Un ergastolano intervista un ergastolano di Carmelo Musumeci e Aurelio Quattroluni Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2016 La notte è l’ora del dolore. Dei sogni persi. È il momento più brutto della giornata. Ti passano tante cose per la testa. E con il buio hai meno paura di morire. Ti viene voglia di lasciarti andare alla corrente del dolore perché non riesci più a trovare nulla per cui valga la pena di vivere. È con il buio che trovi tanti motivi per appenderti alla finestra. ("Gli ergastolani senza scampo" di Andrea Pugiotto, Carmelo Musumeci. Editoriale Scientifica). Carmelo: Posso rendere pubblica la tua testimonianza? Aurelio: Sì! Carmelo: Citando il tuo nome e il tuo cognome? Aurelio: Sì! Carmelo: Come ti chiami? Aurelio: Aurelio Quattroluni. Carmelo: Quanti anni di galera ti sei fatto? Aurelio: Venti anni. Carmelo: Luogo e data di nascita. Aurelio: Sono nato a Catania il 7/2/1960. Carmelo: Luoghi dove hai vissuto. Aurelio: Sono cresciuto in un quartiere di Catania chiamato "Borgo". Carmelo: I motivi che a tuo parere ti hanno portato in carcere. Aurelio: I motivi che mi hanno portato in carcere sono molti e di diversa natura ma posso sommare di tutto in una sola cosa: una scelta di vita sbagliata e l’amicizia che mi legava ad alcune persone. Carmelo: Che lavoro svolgevi fuori? Aurelio: Impiegato statale presso le poste e telecomunicazioni. Carmelo: Sei sposato? Aurelio: Sì. Carmelo: Hai figli? (se sì quanti e di quale età e se li vedi …) Aurelio: Si, due, il maschio di venticinque anni e la femmina di ventidue. Li vedo raramente per la distanza che ci divide. Carmelo: Quanti anni di carcere hai finora fatto? Aurelio: Sempre venti. Carmelo: Quanti anni sei stato sottoposto al regime di tortura del 41 bis e da quanti anni sei adesso detenuto nel circuito di Alta Sicurezza? Aurelio: Per dieci anni sono stato sottoposto al carcere duro del 41 bis e adesso da dieci anni mi trovo in Alta Sicurezza. Carmelo: Hai fatto la richiesta per essere inserito nel circuito dei Media Sicurezza? Aurelio: Sì, più volte, ma non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire. Carmelo: Che titolo di studi hai? Aurelio: Geometra. Mi sono diplomato nel 1979. Carmelo: Come percepisci il tempo che trascorri in carcere ed è per te un tempo vuoto, un tempo perso o comunque un tempo di vita? Aurelio: Il tempo in carcere è difficile da percepire, si dilata andando oltre il vero tempo reale. Non si avverte il trascorrere effettivo di esso ma tutto si riduce ad un qualcosa che ha a che fare con l’attesa, sembra tutto fermo, si parla di anni come se si discutesse di giorni, lo si estende e lo si altera. Carmelo: Ricordi come accogliesti la condanna definitiva all’ergastolo? Quali furono i tuoi pensieri e i tuoi stati d’animo …? Aurelio: Ricordo il mio stato d’animo, fu come un fiume in piena, ero smarrito, confuso; ebbi la sensazione che il mondo stesse per crollarmi addosso. Carmelo: Ricordi alcuni sogni particolari …? Aurelio: Che volo con le ali fuori dalle sbarre della mia finestra o che divento invisibile per potere uscire dalla mia cella. Carmelo: Pensi che sarebbe importante l’abolizione dell’ergastolo in Italia? Aurelio: Questa mi sembra una domanda stupida da fare a un ergastolano, comunque la risposta è sì perché la speranza di potersi rifare una vita darebbe di più la possibilità di migliorarsi. Carmelo: Se l’ergastolo fosse abolito, secondo te, quale dovrebbe essere il massimo della pena? Aurelio: Quella necessaria. Carmelo: Secondo te perché l’ergastolo non è stato ancora abolito in Italia (anche se anni fa il senato lo aveva abolito)? Aurelio: Sarebbe un atto politico che non porterebbe voti ai partiti anzi ne farebbe perdere. Carmelo: Pensi che sarebbe importante introdurre la normativa riguardante la sessualità e la affettività in carcere? Aurelio: Non fare l’amore in carcere non penso che ti renda un uomo migliore. Carmelo: Ti manca più l’amore o il sesso? Aurelio: L’amore. Carmelo: Ci sono stati dei cambiamenti in te stesso che hai notato in questi ultimi anni di carcere? Aurelio: Sicuramente, il tempo cambia le persone, ovunque esse si trovano, ma in carcere un po’ meno. Carmelo: Quali progetti hai per il futuro? Aurelio: Che c. di domanda? Ne hai una di riserva? Carmelo: Preferisci la pena di morte o l’ergastolo? Aurelio: Se non avessi mia moglie, i miei due figli e adesso i miei nipotini preferirei la pena di morte perché la pena dell’ergastolo è una pena di morte al rallentatore. Carmelo: Se tornassi indietro cosa cambieresti della tua vita? Aurelio: I miei errori. Carmelo: La sofferenza della pena dell’ergastolo e l’esperienza del carcere, a tuo parere, ti ha cambiato in meglio o in peggio? Aurelio: La sofferenza della pena dell’ergastolo e del carcere non mi hanno certo cambiato in meglio, quello che mi ha cambiato è l’amore della mia famiglia. Carmelo: Secondo te, è giusto dire che gli ergastolani che in teoria non hanno nulla da perdere, siano dominati e si sottomettano senza ribellarsi di più degli altri detenuti? Aurelio: Credo che non si dovrebbe parlare di sottomissione, ma di annientamento che alla lunga ti fa diventare una cosa fra le cose. Carmelo: Ti senti condizionato dalla tua pena? Aurelio: Come potrei non esserlo? Sì perché la mia vita non dipende più da me. Carmelo: Hai visto nel tuo corpo e nei tuoi sensi dei peggioramenti in questi anni di detenzione? Aurelio: Il carcere rinchiude prima di tutto i corpi, li logora e li porta a un lento degrado e poi rinchiude le menti, rendendoli infantili perché le costringe a una continua obbedienza e dipendenza dai tuoi guardiani. Carmelo: Hai disturbi psicofisici? Aurelio: Credo di sì perché ho il desiderio di morire presto per uscire dal carcere. Carmelo: Hai mai fatto tentativi di fuga reali o… immaginari? Aurelio: Reali mai. Immaginari spesso, anche questa notte. Carmelo: Grazie delle tue risposte. Aurelio: Grazie a te delle tue domande. Le tante voci dalla galera di Alberto Giasanti Il Manifesto, 7 giugno 2016 Altro che spostare i penitenziari dal centro alla periferia. È importante che il carcere sia una presenza visibile nella città, per incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte. "Vendere San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale in cambio di penitenziari nuovi"; "Il piano carceri: via dai centri storici. Le nuove prigioni solo in periferia"; "Carceri, è polemica. L’operazione vendita non convince tutti". Sono i titoli di la Repubblica del 27 e 28 maggio 2016, mentre il dibattito-convegno tra funzionari e operatori della giustizia insieme a magistrati, avvocati e docenti universitari riguardo ai "cambiamenti nell’area penale per le professioni sociali", tenutosi il 27 maggio presso l’Università di Milano-Bicocca, pone l’accento sulle misure alternative al carcere come antidoto alla recidiva e sui rapporti sempre più stretti che il carcere deve avere con il territorio. Al tempo stesso l’iniziativa del Ministro della Giustizia di dare avvio, nel maggio del 2015, agli "Stati Generali dell’esecuzione penale" ha portato alla costituzione di 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori, studiosi e volontari del settore come anche detenuti, per la definizione di "un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto". Nell’aprile di questo anno il Comitato degli esperti, che ha coordinato a livello nazionale i tavoli tematici, ha presentato e discusso a Rebibbia il documento finale degli Stati Generali, constatando che "il problema dell’esecuzione penale è un problema culturale, prima ancora che normativo" e facendo capire "come sia socialmente ottusa, oltreché costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il carcere sia una sorta di buio caveau, in cui gettare e richiudere monete che non hanno più corso legale nella società sana e produttiva". Un percorso dunque attraverso il quale "la società offre un’opportunità ed una speranza alle persone" e dà a se stessa "un’opportunità ed una speranza di diventare migliore". Affermazioni queste di civiltà giuridica e sociale al tempo stesso, ma che sono in contraddizione con quanto la stampa nazionale mette in luce, riferendosi alla vendita delle carceri situate nei centri storici e soprattutto alla costruzione di nuovi penitenziari nelle periferie. Se la politica dell’esecuzione penale va verso la prospettiva del ridimensionamento delle misure detentive e di un allargamento di quelle "di comunità" e gli operatori tutti ritengono di grande utilità il lavoro di rete sul territorio per la riduzione della recidiva e la progressiva inclusione sociale delle persone detenute, eliminare le carceri dal centro e costruirle in periferia assume il valore simbolico di un disegno che intende, come afferma Luigi Manconi, rimuovere il male, che si pensa essere dentro il carcere, nascondendolo allo sguardo dei cittadini. È comunque la risposta che si ritrova nelle città di tutti i paesi dove poveri, bambini di strada e persone marginali devono essere nascosti agli occhi del mondo in nome del decoro. Così la società, pur essendoci totalmente immersa, nega la violenza e cerca di allontanarla da sé, nascondendo la propria parte negativa nell’idea di esorcizzarla, ma questa, se non accolta e riconosciuta, ritorna più potente che mai e prende il sopravvento. Si deve allora guardare al carcere come al luogo dove, in certe circostanze e attraverso dolorose esperienze, fare i conti con la propria ombra apre la strada per addentrarsi nei sotterranei dell’anima o del nostro lupo interiore verso un ulteriore percorso, lungo e faticoso, di conoscenza di sé che porta al riconoscimento dei nostri demoni ed alla ricomposizione ad unità delle nostre parti scisse in un gioco di luci e ombre come anche in un andare e venire tra dentro la galera e fuori nella comunità. Per dare parola alle tante voci della galera, attraverso le quali la città può forse avere l’idea che i delinquenti sono in realtà persone come noi, vorrei dire della mia esperienza pluriennale di docente che tiene corsi universitari in carcere parlando di mediazione con se stessi, di maschera, di ombra e di doppio. Con la firma dell’accordo tra l’Università degli studi di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia la formazione in carcere assume una rilevanza istituzionale che dà la possibilità di sviluppare attività di ricerca, culturali e didattiche presso alcuni Istituti penitenziari lombardi e presso l’ufficio di esecuzione penale esterna di Milano e dello stesso provveditorato. La convenzione è rivolta a tutto il personale degli istituti penitenziari, alle persone detenute, ai docenti e agli studenti dell’ateneo, con la possibilità di organizzare in carcere corsi, stage, tirocini e laboratori. Così una mattina entro in carcere con il gruppo di studenti frequentanti e incontriamo il gruppo di detenuti che intendono seguire le lezioni. Si lavora sul conflitto e sulla mediazione con se stessi che significa fare i conti con il nostro doppio, ma anche con la molteplicità delle nostre identità e con le proiezioni delle nostre ombre. Il corso evidenzia come le storie dei partecipanti si intrecciano quasi a sovrapporsi le une alle altre in un altalenarsi tra singoli e gruppi, tra coscienza individuale e coscienza collettiva, come due sguardi differenti che si confrontano. Alla fine del corso la valutazione degli elaborati e la presentazione degli stessi nella forma di una rappresentazione teatrale. Questo corso ha poi dato luogo alla scrittura collettiva, detenuti e studenti, di un libro dal titolo università@carcere. Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono. Ci si deve sempre ricordare che per andare oltre la sofferenza è necessario incontrarla nella sua dimensione tragica e certamente il carcere è tragedia e le storie narrate nel libro ne sono una viva testimonianza. È necessario, d’altra parte, indicare una via lungo la quale i sentimenti messi a nudo e violati trovano un luogo di mediazione per potersi esprimere e per potere dare e prendere la parola. È quindi importante che il carcere sia una presenza molto visibile nella città per potere incontrare le nostre maschere e quelle degli altri o, in altri termini, incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte. Si deve quindi investire non in mura o allontanando il carcere dallo sguardo dei più, ma in formazione e lavoro come in attività ludiche per tutti, sia verso la persona detenuta sia verso chi, a vario titolo, lavora nel carcere e nella comunità. Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale sono una opportunità unica di Arch. Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2016 Da quando la progettazione delle carceri in Italia, per ragioni emergenziali e di convenienza amministrativa, è stata privata dell’opportunità di avvalersi del contributo dei più qualificati Architetti e specialisti del settore, per trasformarsi - nel chiuso degli uffici tecnici ministeriali - in una attività di routine, la dimensione architettonica degli edifici carcerari, via via realizzati, si è progressivamente disumanizzata e culturalmente impoverita. Quell’evento ha contribuito ad escludere dal dibattito culturale architettonico e dalle buone pratiche della progettazione l’edificio carcerario. È un paradosso che la progettazione del carcere - salvo rarissime eccezioni - non sia insegnata nelle scuole di Architettura. Le nostre carceri pertanto continuano ad essere progettate e costruite prive dei veri valori dell’Architettura, ossia senza la dovuta attenzione e sensibilità ai bisogni materiali e psicologici degli individui che, a vario titolo, le utilizzeranno e secondo metodologie progettuali improprie e controproducenti. Il risultato generale è che le nostre carceri risultano spazialmente inadeguate per la funzione riabilitativa della pena che la Costituzione ci indica e per le recenti disposizioni custodiali, quanto arretrate rispetto alle più progredite realizzazioni internazionali, frutto di progetti coerenti. Per questo diventa indispensabile restituire alla progettazione della prigione la giusta dimensione, che solo un sapere maturo ed il contributo della concertazione multidisciplinare può realizzare. Queste criticità, a lungo taciute, ci rimandano a questioni e ragioni che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni di un sistema ormai incancrenito, complice una classe politica troppo spesso preoccupata del tornaconto elettorale. Così non è sembrato quando l’Onorevole Ministro Andrea Orlando, meritoriamente, ha dato vita agli Stati Generali dell’Esecuzione penale. Resta il fatto che ad essi devono seguire nell’immediato futuro, anche per quanto riguarda le infrastrutture penitenziarie in funzione e quelle che verranno, atti concreti da parte del Parlamento, oltre il pregiudizio ideologico, fuori da ogni logica propagandistica e autoreferenziale. Atti che, sulla base di una precisa e determinata volontà politica, riguardando la riorganizzazione del sistema delle infrastrutture penitenziarie, investano l’Amministrazione penitenziaria preposta di nuovi mandati. A riguardo riterrei indispensabile che si partisse da un confronto approfondito, tra quanti ne abbiano titolo e competenze, sull’ipotesi di superare le attuali modalità di progettazione, realizzazione e gestione delle infrastrutture penitenziarie, con uno sguardo più oggettivo su quanto di buono succede all’estero. Mi riferisco ad esempio alla Spagna ed alla Francia, due esempi che offrono un ampio spettro di soluzioni che vanno dalla programmazione e pianificazione delle realizzazioni edilizie, ai sistemi di finanziamento delle opere architettoniche, dai criteri progettuali riguardanti la conservazione e la dismissione degli edifici storici e la realizzazione dei nuovi alla gestione del patrimonio immobiliare penitenziario. Confido pertanto nel fatto che l’attuale Ministro della Giustizia, che sino ad ora molto si è speso nel dichiararsi determinato a riformare il nostro sistema penitenziario, possa prendere in considerazione una tale ipotesi di lavoro. Certamente si può dire che con gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale una nuova stagione di cambiamenti si prospetta nell’immediato. Criminale sarebbe perdere questa opportunità unica, che l’Onorevole Ministro Andrea Orlando ci ha consegnato chiudendo gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale il 19 aprile scorso. Carceri, Mattarella: funzione rieducativa della pena obiettivo prioritario Il Velino, 7 giugno 2016 "Esigenza di un profondo rinnovamento del modello di detenzione". "Nella ricorrenza del 199° anniversario della fondazione del Corpo sono lieto di esprimere la viva gratitudine e l’apprezzamento della Repubblica alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria impegnati quotidianamente nella delicata funzione dell’applicazione delle misure di giustizia. La concreta realizzazione di un sistema rispettoso del dettato dell’articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena - e sul senso di umanità cui devono corrispondere i relativi trattamenti - rimane obiettivo prioritario, con i passi avanti realizzati sul nodo critico del sovraffollamento carcerario". Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo. "L’esigenza di un profondo rinnovamento del modello di detenzione - prosegue Mattarella - trova fondamento anche nel nuovo senso delle pene che si va radicando nella cultura sociale e politica, emerso dai lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Occorre proseguire sulla strada di un modello organizzativo e di gestione che, nel garantire la sicurezza della comunità e il libero svolgimento delle relazioni sociali, sappia unire l’opportunità dell’istruzione, del lavoro, l’apertura alla società esterna, per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell’integrazione. Sono certo che il Corpo saprà profondere in questo senso la sua professionalità, la sua dedizione, la sua capacità di innovazione. In questo giorno di solenne celebrazione rendo omaggio ai caduti del Corpo nell’assolvimento dei loro compiti e formulo a tutti voi, in servizio e in congedo e alle vostre famiglie, i più fervidi voti augurali". Chiesta sanzione per i pm del caso Uva. Oggi sentenza della sezione disciplinare del Csm di Alfredo Barbato Il Dubbio, 7 giugno 2016 Sulla morte di Giuseppe Uva resta il mistero. Sulle responsabilità delle forze dell’ordine (sei poliziotti e due carabinieri) che il 13 giugno del 2008 lo tennero in custodia prima del ricovero e del decesso in ospedale, si è pronunciata il 16 aprile scorso la Corte d’Assise di Varese: tutti assolti "perché il fatto non sussiste". Ma ora a rischiare una sentenza punitiva sono i magistrati che condussero le indagini sul caso dell’operaio di Varese: ieri infatti la Procura generale della Cassazione, rappresentata dal sostituto Giulio Romano, ha chiesto per i due pm, Sara Arduini e Agostino Abate, la "condanna" davanti alla sezione disciplinare del Csm. Secondo l’atto di incolpazione formulato dal sostituto procuratore generale della Suprema corte, il Consiglio superiore della magistratura dovrebbe infliggere una "censura" ad Arduini, mentre per Abate, che al momento svolge funzioni di giudice a Como, bisognerebbe provvedere con "la perdita di anzianità di 6 mesi e il trasferimento ad altro ufficio". Nelle "accuse" pronunciate ieri, non vengono avanzati dubbi sulla sentenza, né si allungano nuove ombre su quello che effettivamente avvenne nella caserma dell’Arma di Varese durante la notte tra il 13 e il 14 giugno di 6 anni fa. Secondo la famiglia di Giuseppe Uva, e anche secondo le iniziali affermazioni dell’unico testimone oculare, Alberto Biggioggero, l’operaio che aveva 43 anni fu duramente picchiato dagli agenti. Addirittura circolarono ipotesi di una "vendetta" per la relazione che la vittima avrebbe avuto con la moglie di uno dei poliziotti. Tutte questioni le cui tracce sono andate via via dissolvendosi nel corso del processo, e che comunque ieri al Csm non si è tornati ad affrontare. Nell’atto di incolpazione infatti il sostituto pg Romano spiega: "Non si tratta di entrare nel merito delle valutazioni discrezionali del pm, non ci interessano gli esiti processuali, ma a nostro parere non vi è stata correttezza nel seguire le norme procedurali". La sezione disciplinare del Csm - deputata appunto a infliggere le sanzioni per i magistrati nei confronti dei quali vengono aperti procedimenti disciplinari - ha ascoltato l’intervento di Romano sotto la presidenza di un consigliere laico, Antonio Leone, ex vicepresidente della Camera dei deputati. La camera di consiglio è fissata per questa mattina, e sempre in giornata dovrebbe essere pronunciata la sentenza. I dubbi sulla correttezza dei due magistrati inquirenti furono avanzati anche al processo per la morte di Uva, nel corso della requisitoria, che fu pronunciata lo scorso 15 gennaio dal procuratore di Varese Daniela Borgonovo: anche lei parlò di "anomalie" che "hanno reso più complicato accertare la verità". Come il fatto di non iscrivere subito poliziotti e carabinieri nel registro degli indagati, circostanza che non ha permesso loro di nominare propri consulenti. Ma anche il capo dei pm dell’ufficio lombardo sostenne che "non ci fu un pestaggio: i testimoni che hanno riferito di percosse", spiegò davanti alla Corte d’Assise, "o hanno ritrattato o sono stati smentiti dai fatti". Una ricostruzione che la sorella dell’operaio deceduto esattamente 6 anni fa, Lucia Uva, ha contestato come "assolutamente parziale". E a cui però il collegio giudicante ha creduto. Parlamentari, condanna per corruzione con confini precisi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2016 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 6 giugno 2016 n. 23355. Il parlamentare non può essere condannato per corruzione perché non ha alcun ruolo nelle gare d’appalto. È vero che il parlamentare è un pubblico ufficiale, ma la "semplice" partecipazione a una commissione che non ha alcuna competenza nella materia oggetto dell’appalto contestato esclude che possa essere sanzionato sulla base dell’articolo 319 del Codice penale. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 23355 della Sesta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa del senatore del Pd Salvatore Margiotta, annullando senza rinvio, perché il reato "non sussiste", la condanna ricevuta dalla Corte d’appello di Potenza per corruzione e turbativa d’asta. Il Parlamentare si era sospeso dal Partito democratico e aveva lasciato la vicepresidenza della commissione di vigilanza sulla Rai. Secondo il quadro accusatorio Margiotta, facendo valere il proprio potere e influenza in qualità sia di senatore sia di leader del Pd di Potenza, aveva indirizzato, con pressioni anche sul presidente della Regione Basilicata, l’aggiudicazione delle gare d’appalto sul "Centro oli Tempa Rossa" a una cordata d’imprenditori a fronte di una promessa di 200mila euro. L’impianto accusatorio era passato all’esame dei giudici di primo grado, che avevano assolto il politico e della Corte d’appello che, invece, l’aveva condannato. Nell’accogliere le tesi della difesa, la Cassazione ricorda che il reato di corruzione, nell’interpretazione della stessa Corte, appartiene alla categoria dei reati "propri funzionali, perché elemento necessario di tipicità del fatto è che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera d’influenza dell’ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto". Serve cioè che le condotte sospette siano espressione diretta o indiretta della pubblica funzione esercitata. Con la conseguenza che non si configura il reato di corruzione passiva se l’intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell’accordo illecito non conduce ad attivare poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia comunque a questi in qualche modo ricollegabile. Come nel caso, per esempio, in cui l’intervento incide sulla sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi "rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale". Allora, perché si possa parlare di corruzione propria non è determinante che il fatto contrario ai doveri d’ufficio sia compreso nell’ambito delle mansioni specifiche del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario che si tratti di un atto che rientra nelle competenze dell’ufficio di appartenenza. Nel caso preso in esame, la Cassazione sottolinea che la commissione Ambiente, nella quale Margiotta lavorava, non ha competenze nella materia oggetto di appalti e che il senatore non era neppure componente di comitati parlamentari sull’estrazione del petrolio. In ogni caso, avverte la sentenza, le condotte contestate, al di là di qualsiasi questione sull’esistenza della promessa di 200miale euro, potrebbero semmai assumere rilevanza penale ad altro titolo: è il caso del traffico d’influenze (inapplicabile però all’epoca dei fatti) che sanziona chi, sfruttando relazioni con un pubblico ufficiale, fa dare a sè o ad altri denaro o altri vantaggi patrimoniali. "Colpa lieve" più favorevole ai medici di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2016 Corte costituzionale - Sentenza 23283/2016. "Colpa lieve" più ampia e più favorevole ai medici. La Quarta penale della Cassazione (sentenza 23283/16, depositata ieri) allarga il perimetro della scriminante introdotta nel 2012 dalla legge Balduzzi (189/12), "liberandola" dai confini dell’imperizia costruiti dalla giurisprudenza degli ultimi anni. Il canone, scrive la Quarta all’esito di una dettagliata motivazione, dovrà ora essere più semplicemente la distanza della condotta incriminata da quella prevista dalle Linee guida, a prescindere dalla connotazione di imperizia ovvero di negligenza che si ritiene di contestare. La Corte approfitta di una decisione della Corte d’appello di Genova del 2015 relativa a un fatto avvenuto sette anni prima - e quindi con un mero problema di successione di legge penale più favorevole nel frattempo entrata in vigore - per rimettere la questione a una nuova sezione di merito ma, soprattutto, per correggere il tiro delle pronunce della stessa Suprema Corte in materia di responsabilità medica. Sul decreto Balduzzi - diventato poi legge con molti aggiustamenti, tra cui appunto la non punibilità della colpa medica lieve prevista all’articolo 3 - la Cassazione aveva costruito in tempi recenti una giurisprudenza "recintata" nel canone dell’imperizia, escludendo quindi dalla "perdonabilità penale" gli errori connotati da negligenza o da imprudenza (11493/13; 16944/15; 26996/15, tra le altre). Solo alcune pronunce avevano aperto alla valutazione della diligenza, vincolandola però a obblighi di "accuratezza" da rinvenire nelle stesse Linee guida (47289/14). Un percorso sempre più tortuoso, insomma, che oggi la Quarta rimette in discussione con l’ottica di semplificare il lavoro dell’interprete, partendo da un punto di osservazione multidisciplinare. Multidisciplinarietà richiamata dalla stessa legge, scrive il relatore, laddove individua gli "esercenti la professione sanitaria" come destinatari delle norma, e non i soli medici. Le Linee guida, aggiunge la Corte, ormai investono molteplici ambiti professionali sanitari "chiamati a interagire nella prestazione delle cure". Pertanto non più di sola "perizia" in senso stretto si parla, ma piuttosto di "raccomandazioni che attengono ai parametri della diligenza, ovvero della accuratezza operativa". E siccome la disciplina penalistica non è molto d’aiuto nel delineare la tassatività del delitto colposo (articolo 43.3 del codice), e che i concetti richiamati dalla norma si sovrappongono e si dissolvono l’uno nell’altro, non resta che rivolgersi alla gradazione della colpa - chiosa la Quarta - "secondo il parametro della misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare che si doveva osservare". Proprio qui entrano in gioco le raccomandazioni (alias le linee guida "scriminanti" dell’articolo 3 della Balduzzi ), nel senso che "il grado della colpa sarà verosimilmente elevato nel caso di inosservanza di elementari doveri di accuratezza". Ombrello penale, in sostanza ben più ampio della sola imperizia considerata dalla precedente giurisprudenza. L’allaccio abusivo dell’inquilino è "furto aggravato" di Paolo Accoti Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2016 Tribunale Trento - Sentenza 6 aprile 2016. Risponde di furto aggravato (articolo 624 del Codice penale) l’inquilino moroso che si allaccia abusivamente all’impianto idraulico del condomino. Secondo il Tribunale di Trento risponde di tale reato, furto aggravato, l’inquilino che, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, si impossessa dell’acqua calda, utilizzandola sia a fini sanitari che di riscaldamento, prelevandola dall’impianto idraulico di pertinenza del proprietario/condomino. A causa dei mancati pagamenti del canone idrico, infatti, il proprietario dell’appartamento si vedeva costretto ad incaricare i tecnici della società somministratrice ad interrompere l’erogazione dell’acqua, tuttavia, l’inquilino continuava ad usufruire del servizio, nonostante l’omesso pagamento, allacciandosi abusivamente ogni volta che detto servizio veniva interrotto, forzando lo sportello d’accesso ai contatori, prelevandone uno - destinato ad altri appartamenti - e installandolo sulle tubazioni che servivano l’alloggio detenuto in locazione. Le condotte sopra descritte venivano confermate in sede istruttoria. Tali comportamenti, sostiene il Tribunale, integrano il reato continuato di furto aggravato dalla violenza sulle cose "e non di truffa in quanto i descritti sistemi di alterazione del sistema di misurazione dei consumi, che ha la funzione di individuare l’esatto numero degli scatti corrispondenti all’acqua trasferita all’utente, prescindono dall’induzione in errore del somministrante e sono immediatamente diretti all’impossessamento del bene per superare la contraria volontà del proprietario" (in tal senso anche la sentenza della Cassazione 2349/2004). Il partito dei Pm segna un punto di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 giugno 2016 Chi ha vinto le elezioni. E con quale campagna elettorale? Alla prima domanda risposta facile. Le elezioni le hanno vinte soprattutto i Cinque Stelle, coi successi clamorosi di Roma e Torino, e con l’ottimo risultato del candidato amico, e cioè D Magistris, a Napoli. Le ha perse (per ora) il Pd, che ha avuto risultati molto inferiori alle attese e che ha perso valanghe di voti, non solo rispetto alle europee. Gli altri partiti le hanno un po’ pareggiate e un po’ perse. Alla seconda domanda, risposta difficile. La campagna elettorale non c’è stata (con una sola eccezione, che diremo tra poche righe). Candidati non molto conosciuti e un pochino sbiaditi. Programmi zero. Comizi, quasi nessuno. Manifesti sui muri, macchine coi megafoni, grandi spot in Tv e sui giornali? Niente. La campagna elettorale più efficiente - e vincente - l’ha fatta un soggetto che non era direttamente interessato alle elezioni (almeno apparentemente). Il partito dei Pm. Che ha colpito ripetutamente, con precisione e con grande efficacia, condizionando l’elettorato in modo robusto. Soprattutto a Roma, in Campania, ma anche in Lombardia. Gli arresti e gli avvisi di garanzia a raffica (insieme agli echi dell’inchiesta mafia capitale) hanno scompaginato il Pd e - a dar retta ai sondaggi - gli hanno fatto perdere molti punti. Un paio di settimane fa "Il Fatto Quotidiano" calcolava che le inchieste fossero costate a Renzi, fino a quel momento, già sette punti percentuali. Che forse poi sono diventati 10 o 12. E calcolava che fossero fruttate più o meno altrettanto ai Cinque Stelle. C’è stata poi una piccola controffensiva di pezzettini di magistratura poco amici dei grillini, con gli avvisi di garanzia per i sindaci (5 Stelle) di Livorno e Parma. In Toscana però non si votava nelle grandi città. In Emilia - cioè a Bologna - i 5 Stelle non sono arrivati al ballottaggio. A Roma e a Napoli il Pd ha avuto una débâcle. Intendiamoci: nessuna polemica. Constatazioni. Molise: il Garante dei diritti non è ospite del panorama carcerario molisano di Claudio de Luca termolionline.it, 7 giugno 2016 Il Bollettino ufficiale n. 40 del 2015 reca le modalità per addivenire alla "Istituzione del Garante regionale dei diritti della persona", fisica o giuridica che sia, nonché dell’infanzia e dell’adolescenza e la promozione, protezione e facilitazione del loro perseguimento nei confronti di chi sia stato privato della libertà. In pratica è stata istituita la figura del Garante di tali diritti ed abrogata quella del Tutore pubblico dei minori. Nella Regione Molise la sua elezione compete all’organo consiliare a scrutinio segreto (2/3 dei voti favorevoli per due votazioni e, successivamente, a maggioranza semplice). Dura in carica 5 anni ed è rieleggibile ancora per una volta. Il Garante dev’essere scelto entro 60 gg. dalla data di entrata in vigore della legge e presta giuramento nella prima seduta utile del 2016 del Consiglio regionale. Purtroppo il termine è troppo breve per una procedura che occupa almeno un semestre tra la pubblicazione del Bando di ricerca, l’attesa dell’arrivo delle candidature, l’analisi dei "curricula", la scelta e la nomina del soggetto. Difatti, alla scadenza della data (16 febbraio) il Garante non è stato nominato a tutt’oggi ad onta di una legge regionale puntigliosamente approntata che prevede finanche un giuramento. La normativa richiede che il prescelto debba essere persona "di adeguata competenza e di provata esperienza giuridico-amministrativa nel settore delle discipline di tutela dei diritti umani ed anche in materia minorile, con particolare riguardo alle materie che rientrano tra le sue attribuzioni". In tutto questo tergiversare la cosa più curiosa è quella per cui nell’elenco ministeriale la Regione Molise non appare quasi che non avesse né Garante da eleggere né una legge istitutiva già predisposta. Eppure le tre carceri molisane (Campobasso, Isernia e Larino) una certa importanza ce l’hanno ove si consideri che, nei periodi di punta, finiscono con l’ospitare anche oltre 400 detenuti contro i 356 di capienza regolamentare. Solo la Sezione femminile di Campobasso segnala quasi sempre l’assenza di "ospiti". Secondo il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, la Casa circondariale e di reclusione di Larino è quella che collassa bene più delle altre. Difatti, nata per accogliere 184 detenuti, arriva a contarne persino 250, di cui una decina di extra-comunitari. Di contro, quella di via Cavour, a fronte di una capienza di 121 persone, detiene quasi sempre una settantina di soggetti; mentre Isernia annovera - più o meno abitualmente - una cinquantina di presenze; pari a quelle ospitabili in teoria. Per evitare che il settore scoppi tanto di sovente in Molise, sarebbe necessario avere meno detenuti e, soprattutto, introdurre a tappeto i braccialetti elettronici, programmando espulsioni di extra-comunitari da trasferire nelle celle delle Patrie di origine di ciascuno. Per comprendere appieno l’aria che si respira all’interno degli istituti della 20.a regione, basti ricordare che - alcuni mesi or sono - a Campobasso, un pugliese di 27 anni (pregiudicato per estorsione, furto e spaccio di sostanze stupefacenti) si fece accompagnare nella Casa Circondariale di via Cavour per l’espiazione di un residuo di pena che sarebbe terminato nel 2018. Benché irreperibile, il giovane si era presentato volontariamente, privilegiando il carcere del capoluogo regionale ritenuto più tranquillo rispetto alle case di reclusione pugliesi. Ma è naturale che, pur vivendo il Molise una situazione migliore per quanto concerne l’ospitalità carceraria, se il Consiglio regionale ha stabilito che va nominato un Garante per i diritti di questa particolare fetta di popolazione, occorre procedere secondo i tempi ed i modi stabiliti dalla legge, senza tentennamenti di sorta. Calabria: Platì