Papa Francesco a magistrati e giuristi: "una pena senza speranza è tortura" rainews.it, 4 giugno 2016 Ribadito il "no" alla pena di morte e all’ergastolo. Per le "nuove forme di schiavitù" che chiedono l’impegno di tutti, la Chiesa non può rimanere a guardare ma deve "impegnarsi nella politica, "la gran politica", dice il Papa in spagnolo, quella dei valori più alti. Papa Francesco ha incontrato oltre cento giuristi e magistrati di tutto il mondo in Vaticano, per un confronto sulla tratta delle persone, la criminalità organizzata e la corruzione. Durante l’appuntamento organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, il papa ha ribadito il suo no alla pena di morte e la sua contrarietà all’ergastolo. Il Pontefice ha chiesto di "comminare pene che siano per la rieducazione dei responsabili e cercare il loro reinserimento nella società" sottolineando che "fare giustizia non è la pena in se stessa. Non c’è pena valida, senza la speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà possibilità alla speranza, è una tortura non è una pena! Su questo - spiega - mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro la pena di morte". Bergoglio ha parlato di "nuove forme di schiavitù" che chiedono l’impegno di tutti, a partire dalla Chiesa. Una Chiesa che non può rimanere a guardare ma deve "impegnarsi nella politica, la gran politica", dice il Papa in spagnolo, quella dei valori più alti. Il Papa chiede di lavorare "in comunione" perché si "apra una breccia per un nuovo cammino di giustizia che punti alla promozione della dignità umana". "Voi siete chiamati a dare speranza", dice ai giudici Papa Francesco. Le vittime, infatti, nutrono la speranza "che l’ingiustizia che attraversa questo mondo" non abbia "l’ultima parola". Ci sono dei delitti, dal traffico di persone a quello di organi, dal lavoro minorile allo sfruttamento della prostituzione, che "come diceva Benedetto XVI sono crimini contro l’umanità e tali debbono essere considerati dai leader politici, sociali, religiosi". Francesco ha voluto i giuristi in Vaticano perché diano il loro impegno in un "moto trasversale" per cambiare le cose e per superare quella tendenza che oggi vorrebbe "liquefare" la figura dei giudici. "So che soffrite pressioni, minacce e so che oggi essere procuratori, essere pubblici ministeri, è rischiare la propria vita. E questo mi fa essere riconoscente del coraggio di alcuni di voi, che vogliono andare avanti, rimanendo liberi nell’esercizio delle proprie funzioni giuridiche. Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e genera corruzione. Tutti conosciamo la caricatura, in questo caso, della giustizia: la giustizia con gli occhi bendati". Ma Papa Bergoglio coglie anche l’occasione per parlare del riscatto per le vittime e come buona prassi indica la legge italiana sulla confisca dei beni ai malavitosi, proprio come strumento di riabilitazione per le vittime. "Questo - ha detto il Papa - è il bene maggiore che possiamo fare loro, alla comunità e alla pace sociale". Infine un plauso alle donne che dirigono le carceri: lo fanno meglio degli uomini, è l’opinione di Papa Francesco, perché il senso di maternità dà loro "una maggiore sensibilità ai progetti di reinserimento". La Repubblica di Davigo: meno democrazia, più controlli di Errico Novi Il Dubbio, 4 giugno 2016 Un articolo su Micromega per illustrare la sua visione della società. Sono due magistrati. Il primo, Piercamillo Davigo, è da due mesi il nuovo presidente dell’Anm. Il secondo, Sebastiano Ardita, fa il procuratore aggiunto a Messina e scrive libri di successo. Si sono ritrovati nel gruppo staccatosi da "Magistratura Indipendente" - tradizionale corrente "di destra" - e battezzato "Autonomia & Indipendenza". Hanno posizioni culturali ovviamente affini e firmano insieme il saggio che compare sul numero di Micro Mega uscito ieri: "Glossario minimo di una giustizia senza aggettivi". Leggerlo aiuta a capire molte cose. Sul futuro dell’Anm e della magistratura. Le nove pagine dell’intervento sono tutte un continuo ritorno sullo stesso tema: la politica come controparte inaffidabile che va perseguita con priorità. È il concetto di fondo, che giustifica anche la teorizzata (dai due autori) convergenza del garantismo e del giustizialismo verso lo stesso fine: mettere tutti i cittadini in condizioni di uguaglianza davanti alla legge proprio attraverso la particolare attenzione nel perseguire i potenti. La stessa idea torna quando Davigo e Ardita si lamentano del modesto numero di colletti bianchi condannati alla galera: "Le statistiche sugli autori di reati finanziari presenti in carcere parlano chiaro: in Italia lo 0,6 per cento circa della popolazione carceraria, negli altri Paesi europei il 5,9 per cento". E si va a finire sempre lì quando, a fine saggio, si afferma che la certezza della pena vale per i "soggetti che delinquono per disadattamento sociale" e non per chi, con la cattiva politica, alimenta quel "disagio". L’uso della giustizia a fini politici? È la democrazia - Un attacco frontale al sistema della rappresentanza, ai partiti, alla politica come oggi la conosciamo. È una forma di grillismo in toga. Che già era emersa dall’intervista rilasciata da Davigo al Corriere un mese e mezzo fa, ma che fa più effetto se teorizzata su una rivista culturale. Davigo e Ardita non si trattengono, non cercano perifrasi. Enunciano l’uso della giustizia a fini politici nel seguente passaggio: "La tesi suggestiva, sostenuta da alcuni politici e pochi organi di informazione, è che l’attività dei magistrati possa essere orientata da finalità diverse dalla semplice ricerca della verità, quando si risolve in indagini a carico di chi ha responsabilità di governo"; tesi suggestiva che non confligge necessariamente con la realtà, tanto che secondo i due autori "si tratta di situazioni che di per sé non denotano affatto uno scontro (tra politica e magistratura, ndr), ma provano anzi che siamo in democrazia". Il fine politico è implicito in alcune azioni giudiziarie in quanto ricerca di una giustizia che assicuri anche il rispetto dei principi di democrazia. Perfetto. Dove vuole arrivare Davigo? All’egemonia tra le correnti della magistratura. Punta al successo, al consenso interno. In parte l’ha già ottenuto: la sua "Autonomia & Indipendenza" ha riportato uno score eccellente alle elezioni dell’Anm, considerato che esiste da poco più di un anno. Tanto che lui, Davigo, leader della neonata corrente, è stato indicato subito al vertice del sindacato dei giudici. La popolarità si spiega con una spinta sindacale nuova, che proviene dalla base della magistratura e soprattutto dalle ultime generazioni. C’è meno idealismo e più richiesta di protezione sindacale, di tutela dagli eccessivi carichi di lavoro e dalle insidie della responsabilità civile. Meno attenzione alle "culture di autogoverno", a cui si ispirano le correnti tradizionali, e prevalere di un interesse individualistico e pragmatico, da funzionari dello Stato sindacalizzati e diffidenti. Votano per Davigo, questi magistrati spesso giovani e deideologizzati, perché trovano nell’attacco alla politica una forma di autotutela collettiva. Il punto è che "Autonomia & Indipendenza" e il suo leader non sono mossi solo da questo, ma da un intreccio tra rivendicazioni e sinceri sentimenti antipolitici "di destra". Un populismo giudiziario riferibile alla ricerca del consenso tra i giudici prima ancora che alla popolarità delle inchieste. Ma che in prospettiva può intrecciarsi con culture antisistema più propriamente politiche. Di destra più che di sinistra. Difficile dire se si tratti di un motivo di allarme, senz’altro è un fatto nuovo nel dibattito sulla giustizia e in generale sulla struttura del potere. Davigo e Ardita non tralasciano nulla. Se la prendono con l’omicidio stradale ("continuiamo a navigare a vista in un sistema che vede il Parlamento produrre nuove ipotesi di reato"), con gli stessi colleghi procuratori che cercano di limitare il l’uso delle intercettazioni a quelle penalmente rilevanti ("non ha senso agire in modo restrittivo") e pur implicitamente con gli avvocati. La prescrizione, male che viene dall’avvocatura - Questi ultimi sono i veri responsabili del male profondo, le troppe prescrizioni. L’estinzione del reato "può diventare un obiettivo della difesa e il suo raggiungimento può stravolgere il senso delle scelte processuali". Nulla sulle colpe che a riguardo hanno i magistrati, e gli inquirenti in particolare. A proposito del fatto che la maggior parte delle prescrizioni interviene durante la fase delle indagini, il saggio su MicroMega se la cava con astuta nonchalance: "Nei reati edilizi e in quelli contro la pubblica amministrazione, ad esempio, spesso si viene a conoscenza dei fatti di reato dopo anni. Se è così", scrivono Davigo e Ardita, "è evidente che non ci sarà il tempo di avviare l’iter processuale, ed è corretto che in questa prospettiva siano archiviati in fase di indagini". Non una parola sul fatto che un procuratore dovrebbe sapere in anticipo se c’è tempo di condurre in porto in procedimento. E che se lo avvia lo stesso nonostante la prescrizione sia alle porte, lo fa solo per celebrare la versione "mediatica", di quel processo. La privacy vale sempre meno di un possibile alibi - Ma la lama più affilata è tenuta da parte per i politici che si lamentano della pubblicazione di telefonate private: se tra le registrazioni, scrivono gli autori, ce ne fossero alcune "da cui emerge che l’imputato si è intrattenuto con una prostituta o con un transessuale, il pm non può autonomamente decidere di non depositarle", perché "la difesa, proprio da quelle intercettazioni, potrebbe trarre l’alibi indispensabile al proprio assistito". Al di là del tratto da "populista di destra", quello che rasserena di Davigo è senza dubbio il suo sense of humor. I Savonarola di Trani di Luciano Capone Il Foglio, 4 giugno 2016 Come una piccola procura che s’è esibita nell’accusare il mondo ha fatto più che altro buchi nell’acqua. Nel 1764 Horace Walpole, figlio del primo premier britannico sir Robert, pubblica un romanzo destinato a fare storia, "The Castle of Otranto". L’intricata trama gira attorno a una profezia che incombe sugli usurpatori del castello di Otranto, su cui aleggia lo spirito del principe Alfonso il Buono. Nel castello accadono cose inquietanti, sbocciano amori, si compiono uccisioni e appaiono spiriti misteriosi, in una serie di scene che diventeranno stereotipi letterari del genere horror. Il libro di Walpole è considerato il primo romanzo gotico, fonte d’ispirazione per la letteratura che va dal Dracula di Bram Stoker al Frankenstein di Mary Shelley, passando per i racconti di Edgar Allan Poe fino ad arrivare ai romanzi di Stephen King. Ma anche la realtà ha preso ispirazione da Walpole. Poco più a nord di Otranto c’è un’altra fortezza, teatro di scene da horror giudiziario, nelle cui mura vaga smarrito lo spirito della Giustizia: il Tribunale di Trani. Gli uffici sembrano stregati, infestati da strani demoni. Negli ultimi anni la procura tranese è salita agli orrori delle cronache per una serie d’inchieste contro l’universo mondo, poi smarritesi in qualche cunicolo sotterraneo o finite nascoste dietro qualche botola segreta. I magistrati accalappia fantasmi, guidati dal procuratore Carlo Maria Capristo (da pochi giorni trasferito a Taranto), con le loro reti vanno a caccia di spettri malvagi che però, come per maledizione, una volta acciuffati si trasformano in persone innocenti. In questi anni i ghostbusters tranesi hanno inquisito presidenti del Consiglio, banchieri, agenzie di rating, sindaci, imprenditori, gente comune e