Lo Stato in debito con i detenuti di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 3 giugno 2016 Indirettamente anche i carcerati sono tra le vittime dei ritardi della Pubblica amministrazione nell’onorare i propri impegni economici. Accanto agli imprenditori e ai fornitori, che giustamente se ne lamentano trovando almeno qualche eco nell’opinione pubblica, indirettamente anche i detenuti in carcere e i condannati che stanno espiando la pena in esecuzione esterna sono tra le vittime dei ritardi della Pubblica amministrazione nel pagare i propri debiti. Una nicchia nella quale il paradosso è ancora più stridente: lo Stato, che giustamente punisce quanti hanno infranto le regole e che chiede loro di reimparare durante la pena a rispettarle, è il primo a non rispettarle nei loro confronti, non onorando ad esempio 48.000 euro di crediti necessari come l’ossigeno a Ristretti Orizzonti per continuare a esistere. Cosa è Ristretti Orizzonti? Se negli ultimi anni la vita quotidiana delle carceri è diventata un po’ meno oscura, negletta e opaca, è stato anche per merito di questa che molti ormai riconoscono come una vera e propria agenzia di informazione sull’universo penitenziario. E tante altre cose assieme: il giornale dei detenuti del carcere "Due Palazzi" di Padova, ma nel contempo anche un centro di documentazione, un notiziario quotidiano sulla giustizia e sull’esecuzione della pena, una rassegna stampa, una newsletter, un sito consultato ogni giorno in media da 4.000 utenti, un archivio di 130 mila voci, e un’associazione ("Granello di Senape Padova") nei progetti di volontariato sociale. Periodicamente, come tanti altri soggetti del terzo settore, si trova a corto di soldi, e periodicamente chiede aiuto, sottoscrizioni, abbonamenti. Ma stavolta il riacutizzarsi della crisi va di pari passo con la beffa: perché l’agenzia di informazione fatta dai detenuti di Padova non avrebbe così tanta acqua alla gola se la Pubblica amministrazione non fosse inadempiente nei propri obblighi. Infatti la Regione Veneto deve ancora pagare 10.000 euro per un progetto svolto nel 2014; il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali deve ancora saldare 5.400 euro per la Direttiva 2013 "Progetti sperimentali del Volontariato", e altri 21.600 euro legati alla Direttiva 2014 "Progetti sperimentali del Volontariato" con il progetto Communitas (uno sportello di "ascolto" legale e psicologico delle necessità di senza tetto e persone con disagi, che ha già reindirizzato oltre 400 persone a professionisti in grado di aiutarli a uscire dalle loro contingenti difficoltà); inoltre, dulcis in fundo, non sono ancora stati liquidati gli 11.000 euro donati nel 2014 dai contribuenti italiani con il cinque per mille. Sommati, fanno 48.000 euro di crediti, pari a circa un terzo della "benzina" con la quale la galassia di Ristretti Orizzonti opera nel corso di un anno. Volontariato & giustizia. "L’anno prossimo compiremo vent’anni, ma a questo compleanno così importante rischiamo di non arrivarci", riassume la direttrice Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia: "Quando con i detenuti della mia redazione mi batto per una assunzione di responsabilità da parte loro, rispetto ai reati che hanno commesso e alle persone che hanno offeso, mi trovo poi in grande difficoltà se a non rispettare la legge, e a non assumersi la responsabilità delle illegalità commesse, sono proprio le istituzioni. E mi sento più debole quando per esempio questi comportamenti sono messi in atto dagli enti locali o dai ministeri. Eppure, qualche giorno fa ho dovuto provare a chiedere un prestito a una banca non perché noi abbiamo gestito male le risorse di cui disponevamo, ma perché avanziamo pagamenti di soldi anticipati da noi da anni". E in questa situazione "non ce la facciamo più a continuare le nostre attività, mentre si preferisce parlare di sicurezza finanziando l’acquisto di telecamere invece del reinserimento delle persone detenute. Eppure noi alla sicurezza pensiamo davvero, incontrando ogni anno nelle scuole e in carcere (e questo è un progetto che potrebbe essere un modello di educazione alla legalità) migliaia di studenti che si confrontano con le persone detenute su come si possa scivolare in comportamenti a rischio, e passare quasi senza accorgersene "dall’altra parte". "Io, giudice che ho condannato un uomo al carcere a vita dico no a questa pena" di Franco Insardà Il Dubbio, 3 giugno 2016 Intervista con Elvio Fassone, autore di "Fine pena ora". Poteva essere l’ultima lettera. L’ultima di una fitta corrispondenza durata 26 anni, quella tra Salvatore, giovane ventisettenne condannato all’ergastolo 28 anni prima, ed Elvio Fassone il giudice che emise quella sentenza nel 1978. Poteva essere l’ultima lettera, ma per fortuna le cose sono andate diversamente. Salvatore, infatti, aveva deciso di cambiare il corso della sua vita da ergastolano con un "fine pena ora". Aveva deciso, cioè, in un momento di sconforto, di suicidarsi. Voleva farlo con una cinghia da stringere intorno al collo. Voleva usarla per riprendersi quella libertà che la condanna a "fine pena mai" non gli avrebbe mai potuto garantire. Ma poi l’intervento tempestivo di un agente di polizia penitenziaria ha evitato la tragedia. E così Salvatore ha scritto al suo giudice-confidente. "L’altra settimana ? gli ha confidato - ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato... Mi scusi". Inizia così "Fine pena: ora" (Sellerio editore), il racconto di Elvio Fassone, ex magistrato, ex senatore Ds per due legislature ed ex componente del Csm, del suo rapporto con Salvatore (nome di fantasia utilizzato dall’autore). Fine pena ora. Ce lo spiega? Nella cartella che accompagna la vita di un ergastolano c’era scritto "fine pena mai". Oggi il computer che pretende di tradurre i concetti in cifre ha sostituito quella frase con un freddo "31/12/9999". Quando l’ergastolano esaurisce la sua capacità di sopportare la drammatica assenza totale di futuro può capitare, e purtroppo accade di frequente, che tenti di togliersi la vita. Ecco perché idealmente ho sostituito la parola "mai" con "ora". La mia pena finisce adesso e faccio finire la mia vita dato che non ha più alcun senso. Salvatore aveva deciso. Lo hanno salvato. Lei che lo ha conosciuto così bene pensa che sia stata per lui l’ennesima sconfitta? Mi auguro di no. Il fatto stesso che mi abbia scritto subito dopo per raccontare il gesto e abbia aggiunto le parole "mi scusi non lo farò più", è confortante. Evidentemente è stato un cedimento di fronte a un’ulteriore delusione. Oramai da quel momento sono passati circa due anni e mezzo e finora non ha più manifestato intenzioni simili. La cosa, però, mi ha comunque allarmato. Per chi ha vissuto oltre trent’anni di reclusione sulla sua pelle, una ricaduta è sempre dietro l’angolo. Ha deciso di fare qualcosa? L’unica cosa che ho potuto fare è stato raccontare questa storia attraverso il carteggio con Salvatore. Credo che raccontare una sofferenza significhi in piccola parte risarcirla e sperare che una mobilitazione di intelligenze e di spiriti possa contribuire ad arrivare anche a un cambio legislativo. Qual è stata la molla che lo ha spinto a scrivere quella prima lettera? Il disagio interiore che provavo dal fatto che avendo instaurato un rapporto un po’ diverso dal solito con alcuni dei detenuti, che normalmente stanno davanti al giudice poche ore, massimo pochi giorni. Nel corso del processo di Salvatore c’era stata una frequentazione di quasi due anni. Era nato un rapporto meno impersonale, meno burocratico. In particolare mi aveva colpito l’ultimo colloquio prima della fine del processo. Perché? Mi chiese se avessi dei figli. Alla mia risposta positiva mi disse: "se suo figlio nasceva dove sono nato io forse a quest’ora era lui nella gabbia e se io nascevo dove è nato suo figlio forse adesso io facevo l’avvocato ed ero pure bravo". Come a dirmi che nella lotteria della vita aveva avuto il biglietto sbagliato. Fu allora che decisi di scrivergli. Si aspettava una risposta? Ero molto dubbioso, perché quella lettera poteva essere interpretata come un gesto ipocrita. Il gesto del carnefice che si china a fare una carezza alla vittima e può anche giustificare una reazione. Ma Salvatore per fortuna la prese bene. Dopo quella lettera nella quale Salvatore le chiedeva scusa per il suo tentato suicidio il rapporto epistolare è finito? No, affatto. Dura tuttora, ma sta diventando particolarmente difficile perché la sua capacità di resistenza si sta esaurendo e la mia capacità di sostenerlo si rivela piuttosto inefficace. Ho scritto il libro per sollecitare, per quel che mi riesce, l’opinione pubblica a intervenire su questa materia che esige un intervento. L’ergastolo senza via d’uscita ha manifestato e manifesta la sua disumanità e come tale è evidente la necessità di un intervento collettivo. La storia di Salvatore è quella di tanti detenuti italiani per i quali quel 9999 significa non avere speranze. I dati ministeriali, di alcuni mesi fa, ci dicono che gli ergastolani sono 1619, dei quali 1200 ostativi. In molti non hanno possibilità di una via d’uscita a meno che non si decidano a collaborare con la giustizia. Il suo Salvatore decide di riprendersi la libertà, come tanti altri detenuti. I dati sono impressionanti: dal 2000 ad oggi il censimento puntuale di Ristretti Orizzonti ci dice che i morti sono stati 2.527 e i suicidi ben 900. La media dei suicidi in carcere è superiore di 15/20 volte rispetto ai quella dei cittadini liberi. È uno scarto patologico e va in qualche modo curato. I radicali da sempre propongono l’amnistia e l’indulto per risolvere il sovraffollamento delle carceri. Che ne pensa? L’amnistia riguarda i reati piccoli e serve a svuotare non le carceri, ma gli armadi. L’indulto si è rivelato un palliativo con benefici di breve durata: molti di quelli che sono usciti ritornano in carcere. Invece che cosa bisognerebbe fare secondo lei? Secondo la mia esperienza la soluzione strutturale per i delitti di media gravità, sarebbe quella di sostituire la reclusione con prestazioni pubbliche di utilità a titolo gratuito: in termini di pena potrebbero valere più della reclusione. Ad esempio un giorno di prestazione potrebbe equivalere a tre giorni di detenzione. Occorrerebbe un programma ben definito, con un apparato, al momento inesistente, fatto soprattutto di formatori. Soltanto allora si potrebbe alleggerire in maniera massiccia la popolazione carceraria. La legge Gozzini ha già indicato una strada simile. Parliamo di un’eccellente legge sotto molti aspetti. Ne vorrei sottolineare uno in particolare: la possibilità di utilizzare il tempo della detenzione ha incentivato chi è dietro le sbarre a diventare collaboratore delle istituzioni. Se il detenuto sa che ogni sei mesi può scalare giorni di pena partecipando all’opera di trattamento prevista dalla Gozzini, è invogliato a farlo e fin dal primo giorno. Quello che ha fatto anche il "suo" Salvatore. Assolutamente. Ha maturato una serie di 45 giorni sterminata, finché ha perso la speranza. Ha pensato: "tanto non mi servono: il mio fine pena non finisce mai. Questa mancanza di prospettiva è un modo indiretto, e forse non pensato, di vanificare parte della Gozzini. Carmelo Musumeci nel suo libro "Gli uomini ombra" descrive molto bene l’ergastolo e la differenza tra quello ordinario e quello ostativo. Mi sembra questo il punto fondamentale. L’ergastolo può essere mantenuto, però deve avere una via d’uscita praticabile. Dico questo perché la Corte costituzionale, già stata investita del problema dell’ergastolo ostativo, ha risposto che la via d’uscita c’è, basta che il detenuto collabori. È una risposta poco soddisfacente, perché la collaborazione non è un indice di rieducazione. Si può collaborare per tanti motivi: convenienza, vendetta o quant’altro. Non può essere questo il parametro al quale vincolare il percorso rieducativo. L’ergastolo ostativo è la pena, quindi, meno comprensibile e meno conciliabile con l’articolo 27 della Costituzione. Direi di sì. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha cambiato registro: in una sentenza del 2013 ha stabilito che una pena senza una via d’uscita praticabile è contraria al senso d’umanità e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo che abbiamo sottoscritto. Quindi questa sentenza vincola anche lo Stato italiano. Mi auguro che questo discorso entri nel vivo. Mi fa piacere che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, abbia istituito dei tavoli di lavoro sulla riforma della giustizia e che uno si occupi dell’esecuzione della pena. Da magistrato e da legislatore crede ci sia speranza che si possa modificare la norma sull’ergastolo? Nel 1981 il 77,4% disse di no al referendum che chiedeva l’abrogazione dell’ergastolo. Oggi si otterrebbe, penso, lo stesso risultato. Una battaglia frontale sul piano della praticabilità, non su quello dei principi la vedo molto complicata, anzi perdente. Per questo motivo, nella seconda parte del libro, propongo un approccio graduale che fissi come punto di arrivo una via di uscita all’ergastolo, correlata al percorso di rieducazione del detenuto. Chi continua a delinquere anche in carcere non è meritevole. Chi, invece intraprende un strada diversa deve poter avere una prospettiva di libertà. E questo deve valere per tutti i detenuti. Oggi Elvio Fassone è un pensionato che non vuole venire meno all’impegno che ha caratterizzato la sua vita, sia da magistrato sia da senatore. Giusto? Chi è stato magistrato rimane nella cultura e nella formazione giuridica per sempre. Ho la fortuna di essere sollecitato a continuare a raccontare le mie esperienze e ad esprimere le mie opinioni. Spero che, anche grazie ai miei interventi, cresca un movimento d’opinione pubblica abbastanza diffuso per stimolare la modifica dell’ergastolo a livello istituzionale. Giustizialisti e garantisti: due fazioni in lotta? È un aspetto non bello del nostro costume quello di ridurre tutto a un derby. La divisione tra giustizialisti e garantisti è pluriennale. Occorre innanzitutto ricordare che c’è un codice penale e uno deontologico per ogni professione che è molto più ampio. Non è corretto il permanere o meno in ruolo di grande responsabilità a secondo dell’azione della magistratura. Il rapporto tra politica e magistratura sta vivendo un momento particolare. Non penso al protagonismo, ritengo che ci sia il pericolo, oggi più intenso di ieri, della poca percezione da parte della magistratura dei suoi limiti. Il dovere di sindacare certe condotte esiste e legittima l’azione della magistratura, però bisogna fare attenzione su quello che c’è da sanzionare. A costo di rischiare, dico: ritenere che debba essere oggetto di un accertamento penale il voto in Consiglio dei ministri su un emendamento non va bene, a meno che non ci siano gli estremi di un reato, ovviamente. Bisogna fare attenzione ai confini delle azioni delle varie istituzioni. Lei è stato anche componete del Csm. Non bisogna mai dimenticare che il Csm è un organo di autogoverno, un privilegio che produce delle responsabilità. Ciascun singolo consigliere deve percepire quali sono i suoi doveri. Tutti i magistrati hanno il diritto di esprimere le loro opinioni, ma non come soggetti istituzionali, soprattutto quando possono avere una marcata influenza sull’opinione pubblica. I magistrati tedeschi hanno un obbligo molto stringente alla riservatezza: pensa che sia giusto? Le rispondo con difficoltà, perché esiste un diritto a manifestare le proprie opinioni sancite dalla Costituzione. Per i magistrati la linea di margine è difficilmente tracciabile. Personalmente nel dubbio propendo per il riserbo. Quando ero in attività mi sono sempre posto il problema del cittadino che doveva essere giudicato e che, conoscendo la mia opinione, avrebbe potuto pensare di essere fregato. In un caso del genere sarei venuto meno al mio dovere che è quello di avere un’immagine che garantisca a tutti i cittadini di avere fiducia nel magistrato singolo e nell’istituzione. Se per ottenere questo c’è bisogno di un piccolo sacrificio del magistrato al riserbo ritengo che debba essere accettato. Purtroppo i tempi cambiano e io mi sono formato a una scuola del diritto che aveva ben chiari questi criteri. Da magistrato che rapporti ha avuto con gli avvocati? Ho vissuto innumerevoli rapporti di cordialità e di amicizia con una quantità di avvocati. Con il codice del 1989 ha esaltato l’antagonismo tra le parti ed è inevitabile. In questi anni è aumentato il peso ed è chiaro che i rapporti siano diventati più tesi. La prescrizione è uno degli argomenti di scontro tra magistrati e avvocati. Il legislatore e l’opinione pubblica continuano a ignorare il fatto che la prescrizione consta di due segmenti totalmente diversi che, invece, vengono fusi insieme. Il primo da quando è stato commesso il fatto a quando la giurisdizione ha incominciato ad attivarsi. Il primo periodo andrebbe neutralizzato per un periodo ragionevolmente lungo. La seconda fase è legata all’attività degli avvocati tesa solo a far trascorrere il tempo. Alla difesa devono essere riconosciuti tutti i diritti, ma se il rinvio è conseguente a un’attività difensiva la prescrizione va interrotta. Non è corretto né logico, secondo me, che la prescrizione vada a danno di un parte processuale, l’accusa, per un’azione della controparte, la difesa. Presidente, chi è il giudice? Il giudice è una persona che fa una profezia retrospettiva. Deve affermare l’esistenza di un fatto che non ha visto, che non conosce e che deve ricostruire sulla base di tracce attuali che portino a un giudizio di mera probabilità, seppur alta. Al di là di ogni ragionevole dubbio. Lo sciopero delle dentiere del "Detenuto ignoto" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2016 La protesta contro le mancate ispezioni sanitarie in prigione. Sono passati quasi sei anni dall’approvazione della mozione comunale di Milano - e poi anche della regione Lombardia - che ordina di disporre ispezioni semestrali nelle carceri eseguite da una equipe multidisciplinare formata dal personale della Asl ma finora non c’è stata l’attuazione. Per questo motivo, l’ex consigliere Lucio Bertè e militante dell’associazione radicale "Il detenuto Ignoto", sta mettendo in atto lo sciopero della dentiera. Uno sciopero con una modalità che ha un significato ben preciso: Fabio Rizzi, capo della commissione della sanità lombarda e arrestato per presunte tangenti, è la persona più indicata per proporre un piano per la cura dei denti e la fornitura di protesi ai detenuti. Rimanere senza denti è uno sciopero che crea vicinanza ai detenuti - e sono tanti - che non usufruiscono delle protesi dentarie. Il radicale Lucio Bertè, da sempre in prima linea per i diritti dei detenuti, notifica ai 48 consiglieri comunali di Milano e agli 8o consiglieri regionali della Lombardia una azione politica e nonviolenta affinché sia data attuazione a quanto deciso in due mozioni approvate all’unanimità, nel 2011 in Comune e nel 2013 in Regione, per mettere la persona del detenuto, la sua salute e la salubrità degli ambienti in cui vive, al centro delle ispezioni semestrali da parte delle Asl nelle carceri lombarde, previste dalla Legge 354/75. Lucio Bertè spiega: "Sono al fianco dei Consiglieri che vogliono restare fedeli alla mozione da loro votata, per rilanciare l’iniziativa politica in Regione. Per manifestare il rispetto per il loro voto trasversale, e rappresentare un fine condiviso da tutti, ho rinunciato a candidarmi tra i radicali per le prossime elezioni comunali. Anche i candidati a sindaco e al prossimo consiglio comunale potranno manifestare il loro consenso a questa iniziativa e assumere impegni futuri per i diritti dei detenuti". La mozione approvata da anni parla chiaro: l’equipe deve operare fin da subito e soprattutto deve essere composta anche dai medici delle Unità ospedaliere per rilevare le condizioni di salute detenuto per detenuto, aggiornando le cartelle cliniche digitali, e dai tecnici che dovranno misurare i parametri di abitabilità delle celle in rapporto agli occupanti e alle loro patologie. Ogni detenuto potrà disporre dei dati ufficiali che lo riguardano. Potrà, inoltre, essere la base documentale da allargare ad eventuali ricorsi alla corte europea dei diritti dell’uomo in caso attestino la violazione dell’art. 3 della convenzione europea del 1950, ovvero la proibizione di trattamenti inumani e degradanti. Il radicale Bertè ha aggiunto a tal proposito: "Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa non può impedire il giudizio della Corte di Strasburgo sui ricorsi dei detenuti italiani dichiarando che le condizioni della detenzione in Italia sono ormai legali. Questo non è vero, o non sempre, e non può essere dedotto con criteri statistici del tutto inappropriati, perché i Diritti umani sono diritti individuali, e dunque il loro rispetto deve essere verificato persona per persona, proprio come previsto dalle Mozioni lombarde sin dal 2011". Lo sciopero di Bertè solleva nuovamente una questione scottante che riguarda la situazione delle carceri italiane. Hiv, epatiti e tubercolosi sono più diffuse tra la popolazione detenuta che tra i liberi cittadini e per l’epatite C la diffusione è tre volte più alta all’interno dei penitenziari che fuori. Poca prevenzione e poco personale medico nelle carceri; non di rado muoiono detenuti per mancanza di cure. Il quadro generale è terrificante. Nelle prigioni il diritto alla salute è ancora un problema irrisolto nonostante la riforma epocale del passaggio al servizio sanitario nazionale. Prima, la salute dei reclusi, era di competenza del ministero della Giustizia, e anche con l’approvazione della Riforma Sanitaria e l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale del 1978, il tema della salute dei cittadini liberi e detenuti non venne affrontato in quanto si riteneva che sussistesse, a causa delle esigenze di sicurezza, la specialità legittima dell’assistenza sanitaria in carcere, tanto da far affermare la "necessità istituzionale che la medicina penitenziaria collabori all’opera di trattamento dei detenuti". La sanità in carcere venne così esclusa dalla sanità fornita ai cittadini liberi. Ci fu uno sforzo culturale maggiore nel 1999 quando fu ideata la riforma della sanità penitenziaria ispirata al principio che gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute. Inoltre, e questa fu l’idea innovativa, la riforma del 1999 demandava in toto la competenza dell’intervento sanitario nei confronti dei cittadini detenuti al Servizio Sanitario Nazionale. Però rimaneva ancora il principio della separazione delle competenze tra le Asl e l’amministrazione penitenziaria. Per la piena realizzazione della riforma, si è dovuti arrivare all’emanazione del decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri nel 2008 che definitivamente sancisce l’accorpamento della Medicina Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Tale passaggio non ha però comportato la totale perdita di ruolo dell’amministrazione penitenziaria nel campo della salute e della sua tutela, avendole anzi, la riforma attribuito un compito organizzativo e di raccordo, di "garante" della qualità del servizio reso dall’amministrazione sanitaria, che non deve essere di livello inferiore a quello reso al cittadino libero. La riforma attualmente ancora però non sta dando i frutti sperati. La prima motivazione è il mancato passaggio culturale che i due sistemi devono compiere per avvicinarsi e collaborare: da una parte richiede all’amministrazione penitenziaria di abbandonare il modello verticistico che l’ha sinora caratterizzata e, dall’altra, chiede ai servizi sanitari di comprendere un concetto di sicurezza sino ad oggi a loro sconosciuto. Il secondo motivo è ancora il mancato adeguamento di alcune regioni e quindi un trattamento diverso a seconda del luogo. Secondo l’ultimo rapporto del comitato nazionale di Bioetica il diritto alla salute in carcere, non si esaurisce nell’offerta di prestazioni sanitarie adeguate: particolare attenzione deve essere prestata alle componenti ambientali, assicurando alle persone ristrette condizioni di vita e regimi carcerari accettabili, che permettano una detenzione dignitosa e pienamente umana. Perciò, problemi quali il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle condizioni igieniche, la carenza di attività e di opportunità di lavoro e di studio, la permanenza per la gran parte della giornata in cella, la difficoltà a mantenere relazioni affettive e contatti col mondo esterno, sono da considerarsi ostacoli determinanti all’esercizio del diritto alla salute: il Servizio sanitario dovrebbe farsi carico di questi aspetti, al fine di combatterli in un’ottica preventiva. I Cappellani delle carceri: rispettare la dignità e la libertà religiosa dei detenuti Radio Vaticana, 3 giugno 2016 Promuovere il rispetto della dignità umana e della libertà religiosa dei detenuti: questa l’indicazione primaria emersa al termine dell’incontro europeo dei cappellani penitenziari, terminato ieri a Strasburgo, presso la sede del Consiglio d’Europa. All’evento, sul tema "Radicalizzazione nelle carceri: una visione pastorale", hanno preso parte circa 60 partecipanti, tra cui cappellani cattolici incaricati della Pastorale nelle carceri, cappellani di Chiese ortodosse e protestanti, un gruppo di musulmani coinvolti nella stessa attività, nonché rappresentanti del Consiglio d’Europa e di altri organismi internazionali. Carcere non deve negare dignità inalienabile dell’uomo - Al termine dei lavori, il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee) e la Commissione internazionale della Pastorale cattolica nelle carceri (Iccpc) hanno diffuso una dichiarazione in cui si sottolinea che: "Le condizioni a volte dure in cui versano le persone in carcere, non negano il fatto che la persona sia creata a immagine di Dio, la sua inalienabile dignità e i suoi diritti". Inoltre, di fronte alla sfida posta dalla crescita dell’estremismo violento e dal fenomeno della radicalizzazione, i firmatari si appellano alle "Linee Guida per i servizi carcerari e di libertà vigilata in materia di radicalizzazione ed estremismo violento" approvate dal Consiglio d’Europa. In tale documento viene ribadita, tra l’altro, la necessità di rispettare il principio della libertà di espressione e di religione nei penitenziari. Rispetto libertà religiosa è fattore decisivo contro estremismo violento - "Il rispetto del diritto alla libertà religiosa - evidenziano Ccee e Iccpc - non solo è compatibile con le condizioni di vita in carcere, ma rappresenta anche un fattore decisivo nella lotta contro l’estremismo violento". Per questo, il cappellano carcerario rappresenta "un fattore positivo nel promuovere il benessere all’interno dell’ambiente carcerario", perché esso può cooperare nel promuovere "il rispetto per la dignità umana dei prigionieri e nel costruire un ambiente caratterizzato dalla fiducia reciproca". In tal modo, i cappellani penitenziari "possono essere un valido strumento per educare al rispetto per le persone di altre fedi. Un’autentica spiritualità porta sempre alla pace e al rispetto dell’altro". 