è mafiosa? Già, ma ha eletto Rosy Bindi di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 7 giugno 2016 In questi giorni di vigilia elettorale, Platì, paese di tremila abitanti della Locride, in Calabria, è andato sulla prima pagina di tutti i più importanti quotidiani nazionali. Domenica s’è votato ed i candidati a sindaco sono due normalissime persone del luogo: Ilaria Mittica, funzionaria regionale e Rosario Sergi assicuratore. Elezioni normali come in tutti i paesi d’Italia ed, a tratti, quasi noiose. Ma per gli inviati speciali che per tutta la giornata si sono aggirati ai seggi con penna e taccuino, quella di ieri non è stata una normale manifestazione di libertà e di democrazia. A Platì, dietro ogni cosa, c’è sempre la ndrangheta anche se non è spuntata la lupara né il coltello. Anche se uomini e donne sono andati gioiosamente ai seggi e senza pistola alla tempia. Inutile. Qui si è colpevoli a prescindere. L’inviato di un importante quotidiano nazionale dinanzi alla gente che va al voto scrive che a "Platì siamo al Medioevo. Questa è una terra che è Italia solo sulla carta geografica". (La Repubblica) Ed è vero. Questa è una Terra che non è Italia gli ospedali somigliano tremendamente ai lazzeretti. Non è Italia perché ha il tasso di disoccupazione più alto di Europa. Perché la garanzie costituzionali sono state sospese da tempo. Perché uno Stato intriso di mentalità mafiosa si arroga di sciogliere i consigli comunali democraticamente eletti. Non è Italia perché le classi dirigenti hanno seminato per decenni la malapianta della ndrangheta trasformando un popolo di lavoratori in popolo di emarginati. Non è Italia perché i parlamentari e la classi dirigenti regionali ha scambiato per mezzo secolo i voti della ndrangheta con favori accordati ai mafiosi. Infatti, la ndrangheta per decenni è stata uno di strumento di governo cresciuta persino (o soprattutto) nelle caserme e nei tribunali. Non è Italia perché le disuguaglianze sono più evidente che altrove. Non è Italia perché qui è stata eletta Rosy Bindi che, chiusa in una caserma di Locri, e debitamente a distanza dai "lebbrosi" che l’hanno eletta, pontifica come una vestale del tempio sulla mafiosità dei calabresi. Non è Italia perché il presidente del consiglio dei ministri indica il candidato a sindaco di Platì dal palco della Leopolda. Perché l’on. Fava si è permesso di affermare che i candidati di Platì pur essendo in regola con i criteri dell’antimafia sono comunque sospetti, ci mancherebbe altro! Non è Italia perché l’indegno spettacolo che in occasione del 2 giugno del 2015 il PD ha messo in scena a Platì, ha dimostrato la consistenza e la serietà dei partiti calabresi. Sostanzialmente uguali! Non è Italia perché il procuratore della Repubblica di Reggio, ha dichiarato che sarebbe utile affiancare al nuovo sindaco di Platì un funzionario per controllare ogni atto della futura amministrazione. Un super controllo a Platì mentre le classi dirigenti fanno sparire nel nulla i miliardi che sarebbero destinati alla sanità o all’ambiente. Si vuole una Calabria ridotta tout-court alla sola dimensione criminale (che esiste) perché ciò fa molto comodo alla "catena di comando". I mafiosi ci sono e vanno fieri dell’attenzione che ricevono dai giornali, dai "partiti", dalle istituzioni. In questa nottata in cui tutti i gatti sono neri, loro ci sguazzano come pesci nel mare. In tutta la Calabria il voto è stato espressione di un disagio estremo. Ovunque si notano segnali di una rivolta strisciante contro lo Stato e che solo Dio sa come potrebbe andare a finire. A Cosenza più che per il "buongoverno" del sindaco uscente si è votato contro gli oligarchi del potere. A Napoli De Magistris, che in Calabria, si è mosso come rigoroso custode dell’ordine costituito, è diventato il Masaniello che agita il "Sud ribelle" contro il Gran Ducato di Toscana. Napoli e Platì sono distanti solo in apparenza. Per usare il linguaggio di Sciascia è la linea della Palma che avanza. Chi vuole ridurre la questione meridionale che oggi si allarga sino a diventare una "questione Mediterranea" a mera questione criminale o di ordine pubblico si assume sulle spalle e per intero le responsabilità storiche di quanto potrebbe accadere. Nel Mezzogiorno, probabilmente la rabbia, lungamente repressa, non troverà sbocco nel movimento "5 Stelle" ma potrebbe sbucare come un fiume carsico nei luoghi più impensati con conseguenze che nessuno in questo momento è in grado di prevedere. Calabria: in terra di ‘ndrangheta è trionfo "civico" di Silvio Messinetti Il Manifesto, 7 giugno 2016 Calabria. Tra gaffe, impresentabili e vere e proprie ritirate, Pd e M5S abbandonano il campo. A Platì, Rosarno e Cutro l’antimafia non esiste e la democrazia "vive" tra commissari prefettizi e liste dai nomi surreali. Quando un anno fa Matteo Renzi la presentò alla Leopolda forse bluffava, al suo solito, o forse ci credeva davvero. Disse che con Anna Rita Leonardi Platì si sarebbe risollevata e sarebbe uscita dal tunnel dell’ingovernabilità. Perché a Platì le elezioni non si potevano più fare. La ‘ndrangheta non voleva. La democrazia lì è sospesa. Vive da dieci anni in uno stato d’eccezione permanente. In cui si susseguono, uno dopo l’altro, commissari prefettizi come figuranti. Leonardi si è messa così al lavoro. Ma ai primi di maggio, il colpo di scena. Leonardi molla tutto e getta la spugna: "Non ci sono più le condizioni politiche e di agibilità per svolgere serenamente la campagna elettorale. Mi ritiro perché alcune vicende continuano a perdurare sul territorio. Vicende che rendono queste elezioni, ancor oggi, non un alto momento politico, ma una farsa degna del peggiore sceneggiatore". Nonostante tutto però a Platì le elezioni ci sono state. E c’è pure un sindaco eletto. Ha vinto Rosario Sergi, con una lista dal nome profetico: Liberi di ricominciare. Chissà se sarà vero. Se è stata davvero una farsa. Vedremo e giudicheremo. Intanto nelle contrade più antiche non scorre l’acqua potabile, non ci sono fogne, non ci sono palestre, cinema o centri sociali, non c’è l’asfalto sulle strade, né case rifinite. E fino a ieri non c’era manco un sindaco. Nonostante per decenni Platì sia stata una delle roccaforti rosse della Locride, con una sezione del Pci da 700 iscritti e una Camera del lavoro ancor più affollata, e il paese nel 1972 sia stato in grado persino di esprimere un deputato, Ciccio Catanzariti. Come a Platì, anche a Rosarno il Pd ha issato bandiera bianca. I dem hanno scelto di non correre per la guida di un comune, feudo delle organizzazioni criminali, rinunciando alla storica tradizione antimafia della sinistra locale, da Agostino Papalia, fondatore del Pci da quelle parti, a Peppino Lavorato, promotore della primavera rosarnese negli anni 90, per giungere fino a Peppe Valarioti, dirigente comunista ucciso a colpi di lupara nel 1980 a soli 30 anni. La vecchia sindaca, Elisabetta Tripodi, eletta in quota Pd nel dicembre del 2010, e costretta a mollare a seguito delle dimissioni di alcuni consiglieri di maggioranza, non si è più ripresentata. Le ha nuociuto il fatto di aver voluto demolire la casa dei Pesce. Lo ha ammesso lei stessa. L’hanno lasciata sola (Pd compreso) e non se l’è più sentita di continuare. Ha vinto Giuseppe Idà, "civico" griffato Ncd. La sua lista si chiama Cambiamo Rosarno. Nel suo programma la parola ‘ndrangheta non è citata manco una volta: è un tabù. A Cutro, invece, le elezioni si tengono in genere regolarmente. Il paesone, caro a Pasolini, da tanto non riceve l’onta dello scioglimento per mafia. In compenso, sono recenti i casi di paesi del nord come Brescello e Finale Emilia chiusi per ‘ndrangheta a causa delle malefatte dei clan cutresi. I Grande Aracri sono una ‘ndrina emergente, signoria mafiosa nel crotonese e nel triangolo Reggio Emilia- Modena- Mantova. Le elezioni le ha vinte Salvatore Divuono, a capo di una lista civica dal nome surreale "Cutro città normale". Il pasticciaccio l’hanno però fatto i grillini. Hanno candidato a sindaco Gregorio Frontera, l’incensurato figlio di Gino Frontera, deceduto nel 2013, ma finito nelle carte dell’inchiesta Aemilia che ha scardinato la cosca Grande Aracri e gli interessi dei cutresi a Reggio Emilia. Secondo gli investigatori, Gino Frontera sarebbe il collettore fra il boss Nicolino Grande Aracri e gli ambienti istituzionali. I 5 Stelle hanno fatto di più e hanno messo in lista pure l’altra figlia di Gino, Teresa Frontera. Quando, così dicono, se ne sono accorti hanno provato a sbianchettare, a metterci una pezza, e hanno ritirato tutta la lista, compreso l’aspirante sindaco. Ma ormai era troppo tardi. Le liste erano già state presentate e tecnicamente non era più possibile farle fuori dalle schede. E così ieri Gregorio Frontera ha preso il 3,1%, con 252 voti. C’è mancato poco che non fosse eletto in consiglio. Torino: la "posta interna" e il diritto dei detenuti ad avere delle risposte di Monica Gallo La Repubblica, 7 giugno 2016 In carcere no, si usa la carta, la penna e le emozioni. È cosi che mi sono ritrovata in poco tempo ad avere lunghissime lettere da leggere, pagine e pagine scritte a mano e numerate fronte retro. È cosi che i detenuti hanno iniziato a scriversi e rispondersi fra loro. Si chiama posta interna. C’è una cosa che viene concessa senza limiti di qualità e quantità ai detenuti, è inviare e ricevere posta. Me ne sono accorta dopo poche settimane dalla mia nomina a garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino. Non me l’aspettavo di ritornare a leggere lettere scritte a mano. Noi che siamo fuori utilizziamo altri mezzi, quelli veloci che arrivano subito, sintetici, in grado di portare con se anche foto e musica. Oppure ci cerchiamo sui social network o ci scambiamo solleciti via e mail. In carcere no, si usa la carta, la penna e le emozioni. È cosi che mi sono ritrovata in poco tempo ad avere lunghissime lettere da leggere, pagine e pagine scritte a mano e numerate fronte retro. All’inizio facevo fatica, presa dalla mia velocità. Poi ho iniziato ad apprezzare quelle lunghe lettere scritte a mano dove la calligrafia verso la fine diventa stanca e meno curata. È commovente riceve lunghe lettere scritte a mano. Un giorno sono andata in carcere per incontrare i detenuti e uno di loro è arrivato nello stanzino con la mia lettera di risposta in mano. Si era presentato solo per dirmi che la mia lettera lo aveva reso davvero felice, anche se era scritta al pc e portava lo stemma del Comune. In alto centrato. Si era sentito riconosciuto, aveva avuto tre righe di risposta alla sua lunghissima lettera. Il diritto alla risposta non credo sia sancito da nessuna regola nel nostro paese. Ancora troppo spesso non si risponde ai detenuti, alle loro richieste, ai loro bisogni, ai loro reclami, alle loro emozioni al loro bisogno di chiedere scusa a qualcuno. Dal carcere di Torino ogni giorno partono centinaia e centinaia di lettere, e ne entrano molto meno. È cosi che i detenuti hanno iniziato a scriversi e rispondersi fra loro. Si chiama posta interna. Treviso: camerunense di 30anni muore ammanettato, immigrati in rivolta Corriere Veneto, 7 giugno 2016 "È stato un infarto". Aperta un’inchiesta, il pm ordina l’autopsia. Un cittadino del Camerun è morto mentre stava per essere ammanettato dalla polizia a Conegliano (Treviso). L’uomo è un immigrato irregolare, aveva 30 anni ed era già conosciuto alle forze di polizia. Secondo i primi accertamenti, l’uomo sarebbe prima sfuggito a una volante che voleva fermarlo per un controllo. Due ore dopo, la polizia lo ritrova sempre in via Manin davanti a un locale. Lo rincorre e riesce a fermarlo. L’uomo risponde dimenandosi e morsicando i poliziotti, poi, secondo il racconto degli agenti, si accascia e muore. Secondo la polizia si tratta di un infarto. Gli uomini chiamano il 118 ma i medici non possono che constatarne la morte. Non appena la notizia si diffonde scoppia la rivolta dei migranti, che inscenano un’azione di protesta