praticamente mai hanno beccato un colpevole. Cosa accade in quel tribunale lo ha scritto in un libro Roberto Oliveri del Castillo, per diversi anni giudice per le indagini preliminari a Trani. Il libro del magistrato "Frammenti di storie semplici" - in cui sono contenuti i contributi di due importanti magistrati progressisti come Domenico Gallo e Armando Spataro - è ispirato dalla cronaca ma è di pura fantasia. Anche se sfogliandolo si riconoscono facilmente fatti e protagonisti reali, a partire dalla location, un tribunale "davanti al mare, in mezzo al castello e alla cattedrale". Proprio come a Trani. Il racconto si sviluppa sotto forma di diario, in cui un giudice racconta la sua impotenza di fronte alle ingiustizie di cui sono vittime gli sventurati cittadini, la sete mediatica che anima le inchieste dei magistrati ("pieni di se stessi e basta, ansiosi di finire sui giornali per quel famoso quarto d’ora di notorietà") e la corruzione diffusa tra le toghe: "I due colleghi erano conosciuti nell’ambiente come organizzatori di truffe e corruzioni di alto livello. Uno faceva il pubblico ministero, l’altro il giudice: la tattica preferita era l’intesa, il mettere in mezzo, sotto indagine, se non arrestarlo, qualche imprenditore o qualche politico (una volta addirittura un vescovo), per poi estorcere denaro per far morire il processo". Tra le tante inchieste clamorose evaporate o sospese, ce n’è stata realmente una nei confronti del vescovo di Trani, accusato di usura per aver comprato un palazzo che secondo la procura avrebbe dovuto pagare il doppio. Il procuratore e i suoi sottoposti vengono descritti come boss che taglieggiano la comunità. Nel romanzo di Oliveri del Castillo c’è la storia di un immaginario "Salvatore Granello", titolare di un famoso pastificio, arrestato per la vendita di grano contaminato: "Un mese di carcere, poi la scarcerazione, e dopo alcuni anni di attesa, con il processo che di Luciano Capone non si sapeva che fine avesse fatto, finalmente l’archiviazione... I dati anomali sembravano scomparsi. Intanto Granello era stato arrestato e la sua immagine pubblica compromessa". Nel racconto l’imprenditore sarebbe stato costretto a sborsare centinaia di migliaia di euro, finiti in gran parte nelle tasche dei magistrati: "C’era solo da incriminare Cricco (il pm, ndr) e i suoi amici per concussione, e risarcire i danni a Granello, che per sua fortuna e capacità era riuscito a rimettersi in piedi e continuare a lavorare". La storia di fantasia ricalca - concussione a parte - la disavventura di Francesco Casillo, imprenditore leader nella commercializzazione del grano, incarcerato e processato per aver importato secondo il pm Antonio Savasta grano contaminato e cancerogeno. Gran clamore e prime pagine sull’incarcerazione dell’imprenditore-avvelenatore, ma dopo sette anni di processo Casillo viene prosciolto dallo stesso pm che l’aveva sbattuto in galera: le analisi sul grano erano sbagliate. Nei "frammenti" di Oliveri del Castillo, il pm "Cricco" compare in un’altra vicenda, quella di una "masseria acquistata con modalità poco chiare e costata anni di indagini a suo carico, e concluse con una dubbia archiviazione pilatesca". La storia rievoca i problemi sorti attorno alla masseria San Felice a Bisceglie, di proprietà del pm Savasta e oggetto di diversi processi. Inizialmente Savasta è stato accusato, e poi assolto, di truffa e appropriazione indebita ai danni del socio. Ora è rinviato a giudizio per concussione per aver indotto un imprenditore, su cui aveva indagato, a vendergli un terreno vicino alla masseria sottocosto, facendo leva sul timore che da pm avrebbe potuto riaprire il fascicolo a suo carico. In un altro processo è stato condannato a due mesi per non aver dichiarato la costruzione di una piscina nel relais. Mentre in un procedimento è indagato per abuso d’ufficio il sindaco di Bisceglie, per aver approvato una variante che ha consentito l’ampliamento della masseria-relais del magistrato e il cambio di destinazione del suolo da agricolo a turistico. In questa intricata trama, oltre ai problemi alberghiero-giudiziari, Savasta ha anche un ruolo da comprimario nei processi contro la finanza internazionale. Si può dire che è il Sancho Panza del Don Chisciotte Michele Ruggiero, il pm che sfida i mulini a vento finanziari che complottano contro l’Italia. Ruggiero debutta sul palcoscenico nazionale con il Tranigate: mentre lavora a un’inchiesta sulle carte di credito, tra un’intercettazione e l’altra, arriva ad ascoltare le chiamate dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E così scattano per il Cavaliere le accuse di concussione e minacce per alcune telefonate in cui avrebbe fatto pressioni sulla Rai e l’Agcom per censurare Michele Santoro. Le intercettazioni finiscono sui giornali e Ruggiero finisce davanti al Csm per aver aperto il fascicolo sul premier senza aver avvisato il procuratore Capristo, mentre l’inchiesta finisce per competenza territoriale a Roma, dove si sgonfia e viene archiviata su richiesta della stessa procura. Dal Tranigate in poi sarà un crescendo di inchieste con diversi elementi costitutivi comuni: hanno un forte impatto mediatico per il coinvolgimento di nomi eccellenti, non riguardano la circoscrizione giudiziaria di Trani e si perdono nel nulla. Le prime tracce risalgono al 2004, quando Savasta indaga per favoreggiamento il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’ex presidente della Consob Luigi Spaventa, chiedendone poi l’archiviazione. Da lì parte l’assalto al cielo della finanza mondiale, con i pm tranesi che mettono sotto inchiesta American Express, banche come Mps, Bnl, Unicredit, Credem e Intesa, la Banca d’Italia, le principali agenzie di rating del pianeta - Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s - accusate di aver ordito un complotto e pure Deutsche Bank, che ha fatto impennare lo spread. L’attivismo su vicende molto lontane dal proprio perimetro d’azione sembra anomalo anche ai colleghi magistrati. Dopo l’apertura a Trani di un terzo filone di indagini su Mps, l’allora procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati sarcasticamente sbotta: "Ci sono uffici di procura dove sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional: c’è stata al riguardo una gara tra diversi uffici, ma sembra che la new entry abbia acquistato una posizione di primato irraggiungibile". L’insopportabile limite territoriale viene brillantemente superato da Ruggiero negli altri processi su istituzioni finanziarie estere, grazie al fatto che si occupa di ipotesi di reati commessi da stranieri residenti all’estero la procura che per prima apre il fascicolo. Uno spiraglio che consente alla procura di Trani di non avere più confini. Ma come si fa a spiegare questa cosa all’estero? L’ad italiana di S&P’s, intercettata mentre tenta di far capire ai capi americani cosa diavolo sta succedendo e dove dovrebbero andare, la mette giù così: "Trani? È una specie di piccolo paese dell’Oklahoma". Può darsi che a Washington abbiano iniziato a immaginare di che roba si tratta, ma più difficile sarà stato spiegare che l’inchiesta è ispirata dalle intuizioni di Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. C’è in Oklahoma un equivalente di "ospite di Barbara D’Urso e Massimo Giletti"?. Chissà. Intanto le inchieste sulle tre sorelle del rating non hanno portato a nulla. Quella su Moody’s è finita con un’archiviazione. Il processo contro Fitch è diviso in due tronconi, con quello spostato a Milano già archiviato, e quello a S&P’s è avviato allo stesso destino visto che la Corte dei conti ha archiviato un procedimento parallelo. Però è appena iniziato il filone contro Deutsche Bank e la giostra può ripartire. A Trani sono stati chiamati a testimoniare ex ministri come Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, ex presidenti del Consiglio come Romano Prodi e Mario Monti, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, il presidente della Consob Giuseppe Vegas. Ruggiero ha anche chiesto di visionare un rapporto di Barack Obama sulle agenzie di rating ed era pronto a volare a Washington per far testimoniare il Nobel Paul Krugman, ma poi non se n’è fatto nulla. Durante le deposizioni nell’incantato Tribunale di Trani si sono verificati fenomeni paranormali e presagi funesti. Dopo un’attesa di ore prima di testimoniare, si è addirittura visto un Romano Prodi seccato, lui, il semaforo guzzantiano, il simbolo della calma e della pacatezza. Non era mai accaduto prima. Peggio è andata a Vegas, a cui poco prima dell’udienza qualche spirito ha rubato l’auto parcheggiata vicino al tribunale. Ruggiero ha trovato anche il tempo di aprire un’inchiesta che punta al cuore di Big Pharma: la ricerca del nesso tra i vaccini e l’autismo. Sono le teorie spacciate anche da Red Ronnie, ma se hanno creato scalpore le idiozie di un attempato dj in televisione, nessuno si è preoccupato che quelle stesse cose erano materiale di studio di una procura. L’inchiesta di Ruggiero parte dalle teorie di Massimo Montinari, un personaggio screditato che vende a caro prezzo alle famiglie dei bambini malati cure farlocche contro l’autismo. Ruggiero e Montinari si conoscono a Trani in un convegno in cui il "luminare" spiega che i vaccini causano l’autismo, l’opposto di quanto afferma la comunità scientifica mondiale. Ruggiero, con il dovuto equilibrio che caratterizza un magistrato, afferma dal palco del convegno: "Dopo questa sera i vaccini facoltativi non li faccio fare più". Applausi del pubblico, che assiste anche a una lezione giuridico-scientifica in cui il magistrato illustra il metodo tranese: "I processi sono in gran parte indiziari, non c’è la prova di chi è stato preso con le mani nella marmellata, ma noi facciamo un percorso logico-deduttivo che ci porta a dire queste cose". Ed è grazie a questo "percorso logico-deduttivo" che un mese dopo, il convegno "Vaccini e autismo" si trasforma in un’indagine condotta da Ruggiero. Dopo qualche anno, proprio pochi giorni fa, Ruggiero scopre ciò che si sapeva, non c’è alcuna correlazione tra vaccini e autismo. Caso archiviato, ancora una volta. Oltre ai problemi di scienza e di finanza, a Trani ci si occupa anche di cose locali. Ma anche in questi casi accadono cose paranormali. Dopo una certosina operazione di intelligence, Ruggiero scova una falsa cieca che percepiva indebitamente una pensione d’invalidità da sei anni. Immediatamente scattano l’accusa di truffa aggravata e il sequestro di 80 mila euro. L’anno dopo però la signora viene assolta, il fatto non sussiste, la donna è davvero cieca e quella di Ruggiero è stata una svista. Non mancano le incursioni nella politica locale, con indagini contro due ex sindaci di centrodestra. L’ex primo cittadino Giuseppe Tarantini viene coinvolto in due inchieste, una sul degrado al cimitero condotta da Ruggiero e l’altra per concussione condotta da Savasta, e in entrambi i casi è stato assolto. Più complicata è la vicenda di Luigi Riserbato, successore di Tarantini alla poltrona di primo cittadino. Il 20 dicembre 2014 Riserbato viene arrestato con l’operazione "Sistema Trani": sei persone arrestate e altre sette indagate con l’accusa di associazione a delinquere, concussione, corruzione elettorale e altro ancora. L’inchiesta, condotta sempre da Ruggiero, ha una grande eco nazionale, tra l’altro pochi giorni dopo l’esplosione di Mafia Capitale a Roma. Alcuni arrestati passano il Natale in carcere e Riserbato viene liberato solo dopo aver rassegnato le dimissioni, la giunta cade e l’anno dopo si va alle elezioni in cui vince il centrosinistra. La vicenda ha alcuni aspetti particolari. Innanzitutto il giudice che