Un progetto che fa riflettere i ragazzi anche sui propri comportamenti a rischio Il Mattino di Padova, 6 giugno 2016 È un progetto complicato, quello che la redazione di Ristretti Orizzonti, in collaborazione con il Comune di Padova, la fondazione Cariparo e la Casa di reclusione, organizza da anni per le scuole. Il progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere" cerca di fare prevenzione attraverso la conoscenza ravvicinata del carcere, mettendo al centro dell’attenzione l’incontro tra chi sta vivendo in prima persona l’esperienza della detenzione, e i tanti ragazzi che, per i propri comportamenti trasgressivi, si trovano spesso sul filo dell’illegalità. Nonostante le molte difficoltà, anche quest’anno ci sono stati più di 150 incontri e intorno ai settemila studenti vi hanno partecipato, per ascoltare le testimonianze di vite distrutte da scelte sbagliate. I ragazzi con le loro domande severe hanno anche costretto i detenuti a fare profonde riflessioni sul loro passato, e a loro volta hanno cominciato a ragionare sulla difficoltà di "pensarci prima" quando ci si trova in difficoltà e sull’importanza di chiedere aiuto. Un ampio spazio è stato dedicato anche alla scrittura, affidando allo scrittore Romolo Bugaro il compito di scegliere gli scritti più originali realizzati dai ragazzi. Quelli che pubblichiamo sono i due testi vincitori, premiati nella Giornata conclusiva del progetto. Ho capito che vivere in carcere è una cosa che distrugge moralmente Sarei capace di parlare di qualcosa di cui mi vergogno davanti a un gruppo di persone che non conosco? Sicuramente no. Non credo che avrei il coraggio, trovo già difficile farlo con i miei amici, con cui sono in rapporti più che confidenziali. Comunque credo che un omicidio, un furto, lo spaccio di molta droga, non sia una cosa di cui solo ci si vergogna; è un motivo che ti farebbe ricominciare da capo, per non ricommettere quegli errori. Le persone che sono venute a parlare devono avere veramente riconosciuto i propri errori, perché nei loro occhi si vedeva il rimorso. Come dovrebbe essere secondo me la pena? Come dovrebbe cambiare? Secondo la Costituzione la pena dovrebbe avere funzione riabilitativa, oltre che punitiva. Un’idea, già applicata, è l’insegnamento, da parte dei volontari, di un lavoro, oppure la frequenza di un corso di studio. Un ex carcerato, raccontando la sua esperienza, ha fatto notare che, nella maggior parte dei casi, i detenuti sono chiusi in tre o quattro in una cella che potrebbe contenere massimo due persone, e non fanno nulla dalla mattina alla sera. In carcere si somministrano molti psicofarmaci, e spesso l’unica cosa che può fare un carcerato è la domandina: domandina per un’aspirina, per fare la doccia… L’unica libertà che i carcerati hanno è l’ora d’aria. In questo modo il carcere toglie ogni responsabilità a tutte le persone che ci sono dentro, le quali, quando finiscono di scontare la pena, non sanno fare nulla, se non ricommettere un crimine. Il 70% dei detenuti che escono dal carcere è recidiva. È un dato spaventoso. Ma le carceri si stanno mobilitando. Nel carcere due Palazzi di Padova ci sono molte attività che aprono al mondo esterno: la "pasticceria Giotto" che produce un panettone famoso in tutt’Italia, la rivista "Ristretti Orizzonti" che fa conoscere come si vive in carcere, la squadra di calcio "Palla al piede", i corsi di studio.. Secondo me queste iniziative sono molto utili. Trovo invece una perdita di tempo e denaro il somministrare psicofarmaci. In questo modo il carcere non aiuta i tossicodipendenti. Io proporrei anche lavori più classici, come le libere professioni, oppure il lavoro che una persona vorrebbe praticare o praticava. È cambiata la mia opinione riguardo la pena dopo l’incontro con i carcerati? Si e no. Si, perché il fatto che una persona sia in carcere o anche ai "domiciliari" si ripercuote su tutta la famiglia, la quale non ha fatto nulla per meritare una vita fatta di sole cinque visite al mese, e una telefonata di dieci minuti a settimana. No, perché comunque un reato è sempre un reato: non si può restituire la vita di una persona. È cambiato il modo in cui guardo i carcerati? Si, perché ho capito che vivere in carcere è una cosa che distrugge moralmente, e comunque sono uomini come me. Adesso, dopo l’incontro, provo un senso di repulsione nei confronti di quelle persone che dicono "mettetelo/a in carcere e buttate via le chiavi", non mi sembra giusto che la gente voglia che una persona sconti più pena del dovuto. Questo progetto aiuta me, perché ora conosco le situazioni in cui ci si può trovare per compiere reati (si può provenire da una famiglia disagiata, ma anche non, si può essere sotto effetto di droghe, o per mantenere alto l’onore, o per seguire un’ideologia), e credo che aiuti anche i detenuti perché parlare è molto importante e avere un pò di libertà li aiuta a non perdere i contatti col mondo esterno. Giacomo G., Scuola media Falonetto Giorno 2589 di 4112 Giorno 2589 di 4112 -1523 giorni all’uscita dal carcere Conto i giorni che mi separano dalla libertà come un adolescente conta i giorni che mancano alla maturità. Verso gli esami e la libertà tanto desiderata che egli sa dovrà guadagnarsi sudando. E dopo aver conseguito il diploma? Ancora una scelta. Cercare un lavoro o andare all’università? Anch’io dovrò affrontare un esame: il test della società. Anch’io sarò giudicato ma non sulla produzione scritta o orale, ma sul mio passato. Non con dei voti ma con occhiate diffidenti, frasi sussurrate e indici puntati verso di me. Ogni giorno che passa mi avvicino sempre di più al traguardo che non è altro che una nuova partenza. Mi sembra di tornare bambino: vulnerabile e desideroso di affetto ma curioso del mondo che c’è fuori della culla. La paura e la gioia crescono dentro di me in egual misura. La libertà che sogno ormai da sette anni non mi farà ulteriormente del male? Sarò in grado di sopportare, sì sopportare, la mia indipendenza? Non soffocherò? Sapendo che manca ancora molto mi sento tranquillo e sicuro. Sì sembrerò pazzo ma qui dentro si diventa un pò tutti squilibrati. Ho superato da un pò la metà della mia pena ma poco importa. Queste quattro mura che ho tanto odiato da calciarle tentando di distruggerle invano, ora mi sembrano invece amiche, quasi a proteggermi del mondo che c’è fuori. Tra quattro anni o poco più sarò libero. A pronunciare queste parole tremo non so se per paura o per felicità. Sussulto come in preda a delle convulsioni e scoppio in lacrime. Da quando sono qua dentro piango spesso e a volte per intere notti. Mi ricordo quando due anni fa ero nel carcere di Bergamo e il mio compagno di cella mi chiese: "Perché piangi in questo modo? Il tuo lamento è incessante e silenzioso". Furono le uniche parole che mi rivolse. Non gli ho mai risposto ma ora saprei cosa dirgli. Ho perso la voce a furia di urlare, caro amico. Ho urlato contro il cielo e mai nessun dio mi ha risposto. Le urla del mio cuore sono ormai chiuse e soffocate, come me, dentro a queste mura. Non c’è via di fuga né dal carcere né dal dolore. Ormai non ha più senso gridare: chi doveva ascoltarmi non ha sentito. Io sono un folle ma lui lo era di più. Ogni giorno si alzava alle 7:30 del mattino e, sussurrando, recitava alcune preghiere, in ginocchio, davanti ad un foro che un tempo sorreggeva un crocifisso. Dopo circa venti minuti si alzava, andava al bagno e proseguiva la giornata come un comune detenuto. Non portava croci al collo, solo io conoscevo questo suo segreto. Ascoltai le sue invocazioni per due mesi e poi venni trasferito qui. Chissà che fine avrà fatto! Il suo ossequio religioso mi dava tranquillità. Non saltava nemmeno un giorno. Ora non mi resta più nulla, niente di niente. Sono privo di qualunque libertà. Finirò per dimenticarlo, arriverà qualche altro compagno e cancellerà il suo ricordo. Nel frattempo la mia vita è fatta di un grande conto alla rovescia. Non parlo più di giorni della settimana, né di lunedì o domenica. Qui dentro tutti i giorni sono uguali. Non ho visite né durante il weekend né durante la settimana. Tutto è monotono come il ticchettio di un orologio. Meno mille cinquecento ventidue, meno mille cinquecento ventuno, meno mille cinquecento venti… Diventerò malato se continuerò in questo modo. Tra quattro anni o poco più sarò libero. Quando uscirò non ci sarà una famiglia ad aspettarmi, né un figlio, né una moglie, né una madre. Solo con me stesso. Non avrò alcun dio al mio fianco che mi proteggerà con le sue ali. Sarò solo e libero ad affrontare la prova più dura della mia vita. Reintegrarmi nella società dopo undici anni passati dentro il carcere. Vorrei avere la stessa fede del mio compagno. Vorrei avere il suo coraggio e la sua forza per poter ricominciare. Lui saprebbe cosa fare ma purtroppo io non sono come lui. Maria Chiara Z., 4 G IIS P. Scalcerle In carcere c’è chi entra senza poterne uscire più, in barba alla Costituzione più bella del mondo di Luigi Manconi Left, 6 giugno 2016 "Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità dell’ergastolo ostativo" (Editoriale Scientifica, 2015). Carmelo Musumeci e Andrea Pugiotto riportano un dato impressionante di fonte istituzionale: 1.174 dei 1.619 ergastolani in carcere al 12 ottobre scorso sono stati condannati per reati che impediscono il loro accesso alle alternative al carcere e, tra esse, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere. Sono, insomma "ergastolani ostativi". Secondo un noto sofisma, tra i più raffinati della giurisprudenza costituzionale, la pena dell’ergastolo è costituzionalmente legittima nella misura in cui non sia effettivamente scontata. È costituzionale, insomma, a patto che non sia effettivamente tale. Come dire: un nazista è persona di buon cuore nella misura in cui non sia nazista. Ma se A per essere B non può essere A, tanto vale dire che A non può essere B, e cioè che l’ergastolo non può essere costituzionalmente legittimo. Ma questo la Corte costituzionale quarant’anni fa non ebbe il coraggio di dirlo, nonostante fossero molti i buoni argomenti. Per incominciare, la finalità rieducativa della pena. Se per "rieducazione" intendiamo (come la Corte costituzionale ha sempre affermato) un concreto processo di reinserimento sociale cui deve tendere la pena - e non una semplice emenda morale che il reo raggiunge chiuso nella sua cella al termine dei suoi giorni - è del tutto evidente che una pena senza fine ("Mai" era scritto nel fascicolo degli ergastolani alla voce "fine pena", prima che l’automazione informatica imponesse un codice numerico: 99/99/9999) non è costituzionalmente ammissibile. Inoltre, un’adeguata valutazione dell’altro principio costituzionale per il quale le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sarebbe anch’esso sufficiente a motivare l’incostituzionalità di una misura che non offre alcun fine alla vita umana se non quella di soffrire e morire per essere d’esempio negativo ad altri. Tutti questi argomenti erano già tragicamente in campo quando il legislatore in "stato di eccezione" decise che bisognasse impedire legalmente ai condannati per delitti gravi o legati alla criminalità organizzata di accedere alle misure alternative. Ma allora valeva il vecchio sofisma della Corte costituzionale e molti credevano veramente che, siccome la legge dava in astratto questa possibilità, in Italia l’ergastolo mai si scontasse per intero. Oggi no: quella pia illusione non può più essere coltivata. Con la preclusione all’accesso alle alternative, la gran parte degli ergastolani sconta la propria pena per intero, fino al 99/99/9999. Ma, si dirà, a queste condizioni il sofisma della Corte costituzionale non regge più, e dunque l’alto consesso avrà almeno dichiarato illegittima quella preclusione. E invece no: a sofisma 1, segue sofisma 2. La preclusione alle alternative stabilita dalla legge non è assoluta, ma può essere aggirata collaborando con la giustizia, o dimostrando di non poterlo fare, di non aver nulla da dire. E dunque, secondo la Corte costituzionale, l’ergastolano che non accede alle alternative è causa del suo stesso male. Evidentemente ai giudici della Corte non è venuto in mente che quel modo di sfuggire alla morte civile ha qualcosa di terribilmente inquisitorio: un pubblico ministero sente che io potrei sapere qualcosa su un fatto di reato; sente, ma non sa (altrimenti non me lo chiederebbe e procederebbe altrimenti); se io gli confermo le sue sensazioni, in cambio potrò avere una prospettiva di liberazione condizionale, e magari prima qualche permesso-premio; se non gli confermo quelle sensazioni (perché non so o perché "non voglio mettere un altro al posto mio", come dice Carmelo Musumeci) marcirò in galera per il resto della mia vita. Non chiamiamola tortura, per carità, ma libera scelta proprio no. È così che siamo arrivati a più di 1.600 ergastolani (erano 408 quando nasceva l’ergastolo ostativo): in carcere c’è chi entra senza poterne uscire più, in barba alla Costituzione più bella del mondo. Lo sciopero dei detenuti e dei liberi cittadini "I sottoscritti ergastolani / non ergastolani / liberi cittadini informano il Ministro che dal 1° giugno 2016 attueranno una protesta pacifica (garantita dalla Costituzione), fino a quando Ella non ci farà sapere anche tramite televisione, che è a conoscenza di tale studio, libero poi di ritenerlo fondato o infondato". Per la prima volta nella storia del nostro Paese, dal primo giugno è in corso uno sciopero della fame che vedrà come protagonisti detenuti e liberi cittadini. Lo sciopero collettivo dei detenuti è partito dai detenuti di Catanzaro, avrà varie modalità di adesione ed è esteso ai liberi cittadini. Il motivo? Come ampiamente spiegato dal senatore Manconi in queste pagine, al centro della questione c’è il "sofismo costituzionale" relativo all’ergastolo ostativo. Alla base della protesta c’è lo studio condotto per la tesi di laurea da Claudio Conte (studio che oggi si trova in possesso del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e del prof. Luigi Ventura, preside della facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro e relatore della tesi), per il quale l’istituto dell’ergastolo ostativo è "il risultato di un’imprevedibile interpretazione sfavorevole dell’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario", un articolo incostituzionale: "Per superare l’abuso dell’ergastolo ostativo, non c’è bisogno di nuove leggi, ma di far rispettare quelle esistenti", si legge nell’appello al ministro della Giustizia Orlando. Dalla raccolta firme sul sito Change.org allo sciopero dei lavoranti nel sistema penitenziario, dai sit-in per strada al rifiuto del vitto in carcere. Fino allo sciopero della fame. Sono tante le forme di protesta e tante anche le adesioni Tribunali nel caos, giudici di pace fermi per una settimana La Repubblica, 6 giugno 2016 Slittano 150 mila cause rallentando la macchina della giustizia. Protestano contro una "riforma incostituzionale" voluta dal ministro Orlando che per i giudici viola le direttive comunitarie sul lavoro, non riconosce le tutele della maternità e della salute e il diritto alla pensione. Da oggi, e per l"intera settimana, i giudici di pace di tutta Italia incrociano le braccia per protestare contro la riforma della magistratura onoraria voluta dal ministro Orlando. E così slittano 150 mila cause civili e penali creando il caos nei tribunali. Il motivo della protesta è la riforma voluta dal ministro Orlando. "Una riforma incostituzionale - affermano senza mezzi termini dall’Unione