La disabilità nelle carceri di Daniela Bucci* superando.it, 30 giugno 2016 Erano 628, secondo la più recente rilevazione, i detenuti con disabilità, distribuiti in 16 diverse Regioni e molti dei quali con problemi nella locomozione, nelle funzioni della vita quotidiana o nella comunicazione. Una recente Lettera Circolare, prodotta dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, individua gli interventi che andrebbero attuati, per garantir loro la massima autonomia possibile, favorendone al tempo stesso l’accesso ai servizi sociosanitari Con la Lettera Circolare n. 0089149 del 14 marzo scorso, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia ha affrontato il tema della condizione di disabilità motoria nell’ambiente penitenziario. Il documento, riprendendo il concetto di disabilità introdotto dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e l’approccio basato sulla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), fornisce i dati del monitoraggio sulle persone con limitazioni funzionali detenute, realizzato nell’agosto dello scorso anno dalla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento. Alla data della rilevazione, dunque, negli istituti penitenziari erano presenti 628 detenuti con disabilità, pari a circa l’1% della popolazione penitenziaria. Si tratta di 528 italiani (26 donne) e 100 stranieri (8 donne), distribuiti in 16 Regioni. 191 di loro (18 donne) hanno difficoltà nelle funzioni della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, spogliarsi, mangiare, avere cura della persona, sedersi, alzarsi dal letto e dalla sedia), 153 (5 donne) nella mobilità corporea (ad esempio a uno degli arti), 232 (11 donne) hanno limitazioni nella locomozione e 52 (1 donna) hanno problemi nella comunicazione (vedere, sentire, parlare). A livello generale, secondo l’ultimo aggiornamento dell’Ufficio Statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 maggio del 2016 erano presenti complessivamente negli istituti penitenziari italiani 53.873 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare pari a 49.697 posti. Più volte, va ricordato a tal proposito, l’Italia è stata censurata dal Consiglio d’Europa e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per il sovraffollamento degli istituti penitenziari, ma anche per una non adeguata tutela della salute dei detenuti. L’articolo 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, la cosiddetta Cedu, prevede l’obbligo positivo dello Stato di garantire che, nel corso della reclusione, ogni persona sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che le condizioni di esecuzione della misura detentiva non sottopongano la persona stessa a un disagio o a una prova di un’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza insita nella detenzione. Infine, sempre la CEDU impone che, tenuto conto delle esigenze pratiche della prigionia, siano assicurati adeguatamente la salute e il benessere del detenuto, specialmente attraverso la somministrazione tempestiva delle cure necessarie. È quasi superfluo ricordare come la cogenza dell’articolo 32 della nostra Costituzione in materia di salute ("La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…") non sia intaccata dallo stato di reclusione. In questo quadro, le accertate violazioni dell’articolo 3 della CEDU impongono una più attenta e operativa sensibilità alle condizioni delle persone con disabilità recluse. Il nostro ordinamento prevede che possa essere richiesta, accertata e riconosciuta, con specifici procedimenti, l’incompatibilità della carcerazione con gravi motivi di salute. In tali casi deriva la concessione, su ordinanza del giudice competente, degli arresti domiciliari. Si tratta, in ogni caso, di casi estremi e connessi a situazioni di salute e non di disabilità nel suo significato più corretto. In realtà, sarebbe necessario monitorare l’effettiva accessibilità delle strutture penitenziarie, non solo rispetto alla presenza di stanze di pernottamento attrezzate e alla più complessiva accessibilità di tutti gli ambienti di cui possono fruire i detenuti, ma anche in relazione alle generali condizioni di vita degli stessi, per quanto concerne la detenzione e la possibilità di fruire, al pari degli altri reclusi, di pene alternative. Per altro queste esigenze sono state rilevate negli anni (già nel 1999) dall’Amministrazione Penitenziaria, che ha indicato l’intento di individuare all’interno degli istituti penitenziari celle e ausili adeguati al soggiorno di persone "con deficit motorio permanente". In conformità quindi con la normativa nazionale e internazionale, la Lettera Circolare del marzo scorso individua gli interventi specifici di competenza dell’Amministrazione Penitenziaria, con l’obiettivo di garantire la massima autonomia possibile della persona con disabilità e di favorirne l’accesso ai servizi sociosanitari. In particolare, nel rispetto dell’articolo 3 della Cedu e dell’articolo 15 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, per cui nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti, oltreché nel rispetto delle Sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la Lettera affronta le questioni relative a: l’accessibilità delle strutture e gli "accomodamenti ragionevoli"; la presa in carico della persona con disabilità e il programma di trattamento rieducativo individualizzato (si ricordi qui l’articolo 27 della Costituzione, ove si dice che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"); l’assistenza sanitaria; la formazione di altri detenuti al lavoro di caregiver sul modello di quello familiare; la raccolta dei dati e il monitoraggio. *Responsabile del portale "Condicio.it - Dati e cifre sulla condizione delle persone con disabilità", spazio di comunicazione che è il frutto di un progetto della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e nel quale il presente contributo è già apparso (con il titolo "La condizione di disabilità nelle carceri"). Viene qui ripreso - con alcuni riadattamenti al diverso contenitore - per gentile concessione. Sostanze stupefacenti e carceri, un detenuto su quattro entra in galera per droga di Marco Sarti linkiesta.it, 30 giugno 2016 Il VII Libro Bianco sulle droghe evidenzia il legame tra politiche antidroga e sovraffollamento penitenziario. In Italia gran parte dell’attività di polizia riguarda il consumo di cannabis. E uno studente su tre ammette di aver consumato sostanze illegali (nel 2,1 per cento dei casi, sconosciute). In Italia un detenuto su quattro entra in carcere perché condannato o accusato di produrre, vendere e detenere droghe illecite. E quasi un recluso su tre paga la violazione della normativa sulle sostanze stupefacenti. Sono i dati contenuti nel VII Libro Bianco sulle droghe presentato ieri alla Camera dei deputati. Numeri che fanno riflettere. Mentre a Montecitorio le commissioni Affari sociali e Giustizia proseguono l’esame delle proposte di legge sulla legalizzazione della cannabis, la Società della Ragione - insieme ad Antigone al Forum Droghe - pubblica il dossier sulla legislazione antidroga. Cifre utili a sfatare i pregiudizi su usi, consumi e diffusione delle sostanze stupefacenti, come spiega l’introduzione del documento. Dati che confermano "il peso insostenibile sulla giustizia e sul carcere della legge antidroga". Nel 2015 si sono registrati 45.823 ingressi totali nei nostri istituti penitenziari. 12.284, pari al 26,8 per cento, in violazione dell’articolo 73 della legge antidroga (detenzione di sostanze illecite). Colpisce il trend decrescente. Rispetto al 2009 si sono più che dimezzati gli ingressi complessivi e quelli in violazione della normativa sulle sostanze stupefacenti. Tra il 2008 e il 2015 gli ingressi in carcere sono diminuiti del 50,62 per cento, quelli per il reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti sono calati di oltre il 57 per cento. Per gli autori del Libro Bianco, è la dimostrazione che "il sovraffollamento penitenziario, così come le possibilità di contenerlo, sono strettamente legati alle scelte sulle politiche antidroga". Intanto oggi i detenuti per violazione della legge antidroga sono 16.712, il 32,03 per cento del totale. Altro dato in calo. Nel 2010 erano 27.294, pari al 40,16 per cento della popolazione carceraria. Ma qual è il peso delle politiche antidroga sulla giustizia? Nel 2015 le operazioni di polizia in materia di stupefacenti sono state oltre 19mila. Più di 27mila, invece, le segnalazioni all’autorità giudiziaria. Anche stavolta stupisce un dato. La cannabis e i suoi derivati sono le sostanze più frequentemente interessate dal fenomeno. Il 56,31 per cento delle operazioni di polizia hanno per oggetto i cannabinoidi. E così il 48,20 per cento delle segnalazioni all’autorità giudiziaria. Su 27.718 segnalazioni, solo 2.286 contestano l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. "Nel restante 91,75 per cento dei casi - si legge - abbiamo a che fare con detentori di sostanze di cui non è neanche sospettata l’appartenenza a organizzazioni criminali dedite al traffico di sostanze stupefacenti". Questo è il risultato, secondo gli autori del Libro Bianco: "I cannabinoidi costituiscono, dunque, il principale impiego di energie e risorse dell’apparato di polizia e giudiziario impegnato nella repressione penale della circolazione di sostanze stupefacenti illegali". Discorso a parte per i procedimenti penali pendenti negli uffici giudiziari italiani. Al 30 giugno dello scorso anno le imputazioni relative alla detenzione di sostanze stupefacenti erano 158.690. Quasi il 10 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Resta costante, invece, il numero di persone sottoposte a procedimento penale per appartenenza ad organizzazioni criminali finalizzate al traffico illecito di sostanze stupefacenti: 43.828 (nel 2014 erano 43.961). E poi ci sono i numeri delle segnalazioni ai prefetti per il solo consumo di sostanze illecite. Nel 2015 sono state 32.478, dato in linea con l’anno precedente. Curiosità: quasi l’80 per cento delle segnalazioni sono dovute al consumo di cannabinoidi. È un fenomeno largamente diffuso, basti pensare che dal 1990, anno di entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli, sono state segnalate al prefetto come consumatrici di sostanze stupefacenti oltre un milione di persone: 1.107.051. Il VII libro bianco sulle droghe apre poi uno scenario interessante sulla diffusione del consumo di sostanze proibite, soprattutto tra i giovani. Il documento presenta i risultati del ESPAD Italia, uno studio realizzato dall’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR sui ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Stando ai numeri, nel 2015 oltre un terzo degli studenti italiani ha sperimentato il consumo di almeno una sostanza illecita. La cannabis è la più diffusa (27 per cento), seguono cocaina (2,5 per cento), allucinogeni (2,2 per cento). La meno comune è l’eroina, all’1 per cento. Quasi tutti hanno fatto uso di una sola sostanza, ma c’è un 15 per cento di "policonsumatori". Tra i dati emerge un fenomeno particolarmente preoccupante, relativo alla mancata consapevolezza dei giovani. La ricerca stima che il 2,1 per cento degli studenti abbia assunto sostanze psicoattive sconosciute. "Ignorandone cioè la natura e gli effetti e, quindi, aumentando i potenziali rischi correlati al consumo". Nel 52 per cento dei casi, le sostanze sono state assunte per non più di due volte. Ma per ben un quarto di questi studenti - il 26 per cento - "si è trattato di ripetere l’esperienza oltre 10 volte". Gli studenti consumano più sostanze illecite rispetto al passato? In parte è così. Prendendo in esame gli ultimi 15 anni, il trend dei consumi ha avuto un decremento fino al 2011 (21,9 per cento), per poi risalire fino