Il monito di Mattarella: il carcere deve rieducare con umanità di Adolfo Spezzaferro lavocesociale.it, 8 giugno 2016 "La funzione rieducativa della pena, il senso di umanità restano l’obiettivo primario. Bisogna proseguire sulla strada che sappia unire sicurezza alla comunità e relazioni sociali, opportunità di istruzione e lavoro per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell’integrazione". Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parla di carceri e di detenuti, parla di condanne che devono rieducare, non semplicemente punire chi ha sbagliato. Ma il capo dello Stato parla anche agli agenti che negli istituti di pena lavorano ed ai quali "esprimere viva gratitudine e l’apprezzamento della Repubblica alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria impegnati quotidianamente nella delicata funzione dell’applicazione delle misure di giustizia". Questo il messaggio inviato al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, in occasione del 199esimo anniversario della fondazione del corpo della Polizia penitenziaria, celebrato alla presenza dello stesso Mattarella. "L’esigenza di un profondo rinnovamento del modello di detenzione trova fondamento anche nel nuovo senso delle pene che si va radicando nella cultura sociale e politica, emerso dai lavori degli stati generali dell’esecuzione penale", sottolinea il Presidente, che aggiunge: "Occorre proseguire sulla strada di un modello organizzativo e di gestione che, nel garantire la sicurezza della comunità e il libero svolgimento delle relazioni sociali, sappia unire l’opportunità dell’istruzione, del lavoro, l’apertura alla società esterna, per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell’integrazione". Le condizioni delle carceri italiane restano davvero drammatiche. Come ha denunciato il 15 aprile il rapporto Galere d’Italia dell’associazione Antigone, il 34% dei detenuti è in attesa di giudizio. Spendiamo 2,7 miliardi euro (140 a notte), tre volte la Spagna, ma solo l’8% è destinato al mantenimento detenuti. Le celle sono vecchie, sovraffollate e allo stesso tempo costose più di un hotel a tre stelle. Il tutto per 53.476 detenuti, un dato peraltro in crescita. Ancora, quattromila detenuti non hanno nemmeno un letto a disposizione, altri novemila poi se li sognano gli standard europei di quattro metri quadri a testa di spazio. E tutto questo nonostante ogni persona in prigione costi allo stato 140 euro al giorno, ben 2,7 miliardi di euro l’anno: tre volte quello che spendono in Spagna, il 50% in più della Francia. L’80 per cento del budget miliardario viene però speso per la sicurezza, in personale. Solo l’8 è destinato ai detenuti, per pagare il vitto, corsi, attività o trasferimenti. Per cui, ben vengano le parole di Mattarella, ma per rieducare servono gli strumenti giusti. E i fondi giusti. La sassata di Mattarella: "Il carcere così non va" di Errico Novi Il Dubbio, 8 giugno 2016 "La Costituzione va rispettata. Serve un profondo cambiamento". Sergio Mattarella nel solco di Giorgio Napolitano sulle carceri. Il presidente della Repubblica ha scritto un messaggio, formalmente rivolto al capo dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, che vale però come richiamo per l’intera politica. "La concreta realizzazione di un sistema rispettoso dell’articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena, e sul senso di umanità cui devono corrispondere i relativi trattamenti, rimane obiettivo prioritario", dice il presidente. Mattarella, in occasione del 199esimo anniversario della Polizia penitenziaria, imprime la prima forte spinta alla riforma dell’ordinamento penitenziario dopo gli Stati generali. Sono passati quasi due mesi da quell’evento voluto dal guardasigilli Andrea Orlando e nulla si è ancora mosso sul piano legislativo. Nel solco del predecessore Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella prende una posizione netta sul tema carcere. Lo fa con un messaggio formalmente rivolto al capo dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo che vale però come richiamo per l’intera politica: "La concreta realizzazione di un sistema rispettoso dell’articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena, e sul senso di umanità cui devono corrispondere i relativi trattamenti, rimane obiettivo prioritario", dice il presidente. L’occasione è data dal 199esimo anniversario della Polizia penitenziaria: il Capo dello Stato la coglie per imprimere la prima forte spinta alla riforma dell’ordinamento penitenziario dopo gli Stati generali dell’esecuzione penale. Sono passati quasi due mesi dall’evento conclusivo del dibattito itinerante voluto dal guardasigilli Andrea Orlando e nulla si è ancora mosso sul piano legislativo. Presidente della Repubblica e ministro della Giustizia provano ad aprire almeno un varco nella sostanziale riluttanza opposta finora dal Parlamento sul dossier carceri. Mattarella fa esplicito riferimento al "nuovo senso delle pene che si va radicando nella cultura sociale e politica, emerso dai lavori degli Stati generali". E ricorda la strada segnata da "istruzione", "lavoro", "apertura alla società esterna" come opzione necessaria per "offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell’integrazione". Un terreno su cui verrà messa alla prova la "capacità di innovazione" della polizia penitenziaria, dice il presidente nel suo messaggio. Orlando rilancia l’appello nel proprio intervento alle celebrazioni per i 199 anni del Corpo: "La detenzione non può più essere l’unica stella polare delle nostre politiche penali". Il punto di riferimento è nel "ritorno all’esterno", e per questo, come detto da Mattarella, servono "azioni legate alle politiche del lavoro, della casa, dei servizi alla persona". La svolta dev’essere innanzitutto culturale e deve riguardare l’opinione pubblica prima che la politica: "È giunto il tempo di abbattere la cortina di timore, reciproco silenzio e diffidenza che separa il carcere dal tessuto sociale esterno", scandisce il ministro. Posizioni coraggiose e contromano, quelle di Capo dello Stato e Guardasigilli, a cui non sarà semplice dare seguito in tempi brevi: la campagna referendaria rischia di congelare ogni iniziativa "di rottura" da parte del governo. Bisognerà quasi certamente attendere il voto sulla riforma costituzionale. D’altronde per dare ora un’accelerazione sulle misure alternative e sugli investimenti per il lavoro in carcere bisognerebbe stralciare la delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario dal Ddl sul processo penale. Inimmaginabile che il Senato assegni una corsia preferenziale a un tema controverso come il carcere. È comunque un indizio promettente la presa di posizione di un’altra figura centrale in questo settore, tra i dem, come il capogruppo in commissione Giustizia Walter Verini: "Sono molto giuste le parole del presidente Mattarella, che ha voluto ricordare il senso profondo dell’articolo 27 della nostra Costituzione sulla funzione rieducativa della pena e sul senso di umanità di ogni misura di restrizione della libertà", dice il deputato renziano. Che vede nel messaggio presidenziale l’indicazione del percorso lungo il quale "legislatore e operatori devono muoversi per andare incontro a un profondo rinnovamento del modello di detenzione". Urge la riforma: che lo dica una prima linea del Pd sulla giustizia è un buon segno. Verini ricorda il cuore del problema: la necessità di "una inversione culturale" che imponga "di considerare la pena e la certezza della pena non come vendetta". Basterebbe applicare la Costituzione. Le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone "Dopo la condanna europea del 2013 l’Italia ha messo in piedi delle riforme per decongestionare il sistema. Oggi vi sono 14 mila detenuti in meno rispetto ad allora. Però negli ultimi mesi la decrescita si è purtroppo fermata. Hanno ragione il Capo dello Stato e il ministro della Giustizia quando suggeriscono azioni dirette a favorire l’istruzione e il lavoro. Per fare questo ci vogliono risorse e nuove norme che vadano a modificare l’ordinamento penitenziario. Per quanto ci riguarda noi proponiamo una serie di riforme per ridurre la popolazione detenuta: depenalizzare e legalizzare cannabis; ridurre e non aumentare le pene per i reati contro il patrimonio; ridurre ancora l’uso della custodia cautelare. Per ciò che riguarda la vita interna: abolire l’isolamento per i minori; ridurlo al minimo per gli adulti, circoscrivere l’isolamento giudiziario, assicurare la piena libertà religiosa, garantire i diritto alla difesa per gli stranieri, assicurare il diritto ala sessualità, assumere educatori, operatori sociali, mediatori, interpreti e non più poliziotti che sono, in numero percentuale, tra i più alti d’Europa. Anche nei momenti più difficili il sistema si è retto sulle gambe di tutto il personale: polizia, direttori e operatori sociali. A loro va assicurato pieno prestigio sociale ed economico". Di seguito i dati su lavoro e istruzione riportati nella cartella stampa di presentazione del XII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione nell’aprile scorso: "Ad oggi poco meno del 30% dei detenuti lavora. Di questi solo una piccola parte (circa il 15%) con datore di lavoro privato. Sono solo 612 i detenuti impiegati in attività di tipo manifatturiero. 