conferma gli arresti, il gip Francesco Messina, è il fratello di Assuntela Messina, all’epoca vice-segretario regionale (ora presidente) del Partito democratico, scelta in quota rosa dal governatore pugliese Michele Emiliano (collega magistrato del di lei fratello). Ma non è l’unica anomalia, perché a distanza di due anni dalla maxi operazione non sono state ancora chiuse le indagini, i termini sarebbero scaduti e non si hanno notizie di proroghe. Semplicemente non si sa cosa fare di un’inchiesta in cui mancano le prove. In questo horror giudiziario, non poteva mancare una storia d’amore da brividi. È quella che unisce due magistrati in servizio a Trani, il giudice Maria Grazia Caserta e Michele Nardi, prima amanti e poi travolti dalla loro stessa passione in un vortice di ricatti, minacce, molestie, violenze verbali e aggressioni fisiche. La vicenda finisce in tribunale con Nardi che denuncia l’ex amante per stalking e lesioni (la giudice gli ha spaccato la faccia con una borsettata) e la Caserta che ha risposto accusando il collega di averla minacciata di morte. Alla fine entrambi vengono assolti. Tutto è bene quel che finisce bene. Non si chiude con un lieto fine il romanzo di Walpole, quello di cui si parlava all’inizio. Al termine di una trama intricata, per punire gli usurpatori lo spirito di Alfonso il Buono scuote il Castello di Otranto, lo fa crollare fino alle fondamenta e appare maestoso e immenso sulle rovine. Si spera che il tanto maltrattato spirito della Giustizia non si vendichi allo stesso modo con il Tribunale di Trani. Pochi giorni fa, in occasione di una visita a Trani, sono giunti sulla piazza del tribunale a bordo della stessa auto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo e il pm Michele Ruggiero. I muri hanno retto. Mandato d’arresto europeo. No alla consegna se le celle del Paese sono sovraffollate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2016 Affidamento escluso anche se la decisione quadro non prevede la rilevanza delle condizioni di detenzione. Il sovraffollamento delle carceri è un motivo per non eseguire la consegna nell’ambito del mandato d’arresto europeo. Il no scatta anche se lo Stato richiedente è europeo e malgrado la decisione quadro non preveda espressamente tra i motivi di non esecuzione la presenza di "gravi indizi" sulla violazione dei diritti fondamentali e sulle condizioni di detenzione. La Corte di cassazione (sentenza 23277) applica per la prima volta le indicazioni della Grande sezione della Corte europea per i diritti dell’uomo (sentenza 5 aprile 2016) che ha affermato la possibilità di introdurre un motivo di non esecuzione non indicato espressamente dal legislatore europeo. La questione pregiudiziale esaminata dal collegio di Lussemburgo prendeva le mosse da varie sentenze di condanna della Romania per il sovraffollamento delle carceri e le pessime condizioni di detenzione: celle non igieniche, riscaldamento insufficiente e niente acqua calda. Il Comitato europeo per la prevenzione e la tortura aveva inviato alla Romania alcune raccomandazioni, tra cui quella di garantire almeno 4 metri quadri di spazio per ogni detenuto. La Cedu ha chiarito che il meccanismo di consegna delineato dalla decisione quadro del 2002, fondato sul principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri, presuppone il rispetto dei diritti fondamentali. Non si può quindi prescindere dalla constatazione del grave malfunzionamento del sistema penitenziario. Lo Stato membro di esecuzione deve accertare in quale situazione si andrà a trovare la persona richiesta, pur salvaguardando la possibilità di eseguire il mandato "entro un tempo ragionevole". Le verifiche si possono basare sulle decisioni dei giudici internazionali e su quelle dello Stato emittente, oltre che sui documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o dall’Onu. Va dunque fissato un supplemento di istruttoria per ottenere informazioni complementari, se queste sono rassicuranti il mandato va eseguito, diversamente la decisione sulla consegna va rinviata, anche se non abbandonata informando Eurojust, fino a quando non arrivano informazioni in grado di escludere il rischio di trattamenti inumani e degradanti. Nel caso esaminato, la Corte d’appello aveva dato il via libera alla consegna verso la Romania di un condannato per reati di droga, malgrado il rapporto del Cpt descrivesse la situazione delle carceri: sovraffollate, malsane, con poca luce e poca aria. Condizioni che per i giudici di merito non dimostravano il pericolo attuale e concreto di pratiche inumane e torture. Per la Cassazione la sentenza va annullata con rinvio perché venga valutata l’esistenza della condizione di rifiuto. Almeno fino a quando la Romania non adotterà le misure necessarie, in relazione alla persona richiesta, per la consegna: ovvero il rispetto dei diritti inviolabili della persona. Caro dottor Tinti, "criminogeno" è far morire le persone in carcere, non l’amnistia o l’indulto di Maria Brucale Il Dubbio, 4 giugno 2016 Nel nome di Marco Pannella, delle sue battaglie di una vita, perché il carcere sia un luogo non solo di espiazione della pena ma anche di riammissione alla società, uno strumento non di mera punizione ma anche di rinnovamento, un percorso in cui il detenuto rinuncia alla libertà ma mai alla dignità di uomo, il senatore Luigi Manconi ha proposto "un disegno di legge costituzionale, che preveda di riportare alla maggioranza della metà più uno dei componenti le due Camere, il quorum necessario all’approvazione di provvedimenti di amnistia e/o di indulto". Si tratta di misure previste dalla Costituzione la cui finalità è di controllo politico e di pacificazione sociale. Amnistia è cancellazione del reato. Oblio, restituzione. Un atto di clemenza a volte del tutto necessitato quando, come oggi accade, la carcerazione è biecamente afflittiva e vessatoria, avviene in luoghi inidonei e asfittici, in condizioni inumane e degradanti e manca di offrire alla persona ristretta qualsivoglia aspirazione di reinserimento nel tessuto sociale. Forse, "nella migliore delle ipotesi", gli epigoni di Pannella non sanno (non sappiamo) cosa dicono, come vorrebbe il dott. Bruno Tinti (Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2016), però alcune considerazioni sono inevitabili anche nel nome di Marco Pannella e della sua storia politica di mentore luminoso e inarrestabile di legalità. E se è una contraddizione in termini definire - come fa il dott. Tinti - "criminogeno" uno strumento previsto dalla Costituzione, non lo è, invece ribadire un concetto espresso dal ministro Andrea Orlando alla vigilia degli Stati Generali dell’esecuzione penale: l’improcrastinabile urgenza di dare attuazione all’art. 27 della Costituzione, una norma di programma mai compiutamente attuata, e di rendere il carcere - ancora un luogo carcerogeno che si traduce troppo spesso in una spinta alla recidiva - un momento costruttivo verso un concreto percorso di reinserimento del detenuto nella società civile. L’amnistia, nella sua natura di provvedimento eccezionale, allora, può e deve intervenire a sanare una perdurante situazione di illegalità. Un imperativo - questo sì - morale, dettato da una considerazione primaria: in carcere ci sono delle persone. L’osservazione statistica del dato della recidiva in seguito a provvedimenti di clemenza, del resto, ha dimostrato come il tasso recidivante si abbatta di oltre il 30% rispetto alle persone detenute che escono dal carcere a pena espiata. Il dato potrebbe già rassicurare le pance dolenti e le spinte securitarie e forcaiole. Va detto anche, però, che in caso di amnistia molti processi non sarebbero celebrati con un’evidente riduzione dei costi dell’amministrazione della giustizia. E, ancora, che il provvedimento di clemenza non si estenderebbe ovviamente ai reati ad esso successivi per cui nessuna spinta a delinquere la sua approvazione potrebbe comportare. Ma il perno della questione resta un altro. In carcere si continua a morire. Le persone si suicidano non, o non solo, perché stanno troppo strette. Il sovraffollamento è solo uno dei drammi delle nostre prigioni che non possono essere scatole di cemento dove chiudere persone indesiderate. L’edilizia carceraria non può risolvere una patologia strutturale da cui quasi tutti i nostri istituti di pena sono affetti. Il personale di polizia penitenziaria è ridotto all’osso, così quello di educatori, di psicologi e di altre figure indispensabili al trattamento intramurario. Gli uffici dei tribunali di sorveglianza sono al collasso per mancanza di fondi e di risorse umane e non riescono quasi mai a garantire tempi rapidi di definizione delle istanze dei detenuti. I giudici di sorveglianza sono figure molto spesso assenti seppur inutilmente invocate dai ristretti. Le opportunità trattamentali sono quasi sempre inconsistenti ed inadeguate cosicché il carcere è mera reclusione, repressione, punizione, mutilazione del fare e dell’essere. Prima di costruire nuove carceri, magari come quelle di Massama, a Oristano, o di Bachiddu, a Sassari, dove non c’è null’altro che la coercizione, forse sarebbe opportuno e, ancora una volta, "morale" dotare quelle esistenti della possibilità, in concreto, di garantire alle persone recluse una condizione dignitosa di vita ed una effettiva aspirazione di recupero. La revanche giustizialista. Adesso vogliono che la Consulta contraddica il voto popolare di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 giugno 2016 Quando ha scritto il suo articolo su Repubblica intitolato "Se il Parlamento concede un ruolo civile alla Chiesa", Stefano Rodotà non poteva ancora conoscere la portata e l’ampiezza del rifiuto dei quesiti referendari da parte degli italiani. Però probabilmente aveva già capito che il quorum non sarebbe stato raggiunto, e quindi ha cominciato a costruire la "rivincita giustizialista" contro l’atteso giudizio popolare. Chiede al Parlamento di ridiscutere la legge in modo da dare ai referendari la vittoria che non hanno ottenuto nelle urne, ma aggiunge che "né il voto referendario, quale che sia, né una possibile ripulitura parlamentare possono far venire meno il controllo di costituzionalità sulla legge". La Consulta, quindi, secondo Rodotà, dovrebbe cassare uno per uno tutti i commi della legge che non si è riusciti ad abrogare per via referendaria. Con tanti saluti alla sovranità popolare. Inoltre la vicenda referendaria avrebbe messo in luce il nuovo, intollerabile pericolo: "Un ruolo civile della Chiesa" in Italia. Su questa strada, quella che intende delimitare alla sfera del privato il ruolo della religione, qualcuno ha già fatto qualche passo in più, chiedendo di escludere, per "vendetta" la Chiesa cattolica dal finanziamento (deciso volontariamente dai contribuenti) dell’8 per mille. L’altra bella pensata dei giustizialisti riguarda l’istituto referendario. Antonio Di Pietro, dopo aver parlato di "vittoria col trucco" aggiunge che "la legge sul referendum è sostanzialmente illegittima". Come faccia una legge, che peraltro riporta esattamente norme contenute nella Costituzione, a essere illegittima, lo sa solo lui. Invece di ragionare sulle dimensioni della sconfitta, i referendari puntano a ottenere una rivincita sulla volontà popolare, attraverso una serie di cavilli che consentano di capovolgere il verdetto dei cittadini. Non è detto che non ci riescano, almeno in parte. L’uso spregiudicato di poteri non elettivi per contrastare scelte democratiche non è una novità, ma diventa sempre meno tollerabile. Femminicidio. Ai giudici chiediamo: basta sconti di pena di Mara Carfagna (deputata di Forza Italia ex ministro per le Pari