davanti al commissariato di polizia. La procura di Treviso ha aperto un’inchiesta, il magistrato ha disposto l’autopsia. Catanzaro: Asp, presentati i dati 2015 su tutela salute negli Istituti penitenziari Corriere del Sud, 7 giugno 2016 È stato presentato, nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta nella sala Giunta della Provincia di Catanzaro, il Rapporto sulla tutela della salute negli Istituti Penitenziari ricadenti nell’ambito territoriale dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro, riferito all’anno 2015. All’incontro con la stampa erano presenti il Dott. Giuseppe Perri, Direttore generale dell’Asp di Catanzaro, il Dott. Antonio Montuoro, referente Salute negli Istituti penitenziari ricadenti nell’Asp di Catanzaro, il Dott. Luigi Cugnetto, Responsabile sanitario della Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro e il dott. Costantino Marcello Laface, Responsabile sanitario dell’Istituto Penale per i minorenni "Silvio Paternostro" di Catanzaro. La conferenza stampa è stata moderata dal giornalista Pasquale Natrella addetto stampa dell’Asp di Catanzaro. Presenti tra gli altri anche il Direttore del Distretto Sanitario di Catanzaro; il Direttori f.f. del Ser.D. di Catanzaro; il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria; il Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro; il Direttore della casa circondariale "Ugo Caridi" e il Direttore dell’Istituto penale per i minorenni "Silvio Paternostro" e il Segretario Regionale Aned Pasquale Scarmozzino. Nel 2008, per effetto di un decreto, la sanità penitenziaria passa definitivamente al Sistema Sanitario Nazionale. Tale cambiamento è avvenuto al fine di garantire l’uguaglianza del diritto alla salute e la realizzazione di percorsi integrati di assistenza sanitaria, dentro e fuori gli istituti di pena. "Garantire i livelli essenziali di assistenza ai detenuti della nostra provincia, come facciamo con gli altri cittadini del territorio, non è affatto facile - ha affermato il dg Perri - ma l’Azienda Sanitaria ha investito molto per assicurare una sanità al passo con i tempi e, soprattutto, di qualità". Un impegno che - ha ancora dichiarato "rientra nei nostri doveri istituzionali ed è per questo che diventa per noi fondamentale poter informare non solo i detenuti, ma anche la cittadinanza, sui livelli di cure offerti all’interno degli istituti di pena; dal 2008, non a caso, le nostre organizzazioni hanno subito una netta trasformazione e un adeguamento a quelle che sono le esigenze dei singoli detenuti in carcere; un luogo delicato dove la sofferenza è palpabile e in cui numerose sono le difficoltà che quotidianamente si affrontano; in tal senso, importante è il servizio che l’Asp offre con la collaborazione dei professionisti che si occupano della parte psicologica dei detenuti e della cura alle dipendenze, percorso quest’ultimo che può avvenire anche in strutture parallele alla casa circondariale". Dall’incontro è emerso che, malgrado la difficile situazione in cui versa la sanità calabrese, l’attività di assistenza ai detenuti ha dato buoni risultati e ha tenuto conto delle accresciute esigenze sempre più diversificate e multietniche. "Nonostante l’azienda debba rispondere alle ristrettezze del piano di rientro - ha affermato Montuoro - abbiamo inteso continuare ad investire nella tutela alla salute in carcere perché riteniamo di dover salvaguardare la popolazione detenuta rispondendo al loro bisogno di salute con l’ampliamento dei servizi di specialistica laddove maggiore è stata l’incidenza delle patologie e l’aumento delle ore di guardia medica insieme alla rimodulazione dei turni infermieristici all’interno del carcere". Per meglio garantire lo stato di benessere del detenuto, l’Asp di Catanzaro ha proceduto all’acquisto di numerosi apparecchi elettromedicali (in particolare il nuovo riunito odontoiatrico, la sviluppatrice digitale per gli esami radiografici, ecografo dotato di multisonde, analizzatori portatili di emergenza, frigo medicali, dermatoscopio) che servono ad elevare la qualità dell’assistenza sanitaria. Nel contempo sono stati acquistati gli arredi necessari ad allestire gli otto punti visita e i tre ambulatori specialistici nel nuovo padiglione detentivo, nonché a sostituire gli arredi vetusti dell’area sanitaria del vecchio padiglione. In ogni caso, rimane sempre stretta la collaborazione con l’Ospedale Pugliese Ciaccio, per offrire ai detenuti l’opportunità di ricevere, in caso di necessità, cure più specifiche. Inoltre, sono stati installati in tutti gli Istituti Penitenziari circuiti slave collegati con la centrale master dell’ASP di Catanzaro in maniera da uniformare tutti i servizi internet/intranet sanitari ed amministrativi e sono stati consegnati cinque computer due dei quali completi di scanner. Pienamente operativi anche il servizio di Telecardiologia. Per gli ospiti della Casa circondariale "Ugo Caridi" l’Asp di Catanzaro ha messo in atto le attività di prevenzione per lo screening del carcinoma del colon retto e ha sottoscrito vari protocolli d’intesa per la sorveglianza della tubercolosi e la riduzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti. Intanto sono in via di completamento i lavori delle le Residenze per le misure di sicurezza (Rems) a Girifalco, strutture residenziali sanitarie gestite dalla sanità territoriale in collaborazione con il Ministero della Giustizia, che garantiscono l’esecuzione della misura di sicurezza (detenzione) e, al tempo stesso, l’attivazione di percorsi terapeutico riabilitativi territoriali. È stata, inoltre, garantita l’assistenza ai soggetti con dipendenza da sostanze stupefacenti o alcol. Infine, tra i programmi futuri sono state annunciate una serie di iniziative: la formazione per gli operatori coinvolti nella tutela della salute negli istituti penitenziari con un corso di aggiornamento sul tema, di cui sono previste due edizioni: la prima per i prossimi 6 e 7 giugno, la seconda per i giorni 10 e 11 ottobre 2016; l’attivazione del servizio di diagnosi e cura psichiatrica e l’istituzione di una sezione per disabili fisici nel carcere di Siano. Reggio Emilia: la Provincia mette in vendita l’ex Opg e il comando dei carabinieri Il Resto del Carlino, 7 giugno 2016 La Provincia di Reggio Emilia mette in vendita per 6,1 milioni di euro il complesso conventuale che tra via Franchi e via dei Servi ospitava l’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) e anche il palazzo d’epoca che da decenni è sede del Comando provinciale dei Carabinieri, in corso Cairoli, per 2,4 milioni. I due beni sono stati inseriti nel Piano delle alienazioni approvato ieri all’unanimità dal Consiglio provinciale. Nel pacchetto c’è anche palazzo Palazzi-Trivelli di piazza San Giovanni, che era gi. finito all’asta lo scorso ottobre e ora torna in vendita con un ribasso dell’11%, che porta il prezzo di partenza da da 2,582 a 2,3 milioni di euro. Nel Piano anche l’ex casa cantoniera di Campegine (178.200 euro), la casa di appoggio al parco a Rio Maore di Ramiseto (78.750 euro) e alcuni terreni: nel complesso si parte da una base d’asta di 11 milioni di euro. "In caso di risposta positiva, le risorse che otterremo rappresenteranno un ‘tesorettò quanto mai prezioso per la Provincia - dichiara in una nota il presidente Giammaria Manghi - considerando i tagli che abbiamo dovuto subire in questi ultimi anni, per poter garantire i necessari investimenti a favore delle nostre principali competenze, ovvero strade e scuole". In particolare, dopo che il decreto Bei ha finanziato 17 interventi sulle scuole per un totale di 8,6 milioni di euro, "sarà la manutenzione stradale a beneficiare di questa nuova vendita di immobili non più strategici per la Provincia", anticipa Manghi. Cagliari: Caligaris (Sdr); senza computer da 5 mesi i medici in servizio a Uta Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2016 “L’assenza ormai da 5 mesi della dotazione di computer a disposizione negli ambulatori dei Medici della Medicina dei Servizi nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta impedisce ai Sanitari di garantire costantemente le relazioni generali per il Tribunale di Sorveglianza, contribuendo così ad accumulare disservizi che gravano sui detenuti e sui loro familiari”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha accolto le segnalazioni di alcuni parenti dei ristretti nel carcere “Ettore Scalas” secondo cui “i ritardi nella compilazione delle relazioni mediche impediscono spesso ai parenti di accedere alle misure alternative”. “I Sanitari della Medicina dei Servizi che fa capo all’Azienda Sanitaria 8 di Cagliari svolgono - ricorda Caligaris - un ruolo particolarmente importante per la vita dei detenuti. Oltre ad effettuare le visite di routine infatti spetta loro conferire direttamente con i Magistrati di Sorveglianza anche per segnalare situazioni delicate oppure per fornire informazioni in merito alle condizioni di salute dei detenuti. Un altro importante compito è quello di compilare un modello prestampato per consentire ai cittadini privati della libertà di accedere alle Colonie Penali o nel caso si trovino nelle condizioni di poter accedere alla pensione. Compiti che richiedono la disponibilità di strumenti telematici che non possono essere presi temporaneamente in prestito dagli altri uffici del Ministero della Giustizia quando non vengono utilizzati”. “Le condizioni di lavoro della Medicina dei Servizi contrastano pesantemente - sottolinea la presidente di Sdr - con quanto accade nella specialistica, per esempio nell’area della Salute Mentale Penitenziaria. Gli psichiatri del carcere infatti stanno attivando da oltre un mese le cartelle elettroniche che consentono, attraverso uno specifico programma, di attingere a informazioni significative con i Serd. Poter disporre delle condizioni di salute dei pazienti con il quadro preciso delle visite e dei medicinali prescritti consente di avere costantemente sotto controllo situazioni particolarmente problematiche”. “L’auspicio è che si provveda al più presto a garantire la funzionalità della Medicina dei Servizi anche perché il paziente detenuto perde la libertà ma non gli altri diritti specialmente quelli relativi alla salute”. Taranto: gli agenti di Polizia penitenziaria protestano col digiuno tarantosera.it, 7 giugno 2016 Carenza di personale, i sindacati chiedono di incontrare il Provveditore regionale. La Casa Circondariale di Taranto attraversa un grave momento di crisi e la polizia penitenziaria sceglie la via della protesta: dallo scorso mercoledì, i poliziotti si astengono dai pasti, presso la mensa del carcere. Le organizzazioni sindacali Federazione Nazionale Sicurezza Cisl, Funzione Pubblica Cgil, Uil P.A. Coordinamento Nazionale Penitenziari, Sappe, Sinappe e Uspp Polizia Penitenziaria denunciano, in questo modo, la grave carenza di personale all’interno della struttura. Un deficit che non consente una corretta gestione dell’attività lavorativa. "Nelle ore serali e notturne - si legge in un comunicato - il carcere diventa un girone infernale, in cui un solo agente, per turni di 8, 9 ore, è costretto a vigilare, senza mai fermarsi, su due tre sezioni detentive. Altre recenti determinazioni della Direzione, su input del Provveditorato regionale, riguardanti le docce e gli spostamenti interni della stragrande maggioranza dei detenuti, hanno ulteriormente compromesso il lavoro dei poliziotti che, adesso, devono fare i conti quotidianamente anche con i detenuti che protestano per la sporcizia delle nuove stanze e la carenza di arredo". I sindacati chiedono quindi un incontro urgente al provveditore regionale Carmelo Cantone, anche in vista dell’estate e delle ferie. Sospese le relazioni sindacali con la direzione della Casa Circondariale, le organizzazioni sindacali si dichiarano disposte ad interrompere immediatamente la protesta nel caso di una convocazione, in tempi brevi, da parte del provveditore. Brescia: la Polizia penitenziaria