6 novembre, Giubileo carcerati: detenuti al centro della vita della Chiesa - In quest’ottica, viene riaffermato l’impegno dei cappellani stessi ad essere "al servizio del benessere spirituale di coloro che si trovano in carcere ed a promuovere uno spirito di pace, tolleranza e comprensione reciproca tra persone appartenenti a confessioni religiose diverse o a nessuna confessione". Naturalmente, in tale ambito si ricorda la necessaria collaborazione "tra le autorità pubbliche e le confessioni religiose". Infine, guardando al Giubileo dei carcerati che si celebrerà a Roma il 6 novembre prossimo, si ricorda che tale evento sarà "un’occasione speciale per sottolineare che i nostri fratelli e sorelle in stato di detenzione sono al centro della vita della Chiesa". Giustizia lenta, la prescrizione non c’entra di Giovanni Fiandaca Il Mattino, 3 giugno 2016 Se guardo alla nuova bagarre sulla riforma della prescrizione con gli occhiali di un professore di diritto penale ormai di lungo corso, ma non rassegnato al profondo decadimento della cultura penalistica dei politici di oggi, sono colto al tempo stesso da stupore, disorientamento e ironico distacco. Invero, la prima curiosità da soddisfare riguarderebbe l’esistenza o meno, all’interno dello stesso Pd, di una cabina di regia che fissi linee direttrici sufficientemente condivise quanto al merito delle proposte di riforma. Così da prevenire quelle che appaiono sortite estemporanee di giustizialismo estremista (mi riferisco, evidentemente, all’ormai noto emendamento dei relatori Casson e Cucca che posticipa per tutti i reati l’inizio del decorso della prescrizione al momento in cui il pm acquisisce la notizia di reato), le quali, nello sfidare provocatoriamente l’orientamento più garantiste di altra parte del Pd, strizzano l’occhio al plebeismo penale grillino. Ma, anche a prescindere da queste impreviste sortite che porterebbero alle estreme conseguenze proposte peraltro provenienti dalla stessa magistratura associata, vi sarebbe pure da porre quest’altra domanda: se la complessiva filosofia sottostante all’elaborazione della riforma si alimenti di qualche riflessione dotata di un respiro maggiore rispetto alla prevalente preoccupazione di piegare a scopi di facile consenso elettorale una riscrittura della prescrizione che parrebbe, contingentemente, imposta soprattutto dall’esigenza di perseguire a oltranza i delitti di corruzione, cioè quei tipi di reato che stanno - a torto o a ragione - al centro della retorica pubblica di questo momento e che forniscono ulteriori occasioni al riaccendersi del conflitto tra politica e magistratura. Vero è che l’attuale disciplina normativa della prescrizione merita di essere riformata in generale, ma non è vero che essa costituisce la causa principale della lentezza della nostra giustizia penale e dell’impunità di non pochi colpevoli che eludono la condanna. Il discorso è molto più complesso. E bisognerebbe anche evitare l’approccio superficiale e corrivo di quei commentatori che, assecondando una sorta di ossessione punitiva di moda, arrivano a sostenere persino cose tutt’altro che vere, e cioè che in quasi tutti gli ordinamenti giuridici contemporanei l’inizio del processo impedirebbe la prescrizione; in realtà, i modelli di disciplina normativa dell’istituto rimangono a tutt’oggi differenziati da ordinamento a ordinamento, a riprova che non esiste una unica soluzione giusta. Sarebbe opportuno riuscire a sottrarsi alla dittatura di una certa visuale non solo dominante ma anche corta, rammentando che in campo non vi è soltanto l’esigenza di evitare che la macchina della giustizia fallisca l’obiettivo di punire gli autori dei reati. La punizione non è uno scopo senza se e senza ma, da realizzare in ogni caso e fuori da ogni connessione temporale col momento di commissione del reato. Il decorso del tempo - non dovremmo dimenticarlo neppure oggi - incide sul senso, sulla giustizia e sulla utilità della pena. È un lusso eccessivo tenerlo a mente in quest’epoca di regressivo populismo penale? L’ultima di Davigo: "giustizia inefficiente? tutta colpa dei politici" di Giacomo Losi Il Dubbio, 3 giugno 2016 I toni sono decisamente più pacati ma il leitmotiv è sempre lo stesso: la politica è il male, la giustizia è il bene. È l’universo decisamente manicheo del segretario dell’Anm Piercamillo Davigo. Lo stesso universo che meno di un mese fa lo ha indotto a dichiarare al Corsera che i politici sono tutti ladri e senza vergogna. Ecco, i toni sono decisamente cambiati, ma la sostanza è grosso modo la stessa. "I politici che parlano di efficienza della giustizia, dovrebbero prima ammettere che la gran mole di procedimenti che paralizza la giustizia è il prodotto di regole che essi hanno varato o hanno mantenuto, e delle risorse che hanno negato", ha infatti scritto Davigo insieme a Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina, in un saggio a quattro uscito mani su Micormega. Davigo e Ardita fanno il punto su alcuni dei termini più usati ed abusati nel dibattito sulla giustizia, facendo chiarezza su alcuni dei più comuni fraintendimenti, da "giustizialismo" e "garantismo" a "efficienza" della giustizia. Il testo esplora il campo della prescrizione, delle intercettazioni, dell’efficienza della Giustizia e dello scontro tra politica e magistrati. Il tutto in una cornice nella quale si rivendica il diritto dei magistrati ad intervenire nel dibattito nell’ interesse dei cittadini i quali devono potere essere messi in condizione di "dire se una legge ha un effetto disastroso sulla capacità di scoprire i reati, o sulla tenuta di un sistema di crime control". I due magistrati riflettono poi su alcuni luoghi comuni, come l’utilizzo di alcune espressioni "bandiera" elaborate spesso per produrre effetti mediatici privi di un nesso con la realtà. E così coloro che pretendono eguale rigore per tutti i cittadini diventano dei giustizialisti; per evitare la pubblicazione di conversazioni private si pretende di limitare le intercettazioni in nome della privacy; i magistrati su cui pesa un arretrato micidiale dovuto a leggi schizofreniche sono accusati di essere dei fannulloni. Nel saggio si descrive un sistema penale che naviga a vista, affogato da una patologica domanda di giustizia, e nel quale il Parlamento continua ad immettere ipotesi di reato, senza preoccuparsi del fatto che non si riesce né a celebrare tutti i processi, né ad eseguire le pene di quelli che vengono celebrati. Concludono Davigo e Ardita ricordando che "quando la giustizia funziona, la politica raggiunge più facilmente i suoi obiettivi sul piano socio-economico, scoraggiando la corruzione e incrementando concorrenza e produttività". "Femminicidi, ora basta sconti". Il ministro Costa: mai riti abbreviati di Marilicia Salvia Il Mattino, 3 giugno 2016 "Ci sono reati, e il femminicidio è il primo nella lista, per i quali il principio dell’economia processuale non può prevalere". Il ministro Enrico Costa, ex sottosegretario alla giustizia e da tre mesi titolare degli Affari regionali e di un lungo elenco di deleghe tra le quali la famiglia, non ha dubbi: non possono esserci sconti di pena per chi massacra una donna inerme nel nome di un amore malato. "Il nostro sistema - sostiene Costa - è tra i più avanzati dal punto di vista del contrasto a fenomeni di violenza familiare. Ma non dobbiamo lasciare aperto nessuno spiraglio". Ministro, gli spiragli per i colpevoli ci sono eccome, se il marito assassino della povera Melania Rea, condannato in primo grado all’ergastolo, se la caverà con vent’anni grazie al verdetto della Cassazione. Ed è solo un esempio. "Questo è un problema che abbiamo affrontato anche in Parlamento. Succede che certe vicende processuali, dipanandosi nel corso del tempo, si concludano con una sanzione che pare non adeguata alla gravità dei fatti. È come se il giudizio rispetto a questa gravità si stemperasse, di pari passo con il calare dell’attenzione dell’opinione pubblica sull’accaduto". La lentezza dei processi è dunque alleata degli uomini che ammazzano le donne? "È indubbio che spesso il giudice di merito arriva a formulare una sanzione adeguata ai fatti, sanzione che subisce poi una perdita di forza nei gradi successivi. Quando ero alla Giustizia avevamo avviato un importante lavoro sull’ipotesi di non consentire l’applicazione del giudizio abbreviato, che comporta l’abbattimento di un terzo della pena, a delitti di particolare efferatezza". Quindi anche per i casi di femminicidio? "Certamente. Il dibattito dette vita a un testo di legge che è stato approvato alla Camera da un’ampia maggioranza, e adesso è al Senato che ha deciso di accorparlo nella riforma del processo penale attualmente in discussione". Servirà l’inasprimento delle pene a fermare la mano degli assassini delle loro mogli o fidanzate? "Non è solo questione di pene più severe, ma di certezza della pena: che significa ovviamente attuazione della condanna inflitta, ma anche assenza di meccanismi di affievolimento della portata sanzionatoria della condanna stessa. In casi come il femminicidio le pene severe e la loro rigida attuazione hanno, accanto all’esigenza di sanzionare il colpevole e agli effetti di deterrenza, il valore di un’impronta, di una risposta netta e di piena consapevolezza di reazione da parte dello Stato". Se questa piena consapevolezza c’è, perché allora una riforma facile facile come la considerazione del femminicidio come un’aggravante non ha ancora visto la luce? "Questa è stata una battaglia dell’avvocato Giulia Bongiorno quando era parlamentare, e che continua a condurre con grande coerenza e forza. In effetti, tenendo conto che il nostro sistema in materia di maltrattamenti in famiglia e stalking è certamente avanzato dal punto divista della risposta giuridica, anche la proposta di aggravanti serve per accendere una ulteriore attenzione, per affrontare in termini culturali un’emergenza che non è soltanto sul piano giuridico che si può affrontare". Dunque si arriverà al riconoscimento dell’aggravante? "Deve deciderlo il Parlamento. Il punto resta sempre quello della certezza della pena, che troppo spesso è finita in secondo piano rispetto a esigenze diverse, a partire dall’emergenza carceraria. Il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, è un meccanismo che può notevolmente incidere sulla portata sanzionatoria. In un altro campo, quello dei furti e rapine in appartamento, è stata fatta una scelta precisa, contenuta nel progetto di riforma del processo penale attualmente in discussione: non solo sono state alzate le pene minime, ma è stato vietato il bilanciamento delle circostanze. Mentre finora, tra rito abbreviato e attenuanti generiche, un ladro d’appartamento difficilmente vede la galera". Torniamo ai femminicidi. E alla violenza contro le donne. Che in tanti casi subiscono in silenzio, non si confidano con i familiari ne con gli amici, e meno che mai denunciano. Perché? È più forte la paura o la sfiducia verso la possibile risposta dello Stato? "Posso dire che la legge sullo stalking è molto avanzata, per come è stata integrata e modificata nel tempo sulla base delle esigenze attuative. Sono stati introdotti accorgimenti significativi, soprattutto riguardo le comunicazioni di ogni azione processuale alla persona offesa, la revocabilità della querela e così via. Tutte le articolazioni dello Stato, le forze dell’ordine, le amministrazioni locali, le scuole hanno piena consapevolezza della gravità e dei rischi che comporta questo reato-spia. Il legislatore ha imboccato una strada normativamente avanzata ma fino a quando ci sarà anche un solo caso di violenza sulle donne o peggio di delitti come quello della Magliana non potremo dire di aver vinto". Lei è ministro della famiglia; sono le famiglie a creare figli bulli, figli violenti, figli possessivi fino all’omicidio? "Bisogna lavorare a tutti i livelli perché certi comportamenti non si ripetano. C’è bisogno di una presa di distanza netta, di un vero e proprio rigetto sociale verso chi non è capace di considerare la dignità delle persone, il rispetto della libertà e della libertà delle scelte altrui. Questo è un lavoro di avanzamento collettivo che riguarda tutti, le famiglie, gli insegnanti, gli educatori: la legge, da sola, non basta o rischia di arrivare tardi E invece, chi pensa di vivere imponendo agli altri un rapporto aggressivo di sudditanza va isolato, non gli dobbiamo lasciare spiragli". Pronto il decreto sulle polizze assicurative degli avvocati di Eugenio Sacchettini Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2016 Un’assicurazione obbligato ria non solo per la responsabilità civile dell’attività strettamente difensiva dell’avvocato, ma anche per ciò che essa può implicare per controparti e terzi estranei al rapporto professionale. Così lo schema del Dm attua quanto già stabilito in tema di assicurazione obbligatoria per tutti i professionisti dall’ articolo 5 del Dpr 137/2012 e, in particolare, per gli avvocati dall’articolo 12 della riforma forense. E anzi lo schema adegua l’obbligo assicurativo pure per tutte le nuove attività che le recenti riforme hanno affidato alla professione forense, quali l’assistenza nelle procedure di media-conciliazione oltre che nelle procedure di arbitrato anche irrituali e la negoziazione assistita. Non risultano obbligatoriamente coperte, ma se ne prevede la copertura su basi pattizie, tutte le altre attività cui l’avvocato sia comunque abilitato, e così sembra potersi alludere anche alle più recenti opportunità, quali ad esempio, l’attività di professionista delegato nelle esecuzioni e divisioni immobiliari, di mediatore nelle media-conciliazioni, di arbitro oltre che di curatore fallimentare e di revisore legale. L’assicurazione è poi prevista, oltre che per ogni fase della funzione difensiva - si pensi ai trabocchetti più usuali, quali le notifiche - anche per l’attività stragiudiziale e di consulenza e deve riguardare anche la colpa grave, il che è particolarmente significativo stante la frequenza con la quale tale responsabilità viene addebitata all’avvocato, con inevitabili ripercussioni sui premi; situazione ancor più drastica ove si osservi che la copertura viene imposta pure