208 in attività agricole. Dunque la gran parte lavora per l’amministrazione penitenziaria in attività domestiche. Lavorare in carcere significa essere occupati per poche ore settimanali e guadagnare in media circa 200 euro al mese. 2.376 erano i detenuti iscritti nel secondo semestre 2015 in corsi professionali, pari al 4,55% dei presenti. Erano invece 3.864 nel 2009 per una percentuale del 6,07%. Le Regioni si disimpegnano progressivamente". Il Ministro Orlando: "la reclusione non ha prodotto reali risultati di sicurezza" genovapost.com, 8 giugno 2016 Il ministro alla giustizia presente alla cerimonia per l’anniversario della fondazione della Polizia Penitenziaria. "La detenzione non può più essere l’unica stella polare delle nostre politiche penali. Se vogliamo che la reclusione non sia soltanto una parentesi afflittiva, il punto di riferimento deve essere il momento del ritorno all’esterno": lo ha affermato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando nel suo discorso alla cerimonia per l’anniversario della fondazione della Polizia Penitenziaria. Sicurezza - "Oggi il nostro sistema penitenziario - ha aggiunto il ministro - ci chiede un ulteriore sforzo di rinnovamento. Per molti anni le politiche della sicurezza hanno prodotto una legislazione centrata sul rafforzamento sanzionatorio del carcere". Detenuti - "Il carcere - ha proseguito Orlando - è stato uno strumento per rispondere a fenomeni sociali come la tossicodipendenza e la immigrazione, senza produrre reali risultati in termini di sicurezza per i cittadini. Con il solo effetto, invece, di accrescere il numero dei detenuti e le difficoltà nella gestione degli istituti di pena". Intervento - "È giunto il momento di costruire un modello che punti sulla modulazione della vigilanza e dell’intervento in ragione delle diverse caratteristiche dei detenuti. Un modello che incentivi l’equilibrio tra esigenze di sicurezza e obiettivi di recupero. Per fare questo occorre guardare al "penitenziario" come un sistema unitario, composto di due aree, quella detentiva e quella non detentiva o di comunità. Occorre un sistema di gestione integrato tra il governo della sanzione penale e il supporto dato dalle amministrazioni sul territorio per azioni legate alle politiche del lavoro, della casa, dei servizi alla persona", ha concluso Orlando. Carceri italiane, ogni detenuto costa 140 euro al giorno lettera43.it, 8 giugno 2016 Come in un hotel 3 stelle. È il triplo rispetto alla Spagna, il 50% in più della Francia. Ma le nostre galere restano troppo affollate. E l’80% del budget se ne va in personale e sicurezza. Costose e ancora troppo affollate. Sono così le galere italiane secondo i dati dell’associazione Antigone, che nel giorno in cui la Polizia penitenziaria ha festeggiato il 199esimo anniversario dalla sua fondazione, ha denunciato un preoccupante stop. La decrescita della popolazione carceraria si è fermata. L’Italia, nel 2013, è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per il trattamento inumano e degradante riservato a sette detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, proprio a causa del sovraffollamento. "Oggi ci sono 14 mila detenuti in meno rispetto ad allora", ha detto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, "ma negli ultimi mesi il trend si è bloccato". L’associazione snocciola i numeri. In Italia il 34% dei detenuti è in attesa di giudizio e lo Stato spende per le carceri 2,7 miliardi euro l’anno, il triplo rispetto alla Spagna, il 50% in più della Francia. In pratica, ogni persona in prigione costa 140 euro al giorno. Ma soltanto l’8% del budget viene impiegato per il mantenimento dei detenuti, mentre l’80% se ne va in spese per la sicurezza e per il personale. I detenuti sono in tutto di 53.873 persone, di cui 2.236 donne. Vivono sparse tra 193 istituti penitenziari, che hanno una capienza regolamentare di 49.697 posti. In altre parole, al sistema servirebbero 4.176 posti in più. Un altro punto dolente riguarda il lavoro. Soltanto il 29,73% dei detenuti lavora e di questi appena il 15% con un datore di lavoro privato. La gran parte lavora per la stessa amministrazione penitenziaria, in attività domestiche. Lavorare in carcere significa essere occupati per poche ore settimanali, guadagnando in media circa 200 euro al mese. Di carceri ha parlato anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha difeso la funziona rieducativa della pena. Mattarella ha mandato un messaggio al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, e ha espresso "viva gratitudine e l’apprezzamento della Repubblica alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria impegnati quotidianamente nella delicata funzione dell’applicazione delle misure di giustizia" L’esigenza di un profondo rinnovamento del modello di detenzione, per il capo dello Stato, "trova fondamento anche nel nuovo senso delle pene che si va radicando nella cultura sociale e politica. Occorre proseguire sulla strada di un modello organizzativo e di gestione che, nel garantire la sicurezza della comunità e il libero svolgimento delle relazioni sociali, sappia unire l’opportunità dell’istruzione, del lavoro, l’apertura alla società esterna, per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell’integrazione". Mattarella conosce l’art 27 della Costituzione… solo lui? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 8 giugno 2016 Nella bellissima lettera inviata ieri alle guardie carcerarie, il Presidente Mattarella ha scritto delle cose molto importanti, e che possono sembrare quasi rivoluzionarie. Ha detto che il carcere non deve avere semplicemente una funzione punitiva, ma soprattutto rieducativa. Ha parlato della necessita di mantenere il "senso di umanità nei trattamenti carcerari". Infine ha dichiarato necessario addirittura "un cambiamento del modello di detenzione". Ha scritto anche altre cose importanti, specie sul sovraffollamento, ma fermiamoci a questi tre elementi, perché sono devastanti. Avete presente quello che si dice, di solito - lo dicono i giornalisti, gli intellettuali, i magistrati, i politologi e i politici, in grande, grande maggioranza - sulla necessità della "certezza della pena" come unica vera riforma, necessaria a rendere moderno il nostro sistema giudiziario e della sicurezza? Bene, Mattarella - con la sua vocina esile e molto timida - stavolta ha mandato all’aria il castello, ha sfidato il senso comune e la "pancia" del popolo, e ha chiesto di rovesciare il modo con il quale l’opinione pubblica concepisce giustizia e pena. Ha mostrato quel coraggio di andare controcorrente che ormai, nella politica italiana, sembrava perduto. Il suo ragionamento comporta varie conseguenze. Provo a elencarne qualcuna. Prima: no all’ergastolo (come peraltro ha già detto varie volte il Papa). Soprattutto no al cosiddetto ergastolo ostativo. È chiaro che il carcere a vita non è rieducativo, e dunque non può rientrare nel nuovo modello di carcere che il Presidente della Repubblica sollecita. Seconda: basta col 41 bis, cioè col carcere duro per i mafiosi: il 41 bis non è un modello di detenzione che rispetti il "senso di umanità nei trattamenti carcerari". Terza conseguenza: va riesaminato tutto il capitolo del carcere preventivo. Che non ha funzione educativa, e non prevede "senso di umanità" quando si protrae anche per due o tre anni (talvolta di più) senza neppure una sentenza di condanna di primo grado. Anche perché la carcerazione preventiva - se non limitata ai casi di assoluta sicurezza ed emergenza - è in violazione palese dell’articolo 27 della Costituzione. Ecco, appunto: la Costituzione. In realtà questa "sassata" di Mattarella al castello della "giustizia ingiusta" non è poi tanto rivoluzionaria. Il Presidente si limita a chiedere il rispetto di quel benedetto articolo 27 che, in assoluto, è l’articolo della Costituzione meno citato dai mass media e meno conosciuto dalla nostra intellettualità e dall’establishment. Su questo giornale, spesso, lo abbiamo ricordato e trascritto. Per i distratti lo facciamo di nuovo: "L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione". Diffamazione atto 4 di Vincenzo Vita Il Manifesto, 8 giugno 2016 Mah, qualcuno ha deciso in modo consapevole di far crollare ancora la posizione italiana nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di informazione? Già al 77° posto (su un totale di 180), il "bel paese" potrebbe avere un altro tracollo. Al riguardo, si segnala la critica espressa dalla rappresentanza dell’"Osce media". Di che si tratta, ancora? Di una curiosa vicenda, che pure appartiene a una positiva iniziativa in discussione in queste ore al senato, vale a dire il disegno di legge (prima firmataria Lo Moro, relatore Cucca) intitolato "Disposizioni in materia di contrasto al fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali", frutto del lavoro di una specifica commissione di inchiesta. Chissà perché all’articolo 3 è inserita una particolare aggravante per il reato di diffamazione a mezzo stampa, laddove il fatto sia commesso "ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio". Forse gli estensori di simile (surreale) casistica che rimanda a un clima di regime (il codice Rocco a una dittatura rispondeva, del resto) hanno dimenticato che nell’attuale articolato della riforma della diffamazione quel vecchio comma non c’è più. Abrogazione decisa dalla camera dei deputati nella seconda lettura del testo, che giace ora al senato per il terzo atto nella stessa commissione giustizia che ha redatto il ddl 1932-A. Per farla breve, non essendo ancora legge la riforma, la pena del carcere c’è, eccome. E l’aggravante ne eleva il tetto massimo da un terzo alla metà. Nove anni in gattabuia? "Questa pena detentiva è sproporzionata per un reato come la diffamazione, e crea un effetto negativo che penalizza il giornalismo investigativo", dice Dunja Mijatovic, rappresentante Osce per la libertà dei media. Sono state nette le valutazioni giuridiche svolte dal prof. Domenico D’Amati nella conferenza promossa nei