lancia l’allarme "condizioni di lavoro invivibili" Corriere della Sera, 7 giugno 2016 Alla vigilia della festa per i 199 anni di fondazione della polizia penitenziaria la speranza è quella di arrivare a migliori condizioni di vita e lavoro nel carcere di Canton Mombello. Le difficoltà rimangono molteplici: il taglio delle risorse economiche, il sovraffollamento, le carenze di organico e strutturali. Il quadro della situazione, purtroppo non nuovo, viene fatto dalla Funzione pubblica della Cgil che evidenzia il drammatico contesto in cui opera la polizia penitenziaria, senza poter contare sull’appoggio di strumentazioni tecnologiche che potrebbero alleggerire i carichi di lavoro. In una nota il sindacato, che lamenta anche le difficoltà di comunicazione con la direzione, sottolinea poi la mancanza di sicurezza per gli agenti alle prese con risse e atti di autolesionismo da parte dei detenuti. Critiche arrivano anche per l’attuazione della vigilanza dinamica che prevede l’apertura delle camere detentive, con un agente solo per turno per 4 piani. La realizzazione del nuovo carcere viene vista come soluzione ottimale alle difficoltà di gestione, ma anche di vivibilità dei 350 detenuti (rispetto a una capacità di 206). Dal canto suo la direttrice, Francesca Gioieni, afferma che, visti i lunghi tempi di attesa prospettati dal Ministero per il nuovo carcere, risulta improrogabile la ristrutturazione degli spazi detentivi, mai ammodernati. "Attingeremo dalla Cassa Ammende anche per l’automazione delle porte e l’ampliamento del sistema di video sorveglianza. L’obiettivo è quello di dare condizioni lavorative e detentive dignitose, ma dobbiamo attenerci a scelte nazionali e regionali, anche per quanto riguarda la razionalizzazione del personale". Le esigenze presentate dai sindacati sono condivise. "Non possiamo non ascoltarli. Gli agenti penitenziari hanno una grande responsabilità e posso dire che riscontro una grande professionalità nella gestione dei delicati equilibri di convivenza all’interno del carcere". Pesaro: in carcere il poeta Hirschman in-canta da Associazione culturale Officina 177 viverepesaro.it, 7 giugno 2016 Entusiasmo ed emozione per i detenuti di Villa Fastiggi - Pesaro, che hanno incontrato, venerdì scorso, lo scrittore statunitense e ascoltato i suoi versi. Un evento sostenuto e promosso dal Garante regionale con la supervisione del Prap Emilia Romagna e Marche, presentato dal Comune di Camerino e dall’Ambito XVIII, con l’organizzazione dell’associazione L’Officina di Ancona. "Devi avere il cuore infranto per accogliere la vita". Così scrive Jack Hirshman in una sua poesia e queste parole, se lette in un carcere, diventano muri, sbarre, brande, cancelli. Diventano realtà, dolore e voglia di riscatto. E così è stato, venerdì scorso, 3 giugno, all’interno del carcere di Villa Fastiggi - Pesaro: il celebre poeta statunitense Jack Hirschman e la forza della sua poesia hanno toccato detenuti e detenute in una giornata-incontro presentata dal Comune di Camerino e dall’Ambito Territoriale XVIII, con il sostegno e la promozione del Garante regionale, la supervisione del Prap Emilia Romagna e Marche, e l’organizzazione de L’Officina Associazione culturale onlus di Ancona che ha portato avanti l’iniziativa all’interno dell’istituto di pena pesarese. Due ore di emozione e commozione che rimarranno a lungo nella memoria dei presenti visto che, come si può ben immaginare, incontrare un grande nome della letteratura e della poesia contemporanea non è una cosa che capita tutti i giorni, soprattutto se si è privati della libertà personale. Ascoltare la lettura di poesie intense e cariche di significato dalla viva voce del loro autore, uno dei personaggi più prolifici e sensibili della letteratura statunitense, ha avuto un enorme impatto comunicativo sui detenuti che, terminata la reading poetica, hanno intrattenuto Hirschman in un lungo dialogo di confronto sul significato della poesia e sul suo valore universale. Il contributo musicale e poetico di Marco Cinque alla lettura di Hirschman e alla traduzione che i soci de l’Officina e alcuni detenuti hanno fatto ai testi hanno permesso al pubblico presente di entrare ancora maggiormente dentro il mondo dello scrittore d’oltreoceano. Un mondo fatto di inni alla libertà, di sostegno alle lotte per i diritti civili, degli afro-americani e delle minoranze tutte, di rispetto della dignità di qualunque essere umano. Temi che, all’interno di un carcere, assumono contorni più delineati e sembrano quasi tagliati su misura per chi lì dentro deve vivere. Temi che Hirschman conosce bene perché li ha vissuti in prima persona e che sa descrivere con le parole giuste. Non deve perciò stupire quindi se, alla domanda precisa di un detenuto "Sei mai stato in carcere?", Hirschman ha risposto senza esitazione "Certo, ben cinque volte" suscitando uno scroscio di applausi di sostegno. Un momento intenso di riflessione e condivisione di esperienze di vita immortalato anche dalle tante foto che, alla fine, i detenuti, emozionati, hanno voluto scattare con il poeta. ‘L’orecchio dell’umiltà ascolta oltre i cancelli. / Vedi i cancelli che si apronò scrive ancora Hirschman. Con la poesia, per due ore, venerdì, quei cancelli si sono spalancati. L’extraordinary rendition approda al Parlamento Ue di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 giugno 2016 Per la commissione dei Diritti civili poco hanno fatto gli Stati coinvolti sul divieto delle torture. Il caso Abu Omar è uno dei più noti casi di azione illegale eseguiti dai servizi segreti statunitensi. Oggi il Parlamento dell’Unione europea accende di nuovo i riflettori sui piani della Cia e il coinvolgimento degli stati membri (tra i quali spicca l’Italia) nelle famigerate "extraordinary rendition". La seduta europarlamentare dovrà adottare una risoluzione dovuta sia dall’interrogazione di Claude Moraes, rappresentante della commissione per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni, sia dalla mancata risoluzione del Parlamento europeo dell’11 febbraio 2015 sulla relazione del Senato Usa sul ricorso alla tortura da parte della Cia. Secondo la commissione dei Diritti civili poco hanno fatto gli Stati coinvolti rispetto alla richiesta della verità a tutto tondo. Poco anche sul fatto del divieto delle torture. Soprattutto l’Italia che, tra l’altro, ancora non ha ratificato il reato di tortura. Ma non solo questo. Rimane la condanna definitiva della corte di Strasburgo nei riguardi dell’Italia dovuta dall’immunità per alcuni imputati assicurata dal ricorso al segreto di Stato opposto dal governo e ai tre provvedimenti di grazia concessi a tre condannati. La sentenza di condanna nei confronti dell’Italia è stata depositata il 23 febbraio scorso, e non solo accerta con chiarezza le violazioni della Convenzione perpetrate dall’Italia, condannata per violazione dell’articolo 3 (divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti), del 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), dell’articolo 13 (diritto alla tutela giurisdizionale effettiva), ma colpisce a tutto campo le istituzioni: dal governo che ha abusato del segreto di Stato favorendo l’impunità dei responsabili, alla Corte costituzionale, passando per il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha concesso la grazia ai due agenti della Cia condannati dai giudici italiani. Tutti sul banco degli "imputati" della Corte proprio a causa degli atti volti unicamente a sbarrare la strada alla realizzazione della giustizia. La sentenza in questione si riferisce ad un caso di sequestro di persona avvenuto nel 2003 a Milano e passato ormai alle cronache come inquietante episodio di azione illegale con il supporto dei servizi segreti americani. Vittima del sequestro, l’Imam (ovvero, la guida spirituale) della moschea di Milano Hassan Mustafa Osama Nasr, più conosciuto come Abu Omar, rapito il 17 febbraio mentre si stava recando proprio alla moschea per la preghiera di mezzogiorno. L’uomo fu rapito da alcuni agenti della Cia, successivamente trasferito alla base area di Aviano per essere riportato nel suo paese di origine: l’Egitto. Quella mattina, mentre camminava per strada, Abu Omar, cittadino egiziano con residenza italiana grazie allo status di rifugiato, viene avvicinato da un uomo con accento italiano sceso da una Fiat rossa. L’uomo in questione mostra all’Imam un tesserino da poliziotto e gli chiede di favorire i documenti di identità. Fatto sdraiare per terra, Abu Omar viene poi immobilizzato, bendato e sollevato da altri uomini sopraggiunti nel frattempo alle sue spalle. Viene quindi caricato in un furgone per essere portato via. Il tutto viene visto da una donna che abita in quella strada ed era affacciata al balcone. In quegli anni in Italia era in corso un’indagine su Abu Omar, che verrà poi condannato nel nostro paese a 6 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale. Alcuni controlli avevano fatto sorgere il sospetto che l’uomo potesse essere invischiato in un progetto teso a realizzare un attentato contro una scuola americana. E questo spiega l’intervento della Cia, aiutata nelle sue indagini dal Sismi. Grazie alla collaborazione dei servizi segreti italiani e di un sottufficiale del Ros, Abu Omar viene rapito e riportato in Egitto, ove verrà sottoposto a pesanti torture. Quale ruolo ha avuto l’Italia? Intanto le autorità italiane avevano dichiarato la loro estraneità al rapimento di Abu Omar e negarono di aver fatto parte di un’operazione di "extraordinary rendition", ovvero un rapimento con detenzione illegale compiuto dagli Stati Uniti con la collaborazione di un altro paese. Nel 2006 arrivano le prime verità sul caso. A seguito di alcune indagini della Digos di Milano si ipotizza eventuale complicità nel rapimento da parte di alcuni uomini italiani, tra i quali Niccolò Pollari, ex capo del Sismi come allora si chiamava il servizio segreto militare italiano. Un anno dopo, nel febbraio del 2007, il Gup Caterina Interlandi mandò a processo Niccolò Pollari, l’agente segreto Mancini e altre 32 persone, tra cui 26 agenti della Cia. Tra il 2005 e il 2013 verrà riconosciuto il segreto di Stato da quattro diversi governi (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta) e sia Pollari che Mancini verranno definitivamente assolti perché non più giudicabili grazie all’immunità ricevuta. Condanne tra 5 e 8 anni vengono stabilite per gli agenti Cia mentre ad Abu Omar va un risarcimento di 1 milione di euro e altri 500 mila euro alla moglie. Che cosa sono le "extraordinary rendition"? Sono delle procedure extra-giudiziali che consistono nella consegna di presunti terroristi a Paesi amici del governo statunitense, i quali provvedono al loro interrogatorio e alla detenzione. La pratica delle extraordinary rendition è stata ripetutamente messa in atto dai servizi segreti statunitensi - in particolare dalla Cia - con la motivazione della lotta al terrorismo avviata dopo i fatti dell’11 settembre 2001, anche se si riscontrano casi in cui già l’amministrazione Clinton provvide a riconsegnare a Stati arabi i loro cittadini sospettati di terrorismo. In questi mesi il Presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Pedro Agramunt, ha messo in guardia gli Stati che si trovano a fronteggiare il terrorismo e che devono farlo unicamente con strumenti legali, senza varcare limiti che portano a una deriva dei diritti umani. "La mia speranza - ha scritto Agramunt - è che la tortura non abbia più spazio sul suolo europeo con la complicità delle autorità statali". "Migranti economici come profughi": il giudice che dà la protezione ai poveri di laura anello La Stampa, 7 giugno 2016 Un’ordinanza del Tribunale di Milano: hanno gli stessi diritti. Sei povero? Hai diritto a essere accolto in Italia. Cita la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo il giudice del Tribunale di Milano Federico Salmeri a sostegno dell’ordinanza con cui concede a un ventiquattrenne del Gambia