per i fatti non soltanto colposi, ma perfino dolosi, commessi da collaboratori, dipendenti, praticanti e sostituti processuali. La copertura deve poi comprendere la responsabilità civile per la custodia di documenti, denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai clienti. E accanto alla polizza per responsabilità civile se ne aggiunge un’altra "infortunistica": per gli infortuni derivanti a sè e ai propri collaboratori dipendenti e praticanti in conseguenza all’esercizio della professione anche fuori dei locali dello studio legale, pure in qualità di sostituto. Vietate le clausole che consentano il recesso dell’impresa nel caso di denunce o risarcimenti nel corso del contratto di assicurazione o di sua ultrattività, ma da ciò si può evincere l’aspetto di maggiore criticità dell’intero sistema, perché manca, a differenza della responsabilità Rc Auto, un sistema che obblighi le compagnie assicuratrici a contrarre la polizza assicurativa, e così è evidente che alla scadenza del periodo ben difficilmente l’ assicurazione rinnoverà il contratto all’avvocato per il quale abbia dovuto sborsare l’ammontare del danno assicurato, e così pure assai malvolentieri, e comunque con premi assai maggiorati, potranno addivenire alla stipula altre assicurazioni. D’altronde l’obbligo assicurativo è previsto dalla legge e viene sanzionato sotto il profilo disciplinare da vari canoni del Codice deontologico. Anche in considerazione del probabile proliferare di cause promosse da clienti desiderosi di rifarsi sull’assicurazione per gli insuccessi dei legali appare auspicabile che questo particolare aspetto venga ben guardato e in qualche maniera regolato nelle convenzioni sottoscritte dal Cnf, da ordini territoriali, associazioni ed enti previdenziali forensi. Prescrizione impossibile per i motivi inammissibili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2016 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, informazione provvisoria del 27 maggio 2016. Se il ricorso in Cassazione è cumulativo, la prescrizione non può essere riconosciuta per quei capi d’imputazione investititi da un giudizio di inammissibilità. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Corte con un’informazione provvisoria resa nota al termine dell’udienza del 27 maggio. Le motivazioni saranno depositata solo tra qualche tempo, ma, intanto, al quesito "se, in presenza di un ricorso per cassazione "cumulativo" riguardante plurimi ed autonomi capi di imputazione, per i quali sia sopravvenuto il decorso dei termini di prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di appello, l’ammissibilità del ricorso con riguardo ad uno o più capi, con conseguente declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione, comporti l’estinzione per prescrizione anche degli altri reati di cui ai distinti ed autonomi capi per i quali, viceversa, il ricorso risulti inammissibile", la risposta è stata "negativa. L’operatività della prescrizione è preclusa per i reati in ordine ai quali il ricorso per cassazione risulti inammissibile". A parere dei giudici della Sesta sezione, che hanno rinviato la questione alle Sezioni unite con l’ordinanza n. 7730 del 25 febbraio scorso, infatti, sul punto si rileva un evidente contrasto giurisprudenziale. Tanto più importante poi perché "ha una imponente influenza sulla sorte dei processi e, in particolare, sulla necessità o meno di scontare le pene inflitte per i capi di imputazione oggetto di motivi originariamente inammissibili, coinvolgendo in modo eclatante il principio di parità di trattamento dei cittadini condannati rispetto al fatto essenziale dell’espiazione delle sanzioni (almeno per gli aspetti che dipendono esclusivamente da orientamenti giurisprudenziali su questioni note e definite)". I due orientamenti possono essere sintetizzati l’uno dal principio per cui l’autonomia della pronuncia di inammissibilità del ricorso per Cassazione in relazione a un capo d’imputazione impedisce la dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato con esso contestato, anche in presenza di motivi ammissibili con riferimento agli altri addebiti. L’altro orientamento, opposto, era invece stato massimato nel senso che la Cassazione deve rilevare la prescrizione del reato maturata dopo la pronuncia della sentenza impugnata, anche nel caso in cui la manifesta infondatezza del ricorso risulta esclusa con riferimento a un altro reato. Edilizia, controlli a carico del committente di Luigi Caiazza Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2016 Corte di cassazione - Sentenza 23171/2016. Nei lavori edili concessi in appalto il committente costituisce la figura espressamente contemplata dalla normativa di settore come fonte di obblighi di controllo e di intervento, seppure diversamente articolati in base alle dimensioni e alla tipologia del cantiere. Poiché il committente è un soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta e finanzia l’opera, egli è quindi titolare ex lege di una posizione di garanzia che integra quella di altre figure di garanti legali (ex articolo 299 del Dlgs n. 81/2008: datore di lavoro, dirigente, preposto), tanto da poter anche designare formalmente un responsabile dei lavori con compiti di tipo decisionale e gestionale, e il conseguente esonero, nei limiti dell’incarico conferito, dalle responsabilità. A tale principio si è ispirata la Corte di cassazione (Sezione IV, sentenza n. 23171 depositata il 1° giugno scorso) confermando la sentenza di condanna per omicidio colposo di un committente a seguito della costruzione di un fabbricato durante la quale era morto un operaio per caduta dall’alto, complice, l’omessa predisposizione delle opere provvisionali nel cantiere. La decisione della Cassazione è conforme alle novità introdotte nel nostro ordinamento con il recepimento della Direttiva comunitaria sui cantieri ad opera del Dlgs n. 494/1996, trasfuso poi nel Dlgs n. 81/2008 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), che nei cantieri edili anticipa gli obblighi della sicurezza sin dalla fase della progettazione, coinvolgendo così anche il committente mediante l’attribuzione di una sfera di responsabilità che si sostanzia nella previsione di alcuni specifici obblighi destinati ad interagire e ad integrarsi, come accennato, con quelli di altre figure di garanti. Si tratta di obblighi di controllo che non sono certamente di natura formale, ma implicano un’effettiva e ragionata verifica circa le soluzioni adottate, come è dimostrato dal fatto che, nel caso in cui non sia in condizione o non voglia o possa assumere direttamente tale ruolo, il committente può nominare un responsabile dei lavori. Tuttavia, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, la sentenza in esame entra più nello specifico, precisando che occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della condotta di questi ai fini della determinazione dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta esecutrice scelta, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, quali siano stati i criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore e, non ultimo, la possibile, agevole e immediata percezione da parte dello stesso committente di situazioni di pericolo. Lo stesso Dlgs n. 494/1996 prima, e il Testo Unico poi, richiamano il committente ad attenersi ai principi e alle misure generali di tutela, ad adempiere al citato obbligo di verifica riguardante apposita documentazione tra cui il documento di valutazione dei rischi, la conformità alla legge di macchine, attrezzature e opere provvisionali, dispositivi di protezione individuali, ecc.. La verifica dell’idoneità tecnico-professionale dell’appaltatore avrebbe consentito al committente di accertare anche l’inadeguatezza dimensionale dell’impresa la quale, assieme alle macroscopiche irregolarità del cantiere, palesemente ed immediatamente evidenti, occupava lavoratori "in nero" ai quali certamente non venivano garantite le misure minime di sicurezza, come del resto è accaduto al lavoratore infortunato, il quale era pensionato e occasionalmente prestava attività lavorativa per la ditta appaltatrice. Sicilia: così il volontariato può agire nelle carceri di Augusto Cavadi La Repubblica, 3 giugno 2016 Il dossier di "Repubblica" sulla situazione delle carceri siciliane serve ottimamente alla diagnosi. Ci sono prospettive anche per la terapia? Intanto si è trovato il medico (Giovanni Fiandaca) che non è solo un penalista di livello nazionale ma anche una persona sensibile e operativa. Può essere istruttivo per i lettori aggiungere che la società civicamente evoluta può dare un contributo determinante. Non conosco la situazione delle altre città, ma a Palermo opera da decenni l’Asvope (Associazione di volontariato penitenziario: www.asvope.it) collegata con varie altre organizzazioni simili presenti in tutto il territorio nazionale. Essa agisce a quattro livelli distinti ma inseparabili. Innanzitutto prova a tappare i buchi affrontando le emergenze più urgenti e dolorose: si concentra sui detenuti (specie immigrati) che arrivano in carcere senza indumenti, senza scarpe, senza medicine, senza schede telefoniche. A un secondo livello d’intervento stimola e coordina progetti di formazione, di animazione culturale, di educazione sanitaria, di attività sportive: gestisce il servizio biblioteche, i corsi di teatro, i campionati di ping pong e persino un corso di filosofia-in-pratica. Là dove possibile accompagna i detenuti nel periodo successivo alla scarcerazione. Se si limitasse a questo genere di azione il volontariato (non solo gratuito, ma autofinanziato dai volontari stessi) troverebbe soltanto porte aperte o, per lo meno, resistenze istituzionali solo fisiologiche. Ma la cultura del volontariato in Occidente è ormai da anni molto oltre l’ottica dell’assistenzialismo surrogatorio. Consapevole che, così inteso, sarebbe il nuovo oppio dei popoli, il volontariato sa che deve avere il compito di esercitare uno sguardo critico sui contesti in cui opera. Non può non rilevare le lacune delle istituzioni, i ritardi dei responsabili a ogni livello, le pigrizie mentali, le lentezze burocratiche. È in questo spirito che l’Asvope ha cercato, e trovato, un canale diretto di comunicazione con il presidente della Repubblica che, a sua volta, ha sollecitato il ministro della Giustizia e i suoi funzionari. La critica, per quanto necessaria, sarebbe comunque insufficiente se non sapesse diventare proposta costruttiva. Per questo i volontari delle istituzioni carcerarie elaborano proposte di legge, suggeriscono modifiche nei regolamenti, regalano suggerimenti migliorativi. Questo livello di intervento è il più laborioso, ma anche il più incisivo. Mira a rendere il volontariato sempre meno necessario man mano che l’istituzione raggiunge la dignità e la maturità della propria mission: che, come tutti ripetiamo senza misurarne le conseguenze effettive, dovrebbe essere il contenimento della delinquenza ma anche (là dove umanamente possibile) la rieducazione e la risocializzazione dei detenuti. Come è facile intuire i cittadini consapevoli possono dare una mano a tutti questi quattro livelli: nessuno è troppo povero o troppo inetto da non poter regalare qualche ora del proprio tempo o qualche segmento della propria professionalità. Mantova: detenuti come sardine, torna l’emergenza carcere a Gazzetta di Mantova, 3 giugno 2016 In Casa circondariale 151 reclusi contro una capienza regolamentare di 110 posti. Protestano gli agenti: "Siamo troppo pochi, sei operatori per turno non bastano". "Non siamo ancora in una situazione critica, qui in via Poma anni fa abbiamo avuto anche più di duecento detenuti" sminuisce un operatore della casa circondariale di via Poma. Ma resta il fatto che dopo qualche anno di numeri mantenuti più o meno nei limiti della norma - con provvedimenti che vanno dall’indulto, alla cancellazione del reato di clandestinità, fino a un aumento dei benefici della scarcerazione anticipata per buona condotta - la popolazione carceraria di via Poma ha ripreso la sua scalata. In modo rapido, visto che a inizio d’anno le presenze erano più o meno quelle della "capienza regolamentare", che prevede 110 posti (con 180 presenze come capienza "massima sopportabile"). Ieri i detenuti della casa circondariale che fiancheggia il tribunale erano 151. La previsione è quella di un ulteriore e progressivo aumento, anche perché il piccolo carcere di Mantova funziona da valvola di sfogo per le altre strutture lombarde, dove già da settimane il problema del sovraffollamento si fa sentire. Così sono tornare le celle-scatole di sardine, con tre letti sistemati a castello e pochissimi metri quadrati dove muoversi. E dove sono costretti a stare, gomito a gomito, detenuti di lingua, provenienza e cultura spesso molto diverse. Con le difficoltà di convivenza e le tensioni che si possono immaginare. Se i detenuti non hanno strumenti per esprimere il disagio di vivere ammassati al di fuori delle mura del carcere, non è così per gli agenti di polizia penitenziaria. "La popolazione della casa circondariale sta crescendo a vista d’occhio - dice un esponente di Cisl federazione sicurezza - da gennaio la liberazione anticipata per buona condotta è stata riportata da 75 a 45 giorni. L’effetto è quello di un aumento della popolazione carceraria. Gli operatori di polizia penitenziaria devono far fronte a una situazione di sicurezza più instabile rispetto a quando il numero di detenuti è più contenuto. La mancanza di spazi, ma anche di un lavoro e di cose da fare, creano attriti e cattivo sangue tra i detenuti. E basta pochissimo per una scintilla". Situazione non facile per i 66 agenti di polizia penitenziaria che prestano servizio a Mantova. Sembra un discreto numero, ma è appena sufficiente per garantire, quando