Opportunità) Il Mattino, 4 giugno 2016 Ancora una volta ci ritroviamo a che fare i conti con violenze brutali, mostruose, efferate ai danni di donne giovani ed inermi. E ancora una volta ci chiediamo se quanto è accaduto si poteva evitare, se le Istituzioni, la scuola, la società hanno svolto il loro ruolo fino in fondo. È vero, prima di tutto c’è il legislatore. E infatti con Giulia Bongiorno, nemmeno troppi anni fa, nel 2012, presentammo una proposta di legge alla Camera dei deputati per sanzionare addirittura con l’ergastolo i colpevoli di "femminicidio". Prima ancora, eravamo intervenuti con la legge sullo stalking e con le aggravanti per chi commette violenza sulle donne, con un decreto del 2009 che portava la mia firma, "ritoccato" nel 2013 da Angelino Alfano. L’idea era che l’introduzione del reato di stalking, tanto atteso nel nostro Paese, ottenuto grazie a un sostegno convinto di quella che era la maggioranza di centro destra, potesse porre un freno efficace agli episodi di violenza sulle donne, mettendo in campo un importante strumento di prevenzione. Così è andata e la situazione migliora di anno in anno. È stato proprio il ministro dell’Interno, qualche giorno fa, a segnalare che negli ultimi tre anni si è verificato un aumento del 27% delle denunce per stalking e, forse anche per questa ragione, il numero delle donne uccise è calato dell’8,5%, quello delle violenze sessuali del 10%. Sono numeri in ogni caso inaccettabili, di fronte ai quali non si può che pensare che il nostro Paese avrà vinto la sua battaglia e potrà dirsi realmente civile soltanto quando questi "fenomeni" saranno completamente azzerati. Per giungere a questo ambizioso risultato, però, serve che ciascuno degli ingranaggi di questa grande e potentissima macchina che è lo Stato, faccia la sua parte. Alla magistratura già nel 2009 chiedemmo di escludere dalla possibilità di sconti di pena o di altri cosiddetti "benefici premiali" i colpevoli di violenza sessuale o "femminicidio". Eppure ancora oggi, col tragico caso di Sara, assistiamo sgomenti al rischio che non si addebiti all’assassino la premeditazione di un terribile omicidio che, evidentemente, c’era. Ho condiviso quanto Alessandra Graziottin ha spiegato proprio dalle colonne de Il Mattino, avviando un dibattito certamente utile a tutti: resiste nel nostro Paese un nucleo arcaico, di pensiero e azione, che continua a considerare la donna non come compagna ma come un oggetto da possedere. Anche sulle conclusioni del ragionamento sono d’accordo con la dottoressa in toto: "Chi commette un omicidio deve prima pagare, poi essere riabilitato". Ecco perché la magistratura può fare moltissimo, come, in tanti casi, ha già fatto. Ma deve essere rigorosa ed inflessibile nell’applicazione di norme che ci sono e che sono all’avanguardia. Anche per non delegittimare l’impegno prezioso di tutte le forze dell’ordine che quotidianamente lavorano per tutelare la sicurezza e la libertà delle donne. L’altro ingranaggio, che rischia di arrugginire se continua a restare immobile, e quello della prevenzione, della cultura, dell’educazione nelle scuole. Con la mia collega Mariastella Gelmini, quando eravamo ministri promuovemmo una iniziativa che si chiamava "Settimana contro la violenza" per fare entrare il tema del contrasto alla violenza, attraverso lezioni specifiche, in tutti gli istituti scolastici italiani. Il rispetto delle donne, infatti, lo si apprende prima in famiglia e lo si "perfeziona" proprio sui banchi. Quella iniziativa, così come le campagne di comunicazione istituzionale per far conoscere lo stalking, denunciare le violenze (col numero verde 1522), promuovere una immagine positiva delle donne, sono state accantonate o definanziate, così come lo sono oggi i centri Antiviolenza che ospitano le donne-vittime. È di ieri la notizia che due, nella Capitale, rischiano la chiusura. Tutto ciò dimostra che quello che manca, forse, oggi, è la percezione che ci troviamo di fronte ad una emergenza, seppur continua, che coinvolge l’intero Paese. Il governo di cui ho fatto parte ha approvato in un mese e mezzo dal suo insediamento le prime misure a tutela delle donne, quello in carica ha lasciato trascorrere due anni prima di assegnare la delega delle Pari Opportunità ad un ministro, che ne ha già altre due, ed, evidentemente, ha altre priorità. Speriamo che le "altre" Sara non debbano aspettare l’esito del referendum sulla riforma costituzionale, per poter ricevere un segnale di speranza e di attenzione, prima di assistere a campagne di informazione e sensibilizzazione in cui si ricorda loro quali strumenti hanno a disposizione e ai loro potenziali assassini cosa rischiano e perché. Chiediamo che il governo convochi un tavolo di emergenza con tutte le forze politiche per affrontare il fenomeno con efficacia, mettendo in campo tutti gli strumenti possibili: noi ci siamo, non intendiamo aspettare altro tempo. Milano: gravemente ammalato, in cella per tre giorni, lo liberano e muore Il Dubbio, 4 giugno 2016 È una di quelle storie legate all’abuso della misura cautelare in carcere. Una storia che drammaticamente si ripete e che miete vittime. Questa volta è toccato a S. R., fermato venerdì scorso perché trovato in possesso di un’arma, con precedenti per reati bagatellari (quelli cioè che prevedono un massimo di 5 anni di carcere). L’uomo soffriva di una grave forma di cirrosi epatica, con una serie di interventi chirurgici alle spalle. Nel nulla sono cadute le richieste del difensore d’ufficio di evitare la reclusione in carcere, prevista solo in casi eccezionali quando ci sono severi motivi di salute. Soltanto lunedì scorso è stato autorizzato il colloquio con i familiari e revocata la custodia cautelare in carcere. Purtroppo, martedì 31 maggio, il fisico di S. R., già debilitato per la malattia, non ha retto a questo ulteriore stress e l’uomo è morto. La denuncia dell’accaduto è della Camera penale di Milano che in un comunicato ha raccontato l’accaduto. "Piangiamo la perdita dell’ennesima vita umana, uguale a quella di coloro che la perdono in fondo al mare, durante i viaggi della speranza, alle vittime della strada, alle donne che cadono sotto la violenza degli ?amori assassinì, uguale a qualunque altra vita umana". Si legge nel comunicato della Camera penale milanese. "Il rispetto per la vita e la dignità di ogni essere umano - dicono i penalisti - ci spingono a denunciare la gravità di quanto accaduto. Sin dall’adozione del codice di procedura penale del 1988, e ancor prima con la riforma delle misure cautelari, la custodia in carcere è sempre stata strutturata, in conformità peraltro con l’art. 13 Cost., quale misura estrema da adottare solo ed unicamente quando le altre misure coercitive, meno afflittive, risultino inadeguate. L’art. 275 c. p. p. ha, inoltre, sempre previsto che tale misura non possa essere adottata se non in presenza di esigenze di eccezionale rilevanza nel caso di gravi condizioni di salute. I numerosi interventi di maquillage legislativo, a partire dalla L. n. 332 del 1995 e di recente con la L. n. 47 del 2015, non hanno fatto altro che introdurre aggettivi ed avverbi volti a delimitare il potere discrezionale del giudice e a non consentire il superamento del principio di residualità del carcere in fase cautelare". Questo episodio fa dire al Consiglio direttivo della Camera penale di Milano che "il peso dell’opinione pubblica rispetto al rischio di recidiva, i continui e immotivati allarmi sulla "sicurezza", la difficoltà evidente di assumere decisioni anche se impopolari sono segnali preoccupanti che vanificano gli sforzi legislativi volti ad evitare l’abuso della custodia cautelare in carcere". I numeri dei detenuti in attesa di primo giudizio e di quelli non definitivi, ma condannati in primo grado, sono eloquenti: si parla di 18.000 persone, equamente divise tra le due categorie. I penalisti concludono chiedendosi: "Ancora una volta, ci domandiamo se l’operazione culturale voluta dal Ministro Orlando attraverso gli Stati Generali dell’esecuzione penale abbia qualche speranza di portare buoni frutti, a fronte dell’evidente resistenza della magistratura a vedere limitato il proprio potere discrezionale nell’ottica di una riduzione della custodia cautelare". Milano: carcere di San Vittore; Alfano rilancia sullo stop, ma il fronte del no si allarga di Franco Vanni La Repubblica, 4 giugno 2016 Dopo i politici di ogni schieramento e gli urbanisti, sul trasferimento del carcere di San Vittore si fanno sentire gli addetti ai lavori. Avvocati, penalisti e non, agenti di polizia penitenziaria, dirigenti del Dipartimento di polizia penitenziaria. Tutti d’accordo: la struttura inaugurata nel 1879 non va ceduta ai privati, come annunciato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, convinto che San Vittore sia "un carcere superato, frutto di un’altra epoca", come anche Regina Coeli a Roma e Poggioreale a Napoli. Così, nel giorno in cui il ministro dell’Interno Angelino Alfano auspica da Milano "la costruzione di strutture più moderne, liberando quelle esistenti per metterle a reddito nel centro delle città", si alza il coro di chi con il carcere ha a che fare ogni giorno. Il consiglio direttivo della Camera penale di Milano in un documento difende l’attuale collocazione della casa circondariale che ospita i detenuti in attesa di giudizio. "Il carcere - si legge nel documento - si è aperto verso la società civile proprio grazie al fatto che luoghi come San Vittore siano frequentati ogni giorno da volontari, operatori e studenti". La presidente, Monica Gambirasio, aggiunge: "Stupisce che il ministro abbia fatto un annuncio che va in senso opposto alle conclusioni a cui è giunto il tavolo sulle carceri nell’ambito degli Stati generali sull’esecuzione penale, che lo stesso governo ha convocato". A dimostrare il rapporto stretto che lega la città a San Vittore sono le tante iniziative promosse da Palazzo Marino negli ultimi anni, dalla proiezione della Prima della Scala per i detenuti, ai progetti di diffusione della cultura della legalità, fino alla decisione del sindaco Giuliano Pisapia di tenere per la prima volta una seduta del Consiglio comunale in carcere, nel 2012. Pisapia è fra coloro che già in passato si opposero all’ipotesi di trasferimento di San Vittore. Nel 2003 a proporre la "delocalizzazione" fu il ministro della Giustizia, Roberto Castelli. Nel 2009 ci provò Alfano, stimando un valore dell’area superiore al miliardo di euro. Fra i contrari alla cessione si schierarono il costituzionalista Valerio Onida e l’allora direttore del carcere di Bollate, Lucia Castellano. Oggi che è dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria, Castellano conferma: "La proposta di vendere San Vittore mi lascia perplessa. Il posto delle prigioni, quando possibile, è nel cuore delle città. Serve un piano di ristrutturazione, a partire dai locali usati dalla polizia penitenziaria. Il governo ha poi dimostrato di stare giustamente investendo sulle misure alternative al carcere". Gherardo Colombo, ex magistrato impegnato da nove anni in progetti di volontariato a San Vittore, dice: "Accetterei l’idea del trasferimento a due condizioni. Anzitutto, che il carcere sia ricostruito sul modello dei penitenziari dei Paesi nordici, come Halden in Norvegia, con 157mila metri quadrati di area per 400 detenuti. E poi che San Vittore sia trasformato in museo". Simile la posizione di Remo Danovi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano: "Se si vogliono trasferire i detenuti in una struttura migliore, lo si faccia. Ma San Vittore resti all’amministrazione della Giustizia. Potrebbe ospitare le commissioni tributarie