Nazionale Giudici di Pace e dall’Associazione Nazionale Giudici di Pace - che viola tutte le direttive comunitarie sul lavoro, non riconoscendo ai giudici di pace le tutele della maternità e della salute, il diritto alla pensione, il diritto alle ferie e ad una retribuzione decorosa, la continuità" del servizio sino all’età pensionabile". Insomma, sarebbero trattati come giudici di serie B. E i motivi della protesta toccano anche lo spinoso argomento delle pensioni. "Già in sede di emanazione del primo decreto legislativo - proseguono i giudici - il Ministro Orlando ha disposto il prepensionamento di circa 200 giudici di pace senza nessun preavviso". Il primo a a dare voce al malcontento è il segretario dell’Unione Alberto Rossi: "È offensivo della dignità di uomini e donne che hanno prestato servizio per la Giustizia da 20 anni ed oltre essere mandati a casa tramite comunicazioni ricevute dai presidenti di tribunale mentre stavano tenendo udienza. Parlare di prepensionamento, per magistrati che per 20 anni non si sono visti riconoscere alcuna tutela previdenziale e non hanno maturato il diritto alla pensione, è incommentabile". L’unica soluzione, assicurano i giudici di pace., è ricorrere alle vie legali: "Abbiamo incaricato i nostri legali - aggiunge Rossi - di denunciare il ministro della giustizia per omesso versamento dei contributi previdenziali in contrasto con la Corte di Giustizia Europea visto che, malgrado le centinaia di diffide recapitate al Ministero dai giudici di pace, Orlando non si è neppure scomodato a dare una risposta". Caso Cucchi, periti chiedono altri 90 giorni. Ma così la prescrizione si avvicina di Carlo Bonini La Repubblica, 6 giugno 2016 Il Gip gliene accorda solo 30. Le giustificazioni del professor Introna: "Non abbiamo tutta la documentazione". Non sono bastati sette anni di indagini, una messe di perizie di parte e di ufficio, tre processi (e un quarto giudizio di appello di rinvio per il quale l’8 giugno, a Roma, verrà pronunciata la requisitoria della Procura generale), oltre a una nuova istruttoria in corso del pm Giovanni Musarò. Quando la scienza medica si accosta al corpo offeso e alla morte di Stefano Cucchi, sembra rimanerne incenerita. Farfuglia. E improvvisamente, anche dati clinici obiettivi annegano nella nebbia dell’opinabile. In una parabola kafkiana dove l’accertamento della verità, ogni volta, sembra dover ripartire da zero, per non andare da nessuna parte. È successo ancora in questi giorni, e protagonista della storia torna ad essere il discusso collegio peritale incaricato nel gennaio scorso dal gip di Roma Elvira Tamburelli di pronunciarsi una volta per tutte sulle cause della morte di Stefano Cucchi. Sull’esistenza o meno di un nesso di causa-effetto tra il suo decesso e le lesioni che gli vennero inflitte durante il pestaggio subito la notte del suo arresto da quattro carabinieri (oggi indagati). È accaduto infatti che dopo un primo significativo incidente con le parti civili, il capo del collegio peritale, il professor Francesco Introna, clinico barese, ex massone, uomo di destra con un passato in Alleanza Nazionale (la famiglia Cucchi, dopo aver inutilmente tentato di farlo dichiarare "incompatibile" subito dopo la nomina, lo ha denunciato alla Procura di Roma) abbia deciso di scrivere al gip per sostenere che la perizia di cui è stato incaricato ormai quasi sei mesi fa brancola nel buio. Che servono almeno altri tre mesi per venire a capo della questione. "Illustrissimo Consigliere - scrive Introna - anche a nome dei co-periti, prof. Dammacco, Andreula e D’Angelo, Le chiedo una proroga di 90 giorni della scadenza dei termini di consegna per il deposito della relazione peritale in quanto, a tutt’oggi, in considerazione di quanto emerso dalle operazioni peritali effettuate, non disponiamo ancora di tutta la documentazione necessaria per poter rispondere ai quesiti della Signoria Vostra Illustrissima nel procedimento in oggetto. Scusandomi per il fastidio e sicuro della sua comprensione". "Non disponiamo ancora di tutta la documentazione, dunque. Possibile? Cosa mancherebbe in quel già mastodontico fascicolo che per giunta, a distanza di sette anni, sotto il profilo medico legale, non ha più nulla di cui potersi arricchire? La risposta del gip Elvira Tamburelli, datata 3 giugno, è tanto stringata quanto severa. Riduce da 90 a 30 i giorni di proroga. Annuncia di voler verificare cosa si muova in questa ennesima nebbia. "Il gip - si legge - autorizza la proroga delle attività di accertamento medico-legale in giorni 30. Si riserva all’udienza camerale prossima del 9 giugno la fissazione del prosieguo dei lavori con l’esame dei periti". In quella sede, dunque, Introna e il collegio dei periti saranno chiamati a spiegare cosa gli impedisca di concludere scientificamente lì dove i consulenti di parte (parti civili e indagati) si sono già espressi a metà maggio. Se davvero sia un arcano della scienza medica e non, al contrario, una esiziale resa dei conti tra periti, l’accertamento della frattura della terza vertebra lombare di Stefano Cucchi (quella lesa durante il pestaggio e che ne avrebbe compromesso il quadro clinico fino a farlo precipitare). In quella sede, soprattutto, sarà possibile comprendere se l’ultimo tentativo di arrivare alle responsabilità degli autori del pestaggio di Cucchi dovrà rassegnarsi all’inesorabile trascorrere del tempo e dunque al rischio della prescrizione. Ai carabinieri indagati dalla Procura vengono infatti contestate le lesioni gravi, reato con un termine di prescrizione breve e per il cui accertamento quest’ultima perizia è decisiva. Nel gennaio scorso, quando la perizia venne conferita, l’intenzione della Procura di Roma era andare a processo entro l’anno. La richiesta di rinvio di Introna rischia di far perdere altri mesi decisivi. Soprattutto di consegnare all’oblio una vicenda di cristallina linearità che la scienza medica è riuscita a trasformare in un arcano per addetti. Quello contro cui, in Corte di Cassazione, ebbe il coraggio di non rassegnarsi il sostituto procuratore generale Nello Rossi che, nel chiedere un nuovo processo per i medici dell’Ospedale Pertini (quello nel cui reparto "protetto" Cucchi morì nell’ottobre 2009), spiegò come la giustizia, nel ventunesimo secolo, non possa rassegnarsi a dichiarare ignote le cause di una morte come quella di Stefano Cucchi. Ecco quando l’avvocato deve risarcire il cliente di Filippo Martini Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2016 La mancata indicazione di prove indispensabili per decidere la causa. Una scelta difensiva azzardata, fatta perché sollecitata dal cliente. La negligenza del collega domiciliatario. Sono diversi gli errori degli avvocati che, per i giudici, fanno scattare la responsabilità professionale e la condanna a risarcire i clienti. E la casistica è articolata perché rispecchia i vari profili dell’attività che gli avvocati si impegnano a svolgere per i clienti: dalla fase di prima disamina della questione, con l’indicazione degli elementi che caratterizzano il fatto giuridico, alla fase di vera e propria gestione delle difese più idonee a raggiungere lo scopo. L’obbligazione che l’avvocato assume è sempre legata a un’attività intellettuale con la quale vengono messi a disposizione del cliente i mezzi tecnici (le conoscenze e la sua organizzazione) propri del professionista il quale, se non deve garantire un risultato sempre positivo, certamente deve però offrire un grado di professionalità e di diligenza propria di un operatore qualificato. È quanto affermano i giudici (come si legge nella rassegna di decisioni riportate in questa pagina) che si pronunciano sulla qualità dell’attività dell’avvocato chiamato in giudizio dal cliente non soddisfatto del suo operato. Un particolare profilo di valutazione della condotta dell’avvocato sta innanzitutto nella genesi del rapporto professionale: il cliente vuole sapere dal professionista se le istanze sono fondate sul piano giuridico e se vale la pena investire tempo e denaro (non solo i compensi del legale, ma anche le somme per il contributo unificato) nel giudizio. L’avvocato ha l’obbligo di informare il cliente sulle difficoltà del giudizio che intende intraprendere, sui rischi di insuccesso e sui costi che si dovranno sostenere con una prognosi quanto più possibile vicina alla realtà. Né è sufficiente, per l’avvocato, sostenere che è stato il cliente a insistere per una certa azione con poche chance di successo, perché la strategia difensiva è sempre un patrimonio del professionista che opera una scelta in prima persona (come ha affermato la Cassazione nella sentenza 10289/2015). Attenzione, poi, alle prove: l’avvocato deve risarcire il cliente se non indica una prova indispensabile per la decisione del giudizio, a meno che non dimostri di non averlo potuto fare per fatto a lui non imputabile o di avere svolto tutte le attività che, nel caso concreto, potevano essergli ragionevolmente richieste (come ha spiegato la Cassazione nella sentenza 25963/2015). Inoltre, all’avvocato è sempre richiesta una diligenza associata a un obbligo di correttezza, nel rapporto sia con il proprio assistito, sia con i terzi, sia con la controparte: quest’ultima non deve essere danneggiata intenzionalmente, anche se il legale difende gli intessi della parte rappresentata. Così, il Tribunale di Trieste ha condannato un avvocato a risarcire il danno a una parte (diversa dal suo cliente) che era stata intenzionalmente danneggiata con l’azione intrapresa (sentenza del 10 agosto 2015). L’avvocato non è responsabile solo per la sua attività, ma anche per quella del domiciliatario. Per il Tribunale di Rimini (sentenza 240 del 15 febbraio 2016), se il domiciliatario non compare formalmente in udienza, il cliente può chiedere i danni al difensore. Ma non tutti gli errori degli avvocati portano alla condanna a risarcire il danno ai clienti. In primo luogo, non sempre l’errore determina un danno: per esempio, la mancata adozione di un’istanza nell’interesse del cliente potrebbe non avere conseguenze se si dimostra che l’assistito avrebbe comunque perso la causa. Infatti, l’avvocato non ha un’"obbligazione di risultato", nel senso che non è tenuto a realizzare comunque l’esito positivo a favore della parte assistita quando non sussistono in fatto e in diritto i presupposti per questo risultato. Un’altra ipotesi in cui l’avvocato può essere assolto, anche se ha commesso un errore, è quella in cui sia chiamato ad affrontare una questione di particolare difficoltà. Succede, ad esempio, quando il legale deve dare soluzione a un problema tecnico particolarmente complesso: in questo caso risponde solo per dolo o colpa grave e non per una condotta errata dovuta alla complessità del caso (come ha precisato la Cassazione nella sentenza 2954/2016). Per coprire i danni causati ai clienti, la riforma contenuta nel Dpr 137/2012 ha introdotto l’obbligo di stipulare un’assicurazione professionale. Ma per gli avvocati la riforma forense (legge 247/2012) ha scritto un percorso ad hoc. Il ministro della Giustizia, sentito il Consiglio nazionale forense, deve stabilire le condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze. Al momento la bozza di decreto trasmessa dal ministero è in consultazione presso l’avvocatura. Al termine di questa fase (che si chiuderà entro fine mese) il Cnf formulerà il parere per permettere al ministero di emanare il decreto. Così, l’obbligo di stipulare una polizza a copertura della responsabilità civile diventerà pienamente operativo anche per gli avvocati. Il falso valutativo resta un reato di Stefano Loconte e Raffaella De Carlo Italia Oggi, 6 giugno 2016 Le motivazioni della sentenza che chiude il contrasto nato all’indomani della l. 69/2015, Le stime sono un elemento imprescindibile del bilancio. Esigenza di apprestare adeguata tutela alla trasparenza societaria e necessità di procedere a una esegesi dei "nuovi" articoli 2621 e 2622 del codice civile in linea con l’intero assetto della disciplina contabile. Sono questi i punti cardine del ragionamento che ha condotto le sezioni unite della Cassazione a risolvere, in senso positivo, la dibattuta questio iuris della punibilità dei falsi valutativi. Con la sentenza n. 22474, depositata lo scorso 27 maggio, le sezioni unite (il cui intervento è stato più che mai opportuno, sebbene forse un pò tardivo) pongono fi ne al contrasto giurisprudenziale, tutto interno alla quinta sezione, sorto all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 69/2015, scongiurando il proliferare di pericolosi "deragliamenti" interpretativi sulla rilevanza penale delle valutazioni. Nella citata pronuncia, in particolare, i giudici di Piazza Cavour hanno chiarito che le fattispecie delittuose di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazioni, possono dirsi integrate allorché, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente se ne discosti consapevolmente e senza dare adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni. Per l’alto consesso, dunque, non residua alcun dubbio: il falso valutativo, anche dopo la riforma del 2015, mantiene il suo rilievo penale. Ma procediamo per gradi. Il dibattito relativo al corretto inquadramento normativo cui assoggettare, in ambito penale, le valutazioni di bilancio è stato originato dalla recente espunzione di qualsiasi riferimento espresso all’elemento valutativo dal testo degli articoli 2621 e 2622 c.c. La legge n. 69/2015 ha preferito, infatti, descrivere l’oggetto della condotta di falsificazione impiegando la formula "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero", eliminando l’inciso "ancorché oggetto di valutazioni" e aggiungendo (solo nel corpo dell’art. 2622) l’aggettivo "rilevanti" al sintagma "fatti materiali". Inoltre, con specifico riguardo alla condotta omissiva, il riferimento alle "informazioni" è stato sostituito con il richiamo ai "fatti materiali rilevanti". Immediato è stato, a seguito delle suddette modifiche, il disorientamento degli interpreti del diritto che, leggendo tra le righe della riforma, avevano già gridato alla parziale abolitio dei c.d. falsi estimativi. Tale atteggiamento di incauto entusiasmo ed eccessivo formalismo con cui veniva accolta la novella legislativa era stato fatto proprio dalla stessa Corte di cassazione, la quale - nelle pronunce n. 33774/2015 e 6916/2916 - aveva colto nella nuova dicitura degli articoli 2621 e 2622, orfana dell’inciso relativo alle valutazioni, l’indiscussa volontà del Legislatore di escludere dal perimetro della repressione penale le attestazioni conseguenti a processi di tipo valutativo. Poco dopo, tuttavia, gli stessi giudici, mutando inaspettatamente e radicalmente il proprio orientamento, avevano riconosciuto, nelle le sentenze nn. 890/2016 e 12796/2016, l’irrilevanza della soppressione dell’esplicito riferimento alle valutazioni, in quanto elemento da considerarsi (già nelle precedenti versioni della norma incriminatrice) non essenziale perché atto a descrivere ad abundantiam la condotta del reato. Di fronte a un simile ambiguo scenario, che senza dubbio non deponeva a favore della certezza del diritto e della prevedibilità (per quanto è possibile) delle decisioni giurisdizionali, decisivo è stato l’intervento delle sezioni unite che ha messo da parte i tentennamenti e le insicurezze manifestate da una giurisprudenza tanto (e inspiegabilmente) ondivaga. Ebbene, la conclusione cui sono pervenute le sezioni unite, nella sentenza in commento, appare assolutamente ragionevole e