va bene, sei presenze per ogni turno. "Ma quando serve un piantonamento fuori dal carcere o un detenuto va trasferito, capita anche di fare il turno in quattro. Ed è un vero stress" spiega un agente. Anche perché, a differenza di quello che accadeva un tempo, ora in carcere le guardie fanno la cosiddetta "vigilanza dinamica" per tenere sempre sott’occhio i detenuti che, dalle otto e mezza del mattino alle otto di sera, hanno le celle aperte. Il problema è che non hanno nulla da fare, sono solo 25 quelli che hanno un lavoro dentro o fuori dal carcere. Anche la palestra è sottoutilizzata: l’amministrazione ha soldi solo per pagare l’insegnante tre ore la settimana. Basterebbe poco per raddoppiarle, 100 euro. Ma non ci sono fondi. Così come non ci sono soldi per riattivare la legatoria, unica risorsa di formazione lavoro del carcere, chiusa definitivamente nel 2012. Altro problema che si profila in vista di un prevedibile sovraffollamento è quello sanitario. Il medico è presente dalle otto del mattino alle otto di sera e non è prevista alcuna presenza notturna. Se un detenuto non si sente bene, ci sono guardia medica o 118. Senza contare le malattie come l’epatite e il virus Hiv che espongono tutto a un rischio sanitario. "Basta che un paziente si faccia una piccola ustione e già è emergenza" spiegano in carcere. Anche gli educatori in via Poma sono pochi, anzi sembra che il servizio si stia esaurendo. "In organico ci sono tre educatori - osserva il portavoce Cisl sicurezza - ma uno è distaccato a Cremona e un’altra a breve sarà trasferita in Toscana. Resterà una sola educatrice. Altra cosa destinata a creare tensione tra i detenuti". Rossano Calabro: al via lo sciopero contro l’ergastolo ostativo di Martina Forciniti ecodellojonio.it, 3 giugno 2016 Al via anche nella Casa di reclusione di Ciminata Greco lo sciopero collettivo contro l’ergastolo ostativo. L’appello alla mobilitazione, partito dai detenuti del carcere di Siano, che hanno aderito in 161, ha dato vita ad una petizione online contro quella che viene ritenuta l’ostatività, illegittima, dell’ergastolo. In pratica si protesta contro tale tipologia di condanna "che non lascia alcuno spazio di speranza per il condannato contravvenendo ai principi rieducativi della pena". La mobilitazione interessa diverse carceri, ma anche liberi cittadini, con modalità di adesione differenti già comunicate al Ministero della Giustizia. A Rossano sono 116 i detenuti che hanno aderito allo sciopero, che viene attuato con raccolta firme e rinuncia al vitto fornito dall’Amministrazione, che sarà donato in beneficenza alla Caritas. La protesta pacifica, partita ieri in molti istituti penitenziari del territorio nazionale (hanno aderito, tra gli altri, i detenuti di Sulmona, Saluzzo, Vibo Valentia, Paola) messa in pratica da ergastolani, non ergastolani e liberi cittadini, andrà avanti a oltranza finché il Ministro "non ci farà sapere - si legge nella petizione - anche tramite televisione che è a conoscenza di tale studio, libero poi di ritenerlo fondato o infondato". Lo studio al quale si fa riferimento riguarda, appunto, il cosiddetto "ergastolo ostativo" quale "risultato di un’imprevedibile interpretazione sfavorevole dell’art. 4bis Op affermatasi dal 2008-2009, e pertanto non applicabile retroattivamente ex art 7 Cedu (Corte Edu, casi Kafkaris, Del Rio Prada, Contrada; Sezioni Unite della Cassazione, caso Beschi 2010, Corte Costituzionale sent. n. 364/1998 e 230/2012), e l’incostituzionalità dell’art. 4bis.1 quale presunzione legale, come dimostrato nella tesi di laurea di Claudio Conte (110 e lode accademica), Profili costituzionali in tema di ergastolo ostativo e benefici penitenziari, Uni-Cz, 2016…". Da tale studio "si evince che per superare l’abuso dell’ergastolo ostativo, non c’è bisogno di nuove leggi ma basta far rispettare quelle esistenti con una Circolare ministeriale interpretativa ai Giudici di Sorveglianza". Non solo. Rivolgendosi ancora al Ministro, i detenuti sottoscrittori della petizione evidenziano che "nella civilissima Italia l’ergastolo ostativo non è stato previsto dalla legge nel 1992 e che 1400 persone sono condannate a morire in carcere solo per una discutibile interpretazione, opera di pochi giustizialisti, e migliaia di reclusi sono esclusi dalle misure alternative illegittimamente". Questa protesta è solo l’inizio. Brindisi: un lavoro in Comune per i detenuti: siglato l’accordo nuovoquotidianodipuglia.it, 3 giugno 2016 Il Comune "assume" un detenuto. È stato siglato lo schema convenzione che prevede forme di reinserimento sociale per le persone ristrette nel carcere di Brindisi che avranno i requisiti per operare all’esterno. La collaborazione prevede che il Comune di Brindisi si impegni ad accogliere presso i propri uffici una persona che si trova in cella e che svolgerà per 4 ore al giorno, dalle 9 alle 13 lavori di giardinaggio, piccoli servizi di facchinaggio, riordino archivi e locali comunali o comunque avrà in carico altre mansioni "compatibili e coerenti" con il profilo professionale, la formazione e il curriculum scolastico del prescelto. Uno per volta, per un periodo superiore a 12 mesi ciascuno: l’occasione non sarà concessa a tutti, indiscriminatamente. La richiesta, a quanto riportato nello schema approvato, proviene dalla direzione della Casa circondariale. Si tratta di una possibilità prevista dai regolamenti, da accordi nazionali assunti tra il ministero della Giustizia e l’Anci. Al Comune spetterà inoltre monitorare l’andamento dell’attività di "volontariato". A verificare la presenza del detenuto presso la sede assegnata e il rispetto dell’orario di lavoro. L’Ente municipale, che metterà a disposizione un tutor, dovrà inoltre segnalare qualsiasi criticità o inconveniente che possa incidere sul buon esito del progetto, nonché eventuali infortuni. Dal canto suo la direzione della Casa circondariale ha il compito di scegliere secondo procedure proprie i detenuti che potranno beneficiare della "misura alternativa". Lavorare come volontario per il Comune di Brindisi potrà essere possibile per quei detenuti del carcere del capoluogo che rientrano nell’articolo 21 della legge contro il sovraffollamento degli istituti penitenziari. Tra il Comune e la direzione carceraria del capoluogo, con la pubblicazione sull’albo pretorio dell’ente guidato dal commissario prefettizio Cesare Castelli, diventerà possibile per alcuni detenuti lasciare per qualche ora il carcere. Il Commissario Castelli - dice la direttrice del carcere, la dottoressa Anna Maria Dello Preite - ha adottato un provvedimento che, almeno per il Sud, è per la prima volta che viene applicato da parte di un Comune. Prima era accaduto per la Provincia di Brindisi qualche anno fa quando la stessa Provincia era retta, anche allora in regime commissariale, sempre dal dottor Cesare Castelli". Brindisi, in questo, allora, può essere considerato territorio pilota per l’applicazione dell’articolo 21 in materia di contrasto al sovraffollamento delle carceri. "Guardi, ne ero quasi certa di un risultato favorevole anche perché dallo stesso dottor Castelli erano giunti segnali che facevano ben sperare in questo tipo di soluzione prima che lo stesso Commissario concludesse il suo periodo di presenza a Brindisi alla guida del Comune capoluogo". Come dovrebbe funzionare questa opportunità per il detenuto? "Intanto, va detto che questi progetti sono a titolo volontario per il detenuto che vi accede. A queste persone è data la possibilità di partecipare ad un percorso di uscita dal carcere per qualche ora al giorno. Per loro non ci sono guadagni, naturalmente, anche perché si tratta di una sorta di espiazione civile per i reati commessi e, per questo, chi vi partecipa non percepisce alcuno stipendio". Già tre anni fa la Provincia aveva dato la possibilità ad alcuni detenuti di poter lavorare, anche stavolta senza stipendio, presso il proprio Ente. Sono stati molti coloro che hanno già usufruito di questa opportunità? "Qualcuno. Siamo attorno alle quattro o cinque persone che, in questi mesi si sono alternati nel progetto presentato in quella occasione anche grazie all’impegno assunto, oltre che dal dottor Castelli, anche dalla dottoressa Fernanda Prete, di permettere ad un giovane ormai in fine pena di poter lavorare come giardiniere presso il Museo Ribezzo. Adesso, con i progetti del Comune potremo permettere queste possibilità anche a più persone". Come si accede a queste opportunità? "Noi operiano secondo le eventuali richieste che potrebbero giungerci dagli enti locali. Qualche mese fa il provveditorato regionale della nostra amministrazione penitenziaria inviò, ai sindaci dei Comuni brindisini, un invito a presentare delle apposite convenzioni. Devo dire - continua la direttrice - che fino a questo momento solo un paio di loro hanno risposto positivamente. Noi attendiamo fiduciosi e, se richiesto, a chi intende dotarsi di questa opportunità che, ricordo, è a costo zero anche per gli enti locali, potremmo anche inviare una bozza di accordo magari anche con le normative di legge di riferimento". Le esperienze già fatte sono state positive per i carcerati? "Certo. Per tutti si è trattato di una opportunità. Qualcosa che non solo gli ha aperto, per parte della giornata, le sbarre del carcere ma è anche stato un momento di confronto e di crescita anche di tipo professionale per chi ha partecipato grazie alle esperienze lavorative effettuate". Treviso: detenuti nuove sentinelle dei giardini pubblici di Alessandro Zago La Tribuna di Treviso, 3 giugno 2016 Accordo tra Cà Sugana e il carcere di Santa Bona, si comincia con tre volontari Dovranno tenere in ordine i parchi cittadini. Lavoreranno gratuitamente. Avranno il compito di tenere in ordine i giardini pubblici del centro storico ma anche dei quartieri, e lo faranno a rotazione. Di fatto, diventeranno una sorta di custodi dei parchi. E, in zone calde come i giardinetti di Sant’Andrea, punto di ritrovo di drogati, alcolisti e baby gang, la loro presenza contribuirà a tenere sotto controllo la situazione. Saranno anche loro, a modo loro, un presidio del territorio. L’accordo tra amministrazione comunale del sindaco Giovanni Manildo e casa circondariale di Santa Bona è stato presentato ieri a Cà Sugana. Perni dell’accordo il vicesindaco Roberto Grigoletto e il direttore del carcere Francesco Massimo. Si parte entro fine giugno con i primi tre detenuti (che stanno scontando la pena per una condanna definitiva) scelti tra chi, ospite a Santa Bona, si offrirà volontariamente per lavorare per il Comune a titolo gratuito. Di fatto agiranno in regime di semilibertà: dotati di un apposito tesserino, dal carcere si recheranno autonomamente in Comune al mattino per poi tornare a Santa Bona, la sera, per un massimo di 36 ore settimanali di lavoro. La legge 94 del 2013 prevede infatti che i detenuti possano partecipare a "progetti di pubblica utilità" gestiti da amministrazioni o associazioni (già avviene al Parco del Sile e a Villorba) nel campo sociale o sanitario, legge che si aggancia all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Tra i compiti previsti: attività di pulizia, tutela e conservazione di luoghi di interesse pubblico, piccoli lavori di manutenzione delle strade, della segnaletica e delle strutture pubbliche, ma anche archiviazione, ricerca, caricamento ed elaborazione dati e altre attività d’ufficio. "Noi però abbiamo deciso di aiutare queste persone a reinserirsi in società lavorando non in un ufficio ma all’aperto", dice Grigoletto, "a contatto con le persone, nei giardini pubblici". Il Comune sosterrà le spese di viaggio e dei pasti (180 euro al mese per persona) assicurando i detenuti all’Inail contro gli infortuni e le malattie professionali legate alla mansione da svolgere, ma anche per la responsabilità civile verso terzi. La convenzione durerà un anno. Ovviamente la struttura carceraria selezionerà i detenuti più adatti, per il lavoro esterno, persone senza alcuna pericolosità sociale. Aumentano così la vigilanza e il presidio nei parchi pubblici del capoluogo, che oltre al principale ruolo di controllo della polizia municipale, dovrebbe contare anche sul contributo del progetto di "Controllo di vicinato", con residenti e commercianti che volontariamente, attraverso un numero verde, contattano le forze dell’ordine in caso di emergenza. Ma il condizionale è d’obbligo poiché, passati diversi mesi ormai dall’annuncio da parte del Comune, ad oggi il progetto stenta a decollare o, comunque, è timidamente iniziato solo in alcuni punti del centro storico. Comunque ora a tutto ciò va ad aggiungersi il contributo dei detenuti di Santa Bona. "Il nostro obiettivo è quello di restituire queste persone alla società. E i lavori socialmente utili, di pubblica utilità, vanno in questa direzione", dice il direttore Massimo. Ieri alla presentazione dell’iniziativa era presente anche il reverendo Marco Di Benedetto, che segue l’istituto penale per minorenni, sempre a Santa Bona. Una realtà, la casa circondariale di Treviso, che in tutto conta 200 detenuti presenti, 20 dei quali già impegnati in lavori socialmente utili all’esterno del carcere. Milano: al Must Shop il nuovo gioco per bambini realizzato dai detenuti di Opera milanopost.info, 3 giugno 2016 Al Must Shop, presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, è arrivato Storie a bordo, un nuovo gioco ispirato al sottomarino Enrico Toti S-506. Ideato dalla sezione toy design di Aedo, è stato realizzato grazie alla collaborazione del laboratorio artigianale di Sartoria Borseggi che si trova all’interno del carcere di Milano - Opera. Il laboratorio confeziona borse, grembiuli e accessori e intanto insegna un lavoro alle persone detenute. Il progetto è nato dalla proposta di Aedo di trasformare uno dei simboli della