giorni scorsi dalla Federazione nazionale della stampa, da Articolo21, dall’Usigrai, dall’Ordine dei giornalisti del Lazio e da Pressing NoBavaglio. Ha cercato di minimizzare in aula il relatore Cucca, che ha suggerito la specifica di "natura ritorsiva" nella figura di reato. Pasticcio rischioso era, pasticcio rimane. Anche Giuseppe Lumia non si è sottratto a simile impostazione, mentre poteva almeno ricordare la relazione su mafia e informazione predisposta da Claudio Fava e approvata lo scorso 3 marzo dalla camera, che suggeriva di impegnarsi nell’individuare come peculiare reato la messa in atto della "macchina del fango". Insomma, invece di concludere l’iter della riforma della diffamazione abolendo il carcere per i giornalisti e mettendo un freno alla cinica moda delle querele temerarie, si è tornati in pejus all’anno zero. Introdurre qualche riga velenosa in un provvedimento importante significa inficiare un lavoro straordinario dedicato ai tanti amministratori onesti intimiditi da cosche e clan. L’informazione democratica è l’alleata fedele nelle battaglie per la questione morale. Ne fa fede l’altissimo numero di redattori, corrispondenti, precari e free lance messi nel mirino e in vari casi uccisi. Suvvia, si elimini quel comma, che ci ributta indietro: all’età del "Corpo politico", dove la maiuscola è il particolare che ci chiarisce il quadro generale. Esistono casi realmente avvenuti di intimidazioni attraverso un articolo o un servizio radiotelevisivo, si aggiunge. Ovviamente, nessuno si può sottrarre alla legge, meno che mai chi ha il dovere deontologico di raccontare la verità. Ma bastano le norme in vigore. O no? Rincrudire le pene per i giornalisti è un incidente o rientra in un clima complessivo, in un contesto che ha persino sdoganato la barbarie del bavaglio? Caso Uva, il Csm sanziona i due pm Il Dubbio, 8 giugno 2016 Sanzione per i magistrati Sara Arduini e Agostino Abate, pm titolari delle indagini sulla morte di Giuseppe Uva, deceduto all’ospedale di Varese il 14 giugno 2008 dopo aver passato la notte in una caserma dei carabinieri. Lo ha deciso la sezione disciplinare del Csm, che ha inflitto la sanzione della censura al pm Arduini e quella della perdita di anzianità di 2 mesi - con la conferma del trasferimento al tribunale di Como con funzioni di giudice - ad Abate. I due magistrati - che davanti al "tribunale delle toghe" hanno deciso di difendersi da soli, e hanno respinto ogni "accusa"- sono finiti sotto processo disciplinare per essere "venuti meno ai doveri di diligenza, laboriosità e correttezza - si legge nell’atto di incolpazione formulato dalla Procura generale della Cassazione - omettendo e ritardando il compimento di atti relativi all’esercizio delle loro funzioni". No al carcere per i migranti di Marina Castellaneta IL Sole 24 Ore, 8 giugno 2016 Corte di giustizia dell’Unione europea - Sentenza C-47/15. No alla detenzione di cittadini extra Ue che entrano in modo irregolare, attraverso una frontiera interna, in uno Stato membro. Questo perché gli Stati devono procedere con rapidità ai rimpatri per non vanificare l’obiettivo della direttiva 2008/115/Ce. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con la sentenza depositata ieri (C-47/15) destinata ad avere effetti ad ampio raggio sull’interpretazione delle normative degli Stati membri in materia di immigrazione. A rivolgersi a Lussemburgo, la Corte di Cassazione francese che ha chiesto, prima di pronunciarsi, alcuni chiarimenti ai colleghi Ue sulla direttiva 2008/115 relativa alle norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, recepita in Italia con il decreto legge n. 89/2011 (convertito con legge n. 129). Questi i fatti. Una cittadina del Ghana si era diretta dal Belgio verso il Regno Unito, ma si era fermata nel punto di ingresso francese, al tunnel della Manica. Ne era seguito il fermo della polizia d’oltralpe per ingresso irregolare e un successivo trattenimento amministrativo in strutture non penitenziarie. La donna aveva fatto ricorso, respinto sia in primo che in secondo grado. La Cassazione ha chiamato in causa la Corte Ue. Prima di tutto, gli euro giudici hanno accertato, ampliando il perimetro della direttiva, che le norme Ue sui rimpatri vanno attuate anche se il cittadino extra Unione entra in uno Stato dello spazio Schengen passando attraverso un Paese nella stessa situazione e diretto verso uno Stato Ue, ma extra Schengen. Poco importa - osserva la Corte - che il migrante irregolare si trovi in una situazione di transito o che sia sottoposto a un procedimento di riammissione nello Stato Ue di provenienza perché è sufficiente che sia in uno stato di irregolarità. Basta, così, per applicare la direttiva, il transito senza che sia necessaria la condizione della durata minima o della permanenza sul territorio. Ristretto il margine di intervento degli Stati che non possono sottrarsi all’applicazione della direttiva solo per il carattere temporaneo o transitorio della sosta, la Corte ha limitato il potere degli Stati nell’individuazione di sanzioni per chi viola le regole di ingresso e soggiorno. Già in passato, Lussemburgo aveva stabilito che la previsione del reato di soggiorno illegale è contraria alla direttiva (sentenza Achughbabian) e, con riguardo all’Italia, nella pronuncia El Dridi, che la detenzione allora prevista nei confronti di cittadini extra Ueche non rispettavano un provvedimento di espulsione, è incompatibile con la direttiva (di qui le modifiche alle norme italiane). In quest’occasione, Lussemburgo fa un passo in più e boccia anche il reato di ingresso irregolare e la detenzione. Le nozioni di soggiorno e di ingresso irregolare - scrive la Corte - "sono strettamente connesse" e, quindi, gli Stati "non possono consentire, in conseguenza del mero ingresso irregolare" che poi, inevitabilmente, porta a un soggiorno irregolare, la reclusione di cittadini di Paesi terzi per i quali deve scattare la procedura di rimpatrio. In caso contrario, sarebbe compromesso l’obiettivo della direttiva e il suo effetto utile, con inevitabili ritardi. Non solo. Se è in corso un procedimento di riammissione in uno Stato Ue dal quale il cittadino extra Ue proviene, anche quello lo Stato deve applicare la direttiva. Tutto all’insegna della massima celerità nel segno di un trasferimento rapido "verso lo Stato membro responsabile della procedura di rimpatrio". È, quindi, evidente che infliggere o eseguire una pena detentiva, prima del trasferimento, ritarda l’effettivo allontanamento con pregiudizio della direttiva. Resta ferma, invece, la facoltà, per gli Stati membri, di reprimere con la reclusione reati diversi da quelli relativi al solo ingresso irregolare. Canapa in giardino, parola al legislatore di Michele Passione Il Manifesto, 8 giugno 2016 La coltivazione a uso personale non è equiparabile alla detenzione (sempre a uso personale): questo il senso della sentenza n.109/2016, con cui la Consulta ha respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Brescia. Questa, con due distinte ordinanze aveva promosso l’incidente in ordine all’art.75 del DPR 309/’90, nella parte in cui non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative anche la coltivazione di cannabis finalizzata in via esclusiva all’uso personale. In primo luogo, occorre rilevare come malgrado l’autorevole pronuncia del Giudice delle Leggi, la giurisprudenza offra ormai da tempo spazi di interpretazione diversi della normativa (tra le altre, Tribunale Milano, Tribunale Trento, Tribunale Monza, Gip Cremona, Gip Rovereto, Tribunale Roma, Gip Milano, Tribunale Cagliari, Corte d’appello Cagliari, Tribunale Ferrara, e da ultimo, con sentenza del 26 aprile - dunque, dopo la pronuncia della Corte Costituzionale - il Tribunale di Firenze), affermando che "il fatto non costituisce reato". Si dirà: la Corte Costituzionale non giudica il fatto, e in qualche misura ciò spiega come il suo giudizio si fermi alla verifica in astratto della conformità della norma ai principi della Carta. Secondo la Corte "non è irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta considerata per la salute pubblica - la quale non è che la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui - oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico". A questa affermazione è possibile obiettare utilizzando le parole della Suprema Corte (Cassazione Sez. IV, 14.1.2009, n.1222), che ha censurato la pretesa di allargare l’oggetto di tutela previsto dalla norma, chiarendo che altrimenti "il bene della salute, come parametro di selezione qualitativa della meritevolezza della pena, viene affiancato da altri beni/interessi, ritenuti strumentali alla tutela del primo, che è quindi ridimensionato come strumento di orientamento dell’intervento punitivo dello Stato… mediante il ricorso a beni giuridici di vaga determinazione…, che ne ampliano la sua influenza, pur in assenza di specifica offensività". Sono parole chiare. La Corte Costituzionale ritiene spetti al Giudice del merito, che ha a disposizione ogni elemento per la valutazione del fatto, "il compito di allineare la figura criminosa in questione al canone dell’offensività in concreto, nel momento interpretativo e applicativo". Prendendo sul serio il monito della Consulta, occorre dunque che la condotta sia davvero lesiva del bene giuridicamente protetto. Una volta chiarito (come accaduto a Firenze, ove si è inconfutabilmente dimostrato che una coltivazione di dieci piante, in un campo attiguo all’abitazione, era esclusivamente destinata ad uso personale) che la sostanza non viene ceduta a terzi (e dunque non può arrecare alcun danno alla salute pubblica), e che alcun incremento del mercato