ragionata. Racchiude, oltre che una soluzione per la questione de qua, un monito per ciascun operatore del diritto, il cui modus operandi dovrebbe sempre permettergli di apprezzare il dato normativo non isolatamente, ma calandolo nel complessivo impianto cui inerisce. E invero, come chiarito in sentenza, tutte le pronunce intervenute con il fine di specificare la reale portata della novella del 2015 hanno peccato di un grave errore prospettico; eccessiva attenzione è stata posta al dato letterale della norma e all’indagine comparativa, con la conseguenza di caricare la soppressione dell’inciso "ancorché oggetto di valutazioni" e la sostituzione del termine "informazioni" di un significato improprio. Ciò, perdendo decisamente di vista la ragione pratica delle norme in esame, da individuarsi nella esigenza di garantire la veridicità e la completezza dell’informazione societaria. Del resto, a noi sembra alquanto bizzarro, dinanzi alla soppressione di una frase, che ci si continui a interrogare sul significato di quanto è stato espunto, piuttosto che ricercare il senso di quello che ancora resta. Quella indicata dalle sezioni unite ci appare la corretta via da percorrere; essa muove da una visione logico-sistematica dell’intera materia societaria in tema di bilancio e del relativo sottosistema penale, per arrivare a riconoscere nel momento valutativo un elemento caratteristico e, per la verità, imprescindibile del bilancio. Quest’ultimo, infatti, non contiene (solo) dati oggettivi della realtà sensibile, ma anche e soprattutto stime. Nella sentenza si legge che "un bilancio non contiene fatti, ma il racconto di essi"; e tale racconto è dato, appunto, da valutazioni che presuppongono, sì, un apprezzamento del redattore, pur sempre, comunque, inquadrabile in quella che si suole definire come discrezionalità tecnica. In tale prospettiva, le sezioni unite confermano che nell’espressione "fatti materiali", che compare nella rinnovata formulazione degli articoli 2621 e 2622 del codice civile, debbono necessariamente rientrare anche le valutazioni di dati formalizzati nelle comunicazioni sociali, soprattutto nel caso in cui risultino violati i criteri di stima che la disciplina codicistica, la normativa comunitaria e i principi contabili internazionali dettano a presidio della chiara, corretta e veritiera formazione del bilancio. Del resto, se si negasse la punibilità del falso valutativo non si farebbe altro che indebolire drasticamente e ingiustificatamente il grado di tutela penale che l’ordinamento appresta alla trasparenza societaria, minacciata continuamente da insidiose condotte di falsità anche in enunciati valutativi. E questo si porrebbe in palese contrasto con le finalità perseguite dalla legge n. 69/2015, dichiaratamente animata dall’intento di rafforzare la risposta sanzionatoria rispetto ai delitti di falsità in bilancio, attraverso il completo restyling dell’impianto previgente e l’introduzione dei nuovi articoli 2621-bis e 2621-ter del codice civile. Alla luce di tali considerazioni, la cancellazione del riferimento alle valutazioni perde qualsiasi rilevanza sul piano interpretativo. Le sezioni unite della Cassazione, così, ispirandosi a primarie esigenze di giustizia sostanziale, scrivono, almeno per ora, il capitolo conclusivo di una saga, densa di mutamenti e colpi di scena, che ha visto protagonista il delitto di false comunicazioni sociali, dalla sua introduzione nel codice Zanardelli del 1882 sino alle modifiche da ultimo apportate dalla legge n. 69/2015. Indebita percezione e non truffa per il datore che inganna l’Inps sull’indennità di malattia di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2016 Tribunale di Firenze - Sezione I penale - Sentenza 3 marzo 2016 n. 1274. Se il datore di lavoro dichiara falsamente all’istituto previdenziale l’avvenuta corresponsione in favore dei suoi dipendenti di somme a titolo di indennità di malattia, ottenendo così una compensazione di pari importo dallo stesso istituto, non si configura il reato di truffa, bensì quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, che prescinde dall’esistenza di artifici o raggiri, induzione in errore e danno patrimoniale per la vittima. In tal caso, se la somma falsamente dichiarata è al di sotto di 4mila euro, ovvero la soglia di punibilità prevista dall’articolo 316-ter del codice penale, il datore di lavoro non è punibile. Lo ha precisato il Tribunale di Firenze con la sentenza 1274/2016 optando tra diverse interpretazioni giurisprudenziali sul tema. La vicenda - Protagonista della vicenda è l’amministratore unico di una Srl il quale aveva indotto in errore l’Inps dichiarando falsamente di aver corrisposto ad un dipendente della società l’indennità di malattia per un valore di poco più di 130 euro, ottenendo così dall’istituto di previdenza un corrispondente riconoscimento economico. Una volta scoperta la falsa dichiarazione, l’amministratore veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di truffa commessa ai danni di un ente pubblico, ai sensi dell’articolo 640 comma 2 n. 1 del codice penale. L’ingiusto profitto per il datore - Il Tribunale però non è d’accordo col capo di imputazione. Una volta accertato il verificarsi del fatto, il giudice opta infatti per una diversa soluzione nell’individuazione della fattispecie concretamente configurabile. In primo luogo, il Tribunale spiega che le indennità di malattia, così come assegni familiari o di maternità, costituisce un debito dell’Inps e non del datore di lavoro, il quale è tenuto solo ad anticiparle, salvo ottenere in seguito il conguaglio dall’istituto previdenziale. Chiaro è dunque l’ingiusto profitto maturato dal datore di lavoro. Problematica è invece l’esistenza di un danno per l’Inps, il che ha dato luogo a diverse interpretazioni da parte dei giudici. La configurabilità del reato previsto dall’articolo 316-ter cp - Sul punto la giurisprudenza tradizionale ha optato per il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, in quanto la condotta del datore di lavoro che, per mezzo della falsa dichiarazione induce in errore l’Inps sul diritto al conguaglio di dette somme mai corrisposte, realizza "un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva". Per altra giurisprudenza, invece, la condotta descritta del datore di lavoro non è idonea a determinare un danno all’Inps, "perché il lavoratore potrebbe rivolgersi solo al datore di lavoro per ottenere quanto gli spetta" e non anche all’istituto previdenziale che con il conguaglio ha assolto il suo obbligo. Non di truffa si tratterebbe, ma di appropriazione indebita del datore di lavoro di somme spettanti al lavoratore indebitamente portate a conguaglio e fatte figurare come erogate al lavoratore. E ancora, altro orientamento ritiene che pur non essendo configurabile il reato di truffa per mancanza del danno patrimoniale in capo all’Inps, la condotta descritta del datore di lavoro deve essere "inquadrata nella fattispecie criminosa della indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’art. 316-ter c.p., che prescinde sia dall’esistenza di artifici o raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa, elementi tutti che caratterizzano il delitto di truffa". Ed è a questo filone che il Tribunale toscano dichiara di aderire. Il giudice ritiene infatti che il legislatore, con l’introduzione di questa fattispecie, abbia voluto per l’appunto escludere che "la mera ostentazione di dichiarazioni o documentazioni false o attestanti cose non vere (nonché l’omissione di informazioni dovute), possa configurare un artificio o raggiro, tale da integrare il delitto di truffa". E se poi la somma in questione è al di sotto dei 4mila euro - come nel caso di specie - la soglia di punibilità prevista dalla norma esclude la punibilità. A proposito di dismissioni delle carceri storiche di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2016 In questi ultimi giorni, come leggiamo nell’articolo su Repubblica di Vanni, si incrementano le prese di posizione contrarie agli annunci dei ministri Alfano e Orlando, circa le annunciate dismissioni dei tre storici carceri urbani di Milano, Roma e Napoli. Finalmente gli addetti ai lavori dei "piani alti" danno voce al loro dissenso e in parte forniscono giustificazioni ragionevoli e di buonsenso. Non si sentono ancora a riguardo le opinioni di chi in carcere lavora "sporcandosi davvero le mani". Sarebbe opportuno la cosa succedesse, i mezzi multimediali per comunicare non mancano. Il silenzio della base mi rimanda a gli studenti universitari che sono intimoriti da docenti impreparati ma arroganti e presuntuosi. Gli studenti non osano ribadire, anche se ne avrebbero le ragioni e la preparazione per farlo. Credo sia opportuno che ognuno di noi che ha competenza nel carcerario, fuori da ogni logica autoreferenziale e di parte, debba assumersi il compito di "pressare costruttivamente" il ministro di turno. Comprensibile che il politico si esprima secondo logiche altre, inaccettabile l’assenza di azioni esterne che lo portino a conoscere e ragionare. Gli stati generali dell’esecuzione penale ci vengono in aiuto. Si sono chiusi il 18 aprile scorso, ma il Ministro Orlando, a noi che vi abbiamo partecipato, ha chiesto di continuare a lavorare. C’è chi come me (del tavolo n. 1 Spazio della pena: architettura e carcere) e molti altri lo hanno preso in parola. Con riferimento alle proposte ed azioni del tavolo n.1, per esempio, per quanto riguarda il superamento delle criticità in atto del nostro sistema penitenziario riferite alla sua dimensione architettonica, si sono avviate iniziative di coinvolgimento sul tema della architettura carceraria, degli iscritti agli ordini degli Architetti di Firenze (con la Fondazione Michelucci) di Torino, Roma, con l’obiettivo di formare al tema e di far crescere un fronte culturale pragmatico che in Italia non esiste ma che necessita. Il giorno 15 p.v. il Ministro Orlando ha convocato i coordinatori dei tavoli degli Stati Generali, si presume per fare il punto. Sarebbe opportuno l’incontro avvenisse non a porte chiuse ma in streaming, questo anche in segno di riconoscenza e gratitudine da parte del Ministro verso il lavoro svolto a titolo gratuito e senza rimborso spese da parte degli altri componenti dei tavoli, ma soprattutto per evitare deviazioni di rotta come è successo subito dopo la chiusura degli stati generali a proposito dei contraddittori annunci dei due ministri. L’Aquila, dalla capitale della cultura alla capitale della tortura di Luigia De Biasi Il Centro, 6 giugno 2016 Da ottobre 2014 chi è sottoposto al regime 41bis dell’ordinamento penitenziario non può più ricevere libri né qualsiasi altra forma di stampa. Tutta la lettura è sottoposta a censura. È vietato leggere, studiare, tenere più di due libri in cella, comunque decisi dal carcere. La Casa circondariale dell’Aquila è oggi l’unico carcere, sul territorio nazionale, unicamente dedicato al 41 bis. Su 131 detenuti sottoposti a regime di carcere duro nella nostra città, 7 sono donne e "sono trattate peggio dei boss mafiosi". Tra queste Nadia Lioce è l’unica prigioniera politica. Per quanto il 41-bis sia già un regime di detenzione speciale, al suo interno sono previste delle ulteriori aree riservate, nelle quali sono detenuti i prigionieri politici, allo scopo di aggravarne la condizione di isolamento. Il 29 novembre 2014, il personale di Polizia penitenziaria della casa circondariale dell’Aquila, sottrasse alla disponibilità di Nadia Lioce materiale di cancelleria, libri e quaderni, condannandola al silenzio, a una condizione d’isolamento totale e perenne, all’inaccettabile limitazione della naturale estrinsecazione della personalità umana, con conseguente cancellazione dei più basilari e inviolabili diritti umani. Giulio Petrilli fornì una fotografia terrificante della condizione detentiva delle donne recluse alle Costarelle e in particolare della Lioce. Come altro può definirsi questo trattamento se non tortura? Questa tortura "bianca", che punta ad annientare lentamente il corpo e la mente, ha già ucciso. "È accaduto a Diana Blefari, prigioniera nello stesso carcere dell’Aquila. "Era caduta in uno stato di profonda prostrazione e inerzia psicologica. Se ne stava rannicchiata tutto il giorno nel letto, con la coperta fino agli occhi e senza nessun cenno di interesse per il mondo", racconta Elettra Deiana. "Piegata dal carcere duro, Blefari si suicidò il 31 ottobre del 2009". "La lettura è ossigeno per le coscienze" ha detto il presidente Mattarella, "Leggere ha a che fare con la libertà e con la speranza". Ma L’aquila, dove si seppellisce chi è libero di leggere sotto le macerie e la speranza di chi non lo è sotto i muri e il filo spinato, è il simbolo del moderno medioevo in cui questa Repubblica è caduta, sotto il peso dell’ignoranza di molti e il profitto di pochi, coltivato da questo sistema capitalistico di barbarie. Colgo l’occasione per comunicare che da quasi un anno è stata avviata la campagna nazionale "Pagine contro la tortura", contro il divieto ai detenuti in 41bis di ricevere libri e che il 12 giugno all’Aquila ci sarà un’assemblea di aggiornamento e informazione su tale campagna, alla quale si può aderire scrivendo a paginecontrolatortura@inventati.org. Archeologia Carceraria: perché non istituirla? di Antonio Parente agenziafuoritutto.com, 6 giugno 2016 Il recupero dell’Ergastolo borbonico in Santo Stefano di Ventotene per un suo riuso, ancora non ben definito, fa anche riflettere, addetti ai lavori e studiosi, sull’idea della formale istituzione dell’Archeologia Carceraria, sia come disciplina accademica nelle facoltà di Architettura e Ingegneria, sia come disciplina autonoma museale interministeriale fra la Giustizia e i Beni Culturali. È sorta qualche tempo fa quella industriale e quella subacquea, perché non interessarsi allora anche di un patrimonio culturale antico quando lo è il mondo? Sì le carceri sono istituzioni nate con la nascita del clan o delle tribù primordiali. Chi sbagliava, anche negli albori della civiltà era condannato a una pena che poteva consistere sia nell’allontanamento del soggetto dal clan sia la sua detenzione al chiuso di una grotta o di una cisterna o di un semplice recinto. Un’archeologia che al momento può riguardare solo l’Italia, senza sconfinare troppo nei più antichi Paesi Mediorientali (Assiria, Mesopotamia…). Un’archeologia ricca di preziose testimonianze sparse per la penisola, a cominciare dalle Latomie di Siracusa o di Roma, alle terribili carceri papaline di Castel Sant’Angelo in Roma, in uso fin dal V secolo d. C.. Tra le testimonianze certamente più antiche si potrà fare riferimento al carcere Mamertino e Tulliano del Foro romano, risalenti all’ottavo - settimo secolo avanti Cristo. Testimonianze di carceri medioevali sono presenti in tutte le città italiane che utilizzarono per questo fine, sotterranei e locali di castelli, torri e palazzi nobiliari (I piombi di Venezia, le torri palatine di Torino, la fossa del coccodrillo di Napoli). Di questi passati periodi non vi è però una loro specifica architettura in quanto fino al Rinascimento qualsiasi "orribile" locale, facilmente controllabile poteva essere adattato per la detenzione di soggetti criminali o non graditi appunto nelle segrete. Con la nascita della "Città ideale" rinascimentale, nasce anche il penitenziario che d’ora in poi, ubbidirà a precise regole architettoniche oltre che di sicurezza. L’Italia può vantare in ciò ameno due primati: la nascita della prima struttura penitenziaria e la nascita della