancora il dossier - ma non solo, come vedremo - a fornire ora una risposta plausibile. "All’alba del 3 febbraio, i Servizi segreti Militari consegnano il cadavere di Regeni alla Sicurezza Nazionale, ordinando di affrettarsi a seppellirlo con i suoi effetti personali in un’area del quartiere 6 Ottobre utilizzata dalla Polizia per far scomparire i sequestrati illegalmente e gli ignoti". Ma l’ordine non viene eseguito come i Servizi Militari vorrebbero. "Quella mattina, all’alba, il responsabile della struttura della Sicurezza Nazionale nella zona 6 ottobre raggiunge telefonicamente il generale Shaarawy. Lo informa dell’accaduto e dell’ordine ricevuto. Il generale Sharaawy si oppone e ordina al suo ufficiale di liberarsi rapidamente del corpo abbandonandolo in un luogo allo scoperto, in una delle strade desertiche vicine alla struttura in cui era stato consegnato dai Servizi Militari, di conservarne gli effetti personali e di recarsi personalmente nel suo ufficio per consegnarglieli. Lo stesso Sharaawy riferirà poi al ministro dell’Interno Ghaffar, informandolo di aver disposto la custodia degli effetti personali di Regeni in una cassaforte della Sicurezza Nazionale". La scena del racconto collima perfettamente con quanto "Repubblica" ha potuto verificare in un sopralluogo della zona in cui è stato ritrovato il corpo di Giulio. Lungo il Corridoio 26 luglio, superstrada che taglia da ovest verso est la Cairo-Alexandria desert road, si osserva infatti una costruzione segnalata soltanto da una anonima bandiera ammainata. L’ingresso è sorvegliato da due macchine e da un sistema di garitte e vedette con telecamere. Al di là delle mura di cinta, oltre un filare di palme, edifici squadrati color ocra. È uno dei siti segreti della Sicurezza Nazionale. Un fungo nel nulla desertico. Cave di ghiaia, scheletri di costruzioni abortite, discariche e una decina di ettari di dune destinate a cimitero "pubblico". "Il posto giusto per perdere qualcosa", per dirla con i camionisti egiziani che percorrono regolarmente il Corridoio. Tra la base e il punto di ritrovamento del cadavere la distanza è inferiore ai due chilometri. Compatibile, dunque, con la ricostruzione del dossier. Anche se è un altro dettaglio che consegna alla ricostruzione una suggestiva solidità. La mattina del 3 febbraio, al momento del ritrovamento di Giulio, nel verbale di sopralluogo della polizia egiziana, viene annotato il rinvenimento, accanto al cadavere, di una "coperta normalmente utilizzata dai militari". Il segno che chi si è liberato del corpo di Giulio aveva intenzione di lasciare una traccia che portasse alla responsabilità dei suoi assassini. I Servizi militari ai cui ordini si erano sottratti la Sicurezza Nazionale e il ministro dell’Interno. I ricatti e l’insabbiamento. La storia di Giulio non finisce con la sua morte. Piuttosto, ha un altrettanto crudele nuovo inizio. Il 14 marzo, al Cairo, Al Sisi rilascia una lunga intervista al direttore e al vicedirettore di "Repubblica", impegnando il suo Paese alla "verità". Appena cinque giorni dopo, la sera del 19 - si legge nel dossier - Abbas Kamil, il capo dello staff di Al Sisi, l’uomo che ha voluto il trasferimento della pratica Regeni ai Servizi Militari ed è ora alle prese con il "caso" aperto con l’Italia, "informa il ministro dell’Interno Magdi Abdel Ghaffar della decisione di dimetterlo dall’incarico insieme al generale e capo della Sicurezza Nazionale Mohammed Shaarawy". I due devono pagare l’insubordinazione e il ritrovamento del corpo di Giulio. Sono i capri espiatori che l’Egitto si prepara politicamente ad offrire all’opinione pubblica