al 27 per cento attuale. Stesso percorso per il consumo di cannabis. Era pari al 27 per cento nel 1999, sceso fino al 21,5 per cento nel 2011, e tornato al 27 per cento nel 2015. Riforma della prescrizione, l’intesa che già scatena le accuse di inciucio di Errico Novi Il Dubbio, 30 giugno 2016 Verso l’accordo Pd-Ncd sul ddl penale, ieri via al voto sugli emendamenti. Che sulla riforma del processo penale si sarebbe giocata una partita piena di trappole era chiaro a tutti. Ma proprio ora che il disegno di legge-monstre si avvia verso il sì del Senato, Palazzo Chigi misura tutti i rischi della sfida. La novità è che la commissione Giustizia di Palazzo Madama si è finalmente messa a marciare sugli emendamenti al ddl. Ieri le prime votazioni, la settimana prossima si arriverà ai nodi più intricati, che poi si riducono essenzialmente alla prescrizione. E lì il governo maneggerà un’affilatissima arma a doppio taglio: da una parte si dovrebbe raggiungere un compromesso tra Pd e Area popolare - ossia l’Ncd di Alfano - sui tempi di estinzione dei reati, con l’addio all’emendamento Casson; dall’altra la prevedibile insurrezione di sinistra dem e Cinque Stelle metterà Matteo Renzi all’indice come fautore di un’ignobile retromarcia. Il che in vista del voto referendario è un problema. A chiedere di spicciarsi è stato d’altra parte Sergio Mattarella in persona, come anticipato ieri da Repubblica. Lo ha fatto dopo aver ascoltato l’allarme di Giovanni Canzio, primo presidente della Cassazione. Alla Suprema corte arrivano ogni anno 80mila ricorsi, e si tratta di un carico ai limiti dell’insostenibile, ha ricordato Canzio nei suoi ultimi interventi al Csm. Canzio è componente di diritto del Consiglio superiore, Mattarella ne è il presidente, e tra i due esiste uno scambio continuo. Il Capo dello Stato è consapevole che, a fronte degli alert della Cassazione, il ddl sul processo penale offre risposte precise. Parte della riforma ridefinisce infatti la disciplina delle impugnazioni. Introduce limiti ai ricorsi sia in appello che alla Suprema corte. Un sollievo per il quale secondo il presidente della Repubblica non è più lecito attendere. E anche a partire da questa considerazione che Mattarella ha fatto sentire la propria voce. Ha trovato in realtà le porte spalancate di Pietro Grasso: il presidente del Senato ha auspicato che l’esame dell’aula sulla riforma penale possa esserci nell’ultima settimana di luglio. Ora tocca alla commissione Giustizia. Il cui presidente, Nico D’Ascola è stato messo in allerta. Tutto sta a trovare il famoso punto di sintesi sulla durata dei processi per corruzione. E a occuparsi del negoziato è proprio D’Ascola, che nelle ultime ore si è confrontato sia con il capogruppo pd al Senato Luigi Zanda che con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ci sarà il passo in avanti rispetto alla ex Cirielli, che nel caso del reato di corruzione si tradurrà un risultato non trascurabile: raddoppio dei termini di prescrizione rispetto a quelli che erano previsti prima della legge Severino. Dai 7 anni e mezzo fino indicati fino al 2012, si dovrebbe arrivare a 14 anni e 10 mesi. Una misura accettabile anche per gli alfaniani, certo assai meno draconiana rispetto ai quasi 22 anni del lodo Ferranti passato alla Camera. E soprattutto, nulla a che vedere con il processo infinito dell’emendamento del relatore Felice Casson. Addio anche a un’altra forzatura proposta da quest’ultimo, che per i processi di corruzione prevedeva che i termini di estinzione del reato decorressero non dal momento in cui questo era commesso ma dalla notitia criminis. Il tutto grazie all’eliminazione dell’inasprimento introdotto alla Camera sull’articolo 157 del codice penale. Ma ai grillini l’ipotesi non piacerà. E neppure agli anti-renziani dentro e fuori del Pd. Ieri Pippo Civati, che raramente si era occupato di tecnicalità del processo, si è chiesto platealmente "Renzi da che parte sta". E già prefigura un "papocchio", "norme a metà per non dispiacere i fidi alleati di governo". In realtà anche il guardasigilli Orlando terrebbe a rispettare la scadenza di luglio per il sì alla riforma. Tanto più che nel ddl, oltre alla delega sulle intercettazioni, c’è quella sull’ordinamento penitenziario. È a quello snodo che restano sospesi gli auspici degli Stati generali sul carcere, voluti da Orlando. Ma ormai i tupamaros del processo infinito non dovrebbero più tenere la giustizia in ostaggio. Questa volta ha ragione Davigo: "l’Italia è un Paese sicuro" di Valter Vecellio Il Dubbio, 30 giugno 2016 Per una volta può accadere anche questo: essere d’accordo con Piercamillo Davigo. Proprio lui, quel Davigo il cui programma anni fa Giuliano Ferrara riassume con "Vuole rivoltare l’Italia come un calzino"; quel Davigo secondo il quale, pare, l’umanità si divide in due categorie: i colpevoli, e quelli che ancora non sono stati scoperti. Titola "Il Dubbio" di mercoledì: "Davigo, Italia paese sicuro, non date retta alla tv". Per quel che riguarda la sicurezza, basta intendersi su quale sia la soglia accettabile; che non si debba dare retta alla tv, beh? Davigo si metta in coda con apposito numero, non è tra i più originali, davanti a lui c’è una folta schiera di persone che lo dicono convintamente e lo precedono. Fuor di celia e battuta. Il dato reale è quello che dichiara Davigo: "Gli italiani sono convinti di vivere in un Paese insicuro, ma in Italia abbiamo meno omicidi di Francia e Germania, che sono considerati Paesi abbastanza sicuri". A conforto di questa affermazione quanto scrive su lavoce.info un sociologo che da sempre studia e monitorizza i fenomeni criminali, il professor Marzio Barbagli, già direttore dell’Istituto Cattaneo di Bologna, consulente del ministero dell’Interno come direttore scientifico di quattro rapporti sulla criminalità in Italia, accademico dei Lincei. Questo e molto altro per dire che il professor Barbagli non è davvero il primo venuto, e se fornisce cifre e dati, e ne ricava un certo succo, è perché quelle sono le cifre, quelli sono i dati; e soprattutto quello è il succo che se ne spreme. Dunque, vediamo i risultati del suo studio, che segnano un diverso e radicale modo di leggere una realtà, rispetto alle "letture" ai quattro formaggi di analisti di nessuna analisi, di ricercatori di nessuna ricerca: nel 2015 il numero di omicidi commessi nel nostro paese è diminuito, passando dai 475 dell’anno precedente a 468. "È dal 1992 - annota Barbagli - che il tasso di questo reato ha conosciuto una continua e apparentemente inarrestabile flessione, arrivando ora a 0,80 per 100mila abitanti. Il calo ha riguardato tutte le forme di omicidio: di criminalità organizzata, legato a furti e rapine, commesso per liti, risse e futili motivi o per passioni e conflitti fra familiari". Per farla breve: oggi l’Italia ha il tasso più basso di questo reato della sua storia, sia recente che passata. Il più basso dell’ultimo secolo e mezzo: subito dopo l’Unità, era di 6,8 per 100mila abitanti, otto volte e mezzo maggiore di quello attuale. Commenta Barbagli: "Si tratta di un cambiamento straordinario che dovrebbe rimettere in discussione tre idee molto diffuse nell’opinione pubblica e tra buona parte degli studiosi". La prima che i dati mettono in discussione è che la società italiana sia dominata dalla violenza: "È un’idea alimentata anche dai mezzi di comunicazione di massa, che continuano a rifarsi al principio che "if it bleeds, it leads", ovvero "se c’è sangue, suscita interesse, fa notizia". Ed è un’idea talmente radicata che chi la condivide accoglie con scetticismo, se non con una punta di irritazione, ogni notizia che tenda a smentirla". La seconda idea che secondo Barbagli viene messa in discussione "riguarda le conseguenze della grande crisi economica degli ultimi anni: la lunga recessione che ha colpito il nostro paese ha avuto sicuramente effetti su molti aspetti della società italiana, sullo stile di vita, le scelte familiari, lo stato di salute e l’umore delle persone. Ma, a differenza che in altri paesi (ad esempio in Grecia), non ne ha avuti sulla frequenza della violenza omicida. La flessione del tasso di omicidi registrata a partire dal 1992 non ha subito un’inversione di tendenza e non si è arrestata nel 2008 né negli anni successivi, ma è continuata durante tutto il periodo della crisi". La flessione è stata molto forte nelle regioni settentrionali più avanzate (Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Emilia Romagna) dove si è ridotto di due terzi. Ma ancora più forte è stata la riduzione in quelle meridionali. In Campania il tasso di omicidi è quasi un quarto rispetto al 1991, in Calabria un settimo, in Sicilia addirittura un decimo. "Se nel 1991 nel Mezzogiorno ci si uccideva 5,4 volte più che nel Settentrione, oggi lo si fa 2,2 volte di più. La letteratura scientifica internazionale è sostanzialmente d’accordo nell’attribuire diminuzioni così forti della violenza omicida all’affermazione dello Stato, della sua capacità di detenere il monopolio della violenza legale, della sua legittimità e all’interiorizzazione, da parte dei cittadini, dell’imperativo che non ci si può fare giustizia da soli. Questa ipotesi - conclude Barbagli - può aiutarci a capire cosa è successo, e sta succedendo, nel nostro paese". Naturalmente anche un solo delitto, un solo "femminicidio", basta e avanza; però questi dati, dovrebbero comunque far riflettere su come si fa un certo tipo di informazione; e sul perché. Sempre più la realtà è frutto di una "percezione"; e sempre più, per governare, "stabilizzare" occorrono "emergenze". Alla luce di ciò, tutto facilmente si spiega. Ustica, Bologna e le altre stragi: è caduto il segreto di Stato, ma restano i misteri di Giovanni De Luna La Stampa, 30 giugno 2016 La declassificazione decisa dal governo due anni fa si è rivelata macchinosa: storici, archivisti e familiari delle vittime a confronto. Sono passati 36 anni dalla tragedia di Ustica. Il ricordo dell’abbattimento del Dc 9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, 81 vittime, è anche questa volta l’occasione per sollecitare la verità sugli eventi stragisti degli Anni 70. Lo hanno fatto il Presidente della Repubblica ("rimuovere le opacità") e la presidente della Camera, Laura Boldrini ("troppi i tasselli mancanti"). È un fatto. La cappa di opacità che avvolse le nostre istituzioni in quel decennio inquinò la fiducia sulla quale la democrazia fonda il suo patto con i cittadini; un patto in cui lo Stato chiede lealtà e rispetto delle leggi assicurando in cambio la massima trasparenza nel funzionamento dei suoi organi. Il ruolo del potere invisibile divenne esorbitante, lasciando uno strascico di sospetti e diffidenze che ha avvelenato per decenni il nostro sistema politico. Il segreto di Stato calò come una pietra tombale sulla ricerca della verità e alla sua ombra cominciò a crescere la malapianta dell’antipolitica. Nel frattempo però c’è stata una svolta importante legata alla direttiva emanata dal governo Renzi il 22 aprile 2014: con procedura straordinaria, tutte le amministrazioni statali sono state obbligate a versare anticipatamente all’Archivio Centrale dello Stato la documentazione relativa alle stragi di Piazza Fontana (Milano, 1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza della Loggia (Brescia 1974), Italicus (1974), Ustica (1980), Stazione di Bologna (1980), Rapido 904 (1984). Il provvedimento era stato fortemente sollecitato dai familiari delle vittime e dagli storici, gli uni e gli altri chiamati a interpretare un ruolo decisivo nello spazio pubblico dove si elabora la nostra memoria collettiva. In particolare, i familiari delle vittime si sono ormai accreditati come portatori di un interesse generale alla giustizia che trascende anche