prima struttura correzionalistica per delinquenti minorenni. Entrambe sono a Roma. La prima, ancora oggi si erge maestosa in Via Giulia ed è attualmente occupata dalla Direzione Nazionale Antimafia. Voluta dal pontefice Innocenzo X fu progettata e realizzata, nel 1650, da Antonio Del Grande, come luogo di reclusione maschile e femminile in un sistema cellulare di nuova ideazione. La seconda, ancora oggi chiamata "San Michele a Porta Portese" fu voluta da Clemente XI e progettata da Carlo Fontana, che ideò il cellulare cubicolare. Era il 1703. Questa struttura a monoblocco con celle a matroneo affacciantesi sul salone centrale è stata poi il prototipo di tutte le future carceri a livello internazionale. Il correzionale fu gestito secondo il dettato benedettino dell’ora et labora che i Quacqueri, poi, esportarono in America e fatto conoscere a livello mondiale con il nome di sistema carcerario Auburniano. Nel 1795 è la volta dell’ideazione e realizzazione di un’opera architettonica unica al mondo. L’ingegnere Francesco Carpi realizza sul brullo scoglio di Santo Stefano di Ventotene il suo "Ergastolo" a forma di esedra che richiama la pianta del teatro greco. Egli si rifà, infatti, quasi certamente, al Teatro San Carlo di Napoli. Le strutture in buono stato che nel passato vicino e lontano hanno svolto l’ingrato ruolo di carceri, penitenziari e bagni penali, sono tante, ad altrettante sono quelle da salvare con appropriate opere di ristrutturazione. L’idea della nascita di questa nuova disciplina vuole essere anche un grido di allarme per salvare quello che, ancora oggi, è possibile salvare: furono questi luoghi del dolore e della rassegnazione ma sono ora soprattutto luoghi della memoria e dei diritti negati. Luoghi che rappresentano la storia della nostra civiltà e che devono essere salvati appunto per essere utilizzate come dirette testimonianze dell’archeologia carceraria. È una disciplina che sembra lontana dall’essere considerata archeologia in senso stretto ma che potrà, invece, essere considerata come scienza dell’antichità in senso più lato. Molise: mozione ex assessore Petraroia "limitare presenza dei collaboratori di giustizia" Il Sannio, 6 giugno 2016 "Il confino di esponenti di spicco dei clan richiede maggiore attività di vigilanza". Il consigliere regionale Michele Petraroia, ex assessore al fianco di Frattura, ha presentato una mozione per impegnare proprio il presidente della Giunta e e il presidente del Consiglio regionale a intervenire nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero della Difesa, del Ministero dell’Interno, del Ministero della Giustizia e della Delegazione Parlamentare del Molise a sollecitare il potenziamento degli organici delle Forze dell’ordine presenti sul territorio regionale evitando tagli o riduzioni connesse con il superamento del Corpo Forestale dello Stato; a verificare la possibilità di limitare la presenza dei collaboratori di giustizia o di condannati agli arresti domiciliari per reati gravi provenienti da altri territori; e infine ad avanzare formale istanza sulla permanenza della Legione Carabinieri della Regione Molise evitandone la soppressione. "Il Molise", ha affermato Petraroia illustrando i motivi della mozione, "accoglie sul proprio territorio un numero imprecisato di collaboratori di giustizia o pentiti della criminalità organizzata, ospitati in varie località, in attuazione dei relativi programmi nazionali sulla sicurezza e sul contrasto alle mafie, alla camorra, alla ‘ndrangheta e alla sacra corona unita. É indubbio che la presenza di esponenti di spicco di clan della criminalità organizzata richiede una più intensa attività di vigilanza da parte delle Forze dell’Ordine con un potenziamento degli organici e con dotazioni strumentali adeguate ed innovative". Inoltre, il consigliere evidenzia il progressivo incremento di personalità inviate al confino o a scontare gli arresti domiciliari in Molise, che ai suoi occhi motivo in più per salvaguardare e consolidare la presenza delle Forze di Polizia, evitando tagli agli organici e penalizzazioni connesse al superamento del Corpo Forestale dello Stato e alla soppressione della Legione Carabinieri Molise. "Senza fomentare allarmismi immotivati e esprimendo un sentito apprezzamento per Fattività della Direzione Antimafia e delle Forze dell’Ordine, non bisogna sottostimare i rischi riferiti alla presenza in Molise di collaboratori di giustizia e/o di altre figure perseguite per reati preoccupanti. È evidente che l’accorpamento della Legione Carabinieri Molise all’Abruzzo rientra nel piano di riduzione dei costi condotta dal Governo e non toccherà la gran parte della dotazione organica assegnata, ma è altrettanto evidente che per i Prefetti e per i Magistrati in Servizio presso le nostre Procure si dovrà mettere in agenda il doppio passaggio con la Legione Carabinieri di Chieti per via di un nuovo assetto operativo che toglierà alcune funzioni dirigenziali e parte delle attività di coordinamento al Molise". "Se a questa riorganizzazione dell’Arma dei Carabinieri si somma anche l’imminente superamento del Corpo Forestale dello Stato non si può non esprimere una giustificata preoccupazione sulla tenuta della legalità in una regione che confina con aree ad alto rischio come la Provincia di Caserta e la Provincia di Foggia", conclude Petraroia: "Su questi temi occorre un impegno istituzionale unitario del Consiglio e della Giunta Regionale, della Delegazione Parlamentare, delle istituzioni locali e delle forze sociali, a tutela della legalità e a salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica in Molise". Lucca: detenuto di 39 anni non può vedere i suoi bambini, si impicca in cella La Repubblica, 6 giugno 2016 SI è impiccato nella sua cella, nel carcere di Massa. Ipotesi drammatica è che il detenuto italiano, 39 anni, si sia tolto la vita per lo stato di prostrazione a cui avrebbe contribuito l’impossibilità di incontrare i due figli piccoli. "Il tribunale dei minori non gli aveva consentito di vederli per ovvie ragioni di opportunità", ha fatto sapere il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria che ha diffuso la notizia dell’ennesimo suicidio in carcere. L’uomo era detenuto per reati legati alla tossicodipendenza. Si è tolto la vita nella serata di sabato impiccandosi alle sbarre della propria cella, con un lenzuolo appositamente legato. Inutile il tentativo di rianimarlo, come ricostruiscono gli operatori penitenziari. "A poche ore dal tentato suicidio di un detenuto straniero nel carcere di Lucca, sventato in tempo dagli uomini della polizia penitenziaria - si legge infatti in una nota del sindacato Sappe - giunge la notizia che nella casa di reclusione di Massa un detenuto italiano si è impiccato in cella. A nulla sono valsi gli interventi tempestivi del personale di polizia penitenziaria - spiega Pasquale Salemme, segretario regionale Sappe per la Toscana - che, nell’occasione, ha praticato anche le prime manovre di pronto soccorso. Nonostante le attività di rianimazione poste in essere dai sanitari dell’istituto, nonché dal servizio del 118, il detenuto cessava di vivere. D.C., queste le sue iniziali, aveva appena 39 anni ed era padre di due figli. Figli che, il tribunale dei minori, non gli aveva consentito di vedere per ovvie ragioni di opportunità. Forse, è stata proprio questa la causa del suo gesto inconsulto che gli è costato la vita", ipotizza il sindacato delle guardie penitenziarie. Gli agenti tornano a mettere all’indice la situazione carceraria. "Questo nuovo suicidio - afferma Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, lasciando isolato il personale di polizia penitenziaria a gestire queste situazioni di emergenza che sono causa di stress anche per i nostri operatori. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono svolti". Milano: carcere di San Vittore, la dignità dei detenuti viene prima dell’urbanistica di don Gino Rigoldi Corriere della Sera, 6 giugno 2016 Il problema del carcere non è il luogo dove è collocato, ma se è adatto a garantire la dignità dei detenuti. Il dibattito periodico che si accende sulla collocazione del carcere di San Vittore non riesce a scaldarmi: il problema del carcere non è il luogo dove è collocato, ma se è adatto a garantire la dignità dei detenuti. Da questo punto di vista apprezzo poco la retorica che esalta la collocazione di un carcere nel centro della città: San Vittore lo è, come lo sono tante altre carceri italiane, ma non per questo motivo è stato oggetto di maggior cura e attenzione da parte della città. Averlo davanti agli occhi, rispetto al carcere di Bollate o di Opera, o al Beccaria ha reso i milanesi più attenti alle condizioni di vita dei carcerati? Non mi sembra. Come non mi sembra che intravvedere un paesaggio urbano dalla finestra faccia sentire i detenuti più integrati nel tessuto sociale. I problemi sono ben altri, perché per un detenuto il problema non è quel che si vede dalle sbarre ma quel che si vive dietro le sbarre e quello che lo aspetta fuori. Se il carcere fosse un luogo "aperto" alla città, se in carcere fosse possibile realizzare un significativo intreccio tra detenuti e cittadini liberi, certamente anche la sua collocazione assumerebbe una diversa rilevanza. Ma noi oggi dobbiamo ancora realizzare quel che ci chiede la Costituzione. Possiamo infatti dire che le pene non consistono in trattamenti contrari al senso di umanità e tendono alla rieducazione del condannato? No, ve lo dico io che nelle carceri ci entro ogni giorno. Qualcosa è stato fatto: ci sono luoghi di detenzione migliori di altri, Bollate ne è un esempio, ma generalmente gli spazi interni sono inadeguati, l’affollamento inaccettabile, le attività rieducative e la possibilità concreta di progettare una vita positiva una volta lasciato il carcere, quasi sempre del tutto assenti. Direi allora che potremmo lasciare da parte, per ora, le questioni urbanistiche. Invito i candidati al governo della città a concentrarsi, se di carcere vogliono (come auspico) discutere, sulle possibili iniziative che favoriscano e sostengano il reinserimento dei carcerati una volta scontata la pena. Queste cose fanno la differenza, come alcuni penitenziari hanno dimostrato: le attività di formazione, le possibilità di lavoro, dentro e soprattutto fuori dal carcere, e l’accesso ad una abitazione dignitosa. Vi posso assicurare che un detenuto che varchi la porta di uscita del carcere, sia esso collocato nelle campagne lombarde piuttosto che nei pressi della basilica di Sant’Ambrogio, troverà quasi sempre lo stesso paesaggio: un deserto desolante. Le leggi "svuota carcere" di qualche anno fa hanno messo fuori in Lombardia circa 4500 persone detenute. Duemila sono già ritornate. Possiamo farci un pensiero? Firenze: Sollicciano rinuncia all’Icam, la struttura dedicata alle detenute con figli di Ernesto Ferrara La Repubblica, 6 giugno 2016 Se ne parla da 10 anni ma la nuova direttrice chiede ri rifletterci: non ha senso, i numeri non la giustificano. Sollicciano sta pensando di rinunciare all’Icam, l’istituto a custodia attenuata per le detenute madri di sui si parla almeno da 10 anni. Nel 2013 fu il ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri a garantire, entro l’anno, l’inaugurazione della struttura. Prima e dopo ci sono stati annunci di assessori, provveditori, dirigenti, funzionari sulla necessità di avere la struttura a Firenze. Un fondo di 700mila euro è già stato stanziato dalla Regione, addirittura Palazzo Vecchio ha già fatto la gara d’appalto per i lavori di ristrutturazione della sede che dovrebbe ospitare lo spazio ad hoc per le mamme detenute, sorta di casa famiglia senza sbarre e con agenti carcerari in borghese: a breve i lavori dovevano partire. Pure l’ex sindaco Matteo Renzi ha sempre dimostrato di tenerci particolarmente, una volta arrivò a dichiarare: "Noi siamo stati i primi in Italia ad aver fatto l’Icam", forse intendendo che Firenze aveva avviato le procedure per prima o quasi in Italia. Ora però coi numeri dei detenuti in calo (poco più di 700 oggi contro i 1.000 di picco negli anni scorsi) e il sempre minor ricorso da parte dei giudici alla pena della detenzione per le madri con figli piccoli tutto è cambiato: "Attualmente abbiamo due sole madri con figli a Sollicciano, una delle quali dovrebbe avere presto la sospensione. E nell’ultimo anno le cifre sono state queste, molto basse. Che senso ha fare questa struttura, che dovrebbe avere 8 posti, per una o due madri con figli, impiegando molti soldi per i lavori e mettendo già in preventivo di spenderne molti altri per il personale necessario, 10-14 unità, quando Sollicciano potrebbe aver bisogno di altro?", si domanda la nuova direttrice del carcere fiorentino Marta Costantino. Stesse perplessità espresse già da qualche tempo alla vicepresidente della Regione Toscana Stefania Saccardi, all’assessore al welfare del Comune Sara Funaro e pure ina una recente riunione della commissione servizi sociali di Palazzo Vecchio. E oggi il caso sbarca in Consiglio comunale con un’agguerrita domanda d’attualità di Donella Verdi di Sel, che chiede di non rinunciare. Costantino chiarisce che il suo non è un "mai", non è nemmeno certo una contrarietà al principio per cui l’Icam nasceva: "Il punto è un altro: oggi i numeri sono questi, in tutta Italia un mese fa erano i 19 i bambini in carcere con le madri. Una riflessione è necessaria, tanto più che siamo ancora in grado di non perdere quei soldi, potremmo pensare di usarli ad esempio per dare a Sollicciano una struttura per la semilibertà, chi torna la sera a dormire in carcere", ritiene la direttrice. E da Regione e Palazzo Vecchio non arriva contrarietà alla scelta. "È un ragionamento di buon senso quello di Marta Costantino, siamo disponibili a trovare soluzioni diverse per quei fondi", riconosce Saccardi. Funaro oggi spiegherà in aula che "intanto con l’appalto si va avanti, che semmai Sollicciano dovesse formalizzare la decisione si deciderà come riprogettare la struttura". Che è già esistente ed è di proprietà della Madonnina del Grappa. Padova: cella troppo stretta, detenuto ottiene uno sconto di pena di 6 mesi di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 6 giugno 2016 Condizioni inumane in carcere, sconto di pena pari a 133 giorni - quasi sei mesi - per un albanese detenuto per concorso in omicidio. Lo ha deciso - con un provvedimento destinato ad alimentare il dibattito - il magistrato di Sorveglianza Linda Arata vista l’istanza presentata dall’avvocato Federica Borrelli per conto di Elton Xhoxhi, albanese di 33 anni in carcere dal 27 ottobre 2007 con un fine pena fissato, prima di questa sentenza, al 3 dicembre 2032. Il giudice nella sentenza è chiaro e stabilisce che l’albanese è stato detenuto in condizioni contrastanti con l’articolo 3 della Convenzione sui Diritti dell’Uomo per 1.044 giorni nella Casa Circondariale di Vicenza e per 294 nella Casa di Reclusione del Due Palazzi di Padova, per complessivi 1.338 giorni. Il magistrato ha quindi applicato un giorno di sconto pena ogni 10, arrivando stabilire una detrazione di 133. A Vicenza l’albanese è stato rinchiuso senza avere i tre metri a disposizione previsti per legge, in una cella con altri due detenuti: una stanzetta di 9,12 metri quadrati lordi, dai quali deve essere tolto l’ingombro di sei armadi pensili. A Padova il detenuto è stato rinchiuso in quelle che l’Unione Europea definisce "condizioni inumane": con meno di 3 metri quadrati calpestabili per persona, in una cella - assieme ad altri due carcerati - che misura 9,09 metri quadrati, con tre armadi di varie misure che diminuiscono la superficie a 2,85 metri a disposizione di ogni carcerato, sotto il limite di 3. Il problema del sovraffollamento del Due Palazzi, d’altra parte, è noto e denunciato da molto tempo, da più parti. Xhoxhi in questi anni ha trascorso inoltre un periodo detentivo a Viterbo dove però la cella era di 8,23 metri quadrati, già detratti gli arredi e al massimo ha avuto un solo compagno, quindi questa detenzione non ha violato i limiti imposti dal Comitato di Prevenzione della Tortura. Nella istanza presentata al giudice il ricorrente si lamenta che nelle celle e nelle parti comuni del Due Palazzi ci sono scarafaggi, zanzare e altri insetti anche per la presenza di immondizie. "Uno Stato autenticamente civile non può reagire - anche a fronte di un reato grave - con un trattamento disumano e degradante che elide la dignità del condannato" sottolinea l’avvocato Federica Borrelli. Xhoxhi infatti era stato condannato a 26 anni e 2 mesi per concorso in omicidio di Berard Kozaria, albanese, maturato nel mondo del mercato del sesso vicentino a Rettorgole di Caldogno (Vicenza) il 12 ottobre 2007. Kozaria fu ucciso perché voleva mettersi in proprio nello sfruttamento della prostituzione. La vittima quel pomeriggio doveva incontrare il luogotenente Busato dei carabinieri di Thiene per riferire le circostanze dell’agguato al quale era sfuggito la sera precedente. Il direttore: "Emergenza finita passati da 900 a 570 persone" "La sentenza si riferisce ad un paio d’anni fa quando nella Casa di Reclusione si arrivò ad ospitare 900 detenuti; ora siamo a quota 570 e nelle celle che in emergenza ne ospitavano tre, ora ci sono due detenuti". Lo assicura Ottavio Casarano direttore della casa di reclusione del Due Palazzi. "La situazione è nettamente migliore e non registriamo particolari rischi in tal senso" aggiunge "Gli ultimi provvedimenti con i quali si sono implementate le misure alternative sono stati decisivi in tal senso. In molti casi la detenzione è l’estrema ratio, si ricorre ai domiciliari, alla messa alla prova, ai lavori di pubblica utilità". Il sovraffollamento del Due Palazzi è una storia vecchia. La struttura penitenziaria si divide tra la casa di reclusione dove, (almeno ad inizio 2013) erano ospitati circa 886 detenuti a fronte di una capienza regolare di 350 e di una capienza tollerabile di 700, e la casa circondariale dove erano presenti altre 245 persone a fronte di una capienza regolamentare di 97 e una tollerabile che arriva a 136 (il dato ha contribuito alla multe della Ue all’Italia per il sovraffollamento). Nella casa di reclusione ci sono i detenuti che devono scontare condanne definitive (gli stranieri sono il 60%), al circondariale trova alloggio chi è in via di giudizio (stranieri oltre il 90%). Chi gestisce i penitenziari ha quindi gioito quando sono stati decisi gli indulti e ampliate le possibilità di misure alternative. La situazione è migliorata nettamente e lo dicono i numeri: nel 2013 si è arrivati al caso limite di dieci detenuti in 21 metri quadrati (con 9 persone che dormivano in letti a castello, il letto per il decimo compariva alla sera e così il pavimento scompariva). "Il carcere sta tornando alla normalità in termini di presenze e questa è una buona notizia, un piccolo passo verso l’umanizzazione" assicura don Marco Pozza il cappellano del Due Palazzi "Le condizioni di emergenza che avevamo registrato fino ad un anno fa sono ora rientrate, dopo la tirata d’orecchie dell’Unione Europea all’Italia. Ora bisogna cercare di aumentare i percorsi lavorativi, scolastici, di reinserimento. È difficile spiegare a chi sta fuori dal carcere come questi sconti di pena sia favorevoli per il reinserimento delle persone. Che, voglio ricordarlo, non perdono la dignità durante la vita trascorsa in carcere e noi tutti abbiamo il dovere di tutelarli. Prima di parlare di rieducazione, devono avere la serenità per farlo e vivere in una cella sovraffollata non aiuta: per lavorare serve serenità. Stiamo uscendo da una situazione di emergenza ma c’è ancora molto da fare per avere un carcere modello. Cosenza: Corbelli (Mov. Diritti Civili) "trasferire detenuto padre di un bimbo disabile" zoomsud.it, 6 giugno 2016 Il leader del movimento Diritti civili Franco Corbelli segnala, in una nota, "il dramma di un bambino disabile calabrese di 3 anni che non parla, non cammina e vede appena, che ha il papà detenuto nel carcere di Terni per espiazione pena che non può, come è suo desiderio, incontrare e avere vicino". Il papà ha scritto una lettera a Corbelli supplicandolo di aiutarlo. "Il detenuto - è scritto nella nota - chiede il trasferimento in Calabria, in un carcere vicino casa, in modo da poter avere, più spesso e nei momenti più critici e dolorosi per il piccolo, la possibilità di incontrare e stare vicino al figlio, per alleviare un pò la sua sofferenza. Questo giovane detenuto ha potuto incontrare il suo bambino in un anno e mezzo solo tre volte, due volte a casa in Calabria, accompagnato dalla scorta penitenziaria, per un permesso di tre ore, e in un’altra occasione in ospedale a Roma, dove il bambino viene periodicamente portato per le visite e le cure. Quest’uomo ha anche un’altra bambina di due anni anche lei malata. Anche sua moglie ha problemi di salute". "Io - scrive questo giovane detenuto a Corbelli - che sono un incensurato e un lavoratore onesto, così come tutta la mia famiglia, non chiedo di essere scarcerato, ma solo di essere trasferito in un carcere calabrese vicino casa e di avere dei permessi costanti, ogni mese, per poter assistere e stare vicino al mio bambino, almeno, nei momenti per lui più delicati e sofferti. Solo questo è quello che chiedo". Corbelli chiede quindi "alle autorità giudiziarie preposte di accogliere l’appello di questo detenuto e di disporre il suo trasferimento in un carcere calabrese. Chiedo, come sempre, solo un atto di giustizia giusta e umana". Monza: detenuto per spaccio viene scarcerato per errore, ma chiede di tornare in cella di Gabriele Cereda La Repubblica, 6 giugno 2016 Non credeva ai suoi occhi quando le porte della cella del carcere di Sanquirico di Monza si sono aperte. Detenuto per spaccio, un marocchino di 36 anni è stato liberato per errore. Ma quando si è accorto lui stesso dell’equivoco, ha chiamato il suo avvocato per farsi riaccompagnare in prigione. "Sei libero", gli ha detto l’agente di polizia penitenziaria che ha fatto scattare la serratura della cella, quando è andato a prelevarlo spiegandogli che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza aveva disposto la scarcerazione. Pacche sulle spalle da parte degli altri detenuti e sbigottito per l’inattesa libertà, l’uomo non ha detto nulla. Arrestato solo qualche giorno prima dai carabinieri del Comando di Monza, durante un’operazione che aveva mandato gambe all’aria una rete di spacciatori nelle campagne di Ornago, il marocchino ha pensato che avrebbe dovuto chiamare subito il suo avvocato per ringraziarlo. Ma durante il tragitto a bordo del furgoncino della polizia penitenziaria, che dal carcere monzese lo stava conducendo verso casa, ha cominciato ad avere qualche dubbio. La direzione presa dall’autista era esattamente opposta a quella che si aspettava: il camioncino avanzava verso l’hinterland nord di Milano, mentre l’uomo da quando è in Italia ha sempre vissuto in Brianza con il cugino. Scaricato alla periferia di Cinisello Balsamo e accompagnato davanti alla porta di una casa che non aveva mai visto, il detenuto ha stretto la mano ai due agenti che sono risaliti a bordo del mezzo e sono ripartiti verso il carcere. Solo, senza cellulare, con pochi spiccioli nel portafoglio, l’uomo si è fatto prestare un cellulare da un passante e ha chiamato il suo avvocato: "Hanno sbagliato a liberarmi, devo tornare in carcere". Il suo difensore, all’oscuro di tutto, è corso subito a prelevarlo. Si era trattato di un banale errore di trascrizione all’ufficio matricole del carcere, dove hanno confuso il nome del marocchino con quello, simile, di un albanese accusato di tentato omicidio. Napoli: manca personale, 50mila sentenze bloccate in corte d’appello a Napoli di Dario Del Porto La Repubblica, 6 giugno 2016 Sos del presidente: manca personale, la cancelleria non riesce ad eseguire i verdetti. Spese da recuperare, beni da restituire, condanne da iscrivere e almeno mille persone da arrestare: tutto fermo. La giustizia bloccata. Più di 50 mila sentenze già passate in giudicato sono ferme negli scaffali della Corte d’Appello di Napoli in attesa di essere eseguite. I processi si sono celebrati regolarmente e sono arrivati a conclusione. Ma per chiudere definitivamente l’iter, mancano gli ultimi adempimenti amministrativi. Ci sono spese di giustizia da recuperare, beni sequestrati che dovrebbero tornare nella disponibilità dei proprietari. Ma anche pene pecuniarie da incassare e imputati, liberi, che dovrebbero entrare in carcere. Verdetti di colpevolezza che devono essere registrati nel casellario giudiziale. Tutto fermo, impantanato negli uffici. L’allarme è stato lanciato dal presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis anche nel corso del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica tenuto in prefettura un mese e, più di recente, nel corso di riunioni ad hoc con i presidenti dei tribunali del distretto. Sin dal giorno del suo insediamento, il magistrato ha rilevato il caso delle sentenze non eseguite e ha disposto un immediato monitoraggio della situazione con l’obiettivo, spiega, "di avviare un circuito virtuoso con gli altri uffici e porre rimedio, ove possibile, a questo buco nero". I numeri più aggiornati parlano di oltre 30 mila sentenze irrevocabili di condanna non eseguite. In almeno un migliaio di casi si tratta di verdetti che si devono chiudere con la reclusione dell’imputato per i quali però non è stato ancora emesso l’estratto esecutivo, indispensabile per far scontare al condannato la pena detentiva. "Ma anche negli altri casi - sottolinea l’alto magistrato - la ricaduta negativa per lo Stato esiste ed è principalmente di tipo economico: ci sono le pene pecuniarie da esigere, le spese di giustizia da recuperare, ad esempio quelle rilevantissime sostenute per le intercettazioni, e beni eventualmente da confiscare. Senza contare l’aspetto legato al casellario giudiziale: persone condannate con sentenza passata in giudicato che però risultano incensurate, con tutto ciò che ne consegue". Oltre ventimila sono invece le sentenze di prescrizione o assoluzione. Anche in questo caso, rimarca il presidente della Corte d’Appello, la ricaduta è soprattutto di carattere economico: quasi sempre ci sono spese o reperti che vanno restituiti, oltre al diritto dell’imputato scagionato da ogni accusa ad ottenere rapidamente la comunicazione della chiusura favorevole del procedimento. Ma come può essersi verificato un simile ingorgo? "Questo accade - spiega il presidente De Carolis - perché le singole cancellerie che dovrebbero provvedere alle esecuzioni non sono in grado di farlo per carenza di mezzi, risorse e personale: gli amministrativi sono costretti a fronteggiare innanzitutto le urgenze, come i processi con detenuti e quelli a rischio decorrenza dei termini, ai quali viene giustamente attribuita una corsia preferenziale. Il resto finisce per essere considerato meno urgente e, inevitabilmente, si accumula l’arretrato". Il paradosso è che la situazione rappresenta una conseguenza del maggiore impegno dei giudici. In sette anni, l’arretrato delle esecuzioni in Corte d’Appello è passato da 15 mila a 50 mila fascioli. "È aumentata la produttività dei magistrati della Corte d’Appello - sottolinea De Carolis - in proporzione con la maggiore produttività dei colleghi del tribunale a seguito della riforma del giudice unico e della riforma del rito abbreviato. Ma nello stesso tempo, le cancellerie si sono trovate con un’enorme mole di lavoro in più e moltissime unità di personale in meno". De Carolis si prepara a redigere una relazione indirizzata al ministero della Giustizia: "Aspetto i dati definitivi, poi scriverò al ministro: la situazione è allarmante, ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Noi ci stiamo organizzando per individuare le priorità: l’emissione degli estratti esecutivi e le schede per il casellario giudiziale, così da mettere gli uffici requirenti nelle condizioni di emettere gli ordini di carcerazione". C’è preoccupazione anche fra gli avvocati. Argomenta il presidente della Camera penale, Attilio Belloni: "Il problema della mancata esecuzione delle sentenze definitive nasce evidentemente dalla carenza di personale amministrativo. Proprio su questo aspetto sono state presentate denunce della Camera Penale di Napoli e delle altre Camere Penali del distretto che non solo hanno proclamato 2 astensioni dalle udienze, ma hanno inoltrato, unitamente all’Unione nazionale, una richiesta di ispezione straordinaria al ministero, per la quale, peraltro, è stata anche avanzata interrogazione parlamentare. Il ministero della Giustizia - conclude Belloni - non ha dato seguito a queste iniziative e la situazione è rimasta inalterata". Reggio C.: l’associazionismo al fianco del Tribunale per salvare i minori dalla ndrangheta ildispaccio.it, 6 giugno 2016 Le ripetute minacce rivolte al Tribunale per i Minori di Reggio Calabria ed alla Procura per i Minori indicano chiaramente che il prezioso lavoro da questi svolto sul piano culturale ed ambientale sta dando fastidio a chi vede messa in pericolo la continuità di un sistema di vita basato sull’illegalità ed i soprusi. Di fronte a questi episodi preoccupanti che rischiano di ripetersi, i Magistrati minorili non possono essere lasciati soli ma è necessaria ed urgente un’assunzione di corresponsabilità da parte delle istituzioni e della comunità tutta. La Camera Minorile Distrettuale di Reggio Calabria che riunisce avvocati specializzati nella difesa dei minori e le più importanti associazioni impegnate nella difesa dei diritti e della legalità, convinti dell’importanza dell’attività posta in essere dalla Magistratura e dagli operatori della Giustizia Minorile reggina a tutela dei minori e del loro futuro, hanno indetto, a sostegno dell’Istituzione, un sit-in di solidarietà e di protesta per quanto accaduto, per martedì 7 giugno 2016 alle ore 11.30 nel cortile dello stesso Tribunale per i Minori di via Marsala 13, invitando tutti gli avvocati, le associazioni ed i cittadini a partecipare. Sarà questa anche una occasione per protestare contro la riforma che intende sopprimere i Tribunali per i Minorenni e smantellare il sistema della giustizia minorile. Hanno raccolto l’invito e saranno presenti con propri delegati: il Centro Comunitario Agape, l’Agesci, Libera, Reggionontace, Arci, Unicef, Consultorio Diocesano, Cereso, Centro Sportivo provinciale, Masci RC 4, Associazione Giovanni XXIII, MoV.I. regionale, Comunità Luigi Monti e associazione il Samaritano di Polistena, Civitas Solis Locride, Coop. Centro Giovanile I. Calabrò Melito P.S, Goel Gruppo Cooperativo, Comunità Arca della Salvezza Roccella, Ufficio Garante Detenuti Comune di Reggio Calabria. Porto Azzurro (Li): skype nel carcere, per parlare coi familiari Il Tirreno, 6 giugno 2016 Inaugurato il nuovo servizio per migliorare la vita dei detenuti, realizzato grazie a Soroptimist. Luigi, detenuto del carcere di Porto Azzurro, ha potuto rivedere la moglie e il figlio dopo un anno e mezzo, nonostante fossero ancora a centinaia di chilometri