e la giustizia amministrativa, oggi nella sede inadeguata di via Corridoni". Ogni ipotesi che dovesse prevedere una destinazione diversa da quella carceraria per San Vittore si scontrerebbe con le previsioni del Piano di governo del territorio votato dal Consiglio comunale. "Sotto la giunta Moratti si era previsto il cambio di destinazione, ma oggi l’area è vincolata alla sua funzione - dice Mirko Mazzali, avvocato penalista e consigliere comunale eletto con Sel - se il governo vuole migliorare la condizione dei detenuti, ristrutturi i due raggi che da anni sono inagibili per il cedimento dei pavimenti". Per la manutenzione si spendono anche i radicali, che ieri hanno fatto a San Vittore un flash mob. A chiedere "una profonda ristrutturazione" è anche Mario Tosi, segretario milanese di Cisl per il comparto sicurezza. "Oggi gli agenti non hanno parcheggi, né una vera e propria caserma", dice. Aosta: il carcere "aperto" che grazie al lavoro fa bene a chi è fuori di Stefano Tamagnone cronacaqui.it, 4 giugno 2016 Entro in carcere. Siamo in tre, ma non scambiamo neppure una parola. L’avvocato ha la testa bassa, la suora forse recita il rosario. Io stringo il taccuino tra le mani. Visto da lontano il Lorusso e Cutugno sembra un agglomerato di case popolari degli anni ‘70. Solo al cancello si scopre la sua vera natura. Una struttura vecchia, figlia di quell’epoca infausta delle carceri d’oro. Con relative inchieste, arresti e sprechi enormi di denaro. Domenico Minervini, il direttore, è qui da tre anni, viene da Aosta ed ha preso servizio a Torino il 26 maggio 2014, in uno dei momenti più difficili delle "Vallette". Direttore, quale situazione ha trovato e cosa è cambiato? Una situazione difficilissima. La tensione, dopo la sparatoria con due morti a dicembre dell’anno prima, era palpabile. Con il nuovo comandante ho lavorato molto sulla serenità dell’ambiente. Bisognava ricostruire relazioni umane e professionali, e credo di esserci riuscito. L’impronta di un direttore si vede dopo tre anni. Qual è la sua? Mi sono sforzato di far sì che l’istituto sia il più possibile trasparente, favorendo gli incontri con la società civile: più entra in istituto, meglio è. Il carcere è un servizio per la società. Più si conosce, più si può capire e superare i discorsi da bar del "buttare la chiave" e comprendere che il carcere non è solo afflizione, ma occasione e momento giusto per provare a rieducare, costruendo ponti con l’esterno. E anche le criticità, per essere superate, si devono conoscere. Qual è la principale, oggi? Sicuramente la struttura, nata quando si risparmiava sui materiali. Ora ne paghiamo le conseguenze, con un istituto fatiscente, con sei plessi distinti, enorme e interventi molto costosi. Il tema è fondamentale proprio di questi tempi in cui si parla di umanizzazione della pena, che passa sì dall’allentamento misure, e ci stiamo lavorando, ma anche dal miglioramento delle condizioni di vita. Adesso, almeno, non piove più dentro. E il sovraffollamento? Alcuni anni fa avevamo anche 30 persone che prima della convalida dormivano per terra in palestra. Ma poi è arrivato il contenzioso con Strasburgo, un’occasione per riprendere il sistema penitenziario in mano rivedendo la normativa che ha portato alla deflazione. In Italia, se non c’è una spada di Damocle, non ci si muove. Parma: la città vicina ai detenuti grazie a teatro e libri, progetto illustrato in un convegno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 giugno 2016 "Il carcere è una città nella città, troppo spesso dimenticata. Noi da sempre ci prestiamo attenzione e cerchiamo di essere vicini sia a chi sconta una pena sia agli operatori che spesso lavorano in condizioni difficili. Con iniziative come queste il dialogo fra carcere e città diventa concreto", così ha esordito Federico Pizzarotti, il sindaco grillino di Parma recentemente in polemica con i vertici del movimento 5 stelle. Il primo cittadino parmense si riferisce a un progetto finalizzato a riorganizzare e rinnovare le biblioteche dell’Istituto Penitenziario di Parma e a dar vita ad un rapporto di collaborazione stretto e duraturo tra Biblioteche Comunali e il carcere di Parma. L’iniziativa è stata presentata durante un convegno insieme a Gennaro Migliore, sottosegretario di stato del ministero della Giustizia, Carlo Berdini, direttore degli istituti penitenziari di Parma, Laura Maria Ferraris, assessore alla Cultura e Anna Maria Meo, direttore del Teatro Regio. Quest’ultimo, con la rappresentazione "Trame di Rigoletto", il teatro ha fatto il debutto dentro le mura dell’Istituto Penitenziario di Parma. "Apprezzo molto lo spirito collaborativo fra istituzioni - ha detto Gennaro Migliore durante il convegno - oggi in carcere abbiamo goduto una rappresentazione molto bella grazie al Teatro Regio, è stata una grande dimostrazione di attenzione all’esistenza di una struttura che definisco come grande rimosso dalla società e sarà utilissima per ricostruire legami sociali e fare uscire le persone meno pericolose di quando sono entrate. Il tempo trascorso in carcere serve a dare maggiore sicurezza fuori dalle mura del penitenziario, perché rende umana la pena e riduce il rischio di recidiva, soprattutto se si innescano percorsi di dialogo, di formazione e di possibili futuri inserimenti lavorativi". Con il progetto "Leggere in libertà" il Comune e l’Istituto penitenziario di Parma intendono perseguire un progetto formativo e rieducativo duraturo finalizzato alla crescita dell’individuo in condizione di detenzione, alla creazione di un legame tra quest’ultimo e la società esterna e alla formazione professionale dei detenuti stessi. Nella seconda fase del progetto l’attenzione è rivolta alla costruzione di nuove raccolte e all’implementazione di quelle preesistenti all’interno delle due biblioteche carcerarie, così da incrementare il patrimonio librario - documentario presente, offrendo ai detenuti, anche a gruppi linguistici minoritari e persone con ridotte capacità visive, una valida opportunità per informarsi, studiare e coltivare i propri interessi personali. Per arricchire ulteriormente di significato il progetto "Leggere in libertà", accrescendone il valore, il Sistema Bibliotecario del Comune di Parma ha indetto un avviso pubblico, con scadenza il prossimo 18 giugno, rivolto a tutte le realtà culturali ed economiche (pubbliche o private) territoriali interessate a partecipare fattivamente alle iniziative di promozione della lettura all’interno del carcere, promuovendo attività o contribuendo con donazioni. Foggia: i Radicali denunciano l’emergenza sovraffollamento nella Casa circondariale teleradioerre.it, 4 giugno 2016 L’Associazione radicale di Foggia "Mariateresa di Lascia" è tornata tra i corridoi della Casa Circondariale del capoluogo dauno con una sua delegazione composta dal Segretario Norberto Guerriero, il tesoriere Anna Rinaldi e Antonella Soldo membro della direzione nazionale di Radicali Italiani. Una visita per monitorare le condizioni di chi vive ed opera al loro interno, fanno sapere dall’Associazione che in occasione dell’incontro con i detenuti hanno ricordato anche Marco Pannella, scomparso lo scorso 19 maggio. Una nuova denuncia da parte dei radicali foggiani: il rinnovarsi dell’emergenza nella struttura detentiva di nuovo pericolosamente sovraffollata. "A fronte di una capienza reale di 349 posti, i detenuti oggi ospitati sono oltre 520 unità". Soltanto lo scorso 3 gennaio "la popolazione era di 445 detenuti, con un tasso di sovraffollamento già allora oltre il 125%". Per i radicali si tratta di "una situazione critica" e denunciano le condizioni in cui sono costretti ad operare gli agenti di polizia penitenziaria: "Nonostante la pianta organica ministeriale preveda 322 unità, quelle effettive sono al di sotto delle 280". Per quanto riguarda il settore maschile le celle, che tornano ad ospitare anche oltre 5 detenuti in spazi insufficienti, sono in molti casi con servizi igienici a vista, che fungono anche da cucina, e prive di docce interne. L’acqua calda corrente rimane una chimera, la doccia di domenica è vietata. Peggiorate anche le condizioni del settore femminile, con celle sovraffollate e l’area passeggio ancora "inagibile" che relega le detenute in uno spazio insufficiente. I radicali foggiani ribadiscono ancora una volta l’inerzia della politica locale nell’affrontare le criticità del carcere di Foggia e tornano a ricordare l’importanza dell’introduzione del "Garante comunale dei detenuti". Milano: arrivano anche in Australia le ostie dei detenuti di Opera consacrate dal Papa Agi, 4 giugno 2016 Arrivano anche in Australia le ostie della Misericordia del carcere di Opera che Papa Francesco ha consacrato in Vaticano lo scorso 15 maggio. Con Sidney, vengono così raggiunti i cinque continenti. Le ostie prodotte da tre detenuti che lavorano al progetto "Il senso del pane" - saranno lunedì nella cattedrale metropolitana di Santa Maria, a Sidney, principale luogo di culto cattolico della città e chiesa madre dell’omonima arcidiocesi. Parteciperanno i gruppi del Rinnovamento dello Spirito con una delegazione di Cristianità in cammino, il movimento che fa capo a suor Myriam Castelli, ideatrice, autrice e conduttrice da 15 anni. Con la consacrazione in Australia, le ostie hanno così raggiunto tutti i cinque continenti, con l’obiettivo di portare la Misericordia di Cristo "fino ai confini delle terra". "Il senso del pane" è un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti che, nel carcere di Opera, ha allestito un laboratorio artigianale per la produzione di particole, che vengono donate gratuitamente alle parrocchie che ne fanno richiesta. Attualmente, sono oltre 200 le realtà che, per le loro messe, utilizzano le ostie che sono state consegnate personalmente dai detenuti anche a papa Francesco: il Santo Padre li ha ricevuti in udienza lo scorso 9 aprile e ha consacrato le particole lo scorso 15 maggio, a Pentecoste. "Questo progetto", spiega Arnoldo Mosca Mondadori, che ha ideato "Il senso del pane", "ci mostra come Gesù superi ogni confine, ogni muro e ogni lingua, unendo gli esseri umani attraverso la lingua universale dell’Amore". Pur nella diversità delle lingue e delle culture, come dimostra il "viaggio" che stanno compiendo le ostie: dagli scenari di guerra del Kurdistan iracheno, di Gerusalemme e della Siria, ai luoghi più cari alla devozione popolare, come Lourdes e Cracovia, fino ad arrivare a "terre di frontiera" come Nairobi, in Kenya, nel Nicaragua e a Cuba o nel carcere di Colombo, capitale dello Sri Lanka. Siracusa: studenti del Liceo scientifico Einaudi in visita alla Casa di reclusione di Brucoli di Samuele Lana* Ristretti Orizzonti, 4 giugno 2016 Oggi 3 giugno 2016 i volontari della Crivop Onlus sezione Siracusa e la classe III C del Liceo scientifico Einaudi di Siracusa, all’interno del progetto "alternanza scuola-lavoro", hanno svolto una visita presso la Casa di reclusione di Brucoli. Il direttore, dott. Gelardi A., ha concesso un tour dettagliato dell’istituto in tutte le aree di socializzazione e recupero del ristretto (palestra, teatro, sala colloqui, officina etc.), affiancando i visitatori di volta in volta con i responsabili degli spazi visitati. Il tour si è concluso con un dibattito con i ristretti all’interno della sezione di alta sicurezza dove sono stati affrontati molti temi e si sono evidenziati diversi spunti di riflessione in merito al bullismo, alla famiglia e alla scuola e il loro ruolo nel processo di strutturazione del minore. In fine, gli studenti hanno avuto modo di visitare le celle e comprendere quanto difficile sia la condizione del ristretto. Si