la dimensione privata delle loro associazioni. Capaci di spezzare la spirale tra vendetta e perdono, hanno saputo coniugare l’elaborazione dei propri lutti familiari con l’ostinata ricerca del bene comune della trasparenza istituzionale. Quanto agli storici, la loro fame di fonti e di documenti finora è stata appagata in gran parte solo dai fascicoli emersi nel corso degli innumerevoli procedimenti giudiziari. Qualche certezza è stata raggiunta. La strategia della tensione, per intenderci, è oggi storicamente definita attraverso la presenza simultanea di tre elementi: i neofascisti come esecutori materiali; gli apparati dello Stato in un ruolo ambiguo, se non direttamente colpevole; un attentato di tipo stragista, che puntava ad alimentare una sensazione diffusa di disordine sociale da attribuire alla debolezza dello Stato democratico. In questo senso, le possibilità di accedere alla documentazione prima secretata è stata accolta come una opportunità per arricchire queste certezze, spalancando inedite prospettive di ricerca. Ora, però, a due anni di distanza, qualche punta di delusione comincia ad affiorare. La procedura di declassificazione si è rivelata macchinosa; non tutte le amministrazioni hanno seguito criteri omogenei; alcuni fondi arrivano all’Archivio centrale in formato cartaceo, altri digitalizzati. Nel caso dei 4.406 fascicoli versati dal Comparto Intelligence, il criterio tecnico seguito è stato quello di privilegiare le serie archivistiche, senza operare selezioni di documenti e assicurando l’integrità dell’operazione di declassificazione. In altri casi, invece, gli atti sono stati sottratti ai loro contesti archivistici originali con scelte arbitrarie che propongono fascicoli isolati e per questo incomprensibili o fuorvianti. Di qui, nonostante lo zelo con cui sta operando l’Archivio Centrale dello Stato, le critiche avanzate dalle associazioni dei familiari delle vittime. Troppe carte inutili, troppo materiale che al rischio dell’inedia sostituisce quello dell’indigestione. La sfiducia è difficile da cancellare; a declassificare i documenti sono le stesse amministrazioni che per anni hanno lavorato ad alimentare i miasmi del potere invisibile e lo fanno con un inquietante margine di discrezionalità. La decisione di ricordare l’anniversario di Ustica con un confronto diretto - domani - tra storici, archivisti, familiari delle vittime e presidenza del Consiglio va in questa direzione: è un segnale che le istituzioni hanno finalmente accettato di inserirsi in un circuito virtuoso, fondato sulle ricerca della verità e sul ripristino di quel patto di lealtà e trasparenza che ispira qualsiasi democrazia compiuta. Il negazionismo diventa reato: carcere fino a sei anni per chi minimizza Shoah e genocidi di Andrea Scotto Italia Oggi, 30 giugno 2016 In Gazzetta Ufficiale "la legge sulla Shoah", cioè la legge che intende tutelare la memoria e gli esatti contorni sia del massacro sistematico degli Ebrei, avvenuto nella Seconda guerra mondiale, sia più in generale, di tutti gli stermini. La legge 16 giugno 2016 n. 115 (in G.U. del 28 giugno) ha infatti stabilito che "si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999 n. 232". Il nuovo art. 3, comma 3-bis è stato inserito nella legge 13 ottobre 1975 n. 354, la quale ha ratificato e dato esecuzione alla convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. La norma di fresca emanazione richiama al suo interno e ai fini applicativi una serie di specifiche, estese e articolate nozioni di crimine, codificate a livello internazionale. Ciò premesso, è bene notare che viene punito con la reclusione un certo tipo di propaganda, cioè quell’azione che (con qualsiasi mezzo) tende a influire sull’opinione pubblica, ed è finalizzata a negare in tutto o in parte l’Olocausto oppure eventi analoghi. Il congegno legislativo punta a sanzionare anche la condotta di chi susciti in altri il desiderio e l’intento di veicolare idee negazioniste di tragici eventi. In questo senso la norma evoca con particella congiuntiva l’istigazione e l’incitamento. La legge n. 115/2016 colpisce inoltre atteggiamenti che mettono anche solo in pericolo (concreto) il bene tutelato (cioè la preservazione della verità storica circa eventi mostruosi). Il che vuol dire che, in definitiva, il legislatore lascia al giudice un ampio margine valutativo di completamento e conferma della fattispecie incriminatrice, in base a tutta una serie di elementi di fatto. Certo è che il concetto (non propriamente giuridico) di propaganda ha confini a volte evanescenti. In pratica stabilire in via giudiziaria dove finisce l’attività giornalistica e dove inizia l’opera di persuasione potrebbe solleticare l’autocensura, tenuto conto della non breve pena detentiva prevista. Infine va segnalato che il carcere scatta anche in caso di propaganda con "parziale" negazione degli stermini. Ciò significa che il giudice avrà un ampio margine di lettura delle condotte punibili. Va infatti considerato che vi sono crimini terribili del tutto assodati, ma anche altre vicende in corso di valutazione quanto alla loro ampiezza. Per questo motivo aver disegnato la fattispecie come un reato di pericolo concreto, e utilizzando termini non rigidamente delimitabili, potrebbe esporre a forti rischi coloro che volessero affrontare le questioni dei genocidi con i mezzi di comunicazione. Ne bis in idem in area Schengen solo se c’è stato esame nel merito di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2016 Corte di giustizia europea, sentenza 29 giugno 2016 nella causa C-486/14. Un sospettato può essere nuovamente sottoposto a indagini in uno Stato Schengen se le precedenti indagini in un altro Stato Schengen sono state concluse senza un’istruzione approfondita. La mancata audizione della vittima e di un eventuale testimone costituisce un indizio della mancanza di una siffatta istruzione. Lo mette nero su bianco la Corte di giustizia europea con la sentenza nella causa C-486/14. Applicare il principio ne bis in idem a una decisione di conclusione delle indagini adottata dall’autorità giudiziaria di uno Stato Schengen in assenza di qualsiasi esame approfondito del comportamento illecito addebitato all’accusato sarebbe manifestamente in contrasto con la finalità stessa dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, costituita dalla lotta alla criminalità, e rischierebbe di rimettere in discussione la fiducia reciproca degli Stati membri fra di essi. Il tribunale superiore regionale di Amburgo chiedeva se il principio del ne bis in idem, sancito dall’articolo 54 della Convenzione Schengen, deve essere interpretato nel senso che una decisione del pubblico ministero che mette fine all’azione penale e conclude definitivamente, salvo riapertura o annullamento, il procedimento di istruzione condotto nei confronti di una persona, senza che siano state irrogate sanzioni, può essere considerata una decisione definitiva, quando il medesimo procedimento è stato chiuso senza un’istruzione approfondita. La Corte sottolinea che nessuno può essere sottoposto a procedimento penale in uno Stato contraente per i medesimi fatti per i quali è stato già "giudicato con sentenza definitiva" in un altro Stato contraente. Perché una persona possa essere considerata "giudicata con sentenza definitiva" per i fatti che le sono addebitati, occorre, che l’azione penale sia definitivamente estinta. Estinzione che deve essere valutta alla luce del diritto dello Stato interessato. Per determinare se una decisione come quella in questione costituisce una decisione che giudica definitivamente una persona, secondo l’articolo 54 della Convenzione, occorre, in secondo luogo, accertarsi che questa decisione sia stata pronunciata dopo un esame condotto nel merito della causa. Del resto, osserva la sentenza, "anche se l’articolo 54 della Convenzione mira a garantire che una persona che è stata condannata e ha scontato la sua pena o, se del caso, che è stata definitivamente assolta in uno Stato contraente possa circolare all’interno dello spazio Schengen senza dover temere di essere perseguita per gli stessi fatti in un altro Stato contraente, esso non persegue la finalità di proteggere un sospettato dall’eventualità di doversi sottoporre ad ulteriori accertamenti, per gli stessi fatti, in più Stati contraenti". Così, una decisione che conclude il procedimento penale, adottata in una situazione in cui il pubblico ministero non ha proseguito l’azione solo perché l’accusato si era rifiutato di deporre e la vittima e un testimone de relato risiedevano in Germania, di modo che non era stato possibile sentirli durante il procedimento d’istruzione e non era stato possibile verificare le indicazioni della vittima, senza che sia stata condotta un’istruzione più approfondita per raccogliere ed esaminare elementi di prova, non costituisce una decisione preceduta da un esame nel merito. Truffa alla Pa? Confiscabili i beni del Caf di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2016 Corte di cassazione - Sentenza 26304/2016. Via libera alla confisca per equivalente dei beni del Centro di assistenza fiscale e dei suoi amministratori che trasmettono false dichiarazioni per ottenere dall’Inps rimborsi indebiti. La Corte di cassazione (sentenza 26304) respinge il ricorso del Caf e dei suoi dipendenti, contro il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente sui beni dell’ente che dal reato aveva tratto vantaggio e su quelli delle persone che lo avevano commesso. Lunga la lista dei reati a carico degli indagati: associazione a delinquere, falso, truffa e appropriazione indebita. L’accusa era di aver trasmesso numerose false dichiarazioni sostitutive uniche, per avere il modello Isee e ottenere rimborsi non dovuti, che venivano distratti per finalità private. Il sequestro, che aveva colpito anche una società di viaggi entrata nel "business", aveva riguardato beni per circa 800 mila euro. Secondo la difesa la misura adottata era illegittima perché applicata anche ad enti dotati di autonoma personalità giuridica, rispetto ai quali non avrebbe potuto essere adottato alcun provvedimento. La Cassazione precisa invece che l’articolo 640-quater del Codice penale prevede, in caso di truffa ai danni della pubblica amministrazione o di fatti analoghi finalizzati a conseguire erogazioni pubbliche, la possibilità di applicare la particolare disciplina sul sequestro e sulla successiva confisca (articolo 322-ter del Codice penale). I giudici della Suprema corte ricordano che nel caso di concorso di persone in uno dei reati indicati dalla norma e di coinvolgimento degli enti, il sequestro preventivo in vista della confisca per equivalente del profitto del reato può incidere contemporaneamente sia sui beni dell’ente sia su quelli delle persone fisiche, con l’unico limite del valore complessivo. Possibile dunque il sequestro nel caso dell’agenzia di viaggi, beneficiaria delle condotte distrattive, come per il Caf in quanto soggetto giuridico autonomamente responsabile dell’operato dei suoi amministratori, come previsto dagli articoli 7 e 24 del decreto legislativo 231 del 2001. Se il garantismo non è una perdita di tempo di Cecchino Cacciatore Il Mattino, 30 giugno 2016 Non c’è che dire. Chi intenda il garantismo solo come un appesantimento, una perdita di tempo di qualche incurabile romantico non bada a considerare quanto il diritto penale si stia trasformando in modo intollerabile in un ossimoro sempre più sbilanciato a favore de "il penale". L’espressione "il penale" ormai vive di vita propria. È intesa e, quel che è grave, brandita, in un aggettivo sostantivato, dalle quali finalità - peggio: dai quali scopi - resta estranea la desueta parola, saggia accompagnatrice, diritto. Già Kafka faceva dire a uno dei suoi