collezione del Museo in un pezzo unico, ad alto contenuto sociale, che i piccoli visitatori, appassionati del Toti, possono portarsi a casa per immaginare storie sempre nuove sulla vita del sottomarino e sui personaggi che hanno fatto parte dell’equipaggio. L’idea è quella di promuovere e generare nuovi percorsi creativi, di valore culturale, che esaltino la bellezza del lavoro manuale; il gioco, in vendita a 15 euro, è costituito da 1 sottomarino di stoffa imbottito e da 5 personaggi di cartoncino da ritagliare. Must Shop è un museum concept store che si trova all’uscita del Museo, in via Olona 6. Un luogo dove trovano spazio idee innovative e proposte originali legate a scienza e tecnologia. Le tematiche degli articoli proposti si ispirano alle esposizioni e alle collezioni del Museo articolate in 7 diversi ambiti di ricerca (Materiali, Trasporti, Energia, Comunicazione, Leonardo Arte & Scienza, Nuove Frontiere, Scienze per l’Infanzia). shop@museoscienza.it - mustshop.it Tel. 02.48555340. Orario estivo: martedì - domenica 10.00 - 19.00. Apertura straordinaria: giovedì 2 giugno e lunedì 15 agosto. Aedo è una start-up che opera nel settore culturale, ricercando e sperimentando nuovi linguaggi espressivi digitali per il design di prodotti e servizi creativi, applicati al mondo della cultura, aedolab.com. Borseggi è un marchio registrato dalla Cooperativa Sociale "Opera in fiore" che promuove il lavoro in carcere e realizza l’inserimento lavorativo di persone in situazioni difficili e diversamente abili, in collaborazione con istituzioni, aziende e realtà internazionali. borseggi.it. Milano: con Franco Mussida (Pfm) la musica cura i detenuti Corriere della Sera, 3 giugno 2016 Le chiavi nascoste della musica: è l’idea del chitarrista Franco Mussida, fondatore della Pfm, "che le note nascondano un’anima". E che quindi il suono abbia un potenziale ancora inutilizzato. È un pensiero che ora si rafforza con l’esperienza del progetto CO2, che porta l’ascolto della musica nelle carceri. Mussida, con l’aiuto della Siae, ha realizzato delle audioteche in quattro istituti, Opera, Monza, Secondigliano e Rebibbia (femminile). Per tre anni centinaia di detenuti hanno ascoltato migliaia di brani. Vivaldi e Ravel. Bach e Chopin. Miles Davis e Carlos Santana, e ancora Chat Baker e la musica elettronica. I brani, suggeriti da professionisti come Paolo Fresu - il primo ad aderire, Roberto Vecchioni, Claudio Baglioni, sono stati inseriti in un software che permette di scegliere le composizioni sulla base del proprio stato emotivo. La musica è riuscita a creare spazi di intimità in luoghi dove non si è mai soli. "Sono riuscito a scaldarmi in piccoli angoli di libertà sonora", dice Patrice, detenuto a Monza. E la direttrice del carcere, Maria Pianiello, dice: "La musica ha iniziato a esprimere la sua forza". Migranti, tre nuovi hotspot mobili e 1.500 posti per chi va espulso di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 giugno 2016 Il piano del Viminale che chiede in cambio 500 milioni per progetti nei Paesi africani. La Commissione europea aveva minacciato l’avvio della procedura d’infrazione sollecitando l’apertura di nuovi centri di smistamento e identificazione. Tre nuovi "hotspot" mobili da aprire in Puglia, Reggio Calabria e Sardegna. Centri di smistamento e identificazione dei migranti che si aggiungono ai cinque già operativi e ai due che entro luglio saranno attivati in Sicilia. È questa la novità contenuta nella lettera che sarà inviata questa mattina a Bruxelles per evitare la "procedura di infrazione" minacciata dalla Commissione europea. Ma non è l’unica. Perché nella missiva firmata dal capo del Dipartimento Immigrazione Mario Morcone e dal capo della polizia Franco Gabrielli c’è l’impegno a ripristinare entro un mese i 1.500 posti nei Cie per chi deve essere espulso "anche se nessuna norma europea prevede questo tipo di obbligo". E viene chiarito che "l’eventuale "hotspot" galleggiante, quindi a bordo di una nave, servirebbe soltanto da "ammortizzatore" in caso di emergenza per flussi elevati per effettuare lo screening sanitario e prendere le generalità" Stanziare subito 500 milioni di euro - Il piano approvato dal ministro dell’Interno Angelino Alfano ha naturalmente una condizione "politica" che passa per la cooperazione sui rimpatri che l’Italia ha chiesto e ribadirà la prossima settimana quando si discuterà il "Migration Compact", per concedere aiuti ai Paesi di origine degli stranieri per tentare di fermare le partenze. L’ultima proposta prevede l’impiego di 500 milioni di euro, di cui 140 per progetti in Nigeria, Libia, Etiopia, Senegal e gli altri Stati africani che vorranno essere inseriti nel progetto. Nel corso del vertice europeo sarà fornito il quadro di situazione dell’Italia. Secondo i dati aggiornati al 1° giugno sono approdati sulle nostre coste 47.873 migranti e sono oltre 122.550 quelli che vengono assistititi. Circa il 35 per cento - questo il risultato del lavoro delle commissioni - ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. I posti per l’accoglienza sono ormai finiti. Dieci giorni fa dal Viminale è stata diramata una circolare che imponeva a tutte le Province di prendere in carico 70 stranieri. Al termine della campagna elettorale si chiederà di nuovo la cooperazione di Comuni e Regioni, soprattutto in previsione di un’estate che si teme drammatica per quanto riguarda il flusso degli arrivi. I nuovi 1000 posti pronti in Sicilia - La richiesta di chiarimenti del commissario Dimitri Avramopoulos era arrivata il 13 maggio scorso e "pur riconoscendo il forte impegno dell’Italia nell’affrontare l’attuale situazione" contestava "un gran numero di sbarchi al di fuori dei punti di crisi (hotspot), e i previsti gruppi mobili addetti ai punti di crisi non sono ancora operativi", per questo chiedeva di "predisporre gli "hotspot" supplementari in Sicilia". Nella risposta del Viminale che sarà recapitata per via diplomatica viene evidenziata la piena funzionalità di cinque centri: Lampedusa (500 posti), Trapani-Milo ( 400), Pozzallo (300), Taranto (400 posti) per un totale di 1.600 posti. E si specifica l’apertura di altri due strutture - una da 800 e l’altra da 300 posti - in Sicilia. Ma soprattutto si sottolinea che "i fotosegnalamenti vengono sempre assicurati". Rimane il problema di alcune etnie che rifiutano di farsi prendere le impronte digitali perché non vogliono essere registrati in Italia, ma su questo si stanno studiando metodi alternativi proprio per garantire l’identificazione di tutti. Centri mobili in tre regioni - I 13 mila arrivi della scorsa settimana hanno dimostrato ancora una volta la necessità di non gravare sempre sulla Sicilia proprio per evitare situazioni di forte emergenza. E dunque si è deciso di potenziare i "team mobili" composti da funzionari nazionali e delle due organizzazioni internazionale Easo e Unhcr, da inviare "nelle località in cui emerge una esigenza di gestione di persone di Paesi terzi arrivate sul nostro territorio, nonché nei luoghi di approdo fuori dagli hotspot" in modo da stabilire chi ha diritto all’asilo e chi invece deve essere sottoposto alla procedura di espulsione e rimpatrio. In particolare queste strutture saranno allestite in Calabria, Puglia e Sardegna. Non saranno postazioni fisse, si sta pensando di sistemarle all’interno dei porti proprio per impedire le fughe. Ma la procedura di identificazione sarà rispettata grazie ai macchinari che sono a disposizione della polizia e garantiscono la registrazione delle impronte digitali. Le navi impossibili di Angelino Alfano, il ministro galleggiante di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) Il Manifesto, 3 giugno 2016 Non è la prima volta che Angelino Alfano propone l’uso delle navi o di qualche forma di galleggiante per affrontare demagogicamente presunte emergenze detentive. Nel 2009 era esponente del Pdl e ministro della Giustizia del governo Berlusconi. Di fronte alla questione del sovraffollamento penitenziario - c’erano a quel tempo circa 63 mila detenuti contro gli attuali 54 mila - il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sotto di lui amministrato propose le navi prigione da ancorare nei porti della Puglia e della Liguria per detenere persone in custodia cautelare. Pochi erano i precedenti in giro per il mondo: Olanda (nave-prigione contestatissima per migranti a Rotterdam), Regno Unito (nave-prigione per detenuti comuni) e Usa (nave prigione nell’Oceano per i qaedisti). Ognuno di questi precedenti non era proprio meritevole di apprezzamento dal punto di vista del rispetto dei diritti umani delle persone private della libertà. Si trattò di esperimenti tutti andati progressivamente a morire. In Italia nel 2009 dal Dap si evocò l’aiuto di Finmeccanica. Fortunatamente però non se ne fece nulla. Era un progetto costoso, irriguardoso della legge interna e internazionale, ingestibile dal punto di vista pratico. Alfano oggi è ministro degli Interni. Ha cambiato partito e fa parte di una coalizione guidata dal Pd. Uomo non proprio di fantasia il nostro ministro degli Interni che oggi propone di usare le navi per detenere i migranti, hotspot galleggianti. Le obiezioni formulate al progetto del 2009 sono riproponibili oggi pari pari. L’hotspot galleggiante fa pensare a procedure rapide e illegittime di respingimento di massa. Procedure irriguardose della dignità umana e dei diritti fondamentali. Dunque ha ragione la Cei. E come nel 2009 ha torto Alfano (non è la prima volta e forse non sarà l’ultima). Non merita risposte invece Salvini, il cui linguaggio e i cui argomenti non consentono repliche sul terreno della politica e della comunicazione civile. L’idea delle navi galleggianti come hotspot è un’offesa alla dignità umana, alla richiesta di protezione dei migranti, agli obblighi internazionali che vertono sull’Italia come su tutti gli altri Paesi Ue. D’altronde non esiste un’emergenza immigrazione. La parola emergenza giustifica sempre azioni restrittive delle libertà civili. Esiste viceversa un dovere morale e giuridico di accoglienza. Lo dimostrano i dati pubblicati su Open Migration, portale di informazioni messo in piedi dalla Coalizione italiana per i diritti e le libertà civili, fresco vincitore di un premio giornalistico organizzato dalla Deutsche Welle. I dati evidenziano come non vi siano più arrivi di migranti rispetto al 2015. Infine una domanda, anzi una preoccupazione. Che farà fra sette anni Angelino Alfano? Chissà se fra sette anni avrà cambiato partito, se sarà ancora ministro e quale dicastero dirigerà. Speriamo non gli diano il ministero dell’Istruzione. Altrimenti dopo le navi prigione del 2009 e le navi-hotspot del 2016 ci troveremo di fronte alla proposta delle navi-scuola o delle navi-università. Migranti, l’hotspot sbarca in Sardegna di Silvia Sanna La Nuova Sardegna, 3 giugno 2016 La decisione del governo: una struttura mobile durante l’estate per far fronte agli arrivi massicci. Centro d’identificazione a Cagliari e nuovi alloggi a Porto Torres e Alghero. Sarà una struttura mobile, destinata a scomparire alla fine dell’estate quando calerà il numero degli sbarchi. Un hotspot di secondo livello per la prima accoglienza dei migranti, dove potranno essere identificati prima del trasferimento nel centro d’accoglienza o prima dell’eventuale rimpatrio, nel caso le verifiche accertino che non ci sono le condizioni per avviare la richiesta di asilo. La struttura sarà realizzata nel porto di Cagliari: questo il piano del Viminale, che sulla gestione dei migranti ha competenza totale. E che, con questa decisione, ribadisce il ruolo cruciale della Sardegna nel quadro nazionale. Un ruolo confermato dai numeri del 2016, con il porto di Cagliari terzo scalo italiano dopo quelli della Sicilia e di Reggio Calabria. L’isola entro la fine dell’anno è candidata ad accogliere quasi 5mila migranti: la maggior parte prenderà altre strade, perché la Sardegna è la destinazione finale soltanto per una minoranza. Ma, a prescindere dal tempo di permanenza, è necessario disporre un piano d’accoglienza e distribuzione nel territorio. E in quasi tutte le strutture disponibili al momento c’è il tutto esaurito. Ma l’hotspot mobile non è l’unica novità per l’isola: a breve infatti saranno aperti 6 centri Sprar, per la seconda accoglienza dei rifugiati e un’integrazione reale. Tutti i comuni sardi che hanno presentato richiesta sono stati ammessi al finanziamento: tra i centri interessati ci sono anche Porto Torres e Alghero, che riceveranno dal ministero dell’Interno un contributo pari al 95 per cento del costo complessivo. Hotspot. La notizia che un hotspot potesse essere realizzato in Sardegna aveva iniziato a circolare circa 10 giorni fa. Dall’Europa era arrivato l’invito al governo italiano a individuare le migliori soluzioni possibili per affrontare l’ondata massiccia di sbarchi. E tra i porti individuati come strategici era spuntato subito quello di Cagliari. Ieri la conferma: non sarà un "vero" hot spot come quelli siciliani di Lampedusa, Trapani e Pozzallo o quello di Taranto. Sarà una struttura mobile e temporanea, che offrirà un supporto esclusivamente nei tre mesi estivi. In autunno, quando gli sbarchi diminuiranno sino a terminare del tutto in inverno, il centro di prima accoglienza e identificazione leverà le tende. Sulla decisione del governo italiano, la Regione e le prefetture possono limitarsi esclusivamente a una presa d’atto. Perché, come spiega Angela Quaquero, delegata del governatore Pigliaru nel tavolo di lavoro sull’accoglienza migranti, "sugli hotspot la gestione è esclusivamente ministeriale. Da quando gli sbarchi sono aumentati e i numeri sono diventati veramente importanti, le scelte avvengono in maniera centralizzata". Cercasi alloggi. In due mesi sono arrivati in Sardegna 1287 