italiana ed europea. Quel giorno, non a caso, le agenzie di stampa occidentali danno notizia di un imminente rimpasto di governo di cui farà le spese proprio Ghaffar. Ma, al Cairo, il ministro - a stare al dossier - vende cara la pelle. Ricatta. "Ghaffar affronta di persona Abbas Kamil. Gli dice: "Se siete uomini, fatelo! Cacciatemi. Devi andare dal presidente e informarlo di questa tua decisione. Io vado nel mio ufficio e aspetterò che la cosa mi venga comunicata in modo formale. Detto questo, preparatevi tutti a comparire di fronte a una Corte penale". La mattina del 20 marzo, la partita è chiusa. "Abbas Kamil si precipita nell’ufficio del ministro Ghaffar, si scusa per la sera precedente e lo informa che rimarrà al suo posto insieme al generale Shaarawy. Dopodiché i tre si chiudono in due ore di consultazioni indiavolate. Viene trovata una soluzione, "La banda dedita al rapimento degli stranieri". La mattina del 24 marzo vengono uccisi cinque cittadini egiziani innocenti". Una macchinazione che sta in piedi come un sacco vuoto e ora messa definitivamente a nudo nelle sue incongruenze dal lavoro dei nostri investigatori sul materiale arrivato alla Procura di Roma dall’Egitto. Lo spaccato della resa dei conti interna al Regime si sovrappone come un calco a quanto, proprio in quei giorni, si legge nell’analisi ("The Egyptian media, the Conflict of Agencies and the President") di un autorevole think-tank come il "Washington Institute for near Policy". "Con la presa del Potere da parte di Al Sisi è ripreso il conflitto tra i Servizi segreti del Paese. La Sicurezza Nazionale tenta di recuperare il dominio che ha avuto nell’era di Mubarak. Il Servizio Militare, di cui Al Sisi è stato direttore e con cui ha stretti legami, lotta per evitare che non si pongano le condizioni per un nuovo Mubarak e una nuova Rivoluzione (...) È un conflitto non più nascosto. Bisognerà capire quanto in profondità si spingerà". È in quella settimana di marzo, dunque, che, al Cairo, la verità su Regeni diventa un lusso che nessuno può più in alcun modo permettersi. "Shaarawy - scrive l’Anonimo - ha ora in mano anche la registrazione della riunione con il ministro e con Abbas Kamil". Ricatto chiama ricatto. Tutti colpevoli e dunque nessun colpevole. Arabia Saudita: l’Onu grazia Riyadh e cancella gli orrori sui bambini yemeniti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 giugno 2016 Persa ogni credibilità: Ban Ki-moon toglie i sauditi dalla lista nera di chi viola i diritti dei minori dopo le minacce del Golfo. Il rapporto accusava la coalizione anti-Houthi di aver ucciso e ferito il 60% dei bambini vittime del conflitto. Violazioni anche in Iraq. I bulli sauditi prima aggrediscono il debole vicino e poi minacciano l’insegnante che ha osato redarguirli: quanto successo al Palazzo di Vetro pare incredibile, se si dimentica per un attimo l’impunità devastante di cui gode Riyadh. Ad uscirne con le ossa rotte è il segretario generale Ban Ki-moon, ma anche la già scarsa credibilità delle Nazioni Unite. Lunedì l’Onu aveva inserito nella lista nera dei gruppi che violano i diritti dei bambini la coalizione sunnita anti-Houthi che massacra lo Yemen da marzo 2015: è responsabile - ha scritto nel suo rapporto annuale - del 60% dei 1.953 bambini uccisi e feriti in un anno e due mesi di guerra. Ovvero le bombe saudite hanno ammazzato 510 minori e ne hanno feriti 667. Immediata l’ira di Riyadh, sostenuta dagli alleati regionali: l’ufficio del segretario generale è stato bombardato di telefonate di minacce da tutto il Golfo e dall’Organizzazione della Cooperazione Islamica: "Bullismo