personaggi che la sentenza non viene a un tratto, ma è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza. Mentre Daniele, nel Giudizio di Salomone, invita a tornare al processo, per conoscere la verità, onde non macchiarsi di un’accusa non provata nei confronti dell’innocente Susanna; e Porzia, per smascherare la prova manipolata, invoca l’avvertenza degli errori che un giudizio orientato possa produrre. Franco Califano cantava che, per le strade del suo quartiere, con un penale tutto da pulire, con i guai che potevano fargli solo del male, era cambiato da così a così, una volta incontrato l’amore. Il poeta De Andre scolpisce nei sensi dell’umanità l’assassino che viene dal mare, affamato e assetato, il quale, rifocillato dal pescatore, se ne va con uno sguardo nuovo, di calore e con la memoria del suo passato come un fardello di dolore per quel gesto che, in un attimo, lo aveva cambiato. "Il diritto della libertà" e "L’idea di socialismo" sono le due ultime fatiche di Alex Honnet, filosofo tedesco che si è intrattenuto, prima, sulla differenza tra l’"io della libertà" e il "noi della libertà" e poi sul concetto di "riproducibilità sociale della giustizia". Il garantismo, dunque. Per Honnet le istituzioni - la giustizia e le sue forme di processo in cui essa si esprime - non sono sorte per reprimere, ma per promuovere la libertà; e le libertà sono benefiche in una comunità perché promuovono, appunto, le tendenze alla relazione e alla simbiosi, garantendo, nel contempo, la libertà compatibile del singolo con la difesa della comunità. Viceversa, con un atteggiamento diverso, ne risulterebbe pregiudicata- fiat iustitia, pereat mundus - la tenuta dei vincoli sociali, alimentandosi mentalità rissose, disposte a tutto pur divedere riconosciuto il proprio diritto. In barba a qualsiasi tentativo di integrazione sociale e riproduzione di condizioni di nuovo inserimento di una vita umana tra le altre. Passaggio fondamentale, allora, è comprendere che il valore della solidarietà - il processo come strumento di garanzia al prossimo del saldo ed irrinunciabile riconoscimento dei suoi diritti di rifacimento di se, di rivisitazione, di ritorno alla dimensione integrante della società e, dunque, perché no, al perdono - è il baluardo di un’istituzione che crei occasioni di mutuo riconoscimento nelle relazioni interindividuali. In questi termini Honnet ripensa il socialismo, che intende, significativamente, senza Marx. La teoria del riconoscimento, così elaborata, porta a considerare lo iato profondo, oggi esistente nella estensione massima dei diritti umani di libertà, nel diventare sociale della società, per tenere insieme le pretese alla libertà individuale (in cui deve residuare la difesa dì quanto è proprio anche in termini economici) con i bisogni collettivi. Tornando al diritto penale e alle sue garanzie, valga il ricordo dell’art. 2 della Costituzione, ove si riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni soriane, al riguardo, il meraviglioso quadro di Caravaggio "Le sette opere di misericordia". Nel dipinto si racconta un’umanità che non ha il conforto della luce perché non ha la certezza dei diritti allorché, si scorge, addirittura, una donna cha aiuta un carcerato malato, offrendole il suo seno dall’esterno della cella ove è detenuto. "Il penale", in conclusione, è espressione sinistra, che prelude alla punizione severa ed esemplare che, per essere tale, non può affiancarsi al processo garantista dei diritti di libertà. Perugia: detenuto 72enne si toglie la vita in cella umbria24.it, 30 giugno 2016 L’anziano era recluso per tentata strage, si è suicidato con una corda rudimentale. Suicidio nel carcere di Capanne (Perugia). Nel tardo pomeriggio di mercoledì un detenuto di 72 anni si è tolto la vita utilizzando una corda rudimentale. Inutile l’intervento compiuto dagli agenti che si sono precipitati nella cella per tentare di salvare l’anziano recluso con l’accusa di tentata strage, ma l’intervento è risultato tardivo. A rendere noto il suicidio è stato il sindacato della penitenziaria Osapp: "Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dai poliziotti, pur con le criticità che l’affliggono, non si è riusciti a evitare tempestivamente il gesto del detenuto". Il suicidio si è consumato nella prima sezione di accoglienza del penitenziario. Palermo: detenuto suicida, indagato lo psichiatra del carcere Pagliarelli di Salvo Palazzolo La Repubblica, 30 giugno 2016 Lunedì, il giudice Lorenzo Iannelli aveva sollecitato la massima vigilanza attorno al geometra Carlo Gregoli, il presunto assassino di Villagrazia che minacciava di suicidarsi in carcere. Il comandante della polizia penitenziaria di Pagliarelli aveva subito raccolto l’appello, sollecitando psichiatra ed educatori ad adottare tutte le misure necessarie. Ma la catena delle attenzioni si è interrotta, e pure bruscamente: a Gregoli, ormai trasferito in infermeria, erano state lasciate le sue lenzuola. Lenzuola di stoffa, un’eccezione in infermeria, dove tutta la biancheria è di carta. E con quelle lenzuola Gregoli si è impiccato, alle 16,10 di lunedì; fino alle 15,25 era stato a colloquio con un educatore. È già diventato un caso giudiziario il suicidio in carcere del geometra Carlo Gregoli. La procura ha messo sotto accusa uno psichiatra di Pagliarelli, V.M., 65 anni, ha ricevuto un avviso di garanzia per omicidio colposo, un provvedimento che porta la firma dei pm Sergio Demontis e Claudio Camilleri. Le prime indagini della squadra mobile ipotizzano che Gregoli non sia stato seguito adeguatamente in carcere. "È una tragedia che si poteva evitare", continua a denunciare l’avvocato dei Gregoli, Paolo Grillo, che si appresta a presentare un esposto in procura. "Confidiamo che sulla vicenda siano fatti tutti gli accertamenti necessari", aggiunge. E spiega: "Il medico curante del geometra Gregoli, lo psichiatra Pietro Mitra, professionista di grande esperienza, aveva concluso la sua ultima visita pronunciandosi per una incompatibilità fra la malattia e il regime carcerario. Aveva anche prescritto una terapia farmacologica per il paziente, non sappiamo se in carcere l’avevano rispettata". È quello che vogliono verificare anche i pubblici ministeri, che ieri mattina hanno affidato l’autopsia al professore Paolo Procaccianti. Pure la famiglia Gregoli ha nominato un consulente di parte. Stessa cosa avrebbe potuto fare lo psichiatra indagato, che però ha rinunciato a questa possibilità, intanto si è affidato alla difesa dell’avvocato Barbara Mistretta. La vicenda si presenta complessa. L’unica cosa certa, al momento, è che di suicidio si è trattato: il cappio è stato sistemato nelle grate della finestra, dalla telecamera piazzata sull’ingresso della cella si vede l’ombra di Gregoli che passeggia nervosamente fra le 15,30 e le 16, poi un agente si avvicina (interrogato dice: "Sembrava apparentemente tranquillo, mi sono allontanato"); alle 16,12 l’agente torna e scopre che Gregoli si è impiccato. "Una morte annunciata", ribadiscono gli avvocati Paolo Grillo e Aldo Caruso. Il perito nominato dal giudice Iannelli, dopo l’istanza dei legali, aveva concluso per la presenza di una "lieve depressione", comunque "compatibile con il regime carcerario". Il caso potrebbe riservare presto altre sorprese, gli investigatori della squadra mobile stanno proseguendo gli accertamenti. C’è da capire, ad esempio, come si sia svolto l’ultimo colloquio fra il detenuto e l’educatore. Possibile che in quei momenti non sia trapelato nulla del forte disagio di Gregoli? Isernia: detenuto morto, tre compagni di cella accusati di omicidio volontario ilgiornaledelmolise.it, 30 giugno 2016 Ci sono novità sulla morte di Fabio De Luca, il 45enne originario di Roma morto in seguito a un’aggressione subita nel carcere di Isernia nel novembre del 2014. Il procuratore capo di Isernia, Paolo Albano, ha infatti notificato la chiusura delle indagini ad Aniello Sequino, Francesco Formigli ed Elia Tatangelo, i tre detenuti accusati di omicidio volontario. Secondo l’accusa furono loro a tendere un agguato a De Luca, colpendolo ripetutamente alla testa, causandogli gravi lesioni e fratture. L’uomo, trovato agonizzante in cella, dopo un primo ricovero al Veneziale fu trasferito al Cardarelli di Campobasso, dove morì dopo qualche giorno. Gli avvocati dei tre indagati - Roberto D’Aloisio, Nicola Bonaduce, Carla Maruzzelli ed Emanuela Paliferro - stanno valutando l’ipotesi di chiedere ulteriori atti di indagine. Nuoro: presunti terroristi Isis nel carcere. Gli agenti: abbandonati a noi stessi tiscali.it, 30 giugno 2016 La protesta dei sindacati della polizia penitenziaria. "A Badu e Carros le guardie sono pronte ma manca tutto il resto". Otto detenuti, presunti militanti dell’Isis, sono rinchiusi a Badu ‘e Carros, il carcere di Nuoro. Niente di strano si dirà: il penitenziario, inserito nel perimetro della città capoluogo della Barbagia, possiede una sezione speciale cosiddetta di alta sicurezza (AS3) adatta a ospitare anche i più temibili criminali. Niente da dire dunque. Se non fosse che nel numero della Nuova Sardegna oggi in edicola, i sindacati delle guardie penitenziarie impegnate sul campo, denunciano "l’abbandono" nel quale sono costretti ad operare. "Abbiamo le professionalità per gestire anche questa tipologia di reclusi, ma su mille altri fronti ci sentiamo abbandonati". Il grido di allarme lanciato dai "carcerieri" dell’istituto nuorese parla della desolazione a cui è costretto il sistema carcerario italiano: strutture inadeguate, sovraffollamento, progetti di reinserimento dei detenuti totalmente inadeguati. E, ovviamente, l’insufficienza e spesso l’inadeguata preparazione del personale addetto alla custodia e cura dei carcerati. Quello che i sindacati sottolineano è un paradosso: c’è la professionalità ma non ci sono le condizioni. Ovvero "l’indifferenza delle istituzioni che parlano senza problemi di allarmismo per questa tipologia di detenuti, però si dimenticano dove vengono custoditi". E così accade che in molte strutture - Badu e Carros non fa differenza - "manchi il personale per garantire la sicurezza, ci sono giorni in cui abbiamo difficoltà a coprire tutti i posti di servizio. Si parla poi giustamente di risparmiare, di fare scelte oculate, quando poi la realtà ci dice cose diverse", dice Giovanni Conteddu, segretario provinciale del sindacato autonomo della polizia. E la questione del personale, riguarda anche il direttore. Da troppo tempo, "arrivano solo direttori in missione con la forfettaria di 130 euro al giorno che si aggiungono agli eventuali straordinari e allo stipendio", spiega il sindacalista: e tutto questo "alla faccia dei tagli". E così anche per il comandante distaccato dalla casa circondariale di Tempio e nella stessa città gallurese ce n’é uno in distacco dal ministero. Stipendio più straordinari, più diaria. Discontinuità nella gestione della struttura, turni massacranti e anche risparmi sulla salute delle guardie carcerarie. Perché stando a quello che dice il sindacalista, "da anni non veniamo sottoposti alle visite mediche, si risparmia sulla manutenzione dei mezzi e sulla ristrutturazione dei posti di servizio, basti vedere le garitte del muro di cinta in condizioni pietose". Storie che appartengono all’intera costellazione di carceri e istituti di pena. Il fatto che ci si debba occupare di presunti terroristi, detenuti particolari, però non spaventa. "La polizia penitenziaria è preparata a lavorare con tutte le tipologie di utenza, compresa quella del 41 Bis", dice un altro rappresentante della polizia penitenziaria, Giovanni Villa (Cisl). Insomma, servizio garantito comunque. Ma a quale costo? L’Aquila: il Sottosegretario Chiavaroli in visita al carcere "c’è carenza di personale" abruzzolive.it, 30 