migranti. Da aprile alla fine di maggio gli sbarchi al porto di Cagliari sono stati quattro. Tra giugno e luglio il numero potrebbe raddoppiare. I dati dell’isola corrono veloci e paralleli a quelli nazionali. La quota assegnata alla Sardegna, il 2,98%, è rimasta immutata e non è destinata a crescere: ma nel lievitare complessivo degli arrivi l’isola è chiamata a dare un contributo direttamente proporzionale. Una situazione molto fluida alla quale le Prefetture cercano di fare fronte individuando nuove strutture d’accoglienza che rispondano a determinati requisiti, ma anche reperendone altre che possano essere utilizzate esclusivamente per affrontare l’emergenza. Le strutture ufficiali sono 85, distribuite in tutte le ex province. Imprecisato il numero di quelle non ufficiali. Così come quello dei capannoni, ex caserme ed ex carceri visionati dai tecnici incaricati dalle prefetture con l’obiettivo di individuare altri spazi idonei e utilizzabili in tempi rapidi. Perché la priorità è garantire un tetto e un pasto caldo a chi fugge da una guerra nella quale spesso ha perso tutto e affronta il mare per inseguire la sua seconda possibilità. Accoglienza e integrazione. In attesa ci sono nell’isola 2922 persone, tra centri di prima accoglienza (2834) e centri Sprar (Sistema di protezione per i rifugiati) che al momento ne accolgono 88. Il numero aumenterà presto. Da tre strutture (Cagliari, Quartu e Villasimius) i centri Sprar diventeranno nove. "Con grande soddisfazione abbiamo appreso che tutti i Comuni che hanno presentato un progetto hanno ricevuto il via libera del governo, è una notizia importante perché significa che possiamo procedere nella direzione stabilita. Cioé verso una integrazione reale dei migranti che sbarcano in Sardegna", dice Angela Quaquero. I 6 Comuni ammessi al finanziamento sono Alghero, Porto Torres, San Gavino Monreale, Iglesias, Capoterra e Sini. I posti Sprar complessivi saranno 120, così distribuiti: 25 a Porto Torres (finanziamento di circa 535mila euro tra 2016 e 2017), 20 ad Alghero (480mila euro), 25 a Capoterra (circa 500mila euro), 20 a Iglesias, 15 a Sini e10 a San Gavino. Non solo vitto e alloggio: i rifugiati potranno imparare un mestiere, i bambini andare a scuola. Se vorranno, costruirsi un futuro nell’isola. Studio inglese: "droghe collegate a un terzo dei suicidi tra i giovanissimi" di Emanuela Di Pasqua Corriere della Sera, 3 giugno 2016 È il risultato di uno studio inglese che però sottolinea la difficoltà di comprendere se l’uso di stupefacenti sia la causa o l’effetto di un disagio spesso socio-familiare. Il suicidio giovanile si conferma la seconda causa principale di morte tra gli adolescenti in Italia e la prima in molte altre nazioni. Sembrano giovani come tanti, spesso descritti come tranquilli o timidi, mentre in realtà covano un istinto autolesionista che può portarli al grande salto. In un’età in cui tutto sembra troppo grande da gestire, le cause scatenanti di questo gesto possono essere tante e diverse e quasi sempre c’è una concatenazione di eventi che porta questi ragazzi vulnerabili all’ultima fuga. Alterazione della percezione - Alcuni ricercatori dell’Università di Manchester hanno cercato di indagare le situazioni che più spesso ricorrono in concomitanza di un suicidio di un adolescente, monitorando 145 suicidi di ragazzi sotto i 20 anni tra il gennaio 2014 e l’aprile 2015. Innanzitutto hanno riscontrato che i giovanissimi in questione in un caso su tre avevano fatto uso di droghe generiche o di alcol (in percentuali solo leggermente differenti, rispettivamente del 29 e 28 per cento) e che tre quarti di loro avevano fatto uso di cannabis. Questo dato da una parte può significare che l’alterazione della percezione può essere molto pericolosa in una personalità già fragile, ma può anche descrivere un legame inverso, ovvero che chi è a disagio tende più spesso di altri a rifugiarsi in sostanze che lo alterano. Senza contare che la percentuale di giovani che fa uso di cannabis o di alcol, tra i suicidi o meno, è in assoluto molto alta (anche se con importanti distinguo riguardo alla frequenza e alle modalità). Inoltre la psicosi si rivela proprio a questa età e in questi casi la droga, anche se leggera, può essere un attivatore di patologie psichiatriche. Il suicidio è comunque fortemente associato alla malattia mentale e ai disturbi dovuti all’uso compulsivo di sostanze come alcol o droghe e l’abuso di sostanze rende anche più probabile che si arrivi ad agire per pensieri di suicidio impulsivi o comportamenti a rischio. Lutti, bullismo, stress - Emergono anche altre costanti nel suicidio adolescenziale, che nel 28 per cento dei casi si verifica in seguito a un lutto, magari nemmeno troppo recente. Uno su cinque tra questi giovani è vittima di bullismo e quasi un terzo è risultato essere troppo sotto pressione scolasticamente. Quasi sempre c’è un quadro familiare difficile, violenza domestica o abuso di sostanze stupefacenti, problemi di affettività e di comunicazione. In realtà emerge un quadro articolato tra i teenager che arrivano a questo estremo gesto che, dietro a una molteplicità di cause, nasconde un profondo disagio, un senso di oppressione psicologica e la sensazione di vivere in un mondo fuori misura. È più corretto dire che difficilmente ci si toglie la vita per un motivo specifico, ma che una determinata situazione (eccessiva pressione, bullismo, lutto, malattia, delusione amorosa) può sfociare in un gesto suicida in una personalità fragile, soprattutto in un’età di per sé difficile e delicata. Un grido d’aiuto - Le droghe, l’alcol e persino i farmaci svolgono un ruolo cruciale, ma non è dato sapere se come causa scatenante o se come sintomo di un’infelicità che esiste a priori. In tutti i suicidi dei ragazzi c’è però una costante: spesso questo gesto definitivo viene annunciato in qualche modo, magari sui social e anche solo metaforicamente. Quasi un avvertimento, un grido di aiuto che va raccolto, anche se è difficilissimo da parte dei familiari interpretarlo. Ai motivi esistenziali, di disperazione e di disagio mentale, si aggiunge talvolta il desiderio di vendetta, in un’età della vita in cui l’adulto viene spesso visto come nemico incapace di comprendere: immaginare il proprio funerale con gli adulti cattivi finalmente disperati è una sorta di rivincita che tantissimi ragazzi hanno immaginato. Fantasie adolescenziali, spesso frequenti e in certa misura persino fisiologiche, che però talvolta, magari con l’aiuto di alcune sostanze, evolvono in un drammatico progetto concreto. L’Ucraina in guerra contro i giornalisti di Francesco Battistini Corriere della Sera, 3 giugno 2016 Gli inviati della stampa internazionale che si sono recati nell’est del Paese sono colpevoli di aver "collaborato con i membri di un’organizzazione terroristica" e possono essere espulsi per i prossimi dieci anni. Come faccio a sapere ciò che penso, finché non vedo ciò che dico? Il giornalismo è l’arte di fare domande e basterebbe girarne una semplice, questa di Edward Morgan Forster che già cent’anni fa scriveva i suoi romanzi come fossero reportage, per chiedere conto dell’ultima censura al giornalismo e al buonsenso: come faremo d’ora in poi a raccontare la guerra ucraina, se basterà essere andati nelle zone di guerra per passare da spie? Da un mese, è quel che accade a Kiev. Dove un sito web vicino al governo ucraino è entrato nella banca dati del nemico e per tre volte ha hackerato gli elenchi dei 7mila giornalisti di tutto il mondo che sono andati nelle regioni dell’Est: terre occupate dai russi, che ovviamente richiedono un pass rilasciato dai filo-russi. La pubblicazione del sito ha un titolo chiaro: "Canaglie". E ci sono dentro praticamente tutti, Corriere della Sera e Repubblica, Reuters e Bbc, testate europee e americane, perché è così che lavora ogni inviato in ogni crisi ed è così anche laggiù: prima ci s’accredita a Kiev per coprire il fronte ucraino, poi ci s’accredita a Donetsk per seguire i territori occupati dai russi. Tutti canaglie, dunque, spioni colpevoli d’aver "collaborato coi membri di un’organizzazione terroristica" e passibili d’espulsione dall’Ucraina per i prossimi dieci anni. Con qualche aspetto grottesco: Ian Bateson racconta sul New York Times d’essere finito nella lista per essere andato solo una volta nel Donbass, luglio 2014, a raccontare il disastro aereo del volo 17 della Malaysia Airlines tirato giù da un missile. Tira una brutta aria per l’informazione, a Kiev. Le superiori ragioni della guerra spingono molti all’autocensura. L’anno scorso, lo stesso sito web additò un paio di giornalisti che, due giorni dopo, furono trovati uccisi. E ora la pubblicazione delle liste, ripresa su Facebook dal ministro dell’Interno, ha ricevuto subito 3mila "like", mentre è partita una petizione al presidente Poroshenko per bandire dall’Ucraina tutti i media che "collaborano col terrorismo". Corsi&ricorsi: ai tempi della rivolta di Maidan, il governo filorusso di Yanukovich stabilì che bastava "diffamare su internet" le autorità per rischiare due-tre anni di galera. La piazza allora si rivoltò e sappiamo come finì: Yanukovich sui poster coi baffetti alla Hitler e, poche settimane dopo, in esilio. Stavolta, no: il nemico da combattere è ancora e solo chi sta con Putin. Il nemico esterno e interno. L’odiato Zar. Che i giornalisti, guarda un po’, li tratta allo stesso modo. Armeni, fu genocidio di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 3 giugno 2016 Germania. All’unanimità il parlamento tedesco ha approvato il testo sul genocidio armeno. La Turchia ha richiamato ad Ankara l’ambasciatore Husein Avni Karslioglu. E dal Kenya il presidente Recep Tayyip Erdogan ha subito minacciato: "Questo voto avrà un impatto molto serio sulle relazioni tra Turchia e Germania". Una risoluzione del Bundestag scompagina le relazioni con la Turchia e riapre i giochi di strategia dell’Ue sul fronte dei migranti. Ieri quasi all’unanimità il parlamento tedesco ha approvato il testo sul genocidio armeno predisposto da Cdu, Spd e Verdi. Ci è voluto un anno prima di mettere nero su bianco ciò che affermava il presidente della Repubblica Joachim Gauck "Il destino degli armeni esemplifica la storia dello sterminio di massa, la pulizia etnica le espulsioni e persino i genocidi di cui il Ventesimo secolo è segnato in modo così terribile". Immediata la "rappresaglia" turca: il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu ha richiamato ad Ankara l’ambasciatore Husein Avni Karslioglu. E dal Kenya il presidente Recep Tayyip Erdogan ha subito minacciato: "Questo voto avrà un impatto molto serio sulle relazioni tra Turchia e Germania", e non solo perché la "guerra sulla Storia" con Berlino rischia di far saltare l’intesa sull’abolizione del visto per i turchi nell’Ue in cambio degli hotspot nell’Odissea dei migranti. Il testo della risoluzione è poco più che simbolico, tuttavia in aula c’erano religiosi e esponenti della comunità armena che hanno alzato un esplicito cartello: "Grazie". Così, per la prima volta, la Bundesrepublik si allinea ufficialmente agli altri 20 Paesi che stigmatizzano il genocidio armeno come sancito fin dal 1985 dalla Commissione diritti umani dell’Onu e ratificato due anni dopo dall’Europarlamento. Il documento approvato ieri utilizza esplicitamente il termine tabù in Turchia per il massacro di oltre un milione di cristiani armeni nel 1915 da parte dell’impero ottomano, all’epoca alleato dei tedeschi. Pulizia etnica a cavallo del Caucaso, stragi senza pietà, deportazione dei pochi superstiti. Ciò che restava dell’Armenia venne inglobato nell’Urss alla fine della prima guerra mondiale. E tutt’oggi la Turchia ammette solo gli "eccessi di patriottismo" ma non transige sulla responsabilità del primo genocidio dell’età contemporanea. Tant’è che alla vigilia del voto a Berlino centinaia di turchi hanno manifestato con tanto di bandiere nazionali di fronte alla Porta di Brandeburgo, a due passi da parlamento e cancelleria. Fino all’ultimo momento utile il premier Binali Yildirim ha messo in guardia i deputati tedeschi, chiamati nominalmente ad alzare la mano: "Sarà, a tutti gli effetti, un vero e proprio test sull’amicizia dei nostri Paesi". Ma alla fine si sono fatti convincere solo in due: un contrario e un astenuto. Ed è scattata la "ritorsione": il vice premier Numan Kurtulmus non ha digerito "un errore storico" mentre Yasin Aktay, influente portavoce dell’Akp, minaccia perfino un contro-voto al Parlamento turco. Merkel (che a fine aprile era in visita ufficiale nel campo profughi di Gaziantep) non si scompone, come sempre: "C’è molto che lega la Germania alla Turchia e anche se abbiamo una differenza di opinione su una singola questione la solidità della nostra amicizia e dei nostri legami strategici è troppo importante". Così nella conferenza stampa congiunta con Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, di cui Ankara fa parte. La vera partita però si gioca a Bruxelles. Martin Schulz, presidente del parlamento europeo, gela senza tanti complimenti le speranze del primo passo della Turchia nell’Ue: "La proposta della Commissione Junker per liberalizzare i visti dei turchi è ferma sulla mia scrivania. Il Parlamento non ne discuterà finché tutte le 72 condizioni richieste non saranno soddisfatte dal governo di Ankara. Sono loro che rischiano di far saltare il patto". Si tratta dello scambio deciso a marzo: finanziamenti dell’Europa per disinnescare l’emergenza migranti con l’offerta di libera circolazione dei cittadini turchi. Come ribadito dal ministro turco per gli affari europei Omer Celik "si tratta di un unico pacchetto: non abbiamo alcuna intenzione di modificare la nostra legislazione anti-terrorismo". Ma a Bruxelles è decisivo risolvere il problema della rotta balcanica: di