illecito può pertanto derivare dal prodotto ricavato, non rimane spazio per affermare l’illiceità del fatto. Di più. Il Tribunale di Firenze ha accolto la tesi difensiva, ritenendo che "è innegabile che occorra fare riferimento anche alla decisione quadro 2004/757/GAI del 25.1.2004, circa i criteri di identificazione degli elementi costitutivi dei reati e delle sanzioni in tema di stupefacenti", essendovi sul punto "un obbligo di interpretazione conforme". In conclusione, come afferma il Prof. Lombardi Vallauri, "il diritto, per sfuggire al rischio di porsi come dinamica autoreferenziale, deve essere giustificato filosoficamente, a partire da opzioni valoriali che attengono alla concezione della Giustizia". È tempo che il Parlamento provveda con coerenza. Scatta il sequestro preventivo se la Gdf scopre conti in nero di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2016 Corte di Cassazione, Sezione III penale - Sentenza 7 giugno 2016 n. 23368. Utilizzabilità ampia, in ambito cautelare, per gli esiti delle verifiche fiscali della Guardia di finanza. Non scattano infatti le garanzie previste dal Codice di procedura penale (articolo 22o delle norme di coordinamento). La fase cautelare, tanto più se relativa all’adozione di una misura patrimoniale, è infatti ben distinta dal giudizio di merito, come il fumus commissi delicti è elmento ben distinto dai gravi indizi di colpevolezza. Lo puntualizza la Corte di cassazione, con la sentenza n. 23368 della Terza sezione penale, depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato da un imprenditore contro l’ordinanza con la quale il Tribunale di Napoli aveva confermato il decreto di sequestro preventivo disposto dal gip per il reato di dichiarazione infedele. La decisione del Riesame era stata presa valorizzando i risultati dell’attività della Guardia di finanza che aveva permesso la scoperta di una contabilità non ufficiale, poi riscontrata anche attraverso accertamenti bancari. La difesa aveva contestato l’utilizzabilità degli atti ispettivi sostenendo l’applicabilità delle garanzie previste dal Codice di procedura penale quando dalle attività ispettive o di vigilanza emergono indizi di reato. A corroborare la tesi veniva citato un recentissimo precedente della stessa Cassazione, sentenza n. 4919 del 2015. La Cassazione ha però respinto il ricorso, sottolineando la specificità della fase delle indagini preliminari, indirizzata a verificare la fondatezza di una notizia di reato per l’eventuale e successiva azione penale, rispetto a del processo, che ha come obiettivo l’accertamento della responsabilità. Diversità che si riflette allora anche tra il giudizio cautelare e quello di merito, con la diversa forza degli elementi alla base della misura cautelare reale e del giudizio di colpevolezza. Il precedente della Cassazione poi, avverte la sentenza, va letto in questa chiave. Identico il caso, attività ispettiva con seguito penale per dichiarazione infedele, ma il ricorso riguardava una sentenza di condanna e non un’ordinanza del Riesame su un sequestro preventivo. Va poi tenuto presente, ricorda la Cassazione, che non si può ritenere che la scoperta all’esito del primo accesso ispettivo di materiale che può fare dedurre la presenza di irregolarità fiscale conduce necessariamente al passaggio dalla procedura amministrativa a quella penale con il relativo innalzamento delle garanzie. Non c’è infatti una coincidenza strutturale tra gli illeciti fiscali amministrativi e il reato fiscale. Basti pensare all’elemento chiave delle soglie di punibilità che segnano il confine tra l’uno e latro tipo di illecito. Diritto d’autore: sanzioni penali per chi ha software clonato nel pc di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 7 giugno 2016 n. 23365. La detenzione sul proprio pc di software complesso e costoso senza un marchio e di un manuale di diritto privato integrano una lesione del diritto d’autore con tutte le conseguenze penali che ne derivano. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 23365/2016. La vicenda - I Supremi giudici in particolare si sono trovati alle prese con un legale rappresentante di una eliografia nel cui personal computer erano stati trovati - a fini di profitto - diversi programmi privi di licenza d’uso nonché la copia di un compendio di istituzioni di diritto privato. Già i giudici di merito avevano chiarito come la detenzione avesse un chiaro intento commerciale e trovasse pertanto applicazione quanto disposto dall’articolo 171 bis della legge 633/1941. In base a quest’ultimo "chiunque abusivamente duplica, per trarne profitto, programmi per elaboratore o ai medesimi fini importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Società italiana degli autori ed editori (SIAE), è soggetto alla pena della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa da euro 2.582 a euro 15.493…". Sul piano prettamente materiale - si legge nella sentenza - che clonare materiale software e distribuirlo comporta un notevole risparmio per chi acquista e un introito non di poco conto per chi si presta a duplicare. L’imputato, dalla sua, nel ricorso aveva chiesto l’applicazione dell’articolo 68 della legge 633/1941 che delimita i confini di liceità della riproduzione delle opere letterarie. Proprio il comma 1 sancisce che si considera libera la riproduzione di singole opere o brani di opere per uso personale dei lettori, fatta a mano o con mezzi di riproduzione non idonei a spaccio o diffusione dell’opera nel pubblico. I limiti del 15 per cento - A chiudere il quadro il comma 3 del medesimo articolo in base al quale, fermo restando il divieto di riproduzione di spartiti e partiture musicali è consentita nei limiti del 15% di ciascun volume o fascicolo, escluse le pagine di pubblicità, la riproduzione per uso personale di opere dell’ingegno effettuata mediante fotocopia, xerocopia o sistema analogo. La norma quindi pone due chiari paletti la riproduzione deve essere a stretto uso e consumo di chi la effettua e non può mai superare il 15% dell’opera masterizzata. Ipotesi queste che nella fattispecie non sono state ravvisate, di qui la conferma della condanna sancita nei gradi di merito. Sicilia: carceri, capienza nuovamente a rischio di Antonio Leo Quotidiano di Sicilia, 8 giugno 2016 Ministero Giustizia: nei penitenziari d’Italia oltre 4.000 detenuti in più. Negli ultimi mesi aumentate le presenze, 12 istituti sovraffollati. Le carceri italiane non riescono a uscire dall’emergenza sovraffollamento, un fenomeno radicato nel nostro sistema penitenziario che presenta un doppio problema, per i detenuti ai quali non vengono garantiti i diritti minimi sanciti dalla Costituzione e per il personale di polizia, costretto a lavorare spesso in condizioni estreme. L’ultimo bollettino del Ministero della Giustizia, aggiornato al 31 maggio, è impietoso: nei 193 istituti di pena sono dislocati 53.873 detenuti, circa quattromila in più della capienza regolamentare complessiva (49.697). Le donne sono 2.236, mentre gli stranieri oltre 18mila. I posti - precisa il Ministero - sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto, "lo stesso per cui viene concessa l’abitabilità delle abitazioni". Il presidente della Repubblica in un messaggio a Santi Consolo, capo dell’Amministrazione penitenziaria, in occasione del 199° anniversario del Corpo, ha parlato della necessità di rispettare "l’art. 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena" e di "passi avanti realizzati sul nodo critico del sovraffollamento carcerario". Rispetto al 2010, quando si arrivarono a contare quasi 70 mila detenuti, la situazione è certamente migliorata. Facendo, però, un confronto con il report del 31 gennaio scorso, risulta che negli ultimi mesi passi ne sono stati fatti, ma indietro. Allora i carcerati erano 52.475, oltre mille in meno di quelli che si contano al 31 maggio. L’emergenza è stata denunciata recentemente, tra gli altri, dall’Associazione Antigone che nel suo dodicesimo rapporto "Galere d’Italia" ha sottolineato proprio il rischio di un’inversione di tendenza rispetto a quanto di buon era stato fatto. Proprio Antigone, analizzando i dati del Dipartimento penitenziario, ha rivelato che i posti letto a disposizione dei detenuti sarebbero "49.545, non sempre però tutti realmente disponibili". Ciò significa che attualmente oltre 4.000 persone non hanno nemmeno uno spazio "assegnato" dove dormire. E intanto, mentre la qualità della vita nelle carceri sprofonda, tre detenuti al mese decidono di togliersi la vita. È quanto emerge dal Dossier "Morire di carcere" di Ristretti Orizzonti, secondo cui da inizio 2016 ad oggi si sono suicidati 15 individui. L’ultimo di cui si ha notizia è un uomo di 39 anni, impiccatosi sabato scorso nel carcere di Massa. Il quadro è nerissimo, insomma, e la Sicilia, che a un primo sguardo potrebbe sembrare al riparo da criticità, non può dirsi fuori pericolo. Nei 23 istituti dell’Isola risultano presenti 5.873 detenuti, appena 17 di meno della capienza regolamentare (5.890). Un margine risicato che si è assottigliato negli ultimi mesi: tra gennaio e maggio, il saldo dei detenuti (tra ingressi e uscite) è di +207 unità (erano 5.666 al 31 gennaio). Un trend che rischia di trascinare l’Isola nuovamente nell’emergenza. Un pericolo che è già realtà per dodici istituti su ventitre: nel carcere di Agrigento i detenuti in sovrannumero sono 118, a Caltanissetta 78, a Gela 17; a Catania ce ne sono 79 in più a Bicocca e 58 nella Casa circondariale di Piazza Lanza. Ancora Giarre supera la capienza regolare di 10 unità, Piazza Armerina di 9, Termini Imerese di 25. Infine nel carcere palermitano dell’Ucciardone risultano 43 carcerati in