giugno 2016 "Il primo problema che anche al carcere dell’Aquila c’è è quello della carenza di personale. Al ministero abbiamo già fatto una apposita riunione e siamo pronti a dare risposte con la mobilità del personale delle province". Così il sottosegretario alla Giustizia, Federica Chiavaroli, senatore abruzzese di Ncd, all’uscita dal carcere dell’Aquila dopo la visita fatta insieme all’altro sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore. La Chiavaroli ha sottolineato che "questa è la struttura più impegnativa che abbiamo in Abruzzo in quanto ha detenuti soggetti al regime di 41 bis". "La direttrice ci ha illustrato i problemi che ha e noi siamo pronti ad affrontarli", ha concluso la Chiavaroli. "Ho più volte sollecitato la nomina del garante dei detenuti. Non può essere derubricato a tema politico, perché è tema istituzionale. Mi auguro che il Consiglio regionale d’Abruzzo sia maturo. La persona che è stata indicata, Rita Bernardini, è una delle migliori figure nel panorama italiano". Così il sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli, senatore abruzzese di Ncd, parlando, a margine della visita al carcere dell’Aquila, della questione della nomina del garante dei detenuti che il Consiglio regionale da mesi non riesce a fare per l’impossibilità di raggiungere la maggioranza qualificata di 21 voti. A tale proposito, l’esponente di Ncd ha annunciato che il consigliere regionale del suo partito, Giorgio D’Ignazio, voterà Bernardini, nonostante sia all’opposizione del governo regionale di centrosinistra. Considerando che il centrosinistra ha 18 consiglieri, per raggiungere la quota mancano altri due esponenti delle opposizioni. "D’Ignazio, all’opposizione, è pronto a votare Bernardini ­ spiega ancora Chiavaroli ­. Parlerò anche con gli altri esponenti di centrodestra" conclude il sottosegretario Palermo: Ugl; all’Ucciardone la scarsa organizzazione del lavoro imprigiona i poliziotti antimafiaduemila.com, 30 giugno 2016 È incredibile ma succede nel carcere dell’Ucciardone dove, a quanto pare, molti Poliziotti Penitenziari sarebbero "prigionieri", a seguito di un’organizzazione del lavoro che sarebbe contraria alla legge. Lo dice Antonio Piazza Segretario Regionale per la Sicilia dell’Ugl Polizia Penitenziaria. Infatti - continua Piazza - il poliziotto non riesce ad organizzare la propria vita familiare perché la Direzione del Carcere non organizzerebbe l’orario di servizio in tempo, così da consentire ai lavoratori di organizzare la propria vita privata ed avere anche una vita sociale fuori dalle mura carcerarie. Sulla vicenda interviene anche il Segretario Nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Alessandro De Pasquale che con una nota diretta al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia, denuncia anche una grave disparità di trattamento che si verificherebbe nell’organizzazione del lavoro. Pare infatti - afferma De Pasquale - che solo un gruppo "ristretto" di poliziotti penitenziari del carcere, stranamente, godrebbe del diritto previsto dalla legge, mentre la stragrande maggioranza vivrebbe alla giornata, con gravi ripercussioni negative nei rapporti familiari. Se non sarà risolto il problema - conclude De Pasquale- andremo dal Giudice e scenderemo anche in piazza. Lanciano (Ch): Uil-Pa Penitenziari; carenze in mensa, agenti non consumano pasto Agi, 30 giugno 2016 "A seguito di alcuni controlli nei locali della mensa obbligatoria di servizio (M.O.S.) sono state rilevate gravissime inadempienze da parte della ditta che la gestisce nel carcere di Lanciano". La denuncia è del segretario provinciale e vice regionale della Uil-Pa Polizia penitenziaria, Ruggero Di Giovanni che parla di "carne congelata al posto della prescritta carne fresca, generi alimentari trasportati con mezzi non a norma (catena del freddo interrotta?), frigoriferi rotti mai riparati e più in generale mancato rispetto del contratto e del capitolato. Per questi motivi - fa sapere il segretario - la Uil-Pa Polizia Penitenziaria di Lanciano ha indetto un’astensione dalla mensa di servizio dal 27 giugno al primo luglio (5 giorni), ovvero i poliziotti stanno rifiutando di fruire del pasto spettante durante l’orario di servizio per protesta, l’adesione è stata massiccia, quasi il 100% del personale in servizio ha rifiutato di consumare il pasto. La cosa che desta notevole preoccupazione alla Uil-Pa Polizia Penitenziaria Abruzzo è che questo problema non è circoscritto alla Casa circondariale di Lanciano, infatti abbiamo contezza che problematiche molto simili si sono manifestate in altri istituti della regione. Cagliari: violenza su donne, il docufilm "Desdemone e le altre" proiettato in carcere Ansa, 30 giugno 2016 Arriva a Cagliari, e per la prima volta in Italia viene presentato in pubblico, "Desdemona e le altre", il docufilm di Gegia Celotti, dell’associazione Gi.U.Li.A giornaliste - per la regia di Silvano Piccardi - che racconta fra le testimonianze di detenute vittime di violenza, interventi di esperti, letteratura e lirica, la violenza sulle donne. Oggi una doppia proiezione: la mattina nella biblioteca del carcere di Uta; nel pomeriggio alla Sala settecentesca della Biblioteca Universitaria di Cagliari, prima iniziativa dell’associazione di giornaliste realizzata da Susi Ronchi. L’iniziativa ha registrato momenti toccanti. La visione del film a Uta, rivolta per lo più a detenuti maschi autori di reati a sfondo sessuale, e qualche detenuta, ha dato vita in modo spontaneo ad una serie di racconti autobiografici e confessioni dei crimini per cui i detenuti stanno scontando la pena. Dalle loro parole e dai racconti di vita è emerso con chiarezza che il riscatto è possibile. Napoli: triangolare di calcetto a Poggioreale, vincono i detenuti del padiglione Livorno Il Mattino, 30 giugno 2016 I detenuti del padiglione Livorno del carcere di Poggioreale si aggiudicano la vittoria del triangolare di calcetto svoltosi stamattina, all’interno delle mura del penitenziario. A sfidarli una rappresentativa di giornalisti sportivi campani, che si sono aggiudicati un secondo posto, e una parte dei detenuti del padiglione Livorno, a cui va la medaglia di bronzo. L’iniziativa "Diamo un calcio all’indifferenza", giunta alla sua seconda edizione, promossa dall’ associazione "La Mansarda" presieduta da Samuele Ciambriello e dalla cooperativa "Aleph Service", presieduta da Luca Sorrentino, si è confermata momento di aggregazione e rieducazione. "Sono anni - dichiara Samuele Ciambriello - che viviamo esperienze dirette e concrete di solidarietà. Il valore della continuità deve contraddistinguere coloro che vivono le esperienze di solidarietà nel carcere. Lo sport è uno strumento di risocializzazione". L’evento si inserisce in una più ampia progettualità che "La Mansarda" porta avanti da anni, grazie anche all’impegno delle tante volontarie. Proprio in questi giorni si è concluso il progetto "Film Theraphy" nel carcere di Poggioreale dopo mesi di intensa attività e venerdì si chiuderà anche il corso trimestrale di pittura "I colori della libertà", nel padiglione Firenze. "La cooperativa Aleph - dichiara Luca Sorrentino, presidente, da sempre impegnato nel terzo settore- ha inteso sostenere questa manifestazione credendo fermamente nel valore di percorsi come questi. Dobbiamo ripensare e costruire un nuovo modello di carcere e nuovi interventi che permettano al condannato di formarsi, anche una volta fuori, con l’obiettivo di abbassare la media delle recidive". La squadra vincitrice è stata premiata dal direttore del carcere Antonio Fullone, che ha consegnato ai giocatori la coppa. Il fantasma della libertà ai tempi degli emoticon di Ezio Mauro La Repubblica, 30 giugno 2016 Nel suo saggio "Psicopolitica" il filosofo Byung-Chul Han svela gli inganni del potere per renderci meno cittadini. Nell’era in cui i sentimenti sostituiscono le ideologie. Viviamo gli anni del serpente. Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precetti, costrizioni e divieti: salvo l’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che accade sotto di sé perché le basta il saldo finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri. Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nella forma del grande risentimento collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scontento, unendo disperazioni individuali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politica. Cosa fa il potere davanti a questa mutazione in corso? Molto semplicemente ha congedato il corpo, che nel Novecento aveva ossessionato i due totalitarismi europei nella loro sindrome di vigilanza, e lo ha relegato a oggetto di consumo da vendere e comprare nelle palestre, nei centri estetici, nei trattamenti sanitari. Il corpo come strumento della produzione industriale e dunque come oggetto della sorveglianza politica, non c’è più. Col corpo, finisce la biopolitica teorizzata da Foucault, col potere impegnato nel controllo del somatico, del biologico, del corporale. Si conclude così anche la lunga fase del controllo sociale organizzato negli spazi chiusi, dalla scuola all’ufficio, alla caserma, alla fabbrica, all’ospizio, inadatti alle nuove forme di organizzazione post-industriali, interconnesse, immateriali. Per forza di cose muore la vecchia talpa, animale sottomesso della società disciplinare che abitava quei luoghi ristretti, nella rigidità degli spazi. Nasce la società del serpente, l’animale che dischiude gli ambiti chiusi col suo solo movimento, che si adatta e scivola, supera barriere e restrizioni, connette gli spazi e sa cambiar pelle. Mitologicamente, poi, il serpente incarna il peccato generale che la società moderna porta in sé, e dunque avvera la profezia di Benjamin: il capitalismo è il primo caso di una cultura che non consente espiazione ma produce colpa e debito. Ma soprattutto - e proprio qui - nasce la "psicopolitica", la nuova tecnica di dominio tipica della società in cui viviamo. L’annuncia, in un saggio pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine sud coreana che ha studiato la globalizzazione e la teoria dello "sciame" digitale. La tesi è che le nuove costrizioni cui dobbiamo rispondere sono in buona misura volontarie (e per questo ci appaiono naturali) perché sono generate dalla nostra stessa libertà, in quanto la libertà di potere non ha limiti, e dunque produce più vincoli del dovere. Ecco che mentre si pensa come autonomo e libero, l’uomo d’oggi sta in realtà sfruttando se stesso senza avere un padrone, diventa imprenditore di sé, isolato in sé, e si "usa" volontariamente, seguendo le nuove esigenze della produzione immateriale. In questa volontà libera e sfruttata, in questo isolamento cresce la stabilità del sistema perché saltano le classi e le distinzioni tra servi e padroni, non si forma mai un "noi" politico, una comunità di ribellione, anzi non si vede emergere alcun punto di resistenza al sistema. Anche il nuovo tecno-potere si nasconde nella libertà, sottraendosi ad ogni visibilità. Deponendo il comando del potere disciplinare, preferisce sedurre piuttosto che proibire, plasmandosi sulla psiche invece di costringere i corpi, assume forme permissive mostrando benevolenza, cerca di piacere per suscitare dipendenza, depone ogni messaggio negativo usando la libertà per portare l’individuo a sottomettersi da sé. Nasce così la "società del controllo digitale" dove grazie all’auto-denudamento volontario di ognuno di noi la libertà e la comunicazione che corrono senza limiti in rete si rovesciano in controllo e sorveglianza totali, con i social media "che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano", proprio a partire dall’auto-esposizione liberamente scelta da tutti gli utenti. Il risultato è un’informazione che circola indipendentemente dal