e pressioni. Un vero ricatto", dice una fonte interna. L’Arabia Saudita ha minacciato di tagliare i fondi alle agenzie Onu, in particolare i 100 milioni di dollari l’anno all’Unrwa (agenzia per i rifugiati palestinesi, in perenne crisi) se non si fosse messa una pezza. E la pezza è stata cucita sullo strappo: martedì il portavoce di Ban Ki-moon ha annunciato il depennamento dalla lista nera della coalizione e la revisione del rapporto. Insomma ne negozierà uno "pulito", lontano da una realtà fatta di raid su ospedali, scuole e case. Nella black list restano invece i ribelli Houthi, etichettati da cinque anni come violatori seriali dei diritti dei bambini e, secondo lo stesso rapporto, responsabili del 20% delle vittime minorenni del conflitto yemenita. Ma il passo indietro dell’Onu non poteva passare inosservato: sporca l’ultimo anno di mandato di Ban Ki-moon e provoca la rabbia delle organizzazioni internazionali. "È un esempio estremo del perché l’Onu debba combattere per i diritti umani e i propri principi - ha detto Richard Bennett, rappresentante di Amnesty International al Palazzo di Vetro - Altrimenti diventerà parte del problema invece che della soluzione". Parole di fuoco anche da Human Rights Watch che parla di "manipolazione politica". L’Onu si arrampica sugli specchi definendo la cancellazione temporanea. Ma Riyadh non teme le Nazioni Unite e precisa che l’eliminazione dalla lista nera è "irreversibile e incondizionata". Dopotutto c’è un precedente: Ban Ki-moon ha già ceduto a pressioni simili da parte di Usa e Israele nel 2014 quando Tel Aviv rischiò di finire nella stessa black list per l’operazione "Margine Protettivo" contro Gaza. Ai bambini yemeniti viene così tolto anche lo scudo di facciata del diritto internazionale. Eppure, come spesso accade, sono le prime vittime: 320mila soffrono per malnutrizione, centinaia di migliaia sono rifugiati all’estero o sfollati nel paese e in centinaia sono stati reclutati come soldati sia dagli Houthi che dal governo. Martedì la coalizione ha riconsegnato al governo, suo alleato, 52 bambini catturati al confine mentre sotterravano mine con i ribelli. Una situazione simile a quella irachena: i bambini si trasformano in soldati come accadeva per "i cuccioli di leone di Saddam". A reclutarli è l’Isis ma anche le milizie sciite (l’esercito iracheno per legge non può arruolare minorenni). Molti sono orfani, in un paese che vive una guerra ininterrotta da oltre trent’anni e dove il governo ha a disposizione solo 22 orfanotrofi, lasciando fuori migliaia di bambini senza famiglia. Alcune delle loro voci sono state raccolte da al-Jazeera, come quella di Karrar, 15 anni: "Ho combattuto per liberare Tikrit e Baiji. E continuerò a combattere fino a quando non riavremo indietro la terra presa da Daesh. La mia età non conta: sono un combattente". Mauritania: al via operazioni contro sovraffollamento nel carcere di Nouakchott Nova, 9 giugno 2016 Le autorità giudiziarie mauritane hanno avviato una serie di procedure contro il problema del sovraffollamento delle carceri, che colpisce soprattutto il penitenziario centrale di Nouakchott. Come primo provvedimento sono stati trasferiti numerosi detenuti verso altri centri di detenzione minori presenti nelle altre province del paese come Nouadhibou e Bir Um al Karin. Secondo i media mauritani, sono più di cento i detenuti che sono stai trasferiti dal carcere Dar al Naim della capitale a quello di Noaudhibou, che è la capitale economica del paese. Nel carcere della capitale sono più di mille i detenuti e le autorità locali temono che possa scoppiare una rivolta carceraria.