più, ad Augusta 81, a Siracusa 134, mentre a Castelvetrano sono 12. Tanti posti, tanti detenuti a Favignana che addirittura pareggia i conti. Risultano, invece, 247 posti liberi a Barcellona Pozzo di Gotto, nell’ex Ospedale psichiatrico, svuotatosi con il trasferimento dei disabili psichici autori di reato nelle Rems. Abruzzo: nomina del Garante dei detenuti, presidio il 13 giugno al Consiglio regionale abruzzo24ore.tv, 8 giugno 2016 "Lunedì 13 giugno il Consiglio Regionale dell’Abruzzo tornerà a riunirsi a L’Aquila con all’ordine del giorno la nomina del Garante dei detenuti. Proponiamo a tutte le persone, i gruppi, le associazioni che ritengono indifferibile tale nomina di ritrovarci davanti al Palazzo dell’Emiciclo a L’Aquila per un presidio alle ore 11 per chiedere di non rinviare ulteriormente un adempimento su cui l’Abruzzo è già in grandissimo ritardo". Lo dichiarano Maurizio Acerbo, membro della direzione nazionale di Rifondazione Comunista, e Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "La legge istitutiva del Garante è inapplicata da cinque anni. Tale ritardo danneggia non solo le persone sottoposte a misure restrittive, ma l’intero sistema carcerario. Il leader radicale Marco Pannella, ormai quasi un anno fa, aveva lanciato la candidatura dell’on. Rita Bernardini la cui competenza in materia è indiscussa e testimoniata da decenni di impegno concreto: nonostante un appello che ha visto firmatari illustri e trasversali, oltre 2.000 adesioni sui social network e le dichiarazioni della stessa candidata, che si è detta disponibile a farsi da parte purché avvenga finalmente la nomina, il Consiglio Regionale non ha ancora provveduto ad eleggere il Garante dei detenuti", proseguono Di Nanna e Acerbo. "Dopo il commosso omaggio reso a Marco Pannella dalle istituzioni e dai cittadini italiani e abruzzesi in occasione della sua scomparsa, torniamo ad auspicare che venga finalmente eletto il Garante, richiesta che Pannella ha instancabilmente ripetuto fino a quando la malattia non gli ha impedito di partecipare alla vita pubblica. Proponiamo di ritrovarci lunedì 13 alle ore 11 di fronte al Palazzo dell’Emiciclo". Lombardia: Mario Mantovani sfida il Consiglio ed entra nella Commissione carceri di Stefania Consenti Il Giorno, 8 giugno 2016 L’arresto, la liberazione. E la decisione: "Me ne sono sempre occupato". "Mi sono sempre occupato di carceri in qualità di assessore alla Salute. È una tematica sociale che mi sta a cuore da sempre, che cosa vi sorprende?". Mario Mantovani ex vicepresidente della Regione, è entrato a far parte della Commissione Carceri del Consiglio regionale, come rappresentante del gruppo di Forza Italia, al posto del capogruppo Claudio Pedrazzini. Proprio lui che ha vissuto l’esperienza del carcere, 41 giorni a San Vittore, con l’accusa di corruzione, concussione e turbativa d’asta. "E poi - aggiunge l’ex numero due della Regione mentre è seduto fra i banchi del Pirellone e si congratula con i suoi per i buoni risultati elettorali ottenuti dal partito - volendo di proposito evitare la Commissione Sanità dove non mi sembrava certo il caso entrarci, ho ritenuto che fosse di grande attualità occuparmi di questi temi. Nelle 19 strutture carcerarie lombarde ci sono 2mila carcerati in più, abbiamo avuto più volte un richiamo dall’Ue. L’esperienza che ho drammaticamente fatto dietro le sbarre mi porta ad avere ancora più attenzione nei confronti di questa realtà". La comunicazione dell’ingresso di Mantovani nella Commissione Carceri è arrivata ieri, in Aula, dal presidente dell’assemblea Raffaele Cattaneo. Secondo una procedura formale, di rito. E proprio mentre il Consiglio votava sì alle dimissioni da consigliere regionale di Fabio Rizzi, ex presidente della Commissione Sanità, arrestato lo scorso febbraio nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti odontoiatrici. Mantovani, dal canto suo, reintegrato nel ruolo di consigliere regionale un mese fa, si è astenuto dal voto. E oggi inizia la prima udienza del processo che lo vede imputato per corruzione, concussione e turbativa d’asta. "Sono sereno, ho chiesto il giudizio immediato", aggiunge Mantovani che promette di mettersi subito al lavoro, in Commissione. "Con il presidente della Commissione, Fanetti - dice - sono d’accordo che farò il relatore su alcuni provvedimenti. Un ricordo positivo dei giorni trascorsi a San Vittore? Una grande umanità, sconosciuta all’esterno. Tutti pensano che lì dentro si siano solo mascalzoni e delinquenti. Invece ci sono anche persone che hanno avuto tante disavventure. Il ricordo più doloroso? Ciò che mi ha maggiormente tormentato è aver rivisto la mia famiglia dopo dieci giorni. Stai chiuso lì e non ne conosci le reazioni, puoi solo immaginare quello che pensano. E, poi, la carcerazione preventiva, ingiusta, una tortura che non è da Paese civile. E guardi che non lo dico solo per me, ma anche per il sindaco di Lodi o per chiunque". Intanto, sempre ieri, il Pirellone ha dato il via libera alle nomine dei componenti di Arac (presidente Francesco Dettori, Sergio Arcuri, Giovanna Ceribelli, Maria Dinatolo e Gianfranco Rebora gli altri componenti), l’agenzia regionale anti corruzione, ma senza i voti dell’opposizione. Lombardia: Consiglio regionale "si istituisca diario clinico informatizzato per i detenuti" mi-lorenteggio.com, 8 giugno 2016 Via libera dal Consiglio regionale lombardo a due risoluzioni che invitano la Giunta ad istituire un diario clinico informatizzato dei detenuti e a promuovere azioni per la diffusione della cultura della legalità e per la prevenzione dei comportamenti devianti dei giovani. Relatore dei due documenti è Fabio Fanetti, presidente della Commissione regionale speciale sulla situazione carceraria in Lombardia. "Sono soddisfatto che il Consiglio regionale abbia approvato all’unanimità le due risoluzioni, frutto di un importante lavoro svolto dalla Commissione speciale. La prima risoluzione - spiega Fanetti - chiede alla Giunta di attivarsi in tempi rapidi affinché il Governo si impegni ad istituire un sistema informatico nazionale sulla sanità penitenziaria e, in particolare, ad attivare una cartella clinica informatizzata per assicurare una condivisione delle informazioni sanitarie dei singoli detenuti, sia da parte delle aziende sanitarie sia dalle direzioni sanitarie degli istituti penitenziari. Attraverso il diario clinico informatizzato sarà possibile garantire cure più adeguate ai detenuti e favorire la prevenzione nelle carceri". "Attraverso l’altra risoluzione approvata - aggiunge Fanetti - invitiamo il governatore Maroni a farsi parte attiva presso l’Ufficio scolastico regionale e il Dipartimento amministrazione penitenziaria affinché si promuovano azioni che coinvolgano i detenuti in permesso e la polizia penitenziaria per la diffusione di temi inerenti la legalità, al fine di prevenire comportamenti devianti nelle scuole. Nello specifico il documento chiede di promuovere degli incontri con i detenuti in permesso e gli agenti di polizia penitenziaria all’interno degli istituti scolastici lombardi". Modena: il Garante a Castelfranco; risposte positive a segnalazioni, permangono criticità modena2000.it, 8 giugno 2016 Un intervento straordinario di derattizzazione dopo l’ispezione dell’Ausl di Modena, una revisione al ribasso dei costi delle telefonate, il puntuale svolgimento dell’attività ordinaria da parte dei magistrati di sorveglianza supplenti: l’Ufficio della Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna si è recato nei giorni scorsi in visita alla Casa di reclusione di Castelfranco Emilia per effettuare colloqui con la popolazione detenuta e internata, e ha potuto verificare la risposta positiva da parte della direzione dell’istituto ad una serie di criticità emerse negli ultimi mesi. Come riferisce la Garante Desi Bruno, "alla luce delle risultanze dell’ispezione dell’Ausl Modena presso la Casa di reclusione di Castelfranco Emilia, che avevano riscontrato profili di inadeguatezza delle condizioni igienico-sanitarie della struttura, con particolare riguardo all’area sanitaria, è stato effettuato un intervento straordinario che ha consentito l’eliminazione della criticità- spiega la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa-. Altro dato positivo ha riguardato l’intervento della Direzione dell’istituto che ha riscontrato positivamente la segnalazione relativa agli elevati costi delle telefonate, che erano raddoppiati a seguito dell’entrata in funzione del nuovo sistema con tessera telefonica per effettuare le chiamate ai familiari, rivedendoli al ribasso". Per quanto riguarda i rapporti con la Magistratura di sorveglianza, "pur nella perdurante vacanza del magistrato che ha la titolarità della funzione- segnala Bruno-, i magistrati di sorveglianza supplenti hanno assicurato nel periodo con puntualità lo svolgimento dell’attività ordinaria di esame delle istanze presentate dagli internati e dai detenuti". Allo stesso tempo però, riporta la Garante, "dalla testimonianza diretta della popolazione internata pare che sia tangibile l’aumento delle persone portatrici di disagio psichico, comportando, talvolta, problemi legati alla convivenza". A Castelfranco al momento sono presenti 78 internati, di cui 16 in licenza, e 9 detenuti in custodia attenuata. Inoltre permangono le note criticità strutturali relative alla casa di lavoro, avverte la Garante: anche nelle scorse settimane la figura di garanzia dell’Assemblea Legislativa è tornata nuovamente a segnalarle a tutti gli attori istituzionali coinvolti, "auspicando un intervento risolutivo, anche per quanto concerne l’uso razionale delle risorse disponibili- conclude-, in particolare