contesto che la rende comprensibile e la connette ad un paesaggio cognitivo più ampio, mentre ogni estraneità, diversità, difformità viene eliminata perché rallenta la fluidità della comunicazione illimitata. La libertà del cittadino, avverte Byung-Chul Han, cede alla passività del consumatore che non ha più alcun interesse alla politica e alla costruzione di una comunità, ma reagisce solo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano. Anche il politico, di conseguenza, diventa semplicemente un fornitore. E la trasparenza viene invocata e svalutata insieme, perché non è richiesta per svelare i meccanismi decisionali, ma per mettere a nudo i personaggi pubblici. Sono tutti ingredienti di una democrazia da spettatori, dove il cittadino guarda l’azione invece di agire mentre il suo status rimpicciolisce e i suoi diritti non sono più quelli del protagonista, ma del pubblico pagante: che fa numero, ma non fa più opinione. Più dell’opinione pubblica, d’altra parte, nell’era della psicopolitica contano i Big Data che possono realizzare la speranza illuministica di liberare il sapere dall’arbitrio elaborando previsioni sul comportamento umano, ma possono trasformarsi in strumenti devozionali della fede digitale nella quantificabilità della vita: utili a scomporre il "sé" in microdati fino al vuoto di senso, perché "contare non è raccontare", fortunatamente, e fino a rendere visibile una microfisica di mini-azioni che si sottraggono alla coscienza consapevole. Così la psicopolitica potrebbe trovare un suo accesso all’inconscio collettivo, creando un "sapere del dominio" che permette di interagire con la psiche, influenzandola in anticipo sulla coscienza, prima che la razionalità prenda il controllo dei fenomeni. Non c’è bisogno di arrivare fino a questa soglia. Così come Weber parlava del capitalismo ascetico dell’accumulazione, che seguiva una logica razionale, Byung-Chul Han parla oggi di un "capitalismo delle emozioni" perché il processo razionale diventa anch’esso troppo rigido, scontato e lento per le nuove tecniche di produzione che invece si avvantaggiano dell’emotività. Così la nuova economia dei consumi capitalizza significati e sensazioni in una vera e propria trasformazione emotiva del processo di produzione. E la psicopolitica si è già impossessata della sfera emozionale, in modo da poter influenzare le azioni sul piano pre-riflessivo. Un potere mimetico, dunque, che vive a suo agio nella libertà sfruttandola e usandoci mentre ci crediamo a nostra volta liberi. Che vive in un tempo digitale di accumulo del passato ma senza un processo narrativo della memoria. Che ci convince della misurabilità di ogni cosa, come se la realtà fosse già tutta rivelata e la conoscenza qualcosa da scaricare più che da conquistare perché le risposte sono tutte pronte, dunque non servono più le domande. Un potere che mentre cattura la psiche dimentica i corpi. Sarà per questo che i corpi dei migranti - puro corpo, nuda vita che pretende di continuare a vivere - ci fanno così paura. Perché in Europa nessuno parla del deficit di democrazia di Gianni Ferrara Il Manifesto, 30 giugno 2016 Si affollano le proposte di correggere, integrare, ammodernare, rilanciare l’Unione europea come ordinamento e come progetto in risposta alla Brexit e per limitarne gli effetti. Ne manca una, proprio quella che sarebbe necessario approvare per prima perché investe la radice della crisi di credibilità dell’Ue. A mancare è la proposta di colmare il deficit di democrazia che da sempre delegittima l’Ue. La delegittima nei confronti dei destinatari delle sue regole, degli effetti delle sue politiche, effetti che, con la crisi, son diventati disastrosi per le condizioni di vita di amplissime aree delle popolazioni europee. Che la Brexit sia una risposta sciaguratamente sbagliata è fuor di dubbio. La globalizzazione dell’economia impone alla democrazia di costituirsi nei grandi spazi. Solo se sono continentali, questi spazi, possono fronteggiare il neoliberismo, perché è da quella stessa dimensione che la versione attuale del capitalismo esercita la sua dominanza sulla condizione umana. Non è per caso quindi che a capo della Leave ci fosse il detestabile leader dell’Ukip ed è vero che la campagna referendaria che ha condotto era intrisa di sciovinismo, razzismo, odio per i migranti. Ma ampi settori della working class hanno creduto a Farage perché ha issato la bandiera dell’indipendenza nazionale, del rifiuto dell’obbedienza alla burocrazia di Bruxelles, dell’opposizione all’Ue per la cessione di sovranità senza corrispettivo, per il deficit di democrazia, riconosciuto sempre e da tutti, colmato mai. Mai colmato perché strutturale e funzionale. È strutturale per una entità stabile, di grandi proporzioni, giuridicamente ordinata, quale è l’Ue, ma composta da materiali istituzionali affastellati in modo da apparire come conformi ad un modello, quello statale, ma essere invece il rovescio sostanziale di tale modello. Perché riconduce i compiti e quindi le attività di ciascuno di questi materiali ad una stessa e sola funzione, quella esecutiva. A iniziare addirittura dal Parlamento, la cui legiferazione è condizionata dall’iniziativa esclusiva della Commissione. Che è, a sua volta, l’istituzione cardine dell’esecuzione dei Trattati. Quei Trattati, che prevedono la partecipazione agli atti dell’Unione di due altri esecutivi, il consiglio europeo, composto dai capi di stato e di governo, e il consiglio dei ministri dei governi europei. Alla applicazione dei Trattati è, ovviamente, vincolata la Corte di giustizia. Esecutiva dei Trattati è e non può non essere la Banca centrale europea. Si consideri infine che a redigere e stipulare i Trattati sono i governi degli stati, i loro esecutivi. L’Ue realizza in tal modo la più ampia aggregazione degli esecutivi della storia statale, il loro trionfo. E la democrazia? L’Ue la dissolve neutralizzando la rappresentanza politica mediante l’assorbimento del voto del corpo elettorale europeo nel meccanismo istituzionale che trasforma, come si è detto, il Parlamento europeo in esecutivo di un esecutivo, qual è quello condizionante la funzione di ciascuno degli altri esecutivi, la Commissione. Alla domanda di che cosa sia poi esecutiva la Commissione, risponde il Trattato sul funzionamento dell’Unione, dettando agli articoli 119 e 120 la norma sulla dinamica dell’Unione, conformandola al principio di una "economia di mercato aperta e in libera concorrenza". È questo il principio da cancellare. Perché vincola la dinamica dell’Ue all’applicazione inesorabile, come con l’austerity, di una dottrina economica, quella che, d’altronde, ha dimostrato empiricamente la sua fallacia nell’assicurare crescita, sviluppo, benessere. Perché trasferisce la sovranità, popolare o statale che sia, al mercato, agli agenti nel mercato, ad una minoranza sottraendola alla stragrande maggioranza delle donne e degli uomini del nostro Continente. Perché questo principio è stato posto a fondamento di una aggregazione istituzionale a forma stato in luogo della democrazia. Soppresso il riferimento degli articoli 119-120 del TFUE al principio fondante del capitalismo, riconosciuto a quello europeo il potere e il ruolo che spetta ad un Parlamento nella sua configurazione classica, ridefinita la Commissione come organo esecutivo degli atti di un autentico Parlamento, si inizierebbe a colmare il deficit di democrazia dell’Ue e verrebbe finalmente riconosciuta la sovranità al popolo europeo. Violenza senza "mostro", sfida per l’educazione di Maurizio Patriciello Avvenire, 30 giugno 2016 Se lo stupro di gruppo fosse avvenuto in un quartiere povero e degradato, avremmo già la risposta pronta. Se a violentare la sedicenne di San Valentino Tuoro fosse stato un adulto, magari extracomunitario, avremmo già messo il cuore in pace. Un "mostro", o, meglio, un "orco" ha fatto questo. Mettiamolo alla gogna. Rinchiudiamolo e poi gettiamo via la chiave. Stavolta, e non è la prima volta, le cose non stanno così. Gli "orchi" non sono "orchi", ma normalissimi adolescenti tra i 15 e i 17 anni. E lo scempio è avvenuto in un ridente paesino alle porte di Salerno. I conti non tornano. Inveire? Lascia il tempo che trova. Ci scandalizziamo ed è un bene, ma dobbiamo pur trovare il coraggio per porre un freno a tanta sofferenza. Pur consapevoli di muoverci su un terreno minato, possiamo tentare di indagare in questo guazzabuglio che è il cuore umano? Lungi da noi il pensiero di voler giustificare o sminuire le responsabilità di questo episodio atroce. Vogliamo solo tentare di avviare una riflessione. Il problema che salta agli occhi è quello educativo. I genitori sono chiamati in causa. E così la scuola e quelle che chiamiamo le agenzie educative. Tutte. Su di loro si addensano la maggior parte delle responsabilità. Ma una domanda è d’obbligo: quanto spazio hanno i genitori, oggi, nell’educazione dei figli? I nostri antenati provvedevano a difendere i figli dai pericoli. E per farlo, tra le altre cose, la sera chiudevano la porta a chiave, per lasciare fuori quel mondo nel quale si nascondono insidie, tranelli, nemici. Oggi quel mondo lo abbiamo fatto entrare in casa. Gli abbiamo spalancato la porta. Lo abbiamo fatto accomodare in salotto e in camera da letto, senza opporre alcuna resistenza. Lo trattiamo da amico anche quando è un terribile nemico. Anche quando ci riversa nel cuore e nella mente un vero e proprio immondezzaio. Un letamaio da cui è difficile, quasi impossibile difenderci. Conosco l’ obiezione: ognuno è libero di premere o meno quel determinato tasto. Di collegarsi a quel sito online. Non sempre è vero. La psicologia e l’ esperienza ci hanno insegnato che se un adulto, forte della sua maturità e delle sue convinzioni, può resistere alla tentazione di penetrare in abissi che attraggono e distruggono, non così accade al ragazzino. La sua giovanissima età lo porta a voler vedere, sapere, provare tutto. Naturalmente, senza avere la capacità di discernere il bene dal male. Il virtuale dal reale. Ma la possibilità per i genitori di intervenire nell’ educazione dei propri figli si assottiglia sempre di più. E questo è il vero dramma. Un dramma che tutti ammettono e di cui molto poco parlano. I moderni mezzi della comunicazione che i nostri ragazzi hanno a disposizione in tutte le ore del giorno e della notte, mettono in mostra le più aberranti scene di sesso esplicito come se fossero del tutto normali. In quei contesti il sesso viene presentato come se fosse un gioco. E loro vengono invogliati, stimolati a giocare. Male che va, pensano, come avviene nel mondo virtuale, con un clic si cancella tutto. I nostri ragazzi vedono tutto, sanno tutto, parlano di tutto, senza aver bisogno di chiedere. E noi adulti fingiamo di non sapere che "l’ occhio non si accontenta mai di vedere" e che dopo aver visto viene la voglia di sperimentare. Sto dicendo cose ovvie come l’ acqua della fonte, eppure molto disattese. Da soli, naturalmente, non arriveremo a fare un bel niente. Siamo stati catapultati in un mondo irreale e pur così reale che è più grande di noi. Un mondo di interessi milionari e di faccendieri senza scrupoli. Ma una presa di coscienza per non lasciare i nostri figli in balìa di questi colossali mostri della onnipotente e onnipresente pornografia o, addirittura, pedo-pornografia on line dovrebbe essere messa nelle prime pagine delle agende dei nostri governanti. Abbiamo fatto finta di dimenticare che le passioni, le pulsioni, sono delle forze potentissime che trascinano tutti, in particolare gli adolescenti. Ed è per questo che hanno bisogno di essere monitorate, studiate, tenute sotto stretto controllo della volontà, dei sentimenti, dell’intelligenza. In caso contrario possono provocare - e di fatto hanno provocato