ringrazia la direzione, l’area trattamentale e le forze di polizia penitenziaria della casa di reclusione di Brucoli per la sensibilità e per l’apertura mostrata ancora una volta nei confronti della popolazione carceraria prima e dei volontari e studenti dopo. La casa di reclusione di Augusta, ancora una volta, si conferma attrice protagonista nel recupero sociale dei reclusi ed inoltre strumento di crescita sociale per i giovani del territorio in cui opera. *Vicepresidente Crivop Onlus Sicilia Milano: "Il corpo del (c)reato", il caso Stefano Cucchi secondo Alessandro Bergonzoni di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2016 "Bastano quaranta righe per spiegare il disastro del Vajont", disse anni fa uno dei miei primi caporedattori. Non sono sufficienti le parole, invece, per raccontare l’esposizione-proiezione-intervento realizzati da Alessandro Bergonzoni che ha portato nella sala della Passione della Pinacoteca di Brera una "prima" capace di raccontare e unire l’opera artistica e umana, il dolore e il valore attraverso un silenzio urlato dalla copia del volto di Stefano Cucchi, simbolo di tante pietà andate distrutte. Bisogna esserci per capire "Tutela dei beni: corpi del (c)reato ad arte (il valore di un’opera, in persona": Bergonzoni in venti minuti è capace di fermarci davanti al detto e al non detto, a ciò che si vede e a quello che dovremmo essere capaci di vedere. "Non è una denuncia, è un’invocazione, una chiamata", precisa Bergonzoni che sta lavorando per portare questo progetto anche nelle pinacoteche di Venezia, Firenze, Torino fino a concludere a Roma dove vorrebbe vedere i ministeri della Salute, dell’Istruzione, della Cultura, della Difesa, dell’Economia e dell’Interno "gomito a gomito perché le sale sono tutte comunicanti". È una sola la domanda che pone a tutti l’artista: "Che differenza c’è tra un bene e il bene? L’umanità ha la più immensa collezione d’arte privata: gli esseri viventi. Finché non diventa una collezione privata: priva di attenzione, cura, verità, infinito. Privata di arte". Un interrogativo al quale ognuno prova a dare risposta restando con Bergonzoni in silenzio davanti all’opera che muta, a quella nota immagine di Stefano Cucchi che prende significato: "È solo il simbolo - spiega l’artista - delle opere rubate che noi non vediamo: di Cucchi e di altri ci sono delle copie. Chissà quante ne stiamo perdendo e non sappiamo nemmeno dove sono. Abbiamo avuto la fortuna di averne una, tristemente fatta da una fotografia di Stefano ma le altre persone che sono state violate sono tutte opere che erano in una collezione esistenziale umana andata distrutta. L’opera umana non è da allontanarsi dall’opera artistica e quest’ultima ha la stessa importanza, valore, dignità, bellezza che deve avere l’opera d’arte". Bergonzoni va oltre, porta "dentro" quelli "fuori" ma pensa soprattutto a chi sta dietro le sbarre: "Vorrei vedere quanto metaforicamente sarebbe rischioso portare un’opera in carcere senza che si rovini". E di là della metafora sta già pensando alla realtà: "Mi piacerebbe: dalle pinacoteche alle carceri, dalle carceri alle pinacoteche". Il gioco crudele del Migration compact di Guido Viale Il Manifesto, 4 giugno 2016 Con la "strepitosa" (come dice lui) proposta del Migration compact - prelevata peraltro di peso da un documento elaborato dallo staff della sua affiliata Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea - Renzi sostiene di aver trovato la soluzione per bloccare il flusso dei profughi provenienti dall’Africa. Si tratta non solo di pagare i governi degli Stati di origine o di transito dei profughi perché li trattengano lì, sul modello dell’accordo tra Ue e Turchia, ma anche di promuovere sviluppo e occupazione in tutti quei paesi, perché i loro abitanti non abbiano più motivi di emigrare. La prima cosa che viene da chiedersi è come mai Renzi, che pensa di avere la chiave per creare tanti posti di lavoro in un continente che conta oltre un miliardo di abitanti non sia riuscito a farlo in un paese che ne conta solo sessanta milioni, da cui continuano ad emigrare almeno centomila persone all’anno, prevalentemente giovani laureati e diplomati. Viene da pensare che Renzi non abbia alcuna idea di che cosa sia l’Africa, di che cosa comporti nei paesi di quel continente la presenza predatoria di multinazionali come Eni ed EDF (a cui il Migration compact vorrebbe affidare l’attuazione del suo programma di sviluppo), di che cosa sia la cooperazione allo sviluppo e, soprattutto, della violenza a cui sono sottoposti i profughi in gran parte di quei paesi prima di raggiungere il Mediterraneo per imbarcarsi per un viaggio dove rischiano la morte. Probabilmente invece, di tutte queste cose qualcosa ne sa; potrebbero averglielo spiegato i suoi collaboratori. Ma pare comunque chiaro, come in tutto quello che Renzi fa da quando è al governo, il fine elettorale anche di questa "trovata" fatta sulla pelle dei profughi. Renzi, che come tutto l’establishment europeo, non ha idea di come affrontare il problema, sta cercando di nasconderne le vere dimensioni, per tranquillizzare un elettorato aizzato da Salvini e i suoi sodali, e di far credere che la soluzione sia a portata di mano. E ha fretta che venga approvato dal Consiglio europeo prima del referendum su cui si gioca il suo futuro; e anche di spacciarlo come soluzione prima delle elezioni amministrative. Stupisce invece il servilismo con cui i commentatori di stampa e media stanno al gioco, fingendo di non capire che quel piano non è altro che una patacca. Persino chi ha il coraggio di ammettere che il problema non si risolve in quattro e quattr’otto e che è urgente attrezzarsi per far fronte non solo all’accoglienza immediata, ma anche alla permanenza di centinaia di migliaia di profughi che non possono, e non potranno tornare indietro per anni, come stanno facendo i vescovi italiani, continuano però a sottovalutare le dimensioni del problema, lasciando campo libero all’allarmismo di un Salvini; o, come il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, fanno credere che l’Italia, stretta nella "tenaglia" tra gli sbarchi e la chiusura delle frontiere alle Alpi, possa affrontare da sola un flusso destinato a durare ed a crescere negli anni. Il che non è vero. Per questo stupisce meno il credito che viene dato al Migration compact a livello europeo. Nessuno, nelle cancellerie dei paesi membri o nella Commissione, ha ancora detto che è semplicemente grottesco. Ma il gioco è chiaro: si tratta per tutti loro di prendere tempo, di rinviare la ricollocazione dei profughi proposta dal piano Juncker, lasciando che il peso dei nuovi arrivi si scarichi tutto sull’Italia. Ma questa politica del rinvio, che lascia campo libero alle destre razziste, come hanno reso evidenti le elezioni austriache, significa prima la dissoluzione dei partiti al governo dei principali paesi europei e, contestualmente, la fine dell’Unione europea. Non c’è da farsi molte illusioni: contro gli umori viscerali cavalcati dalle destre di tutta l’Unione, la costruzione di una politica vera di accoglienza e di inclusione dei profughi in arrivo dall’Africa e dal Medioriente non è né semplice né rapida come gli slogan usati dalle destre o il bluff lanciato da Renzi. È un processo lento e difficile, che vedrà le forze impegnate su questo fronte in minoranza per molti anni a venire. Ma occorre mettere in piedi sin da ora, integrando il tema dei profughi in tutti gli altri ambiti su cui si sta sviluppando il conflitto sociale in Europa in questo periodo, le ridotte da cui puntare alla riconquista delle condizioni di una convivenza vera tra cittadini europei e profughi e migranti, ma anche tra i popoli dell’Europa e quelli dei paesi da cui tante persone sono state, e continueranno ad essere costrette a fuggire. Il grido silenzioso dei sommersi di Nunzio Galantino Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2016 La vera emergenza non sono i migranti salvati, ma la strage in mare. Una domanda mi ha accompagnato - direi "assillato" - nei giorni scorsi, mentre viaggiavo per l’Italia e mentre incontravo situazioni di segno diverso: "Possono parlare i morti?". O meglio: "I morti possono gridare?". La mia risposta è: "Sì". Lo hanno fatto e continuano a farlo soprattutto i tanti che sono stati inghiottiti dalle acque del Mediterraneo e i tantissimi - dei quali non sapremo mai il numero nemmeno per approssimazione - che muoiono per strada, mentre cercano di attraversare il deserto per raggiungere qualche porto. Quella passata è stata una settimana di vita per alcuni, 7.200 arrivi (almeno fino al momento in cui scrivo), ma è stata soprattutto una settimana di morte, nel Mediterraneo, ai confini dell’Europa. L’Onu ha ricordato come i tre ultimi naufragi hanno visto 1.000 dispersi, 65 corpi di morti recuperati in mare, di cui 40 bimbi, anche neonati. Una strage silenziosa, un bollettino di guerra che si ripete regolarmente, che vede già dall’inizio dell’anno oltre 2.500 morti e dispersi. L’emergenza vera non sono i migranti che sbarcano sulle nostre coste - circa 48.000 dall’inizio dell’anno, con una crescita del 4% rispetto allo scorso anno - ma queste morti: la vera emergenza è una strage degli innocenti che si ripete in mare. Da queste morti sale un grido di pace, anzitutto. I morti parlano. Anzi gridano. I 19 conflitti alimentati negli ultimi sei anni anche da armi europee, la cui vendita è cresciuta a dismisura negli ultimi tre anni, alimentano le migrazioni forzate anche sulle nostre coste, dove le nazionalità più rappresentate sono Eritrea e Nigeria, paesi di antichi e nuovi conflitti. Da queste morti viene un grido di accoglienza. L’Europa opulenta di mezzo miliardo di persone non può rifiutare l’accoglienza di un numero maggiore di richiedenti asilo e rifugiati scaricando la responsabilità di accogliere oltre 2 milioni di richiedenti asilo e rifugiati a un Paese extraeuropeo come la Turchia. Anche il nostro Paese, che si sta distinguendo per il salvataggio in mare di molti migranti deve fare un passo avanti, strutturando un piano diffuso di accoglienza nei comuni italiani. Oggi sono accolti in Italia circa 120mila richiedenti asilo e rifugiati, di cui 23mila nelle strutture ecclesiali: forse possiamo fare di più in un Paese di 60 milioni di persone. Forse possiamo fare di più anche come comunità ecclesiali, rispondendo anche all’appello fatto alle Chiese in Europa da Papa Francesco, il 6 settembre scorso. Da queste morti ritorna anche una richiesta forte di cooperazione internazionale. Si parla di un piano per l’Africa, ma sembra essere ancora una volta un piano dell’Europa per lasciare ai Paesi dell’Africa sub-sahariana o del Corno d’Africa la responsabilità di riprendere o non far partire i migranti. Un piano per l’Africa chiede di fermare le multinazionali che stanno acquistando migliaia di ettari e cacciando le persone e le loro famiglie; chiede di ripartire dai beni essenziali - scuola, salute, lavoro - valorizzando e implementando - come già ricordava papa Benedetto XVI nell’enciclica "Caritas in veritate" - non macro-realizzazioni, ma microrealizzazioni, valorizzando la rete di centinaia di associazioni e Ong anche italiane e dei 12mila cooperatori e volontari. I 1.000 progetti che in questo anno giubilare come Chiese i n Italia siamo chiamati a realizzare, con l’aiuto della fondazione Missio, di Caritas Italiana e della Focsiv, vanno proprio in questa direzione: segni di diritto, quello a vivere nella propria terra, che oggi è negato non solo dalle guerre, dai disastri ambientali e dalla persecuzione politica, ma anche dalla fame, dalla mancanza di acqua, di strutture sanitarie, di