per il totale abbandono in cui versano da anni officine e attrezzature, per l’assenza di attività lavorative e per il sotto-utilizzo di ettari di terreno coltivabile, nonché dell’azienda agricola e dell’area pedagogica". Pesaro: Casa Paci al collasso, forse chiude Il Resto del Carlino, 8 giugno 2016 "Anello essenziale tra reclusione e società: dramma se lo perdiamo". "Ora i nodi vengono al pettine". Il mancato finanziamento della legge regionale 28, strumento che fino al 2015 ha permesso la realizzazione di attività professionalizzanti all’interno delle case di pena marchigiane, ha portato alla quasi totale chiusura dei progetti di formazione e di trattamento per i detenuti. Ma c’è di più. Completamente lasciate sole, ora sono al collasso anche due strutture di accoglienza che operano nel delicato campo del reinserimento sociale e graduale dei detenuti: Casa Paci a Pesaro e Casa Orizzonte ad Ancona. A lanciare l’allarme è l’associazione Antigone Marche che, da tempo ormai, sottolinea la gravità della situazione. "Proprio oggi che molti, esperti e non, sembrano convenire sui benefici assicurati dalle misure di comunità quale alternativa alla detenzione in carcere - denuncia Samuele Animali, di Antigone Marche - nella nostra Regione chiuderebbero due strutture che rappresentano un anello essenziale per i percorsi di reinserimento sociale delle persone detenute, che garantiscono sia l’applicazione dei principi costituzionali, sia la garanzia della sicurezza per i cittadini". Un allarme che l’associazione Antigone Marche lancia da diversi mesi e che la politica non vuole cogliere. "Vedremo se ci sarà qualche novità nella manovra di bilancio 2016, che dovrebbe andare in Consiglio regionale il prossimo 21 giugno - aggiunge Animali -. L’impressione, però, è che nessuno se ne preoccupi". Casa Paci e Casa Orizzonte sono due centri di accoglienza grazie ai quali i carcerati, quando sono lontani dalla famiglia, hanno la possibilità di avere un domicilio dove usufruire di permessi e altre misure alternative al carcere: si parla di detenuti in regime di semilibertà o ammessi al lavoro esterno per i momenti della giornata non occupati dall’attività lavorativa come il pranzo, il pomeriggio, la cena; di detenuti in "permesso premio" e semiliberi in licenza; di detenuti in regime di detenzione domiciliare o di affidamento in prova al Servizio Sociale; di imputati agli arresti domiciliari e di ex detenuti. In particolare la struttura pesarese situata in via Montefeltro, finanziata da Comune e Regione, è gestita dalla cooperativa l’Aurora, con il sostegno della Caritas e dell’ Esecuzione Penale Esterna di Ancona per l’elaborazione dei programmi personalizzati. L’utenza proviene soprattutto dalla Casa Circondariale di Pesaro, dove risiedono 237 persone, di cui 16 donne, e dal carcere di massima sicurezza di Fossombrone, con 157 detenuti. Casa Paci rappresenta dunque un tassello fondamentale "per il rispetto della Costituzione e la sicurezza dei cittadini di cui sarebbe un errore privarsi". Rimini: l’ex scuola elementare di Santa Cristina ospiterà dieci detenuti in semilibertà riminitoday.it, 8 giugno 2016 Attualmente sono circa 5 i detenuti ospitati nella struttura, mediamente cento quelli ospitati all’interno delle mura carcerarie, più di duecento quelli ospitati in tutta la provincia di Rimini in case famiglie, associazioni, comunità e altre strutture di recupero. Ospitare i detenuti in regime di semilibertà per consentire loro, tramite l’attività lavorativa extra carcere, un graduale recupero e reinserimento nella società. Questo l’importante obiettivo alla base della decisione della Giunta del Comune di Rimini di prorogare per ulteriori 10 anni la concessione gratuita della struttura della ex scuola elementare di via Santa Cristina alla Casa Circondariale di Rimini. Si tratta di una collaborazione di lunga data, che affonda le sue radici nell’ormai lontano 1984, ma oramai prossima alla sua scadenza. Senza tale possibilità sarebbe venuta meno per il Carcere la possibilità di concedere il regime di semilibertà a quei detenuti che svolgendo attività lavorativa durante il giorno devono comunque tornare in carcere regolarmente per il resto della loro giornata. L’ordinamento penitenziario, infatti, chi gode del regime della semilibertà deve essere ospitato al di fuori delle mura del carcere, in contesti separati dagli altri detenuti. Vista l’importanza valenza sociale di questa forma detentiva il Comune di Rimini ha ritenuto utile e prioritario concedere l’immobile, facente parte dei beni immobili del patrimonio comunale destinati a scopi sociali, alla Casa Circondariale di Rimini, in continuità con quanto già in atto ormai da trenta anni Attualmente sono circa 5 i detenuti ospitati nella struttura, mediamente cento quelli ospitati all’interno delle mura carcerarie, più di duecento quelli ospitati in tutta la provincia di Rimini in case famiglie, associazioni, comunità e altre strutture di recupero. Sassari: la denuncia della Cisl "il carcere di Bancali è al collasso" La Nuova Sardegna, 8 giugno 2016 Una delegazione del sindacato ha visitato l’istituto penitenziario: "Preoccupante carenza di personale". "Il carcere di Bancali è al collasso, la carenza di agenti sta diventando preoccupante, serve un intervento mirato da parte dell’amministrazione penitenziaria. La Sardegna deve avere la sua giusta attenzione, quella che merita, considerata la varia tipologia di detenuti, la scarsa viabilità ma ancor più grave non dobbiamo essere degli isolati nell’Isola". È l’appello lanciato dalla delegazione sindacale della Cisl che qualche giorno fa ha incontrato il direttore del carcere Patrizia Incollu. Secondo Nino Manca, Giovanni Villa e Giovanni Busu, rispettivamente segretario generale regionale, segretario generale aggiunto regionale e coordinatore provinciale, "l’amministrazione penitenziaria con questo modo di gestire i penitenziari sardi dimostra di essere distante da chi ogni giorno tenta di guidare una macchina così complessa. A fronte di 61 sottufficiali - si legge in una nota del sindacato - ce ne sono solo 16 presenti e tutti, pare, siano impegnati nelle videoconferenze che per essere garantite si provvede anche con l’invio in missione di altri sottufficiali dai vari istituti della Regione". Aggiungono i sindacalisti: "Ormai non basta più nemmeno lo straordinario che molti fanno anche effettuando 12 ore di lavoro consecutive. La carenza di personale si riversa negativamente anche sul servizio del nucleo traduzioni. Da gennaio ad aprile - si legge ancora nel comunicato - sono state 391 le traduzioni effettuate per le quali è stato impiegato anche il personale del reparto per un numero di 281 unità, mentre le unità del nucleo impiegate sono state pari a 1325. Lo stesso nucleo si adopera per garantire anche le traduzioni di altri istituti in particolare quelle dell’Istituto gallurese a Nuchis Tempio Pausania". Non va meglio, secondo la delegazione della Cisl, nel reparto femminile "dove il coordinatore non riesce ad occuparsi pienamente della gestione dello stesso e del personale operante in quanto sempre impegnato alle videoconferenze. Questo è uno dei casi per cui l’amministrazione deve intervenire, perfino non scartando l’ipotesi di sostituire il coordinatore - concludono i sindacalisti - proprio perché non può garantite la presenza continua, magari affidando il coordinamento ad una poliziotta del ruolo agenti-assistenti". Reggio Calabria: uniti con Tribunale dei Minori "il silenzio fa il gioco di chi minaccia" di Valeria Guarniera ildispaccio.it, 8 giugno 2016 "Bisogna andare sul territorio e avere il coraggio di puntare il dito contro queste famiglie e dire chiaramente che i figli non sono proprietà loro, vengono al mondo per essere amati, non per diventare delle macchine da guerra da utilizzare a piacimento. Vi ringrazio, la vostra presenza ci conforta. Siamo esseri umani, anche noi abbiamo paura però dobbiamo andare avanti. La strada l’abbiamo tracciata". Le ripetute minacce rivolte al Tribunale per i Minori di Reggio Calabria ed alla Procura per i Minori sembrano aver avuto un effetto boomerang su chi, in maniera vigliacca e prepotente, le ha effettuate, sperando di intimidire, zittire, bloccare persone e istituzioni. All’azione nell’ombra si è oggi contrapposta una protesta alla luce del sole. La Camera Minorile Distrettuale di Reggio Calabria che riunisce avvocati specializzati nella difesa dei minori e le più importanti associazioni impegnate nella difesa dei diritti e della legalità, convinti dell’importanza dell’attività posta in essere dalla Magistratura e dagli operatori della Giustizia Minorile reggina a tutela dei minori e del loro futuro, hanno indetto, a sostegno dell’Istituzione, un sit-in di solidarietà e di protesta per quanto accaduto. Un momento importante in cui Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i Minori, ha voluto ribadire la necessità di fare rete, perché la solitudine uccide: "Non bisogna avere paura di parlarne, perché stando zitti faremmo il loro gioco". Un percorso, quello intrapreso dal Tribunale per i Minori di Reggio Calabria, non privo di ostacoli e resistenze: "Tantissime difficoltà - sottolinea Di Bella - di ordine burocratico, non ci sono fondi e ogni volta che interveniamo a tutela di questi ragazzi dobbiamo costruirci di volta in volta il percorso. Ora però siamo giunti in una fase in cui non si può più improvvisare. Abbiamo bisogno innanzitutto di un movimento di opinione che crei il consenso, per cominciare a far capire che la responsabilità educativa è una cosa seria". Parole forti quelle che Di Bella usa per descrivere lo stato delle cose: "Abbiamo intere