il permesso di soggiorno in virtù della protezione umanitaria. Permesso che era stato rifiutato dalla Commissione territoriale. "Ogni individuo ha il diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali essenziali". Un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: la povertà è condizione sufficiente a restare, alla stregua di guerre e persecuzioni. Un’ordinanza che da Milano rimbalza tra gli operatori umanitari di Lampedusa, offrendo uno spiraglio ai cosiddetti migranti economici, per i quali finora sono fioccati i respingimenti. Cosa di cui il giudice (della prima sezione civile) è pienamente consapevole. Non importa - scrive - che quest’interpretazione apra al rischio di un riconoscimento di massa della protezione umanitaria. "Si badi infatti - spiega - che il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto. Per sua natura, un diritto universale non è a numero chiuso". Così il giovane gambiano ha diritto a restare in Italia regolarmente. Anche se il tribunale non ha creduto alla storia che lui ha raccontato, quella di essere perseguitato nel suo Paese per motivi politici, in quanto militante del partito antigovernativo Udp. Però, obietta il giudice, anche se il ragazzo non è a rischio per la guerra, è a rischio per la fame. Proprio in virtù di questo, Salmeri non gli riconosce né lo status di rifugiato (rivolto a chi subisce atti di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica) né lo status di protezione sussidiaria, che si concede a chi - rientrando nel proprio Paese - rischi di essere condannato a morte, torturato o coinvolto in una guerra. No, quel giovane deve essere accolto semplicemente perché in Gambia c’è una povertà tale da esporlo a una condizione di "vulnerabilità", parola citata in diverse pronunce della Corte di Cassazione: l’aspettativa di vita è di 59,4 anni (in Italia 82), il Pil pro capite di 1600 dollari (in Italia 35 mila), esiste una "stagione della fame" che dura ogni anno da due a quattro mesi. E chi, tra i disperati sui barconi non è vulnerabile? Quale madre incinta? Quale padre senza cibo da dare ai figli? Quale bambino solo? Il fatto stesso che si mettano in viaggio, dice il giudice, dimostra che non hanno altra possibilità. "Apparirebbe infatti contraddittoria e inverosimile - obietta il giudice - la scelta del ricorrente di percorrere un viaggio così tanto lungo, incerto e rischioso per la propria vita, se nel Paese di origine godesse di condizioni di vita sopra la soglia di accettabilità". Il rimpatrio? "Lo porrebbe in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale, imponendogli condizioni di vita del tutto inadeguate, in spregio agli obblighi di solidarietà nazionale e internazionale". Oggi il migration compact per l’Africa di Leo Lancari Il Manifesto, 7 giugno 2016 Mogherini all’Onu: "Una risoluzione per ampliare la missione europea in Libia". Una nuova risoluzione che permetta di allargare i compiti della missione europea Sophia in acque territoriali libiche, È quanto ha chiesto ieri il capo della diplomazia Ue Federica Mogherini al consiglio di sicurezza dell’Onu. Si tratta di un passaggio che segna un ulteriore salto di qualità nei compiti della missione e che prevede sia l’addestramento della guardia costiera libica, per la quale sono già pronte otto motovedette italiane, che un controllo sul rispetto dell’embargo di armi destinate alle milizie. "La scorsa primavera il Consiglio è stato unanime nel dare il via all’operazione navale che ha consentito di salvare decine di migliaia di vite umane, sequestrare centinaia di asset e portare i trafficanti davanti alla giustizia", ha spiegato ieri Mogherini intervenendo a New York. Un altro passo della strategia europea per arginare il flusso di migranti sci sarà oggi a Strasburgo, dove Mogherini presenterà insieme al vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans il migration compact per l’Africa: 62 miliardi di euro di investimenti privati nel medio e lungo termine, per "pacchetti su misura" soprattutto per i Paesi africani, con l’obiettivo di combattere le cause alla radice dei flussi migratori e negoziare accordi per i rimpatri. Sette i paesi con cui verranno avviati i primi progetti: Etiopia, Eritrea, Niger, Nigeria, Mali, Libano e Giordania. Il lavoro è già stato avviato con tutte le capitali, in particolare con Niamey ed Addis Abeba. Nell’immediato si punta ad utilizzare 1,8 miliardi del Fondo per l’Africa, ai quali la Commissione europea aggiungerà 500 milioni dal budget Ue, con la prospettiva che gli Stati membri ne diano almeno altrettanti, ma possibilmente raddoppino l’intera cifra. Nel contenitore confluiranno anche fondi per i profughi e la cooperazione già esistenti. La proposta legislativa vera e propria sul piano globale di investimenti arriverà comunque ad ottobre. Il controllo dei flussi migratori sarà il punto centrale attorno al quale ruoteranno le intese con i Paesi terzi, e potrà essere anche una delle ragioni per negare benefici commerciali o privilegi sui visti. Ieri intanto l’Unione europea ha rispedito al mittente la proposta avanzata domenica dal ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz di concentrare e trattenere i migranti su alcune isole dalle quali non potrebbero muoversi. "Come fecero gli Stati uniti a Ellis Island o come fa oggi l’Australia", ha spiegato in un’intervista l’esponente del partito popolare. Esempi, specie quest’ultimo, che non sono piaciuti a Bruxelles. "Abbiamo una chiara posizione sul modello australiano: non è un esempio da seguire per l’Ue", ha spiegato un portavoce della Commissione europea. In contrasto a quanto previsto dal diritto internazionale, il governo di Canberra confina i profughi in campi allestiti su due isole del Pacifico dai quali per loro è impossibile allontanarsi e dove, stando a molte denunce, sono vittime di violenze di ogni genere. "La politica (europea, ndr) sull’asilo e i profughi è pienamente in linea con le leggi e convenzioni internazionali e con il principio di non respingimento e questo non cambierà", ha concluso il portavoce. Vienna comunque non sembra avere nessuna intenzione di abbandonare politiche e iniziative contro i migranti. Dopo aver completato i lavori preparatori all’innalzamento di una barriera al Brennero, dove ha schierato anche 80 poliziotti, ieri ha annunciato di voler avviare la costruzione di barriere analoghe anche ad altri valichi con l’Italia e la Slovenia. Si tratterebbe, proprio come ha fatto al Brennero, di recinzioni preventive, da innalzare solo in caso di nuovi arrivi di migranti, ha spiegato il portavoce della polizia, Rainer Dionisio. I valichi in questione sono quello di Thoerl-Maglern, al confine austro-italiano dove potrebbe essere aggiunta una recinzione. E quello nei pressi del traforo Caravanche, che collega la Slovenia con l’Austria. Quanto c’è di marcio nel Migration compact 2.0 di Renzi di Barbara Spinelli Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2016 Le critiche dell’eurodeputata al nuovo piano di aiuti che verrà annunciato oggi alla Commissione Ue. Solo in apparenza e per opportunismo le istituzioni europee e i governi degli Stati membri sono preoccupati dalle estreme destre che crescono in tutta l’Ue e in alcuni casi già governano. Si dicono allarmati dalla loro chiusura verso immigrati e rifugiati, dalla xenofobia. La verità è diversa e ci vuole poco per accorgersene. Da fine 2015 le politiche d’immigrazione comunitarie e nazionali incorporano ed emulano le linee difese dalle destre estreme. Gli slogan di Salvini e Le Pen - "aiutiamoli a casa loro", "respingiamoli in massa", senza minimamente curarsi delle ragioni delle fughe (guerre, fame, siccità) - non sono più loro esclusive parole d’ordine. Sono ormai l’ossatura della politica comunitaria. Il governo austriaco che chiudeva le frontiere (e che oggi propone di relegare i rifugiati nelle isole greche, seguendo l’esempio australiano) obbediva già agli slogan del partito di Norbert Hofer. Il Migration compact 2.0 di Renzi, approvato dalle istituzioni europee, dice esattamente questo: aiutiamoli a casa loro, in Africa soprattutto, visto che da lì parte il maggior numero di richiedenti asilo o migranti. Il modello da imitare è quello dell’accordo Ue-Turchia stipulato il 7 marzo, che garantisce sovvenzioni dirette di 6 miliardi di euro. L’accordo (ma viene chiamato statement, dichiarazione, per aggirare l’approva zione che il Parlamento europeo deve dare ai Trattati) è giudicato pericoloso e potenzialmente illegale da tutte le maggiori ong: perché i rimpatri forzati e per gruppi etnici verso la Turchia violano la Convenzione di Ginevra e la Carta europea dei diritti fondamentali (divieto di respingimento), secondo cui ogni domanda d’asilo deve essere esaminata individualmente, non secondo l’appartenenza a una collettività. Perché la Turchia respinge una notevole parte dei rimpatriati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti (Siria), non esitando a sparare sui fuggitivi siriani che vorrebbero scappare in Turchia. Perché la Turchia ha sì ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, ma con precise limitazioni geografiche: Ankara non si assume obblighi verso profughi non europei. Non ha ratificato il Protocollo di New York del ‘67 che ha rimosso gli originari limiti che definivano rifugiati solo i profughi europei sfollati per eventi antecedenti il 1951. In altre parole, quello di Erdogan non è uno "Stato sicuro". L’intesa comunque porrebbe naufragare, visto che Ankara non ha ottenuto la liberalizzazione dei visti per i connazionali. Nonostante ciò, l’accordo è presentato come eccellente. È anzi il prototipo degli accordi con una serie di Stati africani suggeriti nel Migration Compact 2.0" come soluzione ottimale della questione rifugiati. Ecco i 4 principali obiettivi del piano: 1) Aiuti allo sviluppo e cooperazione economica vanno massicciamente rilanciati, ma in stretta e assai contestabile connessione con il management delle frontiere, con la gestione dei rifugiati e, molto genericamente, con le questioni di sicurezza. Mettere tutto ciò sullo stesso piano è contestabile dal punto di vista del diritto internazionale. 2) Priorità deve essere data a 17 "partner strategici": Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan e Tunisia. Nessuna preoccupazione sfiora gli estensori circa il non rispetto dei diritti fondamentali e dell’obbligo di non-respingimento in paesi come Eritrea, Sudan, Libia, Mali, Etiopia e Somalia. 3) Fin dal Consiglio europeo del 28-29 giugno, sarà proposto un "piano straordinario", che prevede accordi con 7 "Paesi-pilota": 4 Paesi d’origine (Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal), 2 di transito (Niger, Sudan), e uno di transito e origine (Etiopia). Qui si sperimenterà il nuovo volto dell’aiuto allo sviluppo: investimenti in progetti sociali e in infrastrutture, condizionati a "precise obbligazioni" nella cooperazione sulla sicurezza militar-poliziesca e il contenimento dei flussi migratori, economici o politici che siano. 