qui l’intesa con la Turchia (che sarebbe un "paese sicuro" anche se persegue i curdi, i giornalisti non allineati e i non islamisti) impegnata a riprendere i migranti irregolari in cambio dei profughi siriani in Europa. Così la risoluzione sul genocidio armeno riaccende la crisi politica. Sul punto, tuttavia, la coalizione tedesca è però perfino più larga, mentre il capogruppo Cdu Volker Kauder fa quadrato intorno alla cancelliera: "Il nostro obiettivo non è mettere sotto accusa la Turchia, ma riconoscere che la riconciliazione è possibile solamente se i fatti vengono messi sul tavolo. E il fatto che la Turchia stia facendo notevoli sforzi per aiutare l’Ue a gestire la crisi dei migranti non cambia il fatto che agli armeni furono imposte sofferenze indicibili". L’ira turca: "è un errore storico, compromessa l’amicizia tra i paesi" di Giustino Mariano Il Manifesto, 3 giugno 2016 Turchia. Questa crisi potrebbe mettere ancor più in pericolo il controverso accordo sui migranti stipulato con l’Ue. A nulla sono valse le pressioni esercitate da poco più di un anno da Ankara su Berlino, affinché il Bundestag non approvasse la risoluzione che riconosce come "genocidio" il massacro degli armeni avvenuto nel 1915 ad opera dell’Impero Ottomano. Con un solo voto contrario e un astenuto, la Germania ha infatti approvato la risoluzione dal titolo "Memoria e commemorazione del genocidio degli armeni e altre minoranze cristiane tra il 1915-16", presentata da un vasto schieramento parlamentare che va dalla coalizione al governo, composta dalla Cdu della cancelliera Angela Merkel e dal Spd, il partito socialdemocratico e dai Verdi, che sono all’opposizione. Ciò, come era ampiamente prevedibile, ha fatto irritare profondamente Ankara, il cui governo ha subito con veemenza dichiarato che questo riconoscimento è "un errore storicò" e a cui avrebbe dato una adeguata risposta richiamando da Berlino il suo ambasciatore. Il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, in visita di Stato in Africa, ha commentato con durezza tale decisione dicendo che essa avrebbe "compromesso seriamente i rapporti tra i due paesi" e attraverso il vicepremier Nurman Kurtulmus, ha fatto sapere che al suo ritorno avrebbe formulato una più precisa e puntuale risposta a quella che considera "una gravissima e inaccettabile provocazione, profondamente lesiva della relazione di amicizia tra Ankara e Berlino". Il neo primo ministro turco Binali Yildirim, proprio poche ore prima del voto al Bundestag, aveva avvertito la cancelliera Angela Merkel che il risultato del voto sarebbe equivalso a una "vera prova di amicizia" tra i due paesi. Secondo alcuni osservatori turchi sarebbe in gioco la stabilità dei rapporti bilaterali in campo economico e militare. Ma in realtà Merkel ha subito cercato di gettare acqua sul fuoco dicendo che "l’amicizia tra i due paesi è molto solida" e solidi sono anche i loro legami strategici. La Germania è il paese col maggiore interscambio commerciale con la Turchia; entrambi i paesi sono inoltre membri della Nato. Attorno a questa vicenda storica dolorosa ogni anno si accende un’aspra polemica tra il governo turco, che nega la natura genocidiaria di quell’evento e i paesi che nel mondo la denunciano. Ad ogni ricorrenza della data di quel massacro, il 24 aprile 1915, la comunita armena reclama il riconoscimento di quello che considera un genocidio. La Turchia di oggi non nega che vi siano stati quei "massacri"; l’anno scorso, l’allora primo ministro turco Ahmet Davutoglu, si era spinto ben oltre le dichiarazioni del presidente Erdogan nel riconoscere l’orrore di quegli eventi e infatti dichiarò: "Le deportazioni degli armeni sono un crimine contro l’umanità". È questa fu una dichiarazione considerata da molti storica, dopo decenni di forte rimozione di quella tragedia. E lo stesso presidente Erdogan aveva riconosciuto l’importanza che il 24 aprile ha per gli armeni. Aveva descritto quegli eventi storici come "disumani" e aveva presentato le condoglianze ai nipoti di coloro che persero la vita parlando di un "dolore condiviso" e per la prima volta, un anno fa, proprio in occasione del centenario dei massacri, le due comunità, la turca e l’armena, celebrarono gli insieme la memoria dello sterminio. La Turchia rifiuta il termine "genocidio". Sostiene da sempre che non vi era alcuna volontà di genocidio da parte dell’allora governo dei "Giovani turchi"; che non vi era un piano premeditato di eliminazione di un popolo, che si è trattato di massacri e deportazioni da inquadrare all’interno del contesto della prima guerra mondiale. Oggi della questione armena, di genocidio o massacri, si parla apertamente e sono stati pubblicati libri e prodotti film su questa immane tragedia e le vittime del 1915 vengono commemorate ogni anno il 24 aprile ad Istanbul e in tante altre città della Turchia. Si tratta di un cambiamento radicale, di una accresciuta consapevolezza di quegli eventi. Alcuni osservatori ritengono che la crisi che si è aperta tra Ankara e Berlino potrebbe mettere ancor più in pericolo il controverso accordo di riammissione dei migranti stipulato tra Unione europea e Turchia il 18 marzo scorso, voluto dalla cancelliera tedesca Merkel. Alla tenuta di questo accordo tiene moltissimo anche Ankara; con esso spera infatti di ottenere entro giugno la liberalizzazione dei visti d’ingresso per i propri cittadini nell’area Schengen. E ciò costituisce per la Turchia un punto fondamentale dell’accordo con l’Ue. Tale questione si è arenata perché Ankara non ha alcuna intenzione di provvedere a riformare la legge liberticida antiterrorismo come prevista dai 72 criteri inseriti nell’accordo sulla liberalizzazione dei visti e ha minacciato di non rispettare il patto sui migranti se Bruxelles non provvederà ad abolire i visti. E si teme che la crisi che si è aperta in queste ore tra Berlino ed Ankara possa ripercuotersi sull’accordo riguardante i migranti e che dunque il governo turco potrebbe esercitare un ulteriore pressione su Bruxelles per ammorbidire l’Ue sulla richiesta di riforma della legge antiterrorismo necessaria per procedere nel negoziato. Egitto: ecco gli altri Regeni di Brahim Maarad e Marco Pratellesi L’Espresso, 3 giugno 2016 I documenti arrivati alla nostra piattaforma Espresso Leaks denunciano la scomparsa di tre studenti prelevati in facoltà. E il caso del reporter condannato all’ergastolo. Stiamo rompendo il buio. Lo sta facendo RegeniLeaks. Arrivano segnalazioni e appelli. Alla piattaforma protetta in tanti stanno affidando la speranza di diffondere la verità e chiedere giustizia. Per Giulio e per tutti i Regeni d’Egitto. Finora sono due le segnalazioni qualificate che "l’Espresso" ha potuto verificare. La prima è un appello disperato di una fonte anonima che vorrebbe salvare la vita a tre studenti spariti nei giorni scorsi dalle rispettive università. La seconda riguarda un giornalista arrestato. "Ci sono tre studenti, come Giulio Regeni. Sono rinchiusi da qualche parte e chiedono aiuto. Ma il mondo non li ascolta. Noi tutti abbiamo bisogno che voi facciate in modo che il mondo li ascolti prima che vengano uccisi dai loro rapitori. Sono stati prelevati e arrestati mentre erano all’università a dare gli esami. La polizia li ha portati via per le loro idee politiche e perché sono ragazzi liberi, come lo era Giulio Regeni. Per favore parlatene". Il messaggio è arrivato a "l’Espresso" attraverso Regeni Leaks, la piattaforma creata per ricevere informazioni e testimonianze sull’assassinio di Giulio e sulle violazioni dei diritti umani da parte del governo egiziano. È una delle diverse segnalazioni ricevute da quando è stato lanciato il progetto, una piattaforma protetta per whistleblower accessibile dal sito anche in arabo e inglese. Tra le varie informazioni, questa richiesta disperata di sostegno arrivata da una fonte anonima. Chi scrive vuole che il mondo sappia che tre studenti rischiano di essere uccisi da un momento all’altro in uno dei bunker del regime di al Sisi. "Sono spariti forzatamente e nessuno sa dove si trovino in questo momento, ma sicuramente sono sottoposti a torture attraverso scosse elettriche e pestaggi brutali", ha scritto la fonte anonima sulla piattaforma. E ha lanciato un appello: "Vogliamo che voi diciate al mondo che ci sono tre studenti arrestati dalla polizia mentre facevano gli esami all’università e ora stanno subendo delle violenze e rischiano di essere uccisi nelle prossime ore o nei prossimi giorni. È urgente che li salviate facendo sentire la loro voce al mondo. Vi prego lasciate che ne parli anche la mamma di Regeni". La fonte ha fornito alcuni dati delle tre vittime che "l’Espresso" ha potuto verificare. La loro sparizione è stata effettivamente segnalata anche da un gruppo di attivisti egiziani che si fa chiamare "Spezza le manette". Dalle verifiche fatte, è emerso che i tre studenti di cui parla il whistleblower frequentavano alcune università ad Alessandria. Mohamed Mahmoud era al secondo anno in un istituto tecnico di alta formazione. Il 15 maggio scorso è stato convocato dal segretario della facoltà ed è stato consegnato poi alle forze di sicurezza. L’unica spiegazione che hanno ricevuto i suoi colleghi è che sarebbe stato trasferito per essere seguito da una commissione speciale. La realtà è che da quel giorno non si hanno più sue notizie. Secondo il gruppo di attivisti che ne ha denunciato l’arresto dovrebbe essere rinchiuso in una centrale di polizia. Ahmed Abdel Hady è iscritto invece al dipartimento di ingegneria meccanica. È stato fermato dalla sicurezza interna dell’università mercoledì 25 maggio per essere consegnato agli agenti. Finora nessuno sa dove si trovi. Risulta semplicemente scomparso. Come le centinaia di egiziani spariti nei mesi scorsi. Portati via da polizia o servizi segreti perché avevano espresso opinioni contrarie alla linea del regime. Il terzo episodio ha per protagonista Aabed Alae Eddine, iscritto alla facoltà dei sistemi dell’informazione. Anche in questo caso è stato convocato dall’amministrazione per poi essere consegnato alle forze dell’ordine. La motivazione è che avrebbe violato il regolamento scrivendo su un foglio riservato alla commissione d’esame. Di lui non si hanno più notizie. Il timore è che i tre ragazzi portati via dalle rispettive università siano sottoposti allo stesso trattamento che ha ucciso Giulio. La seconda segnalazione riguarda AbdullahAlfakharany. Un giovane giornalista, laureato in medicina, cofondatore del sito Rassd e membro dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i diritti dell’uomo. Il 25 agosto 2013, a 23 anni, Alfakharany è stato arrestato dalle forze di polizia perché si è trovato in mezzo a un’irruzione nell’appartamento di un conoscente. Con lui sono finiti in manette anche due amici. Hanno trascorso la prima settimana con settanta detenuti in una cella dove ce ne stavano dieci. In seguito sono stati trasferiti nella prigione di Wadi Natroun dove le guardie li hanno accolti con insulti, minacce con i cani e botte. Per sei mesi i suoi avvocati non lo hanno potuto difendere. Gli è stato negato ogni diritto. Non ha potuto presenziare nemmeno per poter ascoltare la propria condanna all’ergastolo. Condannato al carcere a vita semplicemente perché faceva il giornalista. Dopo il provvedimento, è stato tenuto dieci giorni in isolamento e trasferito poi in una prigione di massima sicurezza. Per 23 ore al giorno viene tenuto in una cella di venti metri quadri con altre 25 persone. Gli avvocati si stanno battendo per ottenere l’annullamento della condanna ma intanto Alfakharany il 21 maggio scorso ha raggiunto i mille giorni di carcere e il giorno dopo ha compiuto 26 anni. I familiari lo possono visitare una volta alla settimana per cinque minuti. E spesso gli vengono negati anche quei cinque minuti. Negli ultimi mesi, più o meno dal ritrovamento del corpo di Regeni, un’ondata di arresti ha travolto decine di studenti e attivisti in tutto il Paese. Una morsa che non ha risparmiato il consulente della famiglia del ricercatore friulano, Ahmed Abdallah, presidente del consiglio di amministrazione della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, e l’avvocato e attivista per i diritti umani Malek Adly, incarcerato a inizio maggio. A raccontare a "l’Espresso" la drammatica situazione che sta vivendo Adly è la moglie Asmaa Aly, anche lei attivista per i diritti umani e collaboratrice del Cospe al Cairo: "Si trova in una cella d’isolamento da 25 giorni. Ha solo due coperte, non ha nemmeno un letto. Ogni volta che l’abbiamo chiesto alle guardie ci hanno risposto che non hanno ricevuto ordini in merito. Ha la pressione molto alta e non viene assistito. Temo per la sua vita perché è da solo. Gli hanno vietato persino di parlare con gli altri detenuti". Un appello per chiedere al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni di intervenire per la scarcerazione dell’avvocato Adly è stato lanciato da Cospe Onlus. "Malek, oltre ad aver difeso in tribunale diversi casi legati alle libertà e ai diritti civili di tanti cittadini", scrive il Cospe, "di recente stava trattando il caso della cessione da parte del governo egiziano, senza alcuna consultazione nazionale, delle isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Inoltre, l’attivista si era esposto pubblicamente sulla vicenda di Giulio Regeni". Finora però sembra che nulla sia riuscito a scalfire la ferrea strategia repressiva del generale al Sisi. L’ultimo affronto è di qualche giorno fa. Il 29 maggio scorso è scattato l’arresto di Yehia Qalash, presidente del Sindacato dei giornalisti egiziani, insieme a due altri membri del consiglio direttivo, Khaled al Balshi e Gamal Abdel Rahim. Amnesty International l’ha definito "il più sfrontato attacco alla stampa del Paese arabo negli ultimi decenni".