famiglie che mandano al macero i loro figli e noi lo vediamo giorno per giorno, perché c’è una gran sofferenza. Ragazzi e che sono già rassegnati perché sanno quello a cui andranno incontro. Madri rassegnate e genitori che nonostante questo continuano a spingere su questo versante". Il lavoro che si sta svolgendo, lo ribadisce, è faticoso e delicato, ma sta dando i primi frutto: "Qualcosa sta cambiando". Il Tribunale dei Minori di Reggio Calabria è in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta, soprattutto per quanto concerne la sottrazione dei figli agli ambienti malavitosi che opprimono il territorio. "Grazie anche ai nostri provvedimenti ci stiamo accorgendo che i ragazzi sono plasmabili e quella che sembra una società familiare impenetrabile invece è un tessuto che non è inossidabile. Stiamo scuotendo le famiglie dalle fondamenta. Si stanno verificando delle dinamiche nuove: abbiamo madri che vengono a chiederci aiuto. C’è chi ha iniziato dei percorsi di collaborazione con la giustizia ma anche altre donne che pur non collaborando vengono a chiederci aiuto. A volte in segreto, piangono, sono disperate. Vanno via, poi ritornano e ci chiedono di allontanare i loro ragazzi, ci chiedono di essere aiutate ad andare via dalla Calabria con i loro ragazzi. Sono segnali molto importanti, impensabili fino a qualche anno fa". Ma Di Bella fa un appello, perché la responsabilità di un lavoro così delicato non venga lasciata sulle spalle di poche persone: "Ben vengano manifestazioni come questa, isolamento e sovraesposizione sono molto pericolose. Quindi, ripeto, queste manifestazioni vanno bene perché scuotono le coscienze ma è importante che lo facciano anche a livelli più alti: il sistema deve essere normato dal punto di vista legislativo, e poi dobbiamo dare una forma, una continuità sociale a questo progetto. Abbiamo bisogno di operatori che siano realmente capaci di affrontare questo fenomeno". E poi l’importanza di allontanarsi da un contesto che, malato, rischierebbe di far fallire ogni tentativo messo in atto per salvare questi ragazzi: "Noi i ragazzi li allontaniamo dalla Calabria, non certo per sfiducia negli operatori locali: l’allontanamento serve per dare loro la possibilità di sperimentare contesti diversi ma anche per garantire continuità ai percorsi di recupero. Abbiamo bisogno di un sistema che deve essere messo a regime più presto possibile. E poi gli sbocchi lavorativi per questi ragazzi che poi tornano da noi - riconoscendo il ruolo dello Stato - a chiedere aiuto. Ed è difficile dare delle risposte. Dobbiamo tutti fare qualcosa in più". Lecce: "Gramsci visto dietro le sbarre", in mostra le opere realizzate dai detenuti ilikepuglia.it, 8 giugno 2016 Inaugurazione alle Officine Cantelmo il 9 giugno con il Prefetto Palomba e la Direttrice Russo di Borgo San Nicola. Dare la possibilità a chi vive oggi la reclusione di immaginare e trasferire su tela l’anima e la vita quotidiana del regime carcerario che ha conosciuto anche un grande pensatore e filosofo italiano: Antonio Gramsci. Nasce così l’idea di un concorso rivolto ai detenuti delle carceri italiane, le cui opere attraverseranno ora l’Italia con una mostra itinerante che, dopo la prima tappa ad Ales, città natale di Gramsci, uscirà dai confini sardi per approdare nel Salento. Dal 9 al 24 giugno 2016, infatti, le Officine Cantelmo di Lecce ospiteranno la mostra "Gramsci visto da dietro le sbarre" con le opere realizzate da oltre cento detenuti di ventotto penitenziari d’Italia che hanno partecipato al concorso, giunto quest’anno alla sua seconda edizione ed organizzato da Casa Natale Antonio Gramsci, associazione che ha sede nella casa del filosofo sardo. L’iniziativa di Lecce è promossa dal movimento La Puglia in Più che ha voluto portare le opere nel Salento, in considerazione dell’alto profilo culturale e sociale del progetto, "Nella profonda convinzione - sottolinea il senatore Dario Stefàno, presidente de La Puglia in più - che la strategia della cultura che entra nelle carceri può produrre una prospettiva importante di recupero per le donne e gli uomini reclusi. Sarà, inoltre, un’occasione diversa e nuova per avvicinare soprattutto le giovani generazioni alla figura di un illustre connazionale, il cui pensiero è ritenuto tra i più influenti del XX secolo e resta ancora attuale, se si considerano temi come, ad esempio, la questione meridionale, ma paradossalmente è studiato e apprezzato di più all’estero". L’inaugurazione della mostra si terrà giovedì 9 giugno alle ore 18:30 presso le Officine Cantelmo (in Viale De Pietro 12 a Lecce) alla presenza del Prefetto di Lecce, Dr. Claudio Palomba e della Direttrice della Casa Circondariale di Lecce, Dr.ssa Maria Rita Russo. Tra le opere in mostra, che hanno vinto il concorso, anche quella realizzata da Vincenzo La Neve, detenuto nell’istituto leccese. Venerdì 24 giugno, sempre alle ore 18:30, la mostra sarà chiusa dal convegno "Il ruolo della sinistra nel pensiero gramsciano, alternativa ideologica o responsabilità di governo", al quale parteciperanno, insieme al senatore Stefàno, Luigi Zanda, capogruppo del Partito Democratico in Senato, Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia e Massimo Zedda, sindaco di Cagliari. Per fermare i migranti l’Ue è pronta a pagare di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 8 giugno 2016 Il piano europeo prevede soldi e investimenti per i paesi che bloccano i flussi. Servono 62 miliardi. Il primo accordo sarà con la Libia, poi con Tunisia, Libano e Giordania. Ci sono stati più di 10mila morti nel Mediterraneo dal 2014, secondo dati Onu. La tragedia dei rifugiati, che scappano dalle guerre o per ragioni economiche, è un avvenimento epocale, non un fatto transitorio. La Commissione europea, messa di fronte al dramma che non può avere risposte nazionali ma che genera paura negli stati membri, cerca una soluzione. L’ultima proposta è stata illustrata ieri di fronte all’Europarlamento. Si tratta di un "nuovo quadro di partnership" da proporre agli stati di origine dei migranti, ha spiegato il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, "cominciando da un primo gruppo", ha precisato, per arrivare a concludere dei "patti adattati alla situazione di ogni paese". Il "punto di partenza", per Timmermans, è il Migration Compact presentato dall’Italia e che sarà sul tavolo del Consiglio europeo di fine giugno. Bruxelles spera di poter dotare questo "patto" di 62 miliardi di euro: ma questa cifra sarebbe la risultante di un "effetto leva", a partire da un molto più modesto finanziamento di 3,1 miliardi provenienti dai fondi comunitari, a cui dovrebbe affiancarsi una cifra analoga versata dai paesi membri. L’obiettivo del moltiplicatore dell’effetto leva è "incentivare gli investimenti privati". La Ue avanza con i piedi di piombo su un terreno sconosciuto. Per la prima volta in un documento comunitario viene stabilito un chiaro legame tra migrazione e cooperazione, con il ricorso anche a "incentivi negativi": la Commissione propone di limitare gli aiuti e i vantaggi economici ai paesi che non contengono i flussi di migrazione. Un do ut des, che però solleva molte perplessità tra i giuristi, che si chiedono se sia legale stabilire degli accordi che pongono come clausola il freno alla migrazione. La Ue vuole "dare un maggiore appoggio ai paesi che fanno maggiori sforzi" nel limitare le partenze e nel riprendersi i propri cittadini emigrati illegalmente, anche facendo ricorso agli incentivi negativi. Ormai, tutti gli accordi che verranno firmati dalla Ue con dei paesi terzi prenderanno in considerazione la questione delle migrazioni, legata a tutti gli aspetti economici, come energia, investimenti o cambiamento climatico. Finora, gli accordi includevano riferimenti al rispetto dei diritti umani, dei diritti del lavoro o allo sviluppo sostenibile. Per la Ue il problema più urgente del momento è la Libia. "Decine di migliaia di persone cercano il modo per entrare nella Ue" dice l’Onu. Mrs. Pesc, Federica Mogherini, ha chiesto lunedì all’Onu di autorizzare l’operazione europea Sophia a fare dei controlli sulle imbarcazioni al largo della Libia, per verificare che venga rispettato l’embargo sulle armi. Ieri, Mogherini ha spiegato che la Ue cerca un "nuovo approccio", che va dal salvataggio in mare dei profughi, alla lotta ai passeurs, al sostegno ai paesi che accolgono rifugiati, fino alla conclusione di "patti" favorevoli alla crescita dei paesi partner. La Ue cerca la strada per un approccio "più coordinato, più sistematico, più strutturato" per far fronte alla sfida. L’accordo concluso con la Turchia, criticato da più parti e sempre sottoposto al ricatto di Erdogan, viene comunque considerato positivo a Bruxelles, perché per il momento sembra aver messo sotto controllo gli sbarchi in Grecia, obiettivo principe degli europei. "Patti" precisi, per la Commisisone, dovranno essere conclusi, dopo la Libia, con Tunisia, Libano e Gordania. Poi seguono Niger, Nigeria, Mali, Senegal, Etiopia. "Vogliamo convincere i paesi d’origine che i problemi di immigrazione e di sviluppo sono legati, da loro e da noi", spiega Timmermans. Il "patto" proposto dalla Commissione contiene anche l’apertura di "vie legali" all’immigrazione in Europa. Finora, avevamo "il sistema di Blue Card", spiega Timmermans in un’intervista a Le Monde, "utilizzato soprattutto dalla Germania per persone molto qualificate. Dobbiamo estenderlo ad altri stati", accanto a una conferma e ridefinizione del "sistema di reinstallazione di rifugiati in Europa", che non sta funzionando per nulla. Bisognerà aspettare l’autunno per avere maggiori dettagli su questo punto, su cui la