e provocano - disastri e sofferenze a non finire. L’educazione sessuale - importante e indispensabile - non è mera informazione "tecnica". Necessita di buoni insegnanti e di ottimi testimoni. Non si tratta - come qualcuno bellamente crede - di conoscere l’ anatomia e la fisiologia degli organi genitali. Si tratta di accompagnare pian piano i nostri figli alla conquista e alla gestione responsabile della loro sessualità, della loro affettività, dei loro sentimenti. Si tratta di aiutarli a distinguere l’innamoramento dall’amore; l’ atto sessuale da un rapporto di coppia sereno ed equilibrato. Si tratta di aiutarli a capire che la sessualità, se vissuta bene, è un dono di inestimabile valore che non può che condurre alla libertà, alla fiducia data e ricevuta e alla felicità. Mi rendo conto che non è facile, ma credo che sia possibile. "L’educazione è cosa del cuore", diceva san Giovanni Bosco. Penso che si riferisse a tutta l’educazione, anche a quella sessuale. Abbiamo fatto una grande confusione e ne paghiamo le conseguenze. Occorre affrontare il problema con grande umiltà e competenza. Ma anche con grande determinazione. Se vogliamo davvero evitare ai nostri figli e alle nostre figlie - a stuprate e stuprati e a stupratori - sofferenze immani. E alla società imbarazzi e sensi di colpa senza fine. Cannabis: il 25 luglio in Aula alla Camera il pdl per la legalizzazione di Michele Bocci La Repubblica, 30 giugno 2016 Della Vedova: "Proibizionismo ha fallito. L’Italia può essere primo grande Parlamento che vota sulla legalizzazione". Zaccagnini (Sinistra Italiana): "Occasione da non mancare". La critica di Costa: "Sarebbe scelta contraddittoria". È stato calendarizzato per lunedì 25 luglio l’approdo in Aula alla Camera della proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis. Lo ha stabilito, secondo quanto riferiscono fonti di Sinistra italiana, la conferenza dei capigruppo. Il 25 si svolgerà la discussione generale e dal giorno dopo inizierà il voto. Immancabili le polemiche intorno all’argomento e, se da una parte i promotori esultano per il risultato, dall’altra c’è chi percepisce nel provvedimento un atteggiamento contraddittorio da parte dello Stato. All’esame della Commissione Giustizia della Camera sono diverse proposte di legge sulla legalizzazione della cannabis. La Commissione ha avviato un ciclo di audizioni sul tema con esperti in materia. Botta e risposta Della Vedova-Costa. Entusiasta del risultato Benedetto Della Vedova, promotore dell’intergruppo per la legalizzazione della cannabis: "È un risultato importantissimo perché la nostra richiesta di arrivare a un voto di Montecitorio prima della pausa estiva è stata esaudita. Abbiamo atteso oltre un anno dal deposito di questo testo di legge, che ha un consenso trasversale che si è tradotto in 220 firmatari, a cui se ne stanno aggiungendo altri giorno dopo giorno", ha detto il senatore e sottosegretario agli Esteri. "Sarà una bellissima battaglia parlamentare - ha continuato -, nella tradizione delle migliori battaglie parlamentari della Storia della Repubblica italiana, dove si confrontano non maggioranza e opposizione, non chi è a favore o contro il governo, ma ci si confronta su un tema di legalità, di responsabilità e di libertà. Su questo l’Italia può davvero segnare un primato: il primo grande parlamento tra le liberaldemocrazie che vota sulla legalizzazione della cannabis, avendo chiaro che è un mercato di massa, che il proibizionismo ha fallito, che questo è un modo per dare un duro colpo al narcotraffico, per avere un consumo consapevole, per poter informare sui danni dell’uso e abuso di queste sostanze, per controllare le sostanze stesse che vengono messe in commercio, per liberare forze di polizia, magistrati e carceri dal fardello di rincorrere i reati legati alla cannabis e concentrarsi su reati di maggiore allarme sociale. E infine - ha concluso Della Vedova - per poter trasformare, a regime, gli extra profitti delle mafie sulla cannabis in miliardi per il bilancio pubblico". Non è dello stesso parere il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, con delega alla Famiglia, Enrico Costa, che ritiene incoerente il comportamento dello Stato: "Con una mano combattiamo le ludopatie, i tumori, la tossicodipendenza e, con l’altra mano, godiamo delle risorse derivanti dal gioco, dal fumo e, magari domani, dalla legalizzazione della cannabis. È coerente tutto questo?". Per il ministro, "sul tema della cannabis occorre chiarezza e occorre respingere alla radice la tesi, trasparentemente avanzata dai promotori, in base alla quale ‘La legalizzazione della cannabis in Italia... genererebbe un gettito fiscale assolutamente consistente considerando che, con una regolamentazione analoga a quella dei tabacchi - come quella prevista dalla presente proposta di legge - circa i tre quarti del prezzo di vendita dei prodotti sarebbero costituiti da componenti di natura fiscale. Parte di queste risorse potrebbero essere destinate a interventi di natura preventiva e riabilitativa rivolti ai consumatori di droghe e tossicodipendenti, ma la parte più consistente potrebbe finanziare altri capitoli del bilancio pubblicò". E si chiede: "Cosa significa? Legittimare la tossicodipendenza per recuperare le risorse per combatterla e prevenirla? Si tratta di acrobazie che non sono altro che contraddizioni. Su questo - conclude il ministro Costa - il governo non potrà avere tentennamenti". La replica di Della Vedova non si è fatta attendere: "Il ministro Costa ha oggi ribadito la nota contrarietà alla legalizzazione della cannabis. Ne parleremo nell’aula della Camera a partire dal 25 luglio. Se il ministro Costa vuole fare la sua battaglia proibizionista, la faccia. Ma il governo e la maggioranza non c’entrano. Si tratta di una iniziativa parlamentare promossa da un intergruppo trasversale di deputati e senatori, della gran parte dei gruppi, anche se non del suo", scrive su Facebook il sottosegretario agli Esteri. "A differenza di quanto dice Costa, non c’è comunque alcuna contraddizione tra la scelta di combattere l’uso delle droghe e di prevenire la tossicodipendenza e quella di regolamentare giuridicamente il mercato di hashish e marijuana. Succede già per altri consumi - come quelli di tabacchi e alcolici - o comportamenti - come il gioco d’azzardo - che determinano, a differenza dei derivati della cannabis, forti fenomeni di dipendenza, ma che oggi nessuno mai penserebbe proibire, per non consegnarne le vittime al mercato illegale e regalare alle mafie profitti criminali". "È un’occasione da non mancare per risolvere una questione sociale drammatica e una non marginale opportunità economica finora affrontata con chiusura e pregiudizio - ha commentato Adriano Zaccagnini di Sinistra Italiana. Anche nei Paesi che più sono stati rigidi al consumo di droghe leggere, a partire dagli Usa, la legalizzazione non è più un tabù ed è il momento che non lo sia più nemmeno in Italia. Una giusta regolamentazione, come in vigore in varie forme in molti paesi stranieri, garantisce un quadro normativo stabile e produce nella società vari aspetti positivi fra i quali: riduzione del mercato nero gestito dalla criminalità organizzata, riduzione del numero di detenuti per reati connessi alle droghe leggere, miglioramento della qualità del prodotto consumato e minori danni alla salute dei consumatori, maggiori introiti per le casse dello Stato". Di data storica parla il deputato di Sinistra Italiana Daniele Farina, relatore della proposta di legge: "Finalmente anche in Italia si muove qualcosa sulla riforma della legislazione sugli stupefacenti. Il 25 luglio prossimo l’Aula della Camera dei Deputati discuterà il provvedimento sulla legalizzazione della Cannabis. Una data storica per l’Italia, che ricorda ai più la caduta del Fascismo, ma che speriamo sarà ricordato anche come inizio della fine del proibizionismo e delle sue politiche". Farina si dice certo che gli oltre 200 deputati che hanno firmato la proposta di legge dell’intergruppo parlamentare per legalizzare la cannabis faranno la loro parte e immagino che le associazioni, i singoli cittadini, non saranno da meno in questo comune sforzo. Ora è importante lavorare, dentro e fuori il Parlamento, per un cambio di rotta che consegni al passato quel gigantesco fallimento e apra un nuovo spazio politico, giuridico e sociale. Il tema di come regolamentare il mercato della cannabis e contrastare le mafie è maturo, anzi maturissimo nel Paese. Nel mondo la tendenza è legalizzare il consumo e la vendita, sia per fini terapeutici che ricreativi. L’Italia non perda anche questo treno", conclude Farina. Critiche alla calendarizzazione arrivano dal deputato di Ap Alessandro Pagano: "L’Aula della Camera discuterà la pdl sulla legalizzazione della cannabis tra meno di un mese, mentre i provvedimenti per le famiglie aspettano nel cassetto. Un altro schiaffo ai moderati della maggioranza, sempre più irrilevanti, un altro calcio negli stinchi da parte del Pd - sempre più ricattato dalle lobby e dalle forze radicali - che dopo i matrimoni e le adozioni gay, vuole passare all’incasso con l’utero in affitto, ora con le droghe libere e domani sull’eutanasia. Serve un sussulto di dignità contro questa deriva etica e antropologica, a difesa della nostra società e dei nostri giovani". Un lungo cammino. Dopo un lungo cammino, la discussione sulla proposta di legge arriva alla Camera. A marzo scorso i Radicali italiani avevano presentato un’altra proposta di legge in Cassazione e avevano lanciato anche una petizione europea sul sito della campagna Legalizziamo, che chiede all’Unione europea di "promuovere e adottare una politica per la legalizzazione della marijuana e per la decriminalizzazione del consumo di tutte le droghe". La proposta di legge presentata dai Radicali vuole regolamentare la produzione, il consumo e il commercio di cannabis e dei suoi derivati, eliminando le sanzioni penali e a ridurre quelle amministrative previste dalla legge del 1990 (9 ottobre 1990, n. 309). Negata l’estradizione di un prete argentino accusato di tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2016 Don Franco Reverberi è ricercato dall’Interpol per "imposicion de tormentos". Domenica c’è stata la giornata mondiale dell’Onu contro la tortura: una pratica disumana che viene ancora praticata in più di 140 Paesi causando centinaia di migliaia di vittime. In Italia la tortura però non è ancora un reato e la conseguenza non è solo il fatto che ci sia mancata giustizia per le vittime e impunità dei torturatori nostrani, ma che il nostro Paese sia diventato il rifugio dei torturatori stranieri. C’è un caso esemplare. Nella parrocchia di Sorbolo, un piccolo comune in provincia di Parma, c’è un sacerdote che esercita la sua funzione religiosa in tutta tranquillità. Si chiama don Franco Reverberi, ha 78 anni ed ha origini argentine. Nulla di strano se non fosse per un piccolo particolare: è segnalato dall’Interpol - ha una scheda sul sito tutta dedicata a lui - come un uomo ricercato dall’autorità giudiziaria argentina per il reato di "imposicion de tormentos", ovvero tortura. Sì perché negli anni Settanta, durante il sanguinoso regime di Jorge Videla, era cappellano dell’esercito presso la "Casa dipartimentale", nella località di San Rafael. Secondo il racconto di alcuni testimoni, e grazie alle prove raccolte dalla giustizia di Buenos Aires in questi anni, nelle celle di quell’edificio si sono compiuti atroci atti di tortura ai danni degli oppositori. Parliamo del periodo più nero che abbia vissuto l’Argentina. Settemila persone scomparse, i desaparecidos, e centinaia di persone torturate. Pochi sanno che tra gli scomparsi, almeno un migliaio erano italiani. L’Argentina era meta di tanti italiani