4) Il finanziamento: si parla di una sorta di Piano Juncker per l’Africa, come se il Piano per l’Unione avesse funzionato: il bilancio Ue metterebbe a disposizione 4,5 miliardi, che dovrebbero servire da leva per investimenti privati o pubblici pari a 60 miliardi. Fin qui i punti chiave del piano che il governo italiano difende da tempo, e che la Commissione e i partner europei (Ungheria in testa) mostrano di apprezzare. Questa involuzione dell’Unione ha ormai una storia. La svolta avvenne il 4 marzo 2015, quando il commissario all’immigrazione Avramopoulos ruppe il tabù, in una conferenza stampa: "Dobbiamo cooperare con i regimi dittatoriali nella lotta allo smuggling" di migranti e rifugiati. Segue un’escalation di momenti di verità della governance europea. Il culmine è raggiunto il 25 gennaio dalle parole che il segretario di Stato belga all’immigrazione Théo Francken avrebbe rivolto a l l’omologo greco Ioannis Mouzalas, secondo quanto riferito da quest’ultimo alla Bbc: in un Consiglio informale dei ministri dell’Interno e della Giustizia, ad Amsterdam, il belga gli avrebbe consigliato: "Respingeteli o affondateli" ("push back migrants, even if that means drowning them"). Il ministro belga ha smentito, ma Mouzalas ha ripetutamente confermato. A questo si aggiungano le dichiarazioni ufficiali del massimo rappresentante del Consiglio europeo, il presidente Donald Tusk. Ne elenchiamo alcune: 13 ottobre 2015, lettera ai colleghi del Consiglio europeo. C’è un’apertura alla Turchia (compreso l’appoggio a "zone sicure" in Siria) e una messa in guardia contro le frontiere aperte: "La facilità con cui è possibile entrare in Europa è il principale pull factor per i migranti". Nessun accenno alla fuga per ben altri motivi: guerre attizzate o acuite dagli occidentali, dittature cruente, respingimenti in massa di eritrei operati dal Sudan, disastri ambientali e fame in gran parte provocati da investimenti e accaparramenti di terre (land grabbing) da parte di imprese occidentali. 22 ottobre 2015, intervento al Congresso di Madrid del Partito popolare europeo: "Non possiamo continuare a pretendere che la gran marea di migranti sia ciò che vogliamo, e che stiamo perseguendo una politica di frontiere aperte". 3 marzo 2016, appello ufficiale "ai migranti potenzialmente illegali": "Non venite in Europa. Non credete agli smuggler. Non rischiate le vostre vite e il vostro denaro. Non servirà a nulla". Ricordiamo che la stessa identica frase ("It’s all for nothing!") fu detta nel 2014 dal governo australiano, uno degli Stati più criticati per la politica dei rifugiati. Il Migration compact 2.0, unito a simili proposte dell’ungherese Orbán, è una tappa di questa escalation. Pochi giorni fa, alla vigilia del G7 in Giappone, il capo gabinetto di Jean-Claude Juncker, Martin Selmayr, ha twittato: "Un G7 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario dell’orrore che mostra perché è importante combattere il populismo. Con Juncker". Mettere sullo stesso piano quei quattro nomi è una truffa, sicuramente apprezzata da Renzi alla vigilia delle amministrative e cinque mesi prima del referendum costituzionale. Ma più fondamentalmente resta la domanda: se è importante combattere Le Pen e l’estrema destra, perché adottare precisamente le sue politiche, con direttive, accordi e il Migration compact di Renzi? Non lasciate che i migranti vengano a noi di Gian Paolo Calchi Novati Il Manifesto, 7 giugno 2016 I barconi e i naufragi non dovrebbero ammettere né dubbi né ritardi. Se non è emergenza un fenomeno che sacrifica ogni giorno decine di vite sotto gli occhi di noi tutti, impotenti, le parole hanno perso di senso. Il governo Renzi, temendo di fornire troppo fieno all’opposizione detta populista, preferisce mantenere bassi i toni. Tutto è rimandato al Migration Compact, qualsiasi cosa esso significhi. Grazie all’iniziativa italiana, già sottoposta all’attenzione dei Grandi e sommariamente approvata in sede di G7 in Giappone, l’Unione europea se ne occuperà in uno dei prossimi vertici e adotterà una risoluzione. Poco importa se sarà poco più di un esercizio fine a se stesso, espresso in diplomatichese e pronto per qualche archivio. È anche così che i Farage e i Salvini di tutto il continente, che aizzano senza scrupoli paura e xenofobia, finiscono per dare l’impressione di detenere il monopolio della rappresentanza di chi - abbandonato o trascurato dalla sinistra, sia quella di governo sia quella che stando alla vulgata renziana vuole solo perdere - subisce più direttamente le criticità proprie delle migrazioni (l’abbassamento dei salari, il degrado delle periferie, la scuola). A prima vista, per chi ricorda i precedenti nelle relazioni fra l’Europa e i paesi del Sud, il Migration Compact rievoca le Convenzioni di Yaoundé con i seguiti di Lomé e Cotonou man mano che aumentava il numero degli stati membri della Cee o, se si preferisce, l’ambizioso partenariato euro-mediterraneo che venne chiuso per acclarata impotenza proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato più bisogno. L’Italia diede il suo bravo contributo al fallimento del Patto di Barcellona non cogliendo l’occasione per un’intesa con la Francia che, scontentando per una volta la Germania, avrebbe spinto l’Europa a volgere uno sguardo prioritario al Mediterraneo invece che sempre e solo all’Europa orientale (un punto su cui Renzi è tornato in uno dei passaggi più felici della sua allocuzione alla Conferenza ministeriale Italia-Africa che si è tenuta il 18 maggio scorso alla Farnesina con la collaborazione dell’Ispi). Allora si trattava, è vero, della Francia di Sarkozy, con cui Prodi non aveva feeling, ma poteva essere il momento buono per porre un termine alla rivalità competitiva nel Mare Nostrum fra Italia e Francia che risale ai tempi di Cairoli e Mancini. Dopo tutto, il disonore non è tutto da una parte sola visto che l’impresa di Suez nel 1956 fu opera del socialista Guy Mollet. Il tema attorno a cui è costruita la proposta dell’Italia, valida soprattutto per l’Africa, con una preferenza per il Sahel e in via subordinata per il Corno (per il Medio Oriente sarebbe necessaria la luce verde dell’America), si può riassumere nella formula "più sviluppo e meno emigrazione in direzione dell’Europa attraverso il Mediterraneo". Poco importa che i migranti africani entro gli spazi del continente Africa, sebbene diminuiti di un terzo negli ultimi 15 anni, siano ancora il doppio degli africani che sono arrivati e arrivano in Europa. Salvo che per i popoli del Maghreb, la prima meta degli emigranti africani è l’Africa. L’Europa viene seconda. Si calcola che all’Italia toccherà il 16 per cento di tutti gli arrivi. La logica della cosiddetta "cooperazione" che viene riproposta oggi è sempre la stessa: crescita economica bilanciata, preservazione delle risorse naturali e riduzione della povertà. Ma è difficile credere che all’Europa riesca nell’era della globalizzazione l’impresa di "sviluppare" l’Africa non riuscita né durante il colonialismo, nemmeno negli anni del cosiddetto "colonialismo liberale" in prossimità dell’indipendenza pensando agli appetiti se non ai cuori dei dirigenti che di lì a poco avrebbero comandato, né quando, divenuta ormai effettiva la sovranità dei singoli stati africani, si passò al neo-colonialismo cercando di arruolare l’Africa alla causa del "mondo libero" sui vari fronti della guerra fredda. Le vecchie ricette sembrano destinate una volta di più a fallire. A differenza dell’Asia, l’Africa deve ancora iniziare la sua rivoluzione industriale e lascia uno spazio eccessivo all’informale. I "leoni" con un tasso di crescita annua del Pil a due cifre non possiedono le stesse chances di decollare delle "tigri". Gli investimenti e gli aiuti che l’Occidente ha fornito e che potrebbe fornire l’Europa di un ipotetico nuovo patto per scongiurare l’emigrazione sono rivolti ad attività, in primis le risorse minerarie, che rischiano di lasciare intatte le strutture della produzione e quindi della società. Vedremo se l’Italia riuscirà a trascinare l’Europa dei 28 a concentrarsi sull’energia rinnovabile o l’agro-alimentare come il premier e il ministro Gentiloni hanno doverosamente prospettato nella Conferenza di Roma. L’incognita è rappresentata dai tanti giovani senza lavoro o minacciati nelle loro libertà che indugiano in Libia aspettando di compiere l’ultimo balzo o stanno attraversando il Sahara fra i tanti ostacoli della militarizzazione o figurano in una lista d’attesa immaginaria che tiene conto delle generazioni e dello spirito d’iniziativa. Il brain drain è una specie di sottoprodotto dell’urbanizzazione massiccia che caratterizza la congiuntura africana. I poveri hanno meno opportunità di muoversi e hanno la tendenza a fermarsi appena possibile, dentro o fuori il paese o il continente di provenienza. Il Migration Compact tiene distinti gli emigranti economici dagli emigranti per eventi bellici (riprende la differenza anche Renzi nella lettera di accompagnamento) ma sorvola sulla natura dei governi a cui toccherebbero gli aiuti. E non si parla solo dell’Egitto di al-Sisi, che è bastato da solo a demistificare tutti i buoni sentimenti sentiti in Europa in coincidenza con le Primavere arabe solamente cinque anni fa. La "buona condotta" elevata a condizione per continuare a usufruire degli aiuti dell’Unione europea verrà misurata anche negli aspetti più scabrosi? Alcuni degli stati menzionati sembrano recipienti virtuali di emigrazioni a livello regionale (l’Etiopia o il Senegal, per esempio) più che propagatori dell’esodo. All’origine di tutto, comunque, ci sono colpe che non risparmiano nessuno. Due emigranti su tre sono il prezzo di guerre iniziate da Usa e Europa senza un piano adeguato per il "dopo" (senza parlare qui dei secondi fini di tanti processi di regime change). I paesi con un più alto tasso di immigrati - Turchia, Pakistan e Libano - sono tutti confinanti con teatri di guerra. Se la governance è insoddisfacente ed è necessaria dunque la cooperazione dell’Europa nel senso del capacity building, gli stati africani - anche per la funzione storica del confine in Africa, un confine-area più che un confine-linea - hanno un problema che riguarda appunto la natura dello stato non in un dettaglio ma nel principio primario della sovranità e del controllo effettivo del territorio. Pretestuoso o meno, il ribellismo di tutti i generi, e naturalmente le filiazioni in loco di al-Qaida e del Califfato, si accreditano denunciando la "ricolonizzazione" che sarebbe in atto (ecco ancora la Francia, Hollande dopo Sarkozy, senza apprezzabili differenze). A Bamako come a Ouagadougou i primi a intervenire dopo gli attentati negli alberghi frequentati da occidentali sono stati i soldati francesi. Nel documento italiano si cita formalmente come un esempio da seguire il G5 del Sahel che ha ricompattato attorno alla Francia i suoi alleati della regione più fidati (convincendo a collaborare persino la Nigeria sotto la minaccia di Boko Haram). Il giusto approccio di ogni forma di co-sviluppo, che implica di muovere in continuazione il capitale e il lavoro, non è di bloccare l’emigrazione ma di regolare la circolazione e il ritorno di chi si muove. Le rimesse sono ormai anche in Africa maggiori dell’aiuto internazionale. Altrettanto importante è il ritorno nel paese d’origine (tutt’altra cosa rispetto al respingimento o al rimpatrio d’ufficio) del "capitale sociale" rappresentato da chi all’estero ha acquisito nuove esperienze e nuove capacità. Un documento incluso nell’Agenda 2030 dei Millennium Development Goals che impegnerebbe tutti riconosce il "contributo positivo dell’emigrazione per una crescita inclusiva e uno sviluppo sostenibile". Anche un testo congiunto di europei e africani sottoscritto dall’Europa e quindi dall’Italia nel quadro della Convenzione di Cotonou, che raggruppa anche paesi del Pacifico e dei Caraibi, indica come programma comune un miglioramento delle condizioni di lavoro degli immigrati e l’apertura di canali legali per i flussi correnti. Moldova: l’ex premier Filat, in carcere da ottobre scorso, inizia sciopero della fame Nova, 7 giugno 2016 L’ex primo ministro moldavo Vlad Filat, arrestato a fine ottobre scorso per il suo presunto coinvolgimento diretto nella frode che riguarda la Banca de Economii, ha iniziato da sabato uno sciopero della fame. Lo ha detto Natalia Bucur-Bandas, direttore delle relazioni pubbliche del penitenziario dove Filat è detenuto, all’agenzia d’informazione "Unimedia". "Il detenuto è sorvegliato. I medici confermano che le sue condizioni sono buone", ha aggiunto Bucur-Bandas. Secondo "Unimedia", Filat ha iniziato uno sciopero della fame in segno di protesta contro gli abusi dei pubblici ministeri e giudici nel suo caso. L’ex premier è stato arrestato a fine ottobre in base a un mandato rilasciato dal Centro nazionale anticorruzione (Cna), poco dopo la decisione del parlamento di revocare la sua immunità.