proposta della Commissione sorvola soltanto, viste le forti reticenze dei paesi membri. La questione dei finanziamenti resta una piaga aperta: nel novembre 2015 è stato varato un Fondo per l’Africa, che avrebbe dovuto essere dotato di 1,8 miliardi, ma finora ne sono stati stanziati solo 80 milioni. La polizia sgombra le tende dei rifugiati al centro Baobab di Roma di Francesca Fornario Il Manifesto, 8 giugno 2016 Accoglienza. I volontari non mollano: "Qui continueremo a sfamarli". "In che senso non hanno il diritto di emigrare?!" La difficoltà è spiegarlo a Valerio, che ha 14 anni e ieri mattina, prima di andare a scuola, si è presentato al Baobab con quattro buste cariche di latte e biscotti rispondendo a un appello su Facebook. Valerio guarda basito i poliziotti in tenuta antisommossa che hanno chiuso via Cupa tra i blindati e circondato le tende dove anche stanotte hanno dormito in troppi, centinaia, scappati dalle guerre e sopravvissuti agli sbarchi degli ultimi giorni. Poliziotti e carabinieri invitano i migranti a uscire. Molti riescono a scappare tra le urla, altri vengono fermati e identificati. Quarantasei in tutto, i primi caricati e portati in questura a Via Patini, oltre il raccordo, gli altri, dopo una mediazione con i volontari, in quella più vicina a San Lorenzo. "This is not Italia, this is Libia!", urla tra le lacrime un ragazzo etiope che delle torture della polizia libica porta ancora i segni, e che dopo sei mesi di viaggio si sentiva così vicino alla metà, quasi in Germania. Una volontaria caccia un urlo: ha visto il ragazzino che si è staccato dal gruppo per avvicinarsi al tavolo dove si affetta il pane per la colazione. Ha afferrato la lama, minaccia di tagliarsi le vene. Gli saltano addosso in due, lo fermano, lo disarmano. Quello piange, si divincola, non vuole andare in questura, ha paura che lo rimandino indietro, in Etiopia, proprio ora che è a un passo da suo fratello che lo aspetta oltre le Alpi. "In che senso non può andare da suo fratello?", insiste Valerio, misurando con lo sguardo la distanza tra la giustizia e la legge. La legge che prevede la protezione internazionale solo per alcuni - gli Eritrei, ma non gli Etiopi, chi scappa dalla guerra ma non chi scappa dalla fame - e che comunque esige che la domanda venga fatta nel paese dove si sbarca. L’Italia, anche se tuo fratello ti aspetta in Germania. La polizia sgombera le tende che erano state aperte con l’aiuto della comunità Rom, accanto alle loro roulotte, lungo il marciapiede tra la via Tiburtina e le mura del Verano. L’Ama butta via i materassi, pulisce l’asfalto con le pompe, i migranti raccolgono le loro poche cose in fretta. I volontari chiedono di poter incontrare il prefetto. "Ci aveva promesso una soluzione", dicono. Non sotto elezioni. La prefettura è impegnata con i seggi. Dopo un’altra trattativa, la polizia accetta di mantenere le tende in via Cupa, "che sono meno visibili". Il problema sembra quello di ripristinare il decoro urbano, l’unico totem al quale buona parte della cittadinanza sacrifica la propria indignazione. Via Cupa, Roma, la stretta striscia di asfalto davanti ai locali del Baobab sgomberati a dicembre, non deturpa il decoro. Ma non basta a ospitare le tende, che comunque non basterebbero - dormono in nove in tende da tre - e che comunque sono sempre tende in mezzo alla strada, una strada nascosta alla vista dei comitati di quartiere ma esposta alla pioggia di ieri, come tutte le strade. "Servirebbe un posto decente per poter accogliere i migranti in transito - insistono i volontari - con le docce, i bagni, una cucina. Ce lo hanno promesso". È che sono lì, in duecento, e in decine di migliaia negli hotspot e negli accampamenti e nelle strade d’Italia e di Grecia, e lungo la rotta balcanica, ma non esistono più. I "transitanti", dopo l’approvazione del regolamento di Dublino, sono inchiodati dove sbarcano: transitare è illegale, raggiungere la propria famiglia è illegale, cercare lavoro in un paese dove il lavoro c’é ancora invece che in Italia è illegale. Ma questo non scoraggia le centinaia di migliaia che scappano, che continueranno a transitare, ingrossando gli affari dei trafficanti di uomini ora che non possono più affidarsi alla legge. "Da qui non ce ne andiamo", promettono gli attivisti. "Continueremo a dare da mangiare ogni giorno alle decine che si mettono in fila, e ci batteremo per ottenere un posto dove accogliere e ristorare uomini, donne e bambini prima che si rimettano in viaggio". Un posto dove far rispettare una legge che non c’è. Iraq: sulle milizie sciite l’ombra di esecuzioni e pestaggi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 giugno 2016 Dalle brutalità dell’Isis alle rappresaglie sciite: fonti locali parlano di torture e uccisioni di civili in fuga dalla città, il governo apre un’inchiesta. A Mosul 19 donne yazidi bruciate vive dagli islamisti. Il premier iracheno al-Abadi si nasconde dietro una cortina di ottimismo: la liberazione di Fallujah è imminente - ha detto lunedì - e lo Stato Islamico sarà sradicato dall’Iraq entro l’anno. Ma nel caos iracheno non esistono più "buoni" e "cattivi", le categorie - agli occhi dei civili che le subiscono - si mescolano: da Fallujah la gente scappa dalla brutalità manichea islamista per finire in mano a gruppi di miliziani sciiti che giocano ai liberatori ma non sono altro che nuovi aguzzini. Le violenze, perpetrate dalle milizie sciite contro i sunniti in fuga dall’assedio, le documentano in questi giorni organizzazioni locali e internazionali: torture, pestaggi, esecuzioni. Non certo il primo passo verso la pacificazione nazionale, una volta sconfitto l’Isis, ma l’ultimo verso il baratro dei settarismi interni. La frattura si amplia sia tra la comunità sunnita e quella sciita che tra esercito regolare e milizie sciite: il primo ministro sta provando ad allontanare le seconde dalla prima linea per evitare rappresaglie ma anche per non far crescere troppo l’influenza dell’Iran, loro finanziatore. Ma alle al-Hashd al-Shaabi (così in arabo vengono definite le unità di mobilitazione popolare, ovvero le milizie sciite) l’idea di un arretramento non piace affatto e non lo nascondono: Hadi al-Amiri, leader delle potenti brigate Badr, ha ribadito più volte l’intenzione di essere presente al momento dell’ingresso trionfale a Fallujah. Gli effetti sono devastanti: se l’Isis si vendica per la controffensiva in atto attaccando la città sacra sciita di Karbala (ieri un’autobomba ha ucciso 5 persone e ne ha ferite 10, nel primo giorno di Ramadan, il mese sacro musulmano), i media locali riportano delle vendette sciite contro i sunniti di Fallujah. Secondo fonti locali, sarebbero oltre 300 le persone giustiziate da miliziani sciiti mentre tentavano di mettersi in salvo: "I cadaveri di 300 civili sono stati trovati nel cortile della scuola di al-Nourain - riportava ieri Oubaida al-Dulaimi, attivista del sobborgo di Saqlawiya - Erano tutti membri della tribù di al-Saqlawiya". Gli fa eco il Ninevah Media Center: "Gran parte di loro sono stati arrestati da miliziani sciiti perché sunniti e uccisi con il pretesto di sostenere l’Isis". Certezze sulle esecuzioni sommarie non ce ne sono ma alcuni video pubblicati ieri mostrano le violenze perpetrate sugli sfollati: uomini appena scappati da Fallujah vengono fermati da miliziani sciiti e picchiati alla testa e sulla schiena, ripetutamente, con barre di metallo e cavi. Alcuni, dopo il rilascio dalla base militare Camp Tareq, hanno raccontato di essere stati privati dell’acqua per giorni e costretti a urinare nelle bottiglie per poi berne. Dei 650 detenuti liberati (i fermi sono una pratica comune nelle zone liberate per verificare che tra i civili non si nascondano islamisti) quattro sarebbero morti per le ferite, molti altri portano addosso i segni dei pestaggi: ossa rotte, volti lacerati. Le violenze preoccupano l’establishment iracheno che corre ai ripari: il governo ha già aperto un’inchiesta, mentre il premier al-Abadi precisa che si tratta di mele marce, atti individuali non imputabili all’intero fronte di liberazione. Per evitare accuse, alcuni leader delle al-Hashd al-Shaabi stanno reclutando tra le loro fila anche combattenti sunniti, oggi circa 6mila, quasi la metà del totale. Da una parte i settarismi etnici e confessionali, dall’altra lo Stato Islamico: ben poco tra cui scegliere. Eppure molti residenti di Fallujah tentano comunque la fuga dalla città, terrorizzati dalle conseguenze della battaglia finale. In 18mila hanno raggiunto i campi allestiti fuori dalla città, altri non ce l’hanno fatta perché fermati dall’Isis con i proiettili. O con noi o contro di noi, è il messaggio del "califfato". Un messaggio che a Mosul è vita quotidiana: l’ultima barbaria risale a pochi giorni fa, quando 19 donne yazidi sono state bruciate vive in una gabbia per aver rifiutato di diventare schiave sessuali dei miliziani. Siria, anche Assad fiducioso - Il presidente siriano Assad segue al-Abadi sulla via dell’ottimismo: ieri, di fronte al neo eletto parlamento e al suo nuovo presidente (per la prima volta nella storia una donna, la 58enne Hadiye al-Abbas), ha promesso di liberare dallo Stato Islamico ogni centimetro del paese e si è felicitato per la situazione attuale, che ha definito migliore di qualche mese fa. Riferendosi poi al negoziato-fantasma, ha ribadito l’intenzione di proseguire con il dialogo ma ha puntualizzato: la Siria deve essere guidata da un governo di unità e non da uno di transizione senza di lui, come chiedono le opposizioni. A regalargli la spavalderia necessaria è il sostegno russo che in pochi mesi ha permesso la liberazione di Palmira e, ora, la controffensiva su Raqqa.