scuole soprattutto nell’Africa sub-sahariana. In questo caso, ancora una volta, l’accoglienza e la cooperazione, è questione di giustizia e - come ho spesso affermato e scritto - di "restituzione". "Nati da donna. Femminilità e bellezza" era il tema di un Convegno di Scienza & Vita al quale ho partecipato. Un titolo, che di primo acchito si fa fatica ad accettare quando, per i motivi sopra descritti, passano davanti ai nostri occhi bimbi "nati da donna", ma rifiutati dall’egoismo di uomini senza scrupolo e rilasciati quasi pietosamente sulle nostre spiagge. "Femminilità e bellezza" difficili da ritrovare nei volti spaventati delle tante donne stuprate durante i tragitti della speranza. Eppure continuo a credere nella bellezza della componente generativa nella donna, che la pone al centro del creato come un principio insostituibile di vita. La bellezza del femminile è prima di tutto nella sua potenzialità generativa, in una eccedenza che probabilmente non avrà mai luogo, ma che rende la donna capace di un punto di vista maieutico verso l’altro. In realtà, penso che le parole "infertilità" e "sterilità" non abbiano alcun senso per le donne, perché loro sono e dovrebbero essere sempre quella bellezza accogliente, come si vede nel meraviglioso dipinto di Raffaello "La Madonna del cardellino". E se da un lato la donna è accoglienza, dall’altro è anche rassegnazione a quella che è stata chiamata come "empty nest syndrome", (sindrome del nido vuoto); l’idea cioè che una madre, e una donna, sanno lasciar andare, sanno dire addio e sanno accettare le delusioni, anche quella di una mancata maternità fisica. A differenza dell’epilogo, da questo punto di vista, di un meraviglioso spettacolo di Giorgio Albertazzi che, reinterpretando le "Lezioni Americane" di Calvino, chiude con la condanna degli uomini che non accettano la sconfitta davanti alla bellezza delle donne, alla loro creatività e alla loro sacrosanta voglia di libertà e di verità. "Basta ritorni forzati in Turchia": dossier di Amnesty International contro Ankara di Marta Ottaviani Avvenire, 4 giugno 2016 La Ong chiede la sospensione dell’accordo con l’Ue. A due mesi dall’avvio dell’accordo fra Unione Europea e Turchia per il rientro dei migranti, Amnesty International torna con forza all’attacco di Ankara, accusandola di non essere un Paese sicuro per i rifugiati respinti dal Vecchio Continente. L’accordo, che prevede il ritorno di 72mila migranti in cambio di sei miliardi di euro in aiuti e la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, è criticato severamente sia dal punto di vista umano, sia per il fatto che viene giudicato da molti inattuabile. Le critiche riguardano molti aspetti, da quello giuridico a quello organizzativo e si soffermano in modo particolare sulle condizioni in cui versano i bambini. Dal punto di vista giuridico, la Turchia è accusata di essere troppo lenta nelle procedure delle richieste di asilo. Questo comporta che migliaia di persone rimangono per anni in un vero e proprio "limbo". In più di un caso sono stati anche denunciati maltrattamenti al momento del rimpatrio dalla Grecia. Questa condizione ha un effetto immediato sulla qualità della vita degli individui sul lungo termine. Secondo Amnesty, infatti, senza un riconoscimento legale, migliaia di persone saranno praticamente impossibilitate a rifarsi una vita e quindi ad ambire a una reale integrazione, soprattutto per quanto riguarda il diritto allo studio e la possibilità di trovare un lavoro. Anche l’aspetto meramente organizzativo lascia a desiderare. Sempre secondo la denuncia dell’organizzazione umanitaria, la maggior parte dei rifugiati siriani è costretta a una sistemazione senza l’aiuto del governo, che, di fatto starebbe assistendo circa 270mila persone e basta. C’è poi la piaga dei minori, che secondo Amnesty sono sempre coinvolti nella situazione di disperazione delle loro famiglie e le aiutano per fare quadrare i conti. Questo ha dato luogo a veri e propri sfruttamenti di massa da parte di aziende turche, che li pagano da due a quattro euro al giorno. Un quadro sconfortante, al quale però il governo turco e la Afad, la protezione civile della Mezzaluna contrappongono un quadro diverso, sottolineando che la Turchia è sempre stata impegnata nella "politica della porta aperta" e di essere intenzionata a continuare con questa impostazione. Ankara conferma di ospitare nei suoi campi 270mila migranti su quasi tre milioni, solo un decimo del totale, ma di avere messo a disposizione di tutti i quasi i tre milioni di migranti possibilità di educazione, cure mediche gratuite, sostegno psicologico e partecipazioni ad attività sociali. La Mezzaluna ha anche sottolineato di aver concesso lo status di asilo temporaneo. Dal gennaio scorso, poi, alcune norme varate dal governo, consentono ai rifugiati di ottenere più agilmente il permesso di lavoro. In ultimo, Ankara ha fermamente smentito qualsiasi accusa di costrizione o incoraggiamento al ritorno volontario per i siriani. Cogito, il robot poliziotto che smaschera i terroristi di Ariela Piattelli La Stampa , 4 giugno 2016 Inventato in Israele, interroga i passeggeri e ne scopre le intenzioni. Che cos’è? Da dove sarà venuto mai? Si chiama Cogito ed è il RoboCop che stana i terroristi. Viene da un’azienda israeliana, la Suspect Detection Systems Ltd, il robot poliziotto, che fa domande ai sospetti terroristi, ne analizza il comportamento e scongiura gli attentati. Ha il 95% di margine di infallibilità ed è già utilizzato in molti Paesi. Un’invenzione complessa, ma duttile, semplice ed immediata nell’utilizzo. "La tecnologia di Cogito consiste in due sistemi diversi. Spiega a La Stampa il Ceo dell’azienda Shabtai Shoval, che in passato ha servito l’esercito israeliano e ha lavorato nell’intelligence -. Cogito 4M è un sistema automatico che pone domande alla persona sospetta. Per esempio: siamo in un aeroporto e sottoponiamo al sistema un immigrato che viene dalla Siria. Cogito gli chiederà se è entrato illegalmente, se fa parte dell’Isis e se viene nel nostro Paese per fare un attentato o per altri motivi". La persona sospetta, se è un terrorista, mentirà sicuramente, ma qui entra in gioco la tecnologia: "Dalla risposta il robot analizza le reazioni del sospetto ed i suoi comportamenti, come il livello di sudorazione, la voce e tutto il resto, per rivelare se sta mentendo". Le domande sono calibrate sul profilo del sospetto, il Paese di provenienza, la destinazione e su altri fattori. Negli aeroporti all’avanguardia, come il Ben Gurion di Tel Aviv, c’era già il personale addetto che interrogava i viaggiatori, ma il robot esclude l’errore umano, si spinge dove l’uomo non può arrivare, e ci offre scenari che anche nel film di fantascienza di Paul Verhoeven e nei libri di robotica di Asimov erano inimmaginabili. Il robot prende la temperatura a distanza dei viaggiatori. Il calore che tradisce - "Il secondo sistema si chiama Cogito 3000 - continua Shoval. Consiste in una telecamera termica, registra a distanza la temperatura corporea del sospetto, che è ovviamente diversa da quella di un normale viaggiatore, se ha con sé una bomba e sa che morirà nei prossimi cinque minuti. Questo sistema si usa negli aeroporti, negli stadi, all’entrata della metropolitana". Ci sono voluti quattro anni per dare vita a Cogito, che prende il nome dalla filosofia cartesiana (Cogito ergo sum) ed è già attivo in Israele, Russia, India, America Latina, Panama, e in America (è stato finanziato dal Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti). I sistemi non sono applicati soltanto contro il terrorismo, ma anche per dare la caccia a "semplici" criminali e trafficanti di droga. Nessun Paese europeo ha ancora acquistato il poliziotto tutto robot. "Questo perché gli europei sentono molto il tema della violazione della privacy, e Cogito legge nella mente - conclude Shoval -. Forse dovrebbero ripensare, alla luce degli attentanti di Bruxelles e Parigi, questo tema. Perché se si ha il sospetto che qualcuno stia per uccidere i tuoi figli, fargli domande per fermarlo è il minimo che tu possa fare". Ricerca continua - Sono molte le aziende israeliane che hanno inventato robot antiterrorismo, in varie forme. La Magna BSP Ltd ha messo a punto un radar ottico capace di individuare droni: il sistema è impercettibile, non entra in conflitto con l’attività di altri strumenti, e non ostacola la comunicazione fra torre di controllo e aerei. È già in uso in molti aeroporti l’invenzione dell’azienda Farkash Security Technology, il software di riconoscimento facciale di un individuo in movimento che è capace di ricostruire un’identità in un istante. Così i robot poliziotti, che ci chiedono chi siamo, ci provano la febbre, e disegnano il nostro profilo, forse ci salveranno per davvero. Ucraina: l’Onu accusa Kiev "torture sistematiche nelle carceri" Askanews, 4 giugno 2016 Nove giorni fa negato accesso a carceri a delegazione anti-torture. Gli agenti dello spionaggio ucraino (Sbu) utilizzano sistemi di tortura come routine con combattenti ribelli filorussi e i loro simpatizzanti dei ribelli filorussi. L’accusa arriva dall’Onu, mentre nell’Est ucraino si registrano nuove violenze dopo un periodo di calma. Le critiche delle Nazioni Unite riguardano anche il campo separatista, ma buona parte dell’update sulla situazione in Ucraina, dettagliato in un rapporto di 53 pagine, punta il dito contro le autorità di Kiev e la SBU. Secondo Ivan Simonovich, vicesegretario generale delle Nazioni Unite per i diritti umani, in alcune zone "il disprezzo per i diritti umani" di Kiev è diventato radicato e sistematico e deve essere affrontato con urgenza. Il rapporto delle Nazioni Unite documenta centinaia di casi di detenzione illegali, torture e maltrattamenti di detenuti. "Si richiama l’attenzione inoltre su abusi sui prigionieri e omicidi da parte di gruppi di ribelli filo-russi, ma a essere messa in luce è soprattutto la brutalità del programma di tortura sostenuta dal governo dell’Ucraina", scrive il Times, riferendo del rapporto che arriva nove giorni dopo l’interruzione di una visita in Ucraina di una delegazione che si occupa di prevenzione delle torture, decisa perché le autorità ucraine hanno rifiutato agli emissario Onu l’accesso alle prigioni. Egitto: "bruciature, lividi e ossa rotte", gli egiziani uccisi come Regeni di Antonella Beccaria e Gigi Marcucci Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2016 Le vicende di attivisti o persone comuni arrestate e torturate proprio negli stessi giorni in cui veniva sequestrato il ricercatore italiano. Mio marito è scomparso il 13 gennaio 2014. Mi ha detto che qualcuno della polizia lo aveva convocato per bere un caffè, l’ho visto uscire di casa preoccupato, e non è più tornato". Rafaat Faisal Sheata, conosciuto come Ashraf Sheata, avvocato e imprenditore, è tra i fondatori del partito laico al Dostur (La Costituzione) con Mohamed Al Baradei, già direttore generale dell’Agenzia per l’energia atomica, premio Nobel per la Pace nel 2005. Maha Al Mekawi, anche lei impegnata in al Dostur, ancora oggi cerca suo marito, è stata minacciata - indirettamente, precisa -ma al telefono dice di non aver paura: "Dentro di me ci sono ansia e nervosismo, ma vado a avanti perché di me sarà ciò che vuole Dio: così è scritto nel Corano". E lancia un appello a El Baradei: "Usando il suo nome e la sua storia rivolga un appello all’Onu. Non ci lasci soli, aiuti noi e altri che hanno subito lo stesso destino. Deve far sentire la sua voce perché in Occidente tutti lo rispettano". In Egitto, gennaio sembra il mese più pericoloso. Il 25 cade l’anniversario della rivoluzione - al thawra - che depose Mubarak: le statistiche insegnano che in quei giorni è più facile morire o scomparire, come successo a Giulio Regeni. Dai segni trovati sul suo corpo, confrontati con quelli trovati sui corpi di altre persone rapite nello stesso periodo, emerge il ritratto di un regime che, grazie al terrore, aspira a essere totalitario. Nello stesso giorno in cui scompariva Regeni, il 25 gennaio, veniva consegnato alla famiglia il corpo di Mohamed Hamdam, ingegnere di 32 anni, militante della Fratellanza Musulmana, movimento islamista che il regime di Al Sisi accusa di intesa con organizzazioni terroristiche, ma che ufficialmente rifiuta il jihadismo. "Aveva ossa fratturate, segni di scariche elettriche, unghie strappate. Il referto diceva che era morto per colpi d’arma da fuoco al petto, quindi in seguito a una crisi respiratoria. Quando lo abbiamo preparato per la sepoltura ci siamo accorti che aveva segni di tortura ovunque. Abbiamo chiesto di poter avere il referto: non ce l’hanno mai dato", spiega il fratello Ali Hamdam. Mohamed era dunque un oppositore del regime, il 10 gennaio è stato prelevato da uomini nel suo ufficio. "Quelli che l’hanno preso erano sicuramente dei servizi segreti, e sapevano chi cercare. Lo hanno chiamato per nome e lui li ha seguiti. È accaduto davanti ai colleghi, che hanno fatto denuncia, ma non è successo niente". Ali dichiara che c’era - no tracce di bruciatura di sigarette dietro le orecchie del fratello: una sorta di marchio di fabbrica. Com’è noto, anche sul corpo di Regeni sono state rilevate tracce di ustioni, anche se ciò non è sufficiente per individuare la mano omicida. Il regime non dice quasi mai la verità, ma in caso di sparizioni mente di più. A Maha Al Mekawi è stato detto che il marito potrebbe essere fuggito all’estero. "Un ufficiale mi ha detto che Ashraf poteva essere espatriato, magari per sposare un’altra donna, perché aveva con sé il passaporto. Che in quei giorni non avesse la carta di identità nazionale lo sapevo io. Ho capito che erano solo bugie". Del resto Maha ha ripetuto la sua verità anche davanti al generale Abu Bakr Abdel Karim (dal luglio 2015 designato dal ministro dell’Interno Ghaffar a curare pubbliche relazioni e ai diritti umani) in tv. "Che mio marito sia ancora vivo me lo hanno detto molti testimoni. Un ufficiale della polizia mi confidò che era stato preso per dargli una tirata d’orecchie e che sarebbe stato rilasciato". Poi il silenzio. Egitto "no all’isolamento", i prigionieri alzano la voce di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 giugno 2016 La pratica punitiva sempre più utilizzata: prigionieri isolati per mesi con gravi danni fisici e psicologici. Tra loro attivisti e avvocati arrestati il 25 aprile. Mentre il presidente del golpe, l’ex generale al-Sisi, ieri sera in televisione elencava i successi di due anni dalla sua elezione, l’avvocato Maked Adly contava il suo primo mese dentro una cella da tre metri quadrati, completamente solo, separato dal resto del mondo. Nell’elenco di al-Sisi spiccavano gli otto grandi progetti infrastrutturali, alcuni faraonici, inaugurati o messi in cantiere dal 2014 ad oggi. Come il nuovo Canale di Suez e le zone industriali a corredo o il progetto di sviluppo in Sinai con fattorie, reti stradali e zone residenziali nuove di zecca: una spesa di 117 miliardi di dollari, buona parte dei quali finanziati dai sostenitori regionali e internazionali del Cairo. Nella lista presentata ieri in tv però non figuravano gli arresti di massa e l’ampia politica di repressione della società civile che appaiono il vero "risultato" di questo regime, un "traguardo" mai raggiunto prima in termini di numeri e pervasività. Tra gli strumenti messi in campo dagli Interni e dal ministro Ghaffar, eminenza grigia della campagna di oppressione interna, c’è l’utilizzo spasmodico e strutturale dell’isolamento. Sono moltissimi i prigionieri politici costretti a subire un’ulteriore punizione, oggi diventata target di una campagna online, lanciata su Twitter e Facebook e ribattezzata #NoToSolitaryConfinement: "Secondo il regolamento carcerario - si legge nella pagina Facebook - l’isolamento può durare al massimo 30 giorni e non può essere utilizzato come forma punitiva". A promuoverla sono attivisti per i diritti umani e familiari dei detenuti che in rete pubblicano le storie di coloro che sono sottoposti da settimane, mesi o anni all’isolamento totale in carcere, pratica definita dalle Nazioni Unite "tortura per legge". Tra i prigionieri egiziani sottoposti a isolamento ci sono nomi noti, avvocati e attivisti arrestati nel corso delle ultime settimane, durante la campagna di detenzioni di massa imbastita per fermare l’ondata di proteste anti-governative a seguito della cessione all’Arabia Saudita delle isole Tiran e Sanafir. Ci sono il fotoreporter Shawkan, per il cui rilascio ha fatto appello anche la famiglia di Giulio Regeni; Malek Adly, responsabile della Rete degli Avvocati dell’Egyptian Centre for Economic and Social Rights, in isolamento da un mese; l’artista Ahmed Douma da tre mesi; il giornalista Yousef Shaaban, da otto. Proprio la moglie di Shaaban, Ranwa Youssef, è tra le organizzatrici della campagna: "Dopo mesi di isolamento, il solo desiderio di Youssef è entrare nella metro, avere intorno a sè gente il più a lungo possibile". Chi è costretto in isolamento, spiegano le organizzazioni per i diritti umani, non può ovviamente ricevere visite familiari, ma neppure cibo e medicine dalla propria famiglia. Non riceve cure mediche né visite del proprio avvocato. È chiuso in una cella di 3 metri quadrati, per 22 ore al giorno durante le quali non ha alcun contatto con l’esterno. Uno spazio minimo senza finestre, dove l’unico effetto personale spesso è una coperta. Non sono ammessi lenzuola, vestiti pesanti per l’inverno, medicinali. Le condizioni fisiche e psicologiche di detenzione sono estreme, disumane. Si sono registrati casi di prigionieri che hanno tentato il suicidio. Alcuni sono riusciti ad uccidersi, altri muoiono per le conseguenze della misura punitiva. In ogni caso gli effetti sulla psiche e la salute mentale sono devastanti: "L’isolamento compromette la capacità di reintegrarsi nella società una volta scarcerati", scriveva nel 2011 Juan Mendez, relatore speciale Onu, in un rapporto per l’Assemblea Generale. Onu o meno, Il Cairo non teme ripercussioni. Giovedì i vertici egiziani sono andati all’attacco di Unione Europea e Nazioni Unite, responsabili agli occhi del regime di fare dichiarazioni azzardate sul rispetto dei diritti umani nel paese. Il portavoce del Ministero degli Esteri, Ahmed Abou Zaid, ha bacchettato l’Alto Rappresentante Ue agli Affari Esteri: Federica Mogherini aveva definito "un preoccupante sviluppo" l’arresto dei vertici del sindacato della stampa (la prima udienza del processo è prevista per oggi). "Prima di giudicare ingiustamente la situazione delle libertà in Egitto, dovrebbero guardare prima a come questi soggetti criticano le performance del governo". Stesso messaggio per il segretario generale Onu Ban Ki-Moon che martedì aveva espresso disappunto per gli stessi arresti. Afghanistan: donne in galera per reati "contro la morale" e test di verginità di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 4 giugno 2016 Il 95% delle detenute nelle carceri afghane è accusato di reati come tradimenti e sesso al di fuori del matrimonio. Ma basta scappare di casa per essere perseguibili in uno stato dove lo stupro coniugale non è reato. "Il governo - dice Human Rights Watch - ponga fine alla discriminazioni che vìolano i diritti delle donne". L’elezione del presidente Ghani ha portato una ventata di ottimismo in una terra martoriata che per decenni ha visto alternarsi estremisti a governi militari. Ad oggi qualche passo avanti è stato fatto, ma ancora la strada verso la stabilità sociale è lunga e in salita. Come spesso accade, la condizione delle donne è lo specchio dello stato. E da questo punto di vista, di strada da fare ce n’è ancora molta. Nella giustizia afghana infatti si riflettono ancora norme che derivano da una struttura sociale fortemente patriarcale e che mortifica le donne nella loro dignità. Promesse. Nei mesi scorsi, in seguito alle pressioni internazionali e alla pubblicazione del rapporto redatto dall’Afghanistan Independent Human Rights Commission (AIHRC), il presidente afghano Ashraf Ghani in una lettera indirizza a Human Rights Watch ha mostrato segnali incoraggianti. Nella missiva infatti il governo afferma che "per porre fine alla detenzione di donne accusate di esser scappate dalla famiglia, il presidente ha chiesto alla Corte Suprema di emettere una sentenza sull’articolo 130 della Costituzione". L’articolo in questione riguarda il reato di zina, ovvero aver avuto o tentato di avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Il reato che prevede pene dai 5 ai 15 anni di reclusione viene usato anche per condannare le donne che fuggono di casa. Donne trattate da criminali. "La promessa fatta dal presidente Ghani è un importante passo avanti per i diritti delle donne in Afghanistan - ha detto Heather Barr, ricercatrice per i diritti delle donne di Human Rights Watch - Ma per fare davvero la differenza, il presidente dovrebbe emettere un ordine chiaro e vincolante che cambi immediatamente la gestione da parte delle forze dell’ordine delle denunce contro le donne. Per troppo tempo, le donne e le ragazze in fuga dalla violenza sono state trattate come criminali, mentre i loro aguzzini restano in libertà". Test della verginità. Uno degli elementi che evidenzia il divario tra donne e uomini nella legislazione afghana è il test della verginità: un esame invasivo vaginale e rettale, privo di fondamento scientifico per verificare attraverso lo stato dell’imene e del condotto anale la purezza delle imputate. Le donne accusate di crimi morali devono sottoporsi alla pratica e su di loro ricadono le conseguenze psicologiche e sociali, oltre che legali. Se da un lato infatti questo esame è vincolante dal punto di vista giuridico tanto da determinare anche sentenze di colpevolezza, dall’altro le ripercussioni sociali per una donna "testata" portano spesso all’isolamento. Una condizione che degenera in gravi traumi psicologici fino, nei casi più estremi, al suicidio. "Il presidente Ghani -continua Barr - potrebbe porre fine all’uso abusivo e non scientifico dei "test di verginità" con un tratto di penna. Avrebbe dovuto farlo già molto tempo fa". Questi test, condotti davanti a numerose persone e con modalità che possono sfociare nell’abuso sessuale, mortificano la donna che è costretta a sottoporvisi anche contro la propria volontà, violando così il diritto alla dignità dell’essere umano. Stupri e violenze non sono reati. Se da un lato la legge punisce la donna rea di aver avuto rapporti sessuali consensuali al di fuori del matrimonio, dall’altro in Afghanistan figlie, madri e mogli non sono tutelate contro gli abusi più frequenti: quelli all’interno delle mura domestiche. La fuga dalla propria famiglia rappresenta spesso l’ultimo tentativo per cercare di salvare la pelle, di costruire una nuova vita dopo un matrimonio precoce o anni di abusi e sevizie. Ma tutto questo non è contemplato in quel diritto che spesso accusa di zina donne stuprate e lascia i loro stupratori in libertà. "L’adozione di un nuovo codice penale - conclude Barr - potrebbe far fare un balzo avanti alla società afghana. Il presidente Ghani dovrebbe far in modo che la nuova legge difenda i diritti delle donne eliminando tutti i riferimenti ai "crimini morali" e aggiungendo nuove disposizioni che proteggano donne e ragazze dagli abusi".