da lui. Merito di Skype e della postazione Internet allestita nella sala dei colloqui del carcere grazie alla generosità delle iscritte all’associazione femminile Soroptimist dell’isola d’Elba, in collaborazione con l’associazione Dialogo e con la direzione del carcere. Il nuovo servizio realizzato per migliorare la vita all’interno dei detenuti è stato presentato ieri nel carcere di Porto Azzurro. Il direttore del carcere Francesco D’Anselmo ha fatto gli onori di casa. Con lui le guardie della polizia penitenziaria, il garante dei detenuti Nunzio Marotti e una nutrita rappresentanza del Soroptimist dell’isola che ha acquistato e donato al carcere la postazione multimediale con tanto di collegamento Skype. Un modo per offrire ai detenuti del carcere un momento di privacy e di intimità con i familiari che non sono in grado di venirli a trovare fisicamente nella struttura elbana. Il service è stato inaugurato con la prima chiamata di un detenuto che ha potuto parlare (e vedere) il figlio e la moglie, in collegamento dalla Campania. "Siamo sinceramente emozionati - ha spiegato Doriana Castaldi, presidentessa della sezione elbana del Soroptimist - questo servizio è importante per i detenuti. Come è nata l’idea? La presidente nazionale della nostra associazione ha dato alcune guide relative ai nostri progetti, indicando tra queste le attività nel carcere. A marzo abbiamo premiato Licia Baldi dell’associazione Dialogo per la nostra associazione e, parlando con lei, abbiamo pensato di dare una mano. Ci stiamo dando da fare e continueremo a lavorare per il carcere". Nunzio Marotti, Garante dei detenuti, ha spiegato come "il diritto all’affettività sia importante per i detenuti: questo servizio viene incontro alle situazioni difficili, in cui per motivi economici e di altro tipo i familiari sono impossibilitati a venire a trovare i detenuti e a vivere con loro alcuni momenti intimi". Il direttore del carcere D’Anselmo ci tiene a ringraziare il Soroptimist: "Da oggi siamo il 31° carcere italiano ad avere un collegamento Skype per i detenuti, lo dobbiamo a questa associazione: mantenere i rapporti familiari è importantissimo per delle persone che, in carcere, devono fare i conti tutti i giorni con la solitudine". Nuoro: i detenuti di Mamone a confronto con gli studenti di Bernardo Asproni La Nuova Sardegna, 6 giugno 2016 "Il carcere va a scuola" è un Progetto che mira a far conoscere la realtà del carcere e dell’esclusione sociale e a far riflettere sul tema della legalità attraverso scritti e testimonianze. L’esperienza viene fatta, con risultati ritenuti positivi, da 13 anni dagli alunni della Scuola di Mamone e scuole medie e superiori di Nuoro e Provincia. Quest’anno il gemellaggio è stato fatto fra l’Istituto comprensivo di Mamoiada (dirigente Nazario Porcu) e gli alunni della casa di reclusione (Cpia Nuoro-Sassari, dirigente Antonio Alba), "con un programma sperimentale, mirato alla prevenzione della devianza minorile, all’informazione sui temi del disagio carcerario, per capire le difficoltà che possono incontrare le persone in un percorso di reinserimento" ha puntualizzato l’insegnante di lettere della struttura carceraria Maria Lucia Sannio. Gli alunni di Mamoiada hanno preparato poesie sulla libertà, realizzando un bel tabellone che hanno regalato a quelli di Mamone. A seguire una serie di domande ai reclusi: "come si vive in carcere; in quanti in una cella; che lavoro fanno; come trascorrono il tempo; cosa mangiano; quali sono i diversivi". Gli alunni di Mamone hanno scritto lettere e riflessioni per i giovani scolari: uno scrive che non è potuto uscire in permesso e palesa tanta emozione se avesse potuto vedere gli alunni di Mamoiada dell’età dei suoi figli; altri manifestano disagio, sofferenza, mancanza di affetti e di altre cose che chi vive fuori dal carcere non può immaginare o pensare". È emerso un senso di pentimento del reato commesso, ma soprattutto si parla del dovere alla legalità. Il momento più coinvolgente è stato l’incontro che ha appassionato detenuti e ragazzi in uno scambio di esperienze e curiosità difficilmente vivibili se non in un frangente così privilegiato: i detenuti hanno avuto l’opportunità di ripercorrere con serenità alcuni momenti di difficoltà della propria vita, senza vergogna ma con molta attenzione nel sottolineare gli errori che li hanno portati in prigione e il mancato ascolto delle sollecitazioni parentali disattese. Una su tutte: "La legalità è molto importante perché se la si rispetta, non vi succederà niente di tutto questo. Un caro saluto da chi ha sbagliato ma che non sbaglierà mai più". Cagliari: riabilitazione penale, il 9 dibattito su ruolo casellario giudiziale e probation Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2016 "Affinché la macchia non resti indelebile", è il titolo dell’incontro-dibattito sulle norme del Casellario Giudiziale, organizzato dall’associazione "Socialismo Diritti Riforme" e dalla sezione di Cagliari dell’Associazione Nazionale Forense. L’iniziativa è in programma giovedì 9 giugno alle ore 16.30, nella Sala Biblioteca dell’Ordine degli Avvocati, al quarto piano, dell’ala nuova, nel Palazzo di Giustizia di Cagliari. L’appuntamento intende informare sul percorso della riabilitazione penale, cioè della cancellazione dei reati e quindi della loro estinzione dopo aver espiato la pena. L’incontro però affronterà anche il tema del "Probation", la messa alla prova, che secondo la definizione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa descrive l’esecuzione in area penale esterna di sanzioni e misure, pertanto senza iscrizione nel Casellario. Dopo il saluto della Presidente dell’Ordine degli Avvocati Rita Dedola, il dibattito sarà introdotto da Francesco Mulas, dirigente della sezione di Cagliari dell’Associazione Nazionale Forense. Interverranno quindi Alberto Onano, responsabile Ufficio Casellario Giudiziale, Rossana Carta, dirigente Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe), e gli avvocati Mauro Trogu e Marco Perra. Coordinerà l’incontro Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr. Il certificato del Casellario Giudiziale è il documento che consente di conoscere i provvedimenti di condanna penale definitivi e alcuni in materia civile ed amministrativa a carico di una persona. In particolare, l’ufficio, esistente in ogni Procura della Repubblica, rilascia tre generi di certificati. Molti non sanno però che è possibile la riabilitazione penale, cioè la cancellazione dei reati e quindi la loro estinzione solo con un’apposita istanza. Insomma cosa occorre fare perché la "macchia" non resti indelebile? Quando e da chi viene concessa la riabilitazione? L’evento è in fase di accreditamento ai sensi del regolamento sulla formazione continua. Ladispoli (Rm): gli studenti della "Corrado Melone" in visita al carcere di Regina Coeli baraondanews.it, 6 giugno 2016 "Solo sensibilizzando l’opinione pubblica si potrà fare prevenzione e sperare di migliorare le condizioni di vita umilianti dei carcerati". "Drento Regina Coeli c’è ‘no scalino. Chi non salisce quello nun è romano, nun è romano e manco trasteverino". Così cantava Gabriella Ferri e, se il detto è veritiero, ora noi della 2M della "Corrado Melone" siamo tutti romani. Infatti, ormai al termine di questo anno scolastico, alcune classi sono state invitate a partecipare ad una giornata didattica molto particolare ed interessante, ma solo i nostri genitori hanno acconsentito e così, prendendo i mezzi pubblici ed accompagnati dalle nostre professoresse, il preside e una mamma, ci siamo recati a Roma per visitare il carcere di "Regina Coeli". Un’esperienza forte? No! L’ho trovata molto interessante e formativa. È giusto alla nostra età conoscere quella che è stata ed è tutt’ora la nostra società, anche partendo da un luogo come è il carcere, tanto più che Voltaire diceva: "Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione". Così, come "piccoli cittadini curiosi" di apprendere e conoscere, siamo giunti a destinazione a via della Lungara ed abbiamo salito lo scalino entrando nella casa circondariale di Roma, nel cuore dello stabile ove si intravedevano degli enormi cancelli che si snodano in "bracci". Ad accoglierci è stata la vice comandante che ha dato ordini per far effettuare un attento controllo dei documenti e prelevarci tutti i nostri cellulari, poi è giunta la direttrice, la Dott.ssa Anna Angeletti, ed infine siamo stati raggiunti dalla bibliotecaria e la psichiatra. La prima sensazione che ho provato è stata di "soffocamento". Sulle pareti c’erano vari quadri di cui due grandi che rappresentavano la Madonna e Gesù in croce con la sua faccia sofferente e rassegnata, credo come quella dei detenuti in attesa di giudizio o di espiazione pena. Entrati nella sala conferenze, è iniziata la riunione che ci ha visto interagire con i nostri ospiti che hanno risposto a tutte le nostre domande. Abbiamo così iniziato con loro il nostro "cammino virtuale" all’interno del carcere partendo dalla storia di Regina Coeli. La dott.ssa Anna Angeletti ha spiegato che le carceri non sono tutte uguali: il "Regina Coeli" ospita persone appena arrestate o in, a volte lunga, "attesa di giudizio", cioè di coloro che ancora non sono stati giudicati colpevoli. Ne esistono di altri tipi, ad esempio i super-carceri duri o come quello di Civitavecchia, che abbiamo visitato lo scorso anno, per i detenuti a fine pena che si muovono liberamente e stanno per essere liberati dopo anni di detenzione. La direttrice ha definito il Regina Coeli un "Pronto Soccorso" per le persone che vengono arrestate. Ma questo carcere ospita anche quelle che sono ancora in attesa di giudizio, di una condanna o meno. Se ritenuti innocenti, verranno risarciti. Il discorso è iniziato con il significato di pena. Grazie ad un italiano, Cesare Beccaria, ed al suo capolavoro (scritto in francese) "Dei delitti e delle pene", che influenzò immediatamente il mondo intero, il concetto di pena è cambiato radicalmente. Per Beccaria, e per noi oggi, ogni pena non deve essere una violenza contro un cittadino, ma deve essere una reazione pubblica, certa, veloce, proporzionata ai delitti e dettata dalle leggi che ha come scopo la difesa della sicurezza di tutti i cittadini. Ciò che previene i reati non è la crudeltà della pena, ma la sua certezza e la sua coerente applicazione. Per Beccaria lo Stato non può compiere un delitto per punirne un altro, ecco perché è assurda la pena di morte. Ci ha fatto molto riflettere la citazione della errata percezione della religione, della confessione e della redenzione che, tra gli strati più bassi della popolazione, faceva sì che i più miseri non temevano la pena di morte, se avevano la possibilità di risultare utili alla loro famiglia grazie al reato. È esattamente quello che accade oggi alle menti bacate di chi si fa esplodere per uccidere innocenti: "presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia". Grazie a queste riflessioni, per la prima volta, proprio in Italia (nel Granducato di Toscana), fu abolita la pena di morte. Per quanto riguarda la tortura, basti riportare la frase "Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti". Per Beccaria, la pena deve essere proporzionata ed avere funzione rieducativa, in altre parole deve fungere da deterrente, garantire la sicurezza sociale: "il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali". Ecco quindi che non ha senso gettare in una nera cella un condannato, ma deve essere mostrata la sua perdita della libertà di vivere nella società ed essere rieducato affinché non commetta più i reati che abbia commesso. La struttura del carcere risale al 1654, prima era un antico convento dedicato alla Regina del Cielo. Confiscato dal Regno d’Italia, nel 1881 fu ristrutturato per l’uso carcerario con la pianta dell’edificio a forma di stella in modo che dal centro bastasse una sola persona per controllare tutti i detenuti. In quel periodo fu anche aggiunto un edificio per avere un carcere femminile, noto a Roma come "Mantellate". Inizialmente era prevista la segregazione cellulare, cioè per 10 anni il condannato veniva segregato impedendogli di parlare con chiunque eccetto il cappellano e il direttore. Questo portava tutti ad impazzire, senza avere alcun risultato positivo per la società, che non guadagna nulla dalla vendetta, ma solo dalla rieducazione. Oggi non è più così. La nostra attenzione è stata attirata dalla proiezione di un video su "Regina Coeli", sulla vita del carcere in passato. La dimensione ristretta delle celle, l’assenza dei servizi igienici, lo scarso spazio per l’ora d’aria e l’alta densità dei detenuti ci ha fatto partecipi di una realtà crudele ed inadeguata per un essere umano. Per quanto possa avere sbagliato il reo deve essere sempre considerato una persona. Oggi la capienza massima prevista è di 750 detenuti, ma spesso questo numero viene superato e per tale motivo l’Italia è stata sanzionata dalla Comunità Europea. Per risolvere questo problema, per gran parte della giornata i detenuti non rimangono in cella, ma possono muoversi sui corridoi aumentando lo spazio disponibile per ciascuno e riportandolo alla norma europea. A partire da papa Giovanni XXIII, tutti i papi hanno visitato il carcere. I deputati possono vistarlo senza alcun preavviso per verificare la situazione dei detenuti. Il carcere è molto vicino al Gianicolo, tanto che la balconata del faro è a solo qualche decina di metri dalle celle. Per questo motivo, anche se vietato, ancora oggi i familiari dei detenuti vi si riuniscono per comunicare con loro gridando. Il 24 marzo 1944, 285 persone di questo carcere vennero prese dai tedeschi, violando e sopprimendo i diritti umani, tutti prelevati dalla III Sezione. Quei detenuti finirono nelle Fosse Ardeatine dove furono massacrati per rappresaglia dieci italiani per ogni tedesco ucciso nell’attentato di via Rasella. In seguito il carcere è stato ristrutturato, ma non la terza sezione e questo perché non si dimentichi un percorso della storia così tragico da non ripetere mai più. La parola è poi passata a Paola, psichiatra della ASL, che segue i detenuti fin dal loro arrivo in carcere. Li segue per capire innanzi tutto per quale motivo hanno commesso il crimine e per seguirli nella loro salute mentale. Ha raccontato che in molti, al loro arrivo, hanno crisi di pianto e rifiutano di mangiare. È un aiuto offerto al detenuto per cercare di non fargli avere uno scoraggiamento generale, un crollo psicologico che li può portare a commettere azioni violente contro la propria persona, come il suicidio. Anche se diminuiti, ancora oggi accade che qualcuno non ce la faccia e si suicidi. La direttrice ci ha confessato che, oltre al dolore per la morte di una persona, si tratta di una sconfitta per tutti loro perché non hanno saputo comprendere la grave situazione del detenuto. A colpirmi particolarmente è stato il discorso che hanno affrontato sulle droghe e sull’alcol. Non credevo possibile che fosse così facile caderne vittima. La psichiatra ci ha spiegato che il semplice provare e riceverne piacere è il primo passo per rovinare la nostra vita e avvicinarci ad un mondo fatto di crimini e carcere in cui più del 50% dei detenuti sono tossicodipendenti che hanno commesso reati per procurarsi il denaro per acquistarla. È proprio alla nostra età che è più facile cadere vittime di tentazioni. Bisogna quindi essere forti, razionali e maturi per non farsi coinvolgere dai pessimi comportamenti del gruppo cui si vuole far parte a tutti i costi. Dobbiamo distinguerci