che cercavano lavoro, e molti di essi erano giovani che avevano degli ideali. Giovani che lavoravano duramente e, giustamente, pretendevano dei diritti e soprattutto difendevano la democrazia. L’ammiraglio Eduardo Emilio Massera, Videla e Agosti instaurarono un triunvirato il 24 marzo 1976. Fu la giunta più sanguinaria della storia e anche la più silenziosa perché imbavagliarono tutti i mezzi di informazione. Durante la formazione del nucleo d’attacco destinato a "cancellare la sinistra", Massera divulgò un messaggio inaugurale di saluto agli ufficiali di nuova nomina, che si concludeva con l’esortazione di "reagire al nemico con la massima violenza e senza esitazioni sui mezzi da impiegare". Come comandante della Marina, Massera era responsabile di almeno 5000 casi di tortura e assassinii di persone che passarono per l’Esma ("Escuela Mechanica de la Armada", cioè la Scuola di Meccanica dell’Armata), uno dei più noti centri di detenzione della guerra sporca. L’Esma era l’ultima tappa per i prigionieri politici destinati ad essere gettati vivi nell’Oceano Atlantico dagli aerei della Marina. Un vero e proprio sanguinario, tanto che nominò come comandante del primo corpo d’armata il generale Suárez Masón e fu una delle figure guida della più estrema tra le fazioni militari durante l’era della repressione. In tutto questo contesto, ben quattro persone hanno identificato in Reverberi il cappellano militare della "Casa dipartimentale" dove detenevano e torturavano i detenuti politici. Non sta a noi dire se sia colpevole o meno: dovrà essere il processo ad accertarlo. Ma questo non potrà accadere perché la magistratura italiana non ha concesso l’estradizione. Il motivo? In Italia manca il delitto di tortura. Gli avvocati dell’ambasciata argentina avevano fatto opposizione alla sentenza di mancata estradizione appellandosi alla Convenzione Onu contro la tortura, firmata anche dall’Italia stessa. Ma la Cassazione ha confermato l’esito spiegando che sia "necessaria una legge che converta la proibizione internazionale della tortura in un delitto". Quindi nulla di fatto. Don Reverberi può dire messa serenamente nella parrocchia. Alcuni si sono appellati al Vaticano, in particolar modo ad un illustre argentino: papa Francesco. Ma le autorità ecclesiastiche possono fare ben poco. Lo ha spiegato padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana: "Tutti ricorrono a papa Francesco come se potesse risolvere ogni problema. Se la giustizia italiana non ha concesso l’estradizione, che possiamo fare? ". Paradossalmente, se il sacerdote incriminato avesse chiesto rifugio nella Città del Vaticano, egli non avrebbe avuto vita facile: lì la tortura è considerata un reato. Si tratta una delle leggi che papa Francesco ha voluto far approvare appena si è insediato. L’altra riguarda l’abolizione dell’ergastolo. L’associazione Antigone ricorda che nel corso degli ultimi mesi, non sono mancate le prese di posizione da parte del governo a favore del reato di tortura: Matteo Renzi, presidente del consiglio, 7 aprile 2015: "quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura. Questa è la risposta di chi rappresenta un Paese". In quella giornata l’Italia era stata condannata per le torture alla Diaz; Andrea Orlando, ministro della Giustizia, 9 aprile 2015: "il voto sul ddl che introduce il reato di tortura sia il più ampio possibile, così che sia un risultato da portare davanti alla Corte di Strasburgo di tutto il parlamento". Il voto alla Camera ci fu e la proposta fu approvata ad aprile 2015. Passò al Senato e tuttora è rimasto lì. Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia, il 16 giugno scorso ha rilanciato: "A nome del governo affermo che una legge che punisca la tortura sia approvata". Anche se imperfetta, speriamo che sia giunta l’ora. Caso Regeni, Senato blocca le forniture F16 all’Egitto di Giulia Merlo Il Dubbio, 30 giugno 2016 Sì del Senato all’emendamento "Regeni", che blocca la fornitura di pezzi di ricambio per gli F-16 all’Egitto. La modifica al decreto legge che proroga le missioni internazionali è stata approvata, dopo un lungo dibattito, con 159 voti favorevoli ed è stata definita dallo stesso relatore del Partito Democratico Gian Carlo Sangalli "un segnale" del Parlamento sul caso Regeni. Nessuna ostilità verso l’Egitto, ha precisato il senatore, ma "riteniamo che il nostro Paese abbia titolo e diritto, come ha fatto quando ha richiamato l’ambasciatore, a continuare a tenere sotto pressione l’opinione pubblica e anche l’Egitto sulla vicenda Regeni, affinché si possa arrivare a un importante chiarimento". Immediatamente dopo il voto, si è aperto però un piccolo giallo: il senatore ed ex Ministro della Difesa Mario Mauro, infatti, ha sostenuto che i pezzi di ricambio dei caccia bombardieri erano stati già consegnati all’Egitto. Alle affermazioni ha immediatamente replicato il presidente della commissione Difesa, Nicola Latorre: "Sono casualmente informato della cosa e confermo che le forniture non sono state consegnate, ma i pezzi di ricambio sono imballati al porto di Taranto". Il senatore, favorevole all’emendamento, ha spiegato come in questo modo "il Parlamento ha per la prima volta la possibilità di manifestare il bisogno di accelerare i tempi per la verità. Il nostro è un atto per sollecitare il governo egiziano, senza però compromettere alcun tipo di relazione". Le principali voci contrarie all’emendamento si sono levate dal centrodestra, in particolare dal forzista Maurizio Gasparri. "Questa decisione di negare i pezzi è un’assurdità. Sono d’accordo nel pretendere la verità sul caso Regeni, ma non è questo il modo. Renzi fa dichiarazioni contro il terrorismo e poi boicotta l’impegno di paesi che sono in prima linea contro chi semina stragi". Sulla stessa linea è anche Paolo Romani, suo collega in Forza Italia: "Non si fa così politica estera, mi vergongo di appartenere a un Parlamento che fa queste scelte". La polemica nasce sulla scia del fatto che l’Egitto è considerato, tra i paesi arabi, uno tra i preziosi alleati dell’Occidente contro il terrorismo. Intanto, sul fronte della lotta alle cellule jihadiste, è stata sgominata a Palermo una base pronta a fornire appoggio tecnico-logistico ai foreign fighters. In manette è tornata la ricercatrice libica Khadiga Shabbi, accusata di avere pubblicamente istigato a commettere azioni terroristiche, attraverso internet. La donna era considerata dagli inquirenti una "cellula dormiente" legata ideologicamente ai terroristi dello Stato Islamico, tanto da essersi adoperata per far arrivare in Italia il nipote, un combattente libico delle milizie vicine all’Isis, al fine di sottrarlo alla cattura da parte dell’esercito regolare. La Turchia "paese sicuro"? è invischiata nella stessa guerra di Siria e Iraq di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 giugno 2016 In 5 anni 654 morti in stragi terroristiche, eppure Ankara si finge fuori dal conflitto. L’Isis - foraggiato per anni dai vertici turchi - colpisce Istanbul come colpisce Damasco e Baghdad, costruendo una nuova strategia che lo rende "invisibile". Nei giorni precedenti al terribile attacco all’aeroporto Ataturk di Istanbul, in Medio Oriente si continuava a morire per mano dello Stato Islamico. Si moriva in Yemen dove martedì in sette attacchi, uno dietro l’altro, kamikaze e bombe hanno ammazzato 45 persone a Mukallah, città fino a pochi mesi fa feudo della rivale al-Qaeda. Si moriva in Iraq ad Abu Ghraib, a metà strada tra Baghdad e Fallujah, dove un kamikaze è saltato in aria in una moschea sunnita togliendo la vita a 12 persone. E mentre a Istanbul il bilancio dei morti saliva, in Siria nel mirino islamista tornavano i kurdi di Rojava: ieri un’auto imbottita di esplosivo è entrata a Tal Abyad, liberata dalle Ypg nel luglio 2015, e ha ucciso 10 persone. Il giorno prima era toccato alla martoriata città di Deir Ezzor, per metà occupata dall’Isis: missili hanno ucciso 4 civili. Un ininterrotto elenco di carneficine che stupisce poco il mondo dell’informazione perché Yemen, Siria, Iraq sono in guerra. Sono in preda a conflitti palesi. Ma anche la Turchia lo è. Va sfatato il mito del "paese sicuro" che piace all’Europa delle porte sbarrate ai rifugiati: Ankara è in guerra come lo è il resto del Medio Oriente, guerra di cui è principale protagonista. Se prima quel conflitto era combattuto contro Damasco, oggi il nemico è quello che i turchi hanno fatto prosperare e che - messo alle strette negli altri teatri bellici - come una scheggia apparentemente impazzita colpisce l’Europa e la sua periferia. Non a caso Ankara oggi cerca di vincere l’isolamento in cui si è infilata da sola, ricucendo le relazioni con Israele e Russia (necessari a coprire il fabbisogno di gas naturale e ad evitare la fuga dei turisti stranieri) e tentando lo stesso con l’Egitto. Negli ultimi 5 anni in Turchia sono morte 654 persone in stragi imputabili a gruppi islamisti. Eppure Erdogan è ancora al suo posto. Ankara, Istanbul, Diyarbakir, Cizre sono preda di un unico conflitto acceso dal governo turco: nelle due capitali, quella istituzionale e quella culturale, a colpire sono cellule del gruppo islamista foraggiato per anni; a sud est è l’esercito turco che ha imbastito una campagna interregionale contro i kurdi camuffandola da operazioni anti-Isis. Sono passati due anni da quando lo Stato Islamico, già attivo da quasi un decennio, si è fatto conoscere ai più occupando un terzo di Siria e un terzo di Iraq e con video hollywoodiani in cui ostaggi con tute arancioni alla Guantánamo venivano sgozzati in diretta tv. In due anni molto è cambiato: la coalizione internazionale, poco interessata a frenare l’avanzata islamista e molto di più a sbarazzarsi del governo Assad, ha dovuto fare leva su gruppi molto più efficaci, come i peshmerga o le Ypg kurdo-siriane. Quando l’Isis si è trasferito fuori dai confini del "califfato", a Parigi contro la redazione di Charlie Hebdo, i leader della coalizione (gli Stati Uniti) hanno pensato fosse necessario cercare l’appoggio degli avversari per contrastare il "califfo": Russia e Iran. Ieri il segretario di Stato Usa Kerry ha ribadito l’utilità di Teheran contro la minaccia comune, visti anche i risultati ottenuti in Iraq con le potenti milizie sciite che controlla. Sul terreno, invece, Washington ora fa muovere il New Syrian Army, gruppo di ribelli siriani messo in piedi dalla Cia a novembre. A differenza di altre opposizioni vicine all’Occidente che evitano lo scontro con l’Isis, il Nsa ha lanciato in questi giorni una controffensiva contro lo Stato Islamico ad Albu Kamal, al confine tra Siria e Iraq, coordinandosi con l’esercito di Baghdad. Ma ormai il mostro, ingrassato dagli alleati regionali dell’Occidente e da un moderno sistema di propaganda, ha dato vita ad una strategia difficilmente monitorabile: con il ritorno - almeno parziale - degli eserciti nazionali, gli islamisti hanno capito di dover mettere da parte le ambizioni amministrative, quanto meno temporaneamente, e agire con attacchi terroristici nelle zone non occupate (da Baghdad a Damasco, dal Sinai egiziano al cuore di Istanbul), oscura presenza difficilmente rintracciabile ma che attirare adepti. L’Isis si ha modellato sui cambiamenti occorsi nel "califfato", il corridoio che nella propaganda messianica del leader al-Baghdadi corre da Aleppo a Diyala, dall’ovest siriano all’est iracheno. La perdita di Palmira o Fallujah, così, non smantella i piani strategici islamisti perché non mette in pericolo la capacità di disgregare gli Stati-nazione coinvolti. Dopotutto lo Stato Islamico è prodotto di decenni di guerre, invasioni esterne e interessi internazionali. In prigione nei primi 100 giorni della Birmania libera di Raimondo Bultrini La Repubblica, 30 giugno 2016 Ogni