per le nostre menti e non omologarci per seguire un "presunto" amico. Un altro dato statistico che ci ha colpiti è che quasi nessun detenuto ha un titolo di studio superiore alla terza media e molti nemmeno la hanno! Sembrerebbe che studiare tenga lontani dalla prigione. Ma il motivo c’è. Sempre parlando di statistiche, in questo luogo gli stranieri sono circa il 70%, spesso persone che non parlano la nostra lingua. Quindi il motivo risiede, come diceva Beccaria, nel fatto che chi non ha nulla, né istruzione, né lavoro, né famiglia, né conoscenza, né rispetto, commette più facilmente reati perché non ha nulla da perdere! Spendere di più per la scuola e per l’accoglienza, ci farebbe svuotare le prigioni del 90% e ridurre a zero i reati ed i pericoli per i cittadini innocenti, portando l’Italia ai livelli del nord Europa. Infatti, il reato non viene commesso per "cattiveria", ma per bisogno o per ignoranza. La direttrice ci ha poi letto un brano scritto da un detenuto che raccontava cosa avesse visto e vissuto nel fuggire dal suo paese e terminava affermando di essere felice di poterlo ora raccontare, perché era vivo, anche se dentro "Regina Coeli". Alle nostre domande, ci hanno spiegato che i detenuti convivono nella stessa cella con persone di diversa provenienza geografica, differenti stati di salute e penali (dall’assassino al delinquente comune), ma spesso questa condizione stranamente favorisce l’integrazione perché ci si riconosce come persone che in comune hanno qualcosa: la povertà. È venuto poi il momento di dare la parola ad un ufficiale delle guardie carcerarie, il corpo che garantisce l’ordine pubblico e la tutela della sicurezza all’interno del carcere, che partecipa alle attività di osservazione dei detenuti, che accompagna i detenuti da istituto a istituto o presso le aule giudiziarie per lo svolgimento dei processi o presso luoghi di cura in caso di ricovero. Egli ci ha spiegato che in Italia i detenuti non hanno una divisa particolare, ma sono vestiti normalmente. Se questi hanno una famiglia che li aiuta, possono cambiarsi i vestiti, ma se (come accade per gli stranieri) sono stati arrestati per la strada e nessuno può aiutarli, restano con la sola maglietta che avevano al momento dell’arresto per sempre o fino a che qualche volontario o qualche guardia non dona loro qualche vestito per cambiarsi. I detenuti vengono contati e ricontati parecchie volte in un giorno; le loro giornate, scandite da orari precisi, passano tra passeggiate e attività come teatro o pittura o la frequenza della scuola. Ci ha poi raccontato di quando sventò un tentativo di evasione, quando un uomo tentò di calarsi dal muro, ma che precipitò e si ruppe una gamba. Ci ha anche raccontato di quella volta quando evasero due detenuti limando le sbarre e si sono calati giù con una fune fatta di coperte e di una ruota di un carrello; saltando da acrobati per la strada e raggiungendo una auto in attesa. Una volta usciti le telecamere li hanno ripresi mentre salivano su quella macchina, che fecero partire senza fretta, fermandosi anche al semaforo. Dopo tre mesi sono stati ricatturati. Al termine della conferenza, che ci ha visto partecipi con domande e curiosità, la nostra visita in questa particolare realtà si è conclusa. L’esperienza ci ha mostrato un altro aspetto della realtà della vita e quanti ostacoli possono esserci all’improvviso, quanto sia importante essere liberi, perché la libertà non ha prezzo. Ma anche quanto conti l’ambiente in cui si ha la fortuna o la sfortuna di vivere... L’esperienza di oggi sicuramente mi ha fatto capire come sia importante credere in quei valori che ultimamente stiamo perdendo di vista perché attirati da beni materiali. Noi dobbiamo "essere" e non "avere". Questa conferenza è stata molto interessante e mi ha insegnato molte cose che non conoscevo, per esempio io immaginavo un carcere più grigio, cupo, invece oggi ho scoperto che è come una grande struttura con molte regole e tanti divieti; i detenuti possono fare attività e laboratori. Mi ha dato tanto da riflettere il fatto che ci siano tante persone in attesa di giudizio e che quindi potrebbero stare lì persino due o tre anni, anche senza una colpa. Questo mi dispiace molto, mi lascia preoccupato; prima non ci avevo pensato e vedevo il carcere come il luogo dove si scontava una pena certa. Spero di poter ripetere esperienze simili così istruttive e costruttive. Mi chiedo come possa sentirsi una persona che si trova a vivere un periodo in carcere, (magari essendo pure innocente) sopportando situazioni di convivenza forzata con persone con le quali non hai nulla in comune e senza la possibilità di prendere aria se non per qualche ora al giorno. Credo sia una situazione disumana. Quando sono uscita, fuori c’era il sole ed era piacevole scaldarsi e pensare quanto la libertà vada difesa, coccolata, amata come una compagna imprevedibile e coraggiosa. Se l’opinione pubblica non manifesta sensibilità e interesse a questi problemi sociali, forse è perché è incapace o vuole nascondersi facendo finta che il problema non gli appartenga. Facendo tesoro di quanto ascoltato e visto nel corso di questa visita che mi ha consentito di venire a conoscenza di un mondo che immaginavo soltanto, mi sono convinta di quanto sia importante informare chi ha la fortuna di non vivere queste problematiche. Ma anche di quanto conti l’ambiente in cui si nasca e si cresca… nel percorso e nella vita di una persona. Solo sensibilizzando l’opinione pubblica, forse col tempo, si potrà fare prevenzione e sperare di migliorare le condizioni di vita umilianti per chi le vive. Un grande ringraziamento voglio fare ai nostri professori e al preside, alla direttrice del carcere, Dott.ssa Anna Angeletti, alla dott.ssa Paola, per averci concesso oggi di vivere questa straordinaria esperienza che rimarrà indelebile dentro di me. Giulia Battista, Ismaele Spinelli, Simone Cama e Alessia Marini 2M Civitavecchia (Rm): scuola media "Calamatta" incontra direttrice della Casa reclusione Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2016 "La mafia teme la scuola più della giustizia. L’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa". "A. Caponnetto". Venerdì 03 giugno 2016, nell’ambito del progetto sulla legalità ed in occasione della ricorrenza della morte dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i ragazzi delle classi seconde e terze della scuola media Calamatta di Civitavecchia, con le docenti responsabili dell’iniziativa Maria Luca e Francesca Firicano, hanno incontrato la Dottoressa Patrizia Bravetti direttore della Casa di Reclusione "Giuseppe Passerini". L’iniziativa, organizzata dalla scuola, intende promuovere un modello di "sicurezza sociale" basato sulla prevenzione e la lotta alla devianza. L’evento è stato di grande impatto emotivo per i ragazzi, non certo abituati a soffermarsi a riflettere sulle dinamiche che portano alla commissione di gravi fatti, né sulle conseguenze che essi determinano. Il dibattito che è seguito ha testimoniato l’attenzione e l’interesse che questo tema ha suscitato nei ragazzi e costituito premessa per una ulteriore attività di approfondimento e di riflessione. Austria: "l’Ue faccia come l’Australia… blocchi i migranti sulle isole" di Carlo Lania Il Manifesto, 6 giugno 2016 Il ministro degli Esteri: "Niente asilo politico a chi entra illegalmente in Europa". Se qualcuno pensava che l’elezione del verde Alexander Van der Bellen a presidente della Repubblica mettesse finalmente un freno alle tendenze xenofobe dell’Austria, può abbandonare le speranze. Dopo aver concluso i lavori per la costruzione della barriera al Brennero, dove ha anche inviato 80 poliziotti per rafforzare i controlli, Vienna rilancia adesso chiedendo all’Unione europea di non concedere asilo politico a chi entra illegalmente in Europa dal mare e propone di confinare i migranti su delle isole. Misure che secondo il ministro degli Esteri austriaco, il popolare Sebastian Kurz, dovrebbero servire a scoraggiare le partenze, ma che sicuramente contribuiranno ad alzare ulteriormente la tensione su un tema estremamente delicato. "Non è un caso che gli Stati uniti abbiano portato i migranti a Ellis Island, un’isola, prima di decidere chi poteva raggiungere la terraferma", ha detto Kurz al quotidiano Die Presse. "Chi deve attendere su un’isola come Lesbo, senza possibilità di ottenere asilo, si convincerà più facilmente a tornare indietro di chi abita in un appartamento a Vienna oppure a Berlino". Per Kurz "essere salvato in mare non deve essere un biglietto per l’Europa centrale", e quindi chi lo fa dovrebbe perdere il dritto a chiedere asilo. Ellis Island - l’isola di fronte New York dove transitarono 12 milioni di migranti - non è però l’unico modello che il ministro austriaco confessa di avere in mente. Un altro, decisamente peggiore, è quello adottato dall’Australia che dal 2013 confina quanti tentano di arrivare sul suo territorio su due isole del Pacifico, Manos in Papua Nuova Guinea e il piccolo stato-isola di Nauro. "Tra il 2012 e il 2013 40 mila profughi sono arrivati in Australia via mare e oltre 1.000 sono annegati. Ora non arriva più nessuno e non ci sono più annegamenti", ha ricordato Kurz. Il ministro austriaco non avrebbe potuto evocare esempio peggiore. L’"operazione confini sovrani", come è stato pomposamente battezzato il piano che Camberra ha affidato ai militari, prevede la deportazione dei profughi in campi all’interno dei quali sono stati denunciati numerosi casi di stupro e di aggressioni sessuali. Lo scorso mese di febbraio Amnesty International ha accusato il governo australiano di violare il diritto internazionale per la sua politica di respingimenti forzati e inserito l’Australia tra i 30 paesi che "hanno illegalmente forzato i profughi a tornare in paesi in cui sarebbero in grave pericolo". La linea dura di Camberra è arrivata al punto di siglare un accordo con la Cambogia per reinsediare i profughi - la maggior parte dei quali provenienti dall’Indonesia - nel paese asiatico. Accordo che però è fallito nonostante i 55 milioni di dollari (37 milioni di euro) in aiuti pagati a Phonm Penh. Intanto domani la Commissione europea dovrebbe varare il piano messo a punto dal vicepresidente Frans Timmermans e dalla responsabile esteri dell’Ue Federica Mogherini che prevede un incremento di 500 milioni di euro al Trust Fund per l’Africa da 1,8 miliardi di euro creato nel vertice della Valletta del novembre 2015. Il piano prevede investimenti nei paesi africani che sono punto di partenza e di transito dei migranti. "Sono poveri e immigrati". Lo Stato vuol togliergli il figlio di Giulia Merlo Il Dubbio, 6 giugno 2016 Sono fuggiti su un barcone dalla guerra civile e dalla povertà in Nigeria, ma - anche se la normativa europea lo impedirebbe - in Italia quella stessa povertà minaccia oggi di fargli perdere la custodia del loro bimbo appena nato. Oluwa e Latifah (nomi di fantasia) hanno ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari e sono da due mesi genitori del piccolo Asabe, nato in un ospedale vicino Cagliari. Eppure, davanti al Tribunale dei Minorenni pende una procedura di adottabilità per il bambino. Con i permessi, infatti, i coniugi non hanno più avuto diritto all’ospitalità nelle strutture di accoglienza e dunque sono stati ritenuti inidonei a provvedere ai bisogni di un neonato. I loro guai sono iniziati subito dopo che Latifah ha partorito e ha chiesto le dimissioni dall’ospedale, contro il parere dei medici. "Sono stata chiamata dalla psicologa dei servizi sociali e la situazione era molto tesa", ha raccontato l’avvocato difensore della famiglia, Stefana Bandinelli, "Latifah non parlava italiano, era spaventata e si rifiutava di venire portata con il piccolo in una casa protetta, perché ciò significava consegnare il suo cellulare". Le regole della comunità, infatti, prevedono di non poter avere autonomamente contatti con l’esterno, ma quel cellulare, per Latifah, era l’unico legame col marito, che era invece costretto a vivere in strada. La procedura di adottabilità a cui è sottoposto Asabe impone obblighi pesanti sulla famiglia: la mamma e il bambino devono rimanere in comunità e i contatti con Oluwa possono avvenire solo con la supervisione dei servizi sociali, per un’ora tre volte a settimana. "Secondo le norme europee, l’indigenza non può essere considerata una condizione di adottabilità per un minore, eppure nei fatti si rivela vero il contrario. È evidente che un bimbo di soli 40 giorni non può vivere per strada, dove invece sarebbero sicuramente finiti i suoi genitori ora che hanno il permesso di soggiorno. La legge non prevede alcun sostegno dopo l’emergenza, dunque nei fatti la povertà di questi ragazzi minaccia di diventare la causa della loro separazione dal figlio", ha spiegato l’avvocato Bandinelli. Il paradosso è che proprio la procedura di adottabilità permette alla donna di rimanere nella casa famiglia e di ricevere un minimo di supporto nei primi mesi di vita di Asabe. Dove la legge lascia un vuoto, però, hanno sopperito il volontariato e, dove potevano, Comune e servizi sociali, che si stanno occupando di trovare una casa alla famigliola, attraverso un progetto di inserimento sociale. Intanto, lui frequenta un corso di lingua, ha trovato ospitalità presso dei connazionali e lavora, facendo l’ambulante ai semafori. Lei continua a vivere in comunità, ma il Tribunale dovrebbe disporre a breve un provvedimento che trasformi il procedimento di adottabilità in volontaria giurisdizione, che consentirebbe vincoli meno stringenti sui due genitori. Accorinti (Sindaco Messina) "ci indigniamo per Regeni, ma non per le stragi in mare" di Francesco Straface Il Dubbio, 6 giugno 2016 La procedura d’infrazione Ue avviata sul tema dei migranti impone all’Italia di individuare nuove sedi per gli "hot spot". Messina sarebbe in pole rispetto ad Augusta ma il sindaco Renato Accorinti si oppone fortemente a quest’ipotesi: "Nei vari colloqui telefonici con il Ministero questo tema non è mai emerso. Sono contrario al progetto, che porterebbe ad ammassare per giorni le persone in una sorta di lager e a dividerle in categorie, tra profughi e migranti economici. Per me è contro i diritti umani". L’equivoco sarebbe nato da un’apertura paventata dall’ex vice-sindaco della città dello Stretto. Accorinti ribatte: "Non mi risulta e l’ultima parola spetta comunque a me, che resto contrario anche alla tendopoli del PalaNebiolo. Doveva essere una soluzione temporanea e non è stata più soppressa, ormai da un anno e mezzo". Secondo l’amministratore pacifista, in molti non si rendono conto delle atrocità sopportate da chi si mette in viaggio: "Sono disperati, che si buttano da un grattacielo in fiamme, pur di garantirsi una piccola possibilità di salvezza. Una donna incinta che non sa nuotare e sta per giorni e giorni in mare non ha più nulla da perdere. Queste drammatiche traversate spesso sono caratterizzate anche da stupri e violenze". Accorinti condivide l’analisi del vescovo di Noto, Antonio Staglianò, ospitata su queste pagine: "Il problema va studiato all’origine. Le politiche economiche dell’Occidente sono miopi. In Africa vendiamo armi e sfruttiamo il territorio e le risorse, mentre loro restano poverissimi e sono costretti a patire un dolore ingiusto. Dobbiamo chiederci perché arrivano: scappano perché non possono farne a meno, andrebbero invece resi autosufficienti". Il primo cittadino insiste sul tema dell’egoismo: "Regan disse che il tenore di vita degli americani non era negoziabile. Un motto che ha fatto proprio tutto l’Occidente. È un modello di sviluppo inconsistente, che ci ha reso poveri anche spiritualmente ed eticamente. La Palestina e il Tibet non interessano a nessuno". Sembrano esserci morti di serie A e di serie B: "Anche io invoco la verità per Regeni, che sarebbe stato torturato in Egitto, ma la scomparsa di un italiano non può valere di più delle 1000 morti nel Mediterraneo dell’ultima settimana. Ce ne dimentichiamo in fretta e parliamo d’altro". Accorinti non è rinfrancato neppure dagli arresti delle ultime ore: "Lo scafista per me equivale al killer nella Mafia, che non viene certo sconfitta grazie a un paio di arresti. Si continua a guardare la pagliuzza e non la trave. Dobbiamo cambiare mentalità, ma nessuno rinuncia ai suoi benefit". Accorinti condivide le posizioni della Chiesa: "Siamo tutti migranti, i siciliani più degli altri. Qualche messinese non condivide le mie posizioni? Non ho effettuato dei sondaggi. Di certo mi sento in buona compagnia. Papa Francesco, Don Ciotti, Alex Zanotelli e Gino Strada hanno rivendicato il diritto sacro alla vita". Il segretario della Cei, Nunzio Galantino, ha invocato però un coinvolgimento di tutti i 28 paesi membri dell’Ue in un problema che resta troppo siciliano: "Io, se possibile, supero le sue parole. Per me è un problema mondiale e deve scendere in campo l’Onu. Vanno accolti in modo diffuso, anche Totò Riina se vedesse un bambino in lacrime si intenerirebbe e se lo porterebbe a casa. Uguaglianza e giustizia emergono se condividi la questione con tutti, non se freghi il prossimo". Il sindaco reso celebre dal motto "free Tibet" non vede contraddizioni neppure nelle recenti dichiarazioni del Dalai Lama, che ha fatto scalpore evidenziando che "i migranti sono troppi e che l’Europa non può diventare araba". "La sua visione del mondo non prevede muri né confini. È evidente che ci deve essere un limite agli ingressi ma non dimentichiamo che spesso abbiamo bisogno di questi popoli, per svolgere determinati lavori che agli italiani non piacciono". Il primo cittadino conclude con una provocazione: "Sono pronto ad accogliere ancora più migranti, ma solo se non verranno scaricati sulla banchina del Porto come sacchi di patate. Abbiamo già tanti minori non accompagnati, donne, anziani, malati. Se non mi mettono nelle condizioni di ospitarli adeguatamente, li porterò a dormire al Comune". Il primo aiuto agli "homeless" parte dal tetto di Elio Silva Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2016 Le vicende degli "invisibili", le persone senza risorse e senza tetto che popolano come fantasmi le nostre città, in particolare nelle aree metropolitane, patiscono anche sul piano della comunicazione gli effetti di un bipolarismo anomalo. A rompere l’ordinario disinteresse verso questa umanità sofferente e senza voce, infatti, concorrono randomicamente picchi di attenzione legati a episodi specifici, talvolta di cronaca nera, più spesso coincidenti con una stagionalità avversa (è un classico l’approfondimento giornalistico sugli homeless quando arriva un’ondata di gelo). Gli stessi interventi delle politiche sociali pubbliche e delle associazioni non profit (che pure sono attivissime e possono mettere in campo esperienze invidiabili ovunque, grazie soprattutto alla forte spinta caritatevole impressa dalla matrice cattolica) si collocano solitamente sul piano dell’emergenza e si rivolgono principalmente al soddisfacimento dei bisogni primari (vestiti, pasti caldi, ricoveri notturni in dormitori). Tutti aiuti lodevoli e imprescindibili, ovviamente, ma che da soli non affrontano alla radice il problema. Per questo merita di essere segnalata una campagna dal titolo "HomelessZero" che, sull’esempio di alcuni progetti sperimentati con successo negli Usa e in Gran Bretagna, si propone di rovesciare l’approccio, mettendo al primo posto il tema dell’alloggio ("Housing First") e l’inclusione sociale, nel presupposto che questa modalità di intervento contro la povertà, purché perseguita in modo coerente ed efficace, possa produrre un impatto sociale migliore, con costi economici inferiori. Non è la quadratura del cerchio, impossibile per questa come per altre grandi emergenze del nostro tempo. È però il segnale che, per la prima volta, quanto meno nel mondo occidentale, il fenomeno dei senza tetto viene affrontato in un contesto esplicito di lotta alla povertà estrema. Non a caso, giovedì 9 e venerdì 10 si svolgerà a Bruxelles una conferenza europea degli enti di assistenza, dedicata a "Leveraging the European consensus to win the fight against homelessness", imperniata proprio sul principio dell’Housing First, con sessioni specifiche sulle diverse modalità di reperimento delle case e sulla formazione dei volontari. Il motore italiano di questa mobilitazione è la fio.psd, sigla difficile come la materia di cui si occupa: sta per Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, associazione con 110 realtà iscritte, tra cui molte Caritas, cooperative sociali, enti religiosi e organizzazioni laiche. La particolarità della fio.psd è che, fin dalle origini, ha aggregato anche alcuni Comuni (ora aree metropolitane), tra cui Torino, Milano, Genova, Bologna, Palermo e Napoli. "Questo ci aiuta a concertare gli interventi - spiega la presidente nazionale, Cristina Avonto - e rende l’approccio più concreto". Infatti, tra il 2007 e il 2014 l’associazione ha coordinato, in collaborazione con ministero del Lavoro, Istat e Caritas, la prima e la seconda indagine nazionale sui senza dimora, i cui risultati sono stati presentati nel dicembre scorso al Cnel. Sempre alla fine del 2015 sono state emanate delle "linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta" che, per la prima volta, offrono agli operatori indicazioni omogenee su come effettuare gli interventi di assistenza. Anche questo documento è stato prodotto in collaborazione con ministero del Lavoro e Conferenza Stato-Regioni, mentre il Governo ha contestualmente varato un piano nazionale per la lotta alla povertà assoluta, finanziato in gran parte con fondi europei. Tutti segnali di un cambiamento in atto nelle politiche sociali, chiamate a riconsiderare modalità e obiettivi dell’assistenza. "La condizione di homeless non è facile da superare-ricordala Avonto- es e non si offrono alternative tende a cronicizzarsi, fino a diventare permanente". Ma quali sono, concretamente, le possibilità di reperire alloggi? "In parte l’Housing First utilizza patrimoni immobiliari pubblici non utilizzati - spiega la presidente, ma un ruolo decisivo è svolto da privati, che mettono a disposizione mini-appartamenti a canone calmierato, ma con la garanzia del network sia sul pagamento degli affitti, sia sui servizi di accompagnamento che vengono assicurati". Le esperienze attivate in Italia saranno, da qui in poi, valutate da sette istituti universitari, omogeneamente distribuiti a livello territoriale, per misurare l’impatto sociale delle politiche adottate e gli effetti sulla spesa pubblica rispetto alle ordinarie erogazioni assistenziali. Bracconaggio, crimine da bestie di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 giugno 2016 Trofei, animali e piante da esposizione e domestici, pelli, cosmetici, profumi, gioielli, decorazioni, mobili pregiati, cibo esotico, medicinali e chissà cos’altro. Ci sono beni di consumo, e non solo di lusso, che straziano la natura, depredano, uccidono, distruggono flora e fauna selvatiche, annientano specie protette e in via di estinzione, stremano territori e impoveriscono popolazioni. Alimentano il crimine organizzato e il bracconaggio, una piaga questa che "insieme a tutte le forme di appropriazione illegale di risorse naturali della terra, con un fatturato annuale di 213 miliardi di dollari, rappresenta il quarto mercato criminale del Pianeta". Dopo quello della droga, delle armi e il traffico di esseri umani. Fermare i "Crimini di Natura" è l’obiettivo della campagna lanciata dal Wwf (criminidinatura.wwf.it), in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente che si celebra oggi. Un obiettivo necessario per favorire lo sviluppo sostenibile, anche al fine di scongiurare i grandi esodi di massa da quei Paesi ricchi di biodiversità ma depauperati e fragili. "Solo in Africa - denuncia il Wwf - ogni anno vengono massacrati almeno 30.000 elefanti e Paesi come la Tanzania e il Mozambico hanno perso in soli 5 anni tra il 50 e il 60% della loro popolazione di questi straordinari pachidermi. Ogni anno viene ucciso il 10% dei gorilla di pianura. In Zimbabwe è scomparso in pochi anni il 60% della popolazione di rinoceronti e in 10 anni è scomparso quasi il 70% degli elefanti di foresta del bacino del Congo. Anche gli squali sono in drammatico declino (alcune specie in pochi anni hanno subito una riduzione del 98%) mentre in alcune regioni abbiamo perso il 90% delle popolazioni di pangolini. Si è ridotto del 40% il territorio in cui prima viveva la vigogna, un meraviglioso animale sud americano. La tigre dell’Amur è stata ridotta dal bracconaggio a non più di 540 esemplari, in via di estinzione mentre i leoni in Africa occidentale hanno a disposizione solo l’1% del precedente territorio di diffusione". Ma un’analisi dettagliata del traffico delle specie protette e dei prodotti da esse ottenute è contenuta nelle oltre cento pagine del rapporto "World Wildlife Crime Report" pubblicato dall’Ufficio Drugs and Crime delle Nazioni Unite (Unodc), perché l’emergenza bracconaggio è diventata una priorità mondiale, un crimine contro 7000 specie diverse in 164 paesi, tanto da essere entrata nell’Agenda 2030 dello sviluppo sostenibile dell’Onu. E tanto da indurre la seconda assemblea sull’Ambiente dell’Onu (Unea2) che si è tenuta a Nairobi dal 23 al 27 maggio scorsi, a lanciare la campagna "Wild for Life" contro il traffico di specie a rischio d’estinzione. Ma il commercio illegale di natura è attività comune anche in casa nostra e, avverte l’Unodc, "siamo tutti potenzialmente complici del bracconaggio e tutti abbiamo la responsabilità di agire, anche attraverso la diffusione della consapevolezza, dell’informazione e delle pratiche di un consumo responsabile". Qui non si parla della caccia regolamentata, ma della cattura, dell’uccisione o del traffico di specie selvatiche preservate. In Italia, dove - riferisce il Wwf - manca un piano nazionale per fronteggiare questi fenomeni, ogni anno vengono uccisi non solo milioni di uccelli protetti ma anche centinaia di lupi (ogni anno circa 300 muoiono a causa dell’uomo, anche all’interno dei Parchi, uno su due per mano dei bracconieri). Non solo tigri e oranghi, dunque. Non solo lontano dai nostri occhi. Fermare questi crimini è "una responsabilità anche europea", sostiene l’associazione ambientalista che annuncia l’interlocuzione diretta, proprio in questi giorni, con i ministeri dell’Ambiente dei Paesi dell’Ue, tra cui l’Italia, in vista dell’approvazione, il 20 giugno prossimo a Bruxelles, del Piano d’azione europeo ad hoc, in coerenza con gli obiettivi della Convenzione internazionale Cites, firmata a Washington nel lontano 1973 e a cui oggi aderiscono 182 Stati dell’Onu. Carceri ucraine teatro di torture Giornale d’Italia, 6 giugno 2016 Simonovich (Onu): "C’è disprezzo radicato e sistematico per i diritti umani. La questione deve essere affrontata con urgenza". È grave l’accusa contenuta nel rapporto delle Nazioni Unite, che in un dettagliato documento di oltre 50 pagine sulla situazione in Ucraina hanno accusato gli agenti dello spionaggio (Sbu) di utilizzare abitualmente sistemi di tortura nei confronti dei detenuti filorussi, sia combattenti sia semplici simpatizzanti. Le critiche dell’Onu - riferisce askanews - riguardano anche il campo separatista, ma buona parte dell’aggiornamento di queste ore su quanto sta accadendo nel Paese punta il dito contro le autorità di Kiev e le organizzazioni che ad esse fanno riferimento. Secondo il vicesegretario delle Nazioni unite per i diritti umani Simonovich, in alcune aree il disprezzo che Kiev mostra in quest’ambito è "radicato e sistematico e deve essere affrontato con urgenza". Il rapporto descrive, documentandoli, centinaia di casi di detenzioni illegali, torture e maltrattamenti. Inoltre "si richiama l’attenzione su abusi perpetrati ai danni di prigionieri e omicidi commessi da gruppi di ribelli filo-russi, ma ad essere messa in luce è soprattutto la brutalità del governo dell’Ucraina" scrive il Times riferendo la notizia della pubblicazione della nota. Che, ricorda la stampa, arriva pochi giorni dopo l’interruzione di una visita in loco di una delegazione Onu inviata nel Paese proprio per monitorare la situazione relativa a maltrattamenti e torture in particolare nel Donbass, alla quale il governo aveva negato l’accesso alle carceri. Dal canto loro i servizi di sicurezza dell’Ucraina hanno comunque respinto le accuse e sostengono di agire "nel rispetto delle norme della legislazione ucraina e di tutte le convenzioni e gli accordi internazionali sui diritti umani", ha dichiarato a Ria Novosti il portavoce Elena Gitlyanskaya. Da ricordare poi, in questo contesto, che il problema della tortura nelle carceri ucraine è già da tempo al centro dell’attenzione di numerose organizzazioni che si occupano di diritti umani. Rilevante, a conferma di questo, le dichiarazioni che già nel 2013 il coordinatore di Amnesty International in Ucraina ha fatto sull’argomento: "Ciò che sorprende - ha detto Max Tucker, come riferito da epochtimes.it - è il continuo fallimento dei successivi governi, parlamenti e delle forze dell’ordine nel risolvere il problema o anche semplicemente nel combatterlo". Tenuto conto di tali considerazioni - riferisce sputniknews - l’eurodeputato della Repubblica Ceca Jiri Mashtalka ha dichiarato di ritenere una "soluzione equa" l’imposizione di sanzioni contro l’Ucraina per il mancato rispetto degli accordi di Minsk, in particolare per quanto attiene appunto a possibili casi di detenzione illegale e tortura, per indagare sui quali dovrebbe essere costituito un gruppo di monitoraggio speciale. "Se nel mondo ci fosse onestà il tribunale internazionale agirebbe" ma "nel clima di odio verso la Russia creato dall’Ue è molto improbabile che possa accadere. La comunità internazionale sta usando due pesi e due misure" ha detto Mashtalka. Colombia: la polizia spara sui manifestanti, 3 morti di Geraldina Colotti Il Manifesto, 6 giugno 2016 Continua lo sciopero indetto da contadini e indigeni. Ha finora provocato tre morti, oltre 135 feriti e numerose detenzioni arbitrarie lo sciopero nazionale indetto dalla Cumbre Agraria de Colombia. Contadini, indigeni e lavoratori chiedono al governo di Manuel Santos il rispetto degli accordi sottoscritti durante le mobilitazioni del 2014 e "un negoziato con il popolo sui cambiamenti strutturali necessari alla garanzia degli accordi di pace in discussione all’Avana". I manifestanti respingono i Trattati di libero commercio e il modello di "sviluppo" deciso dal governo, basato sulla privatizzazione e la rapina delle risorse. Denunciano che, in zone come quella di Cano Limon, dopo trent’anni di sfruttamento petrolifero senza controllo e senza vantaggi per le popolazioni locali, quello che prima era un paradiso naturale e produttivo è diventato un territorio di basi militari, prostituzione, vandalismo e sicariato. Santos, che ha di recente rinnovato con gli Stati uniti una versione attualizzata del Plan Colombia, ha però risposto con la repressione. E in tutto il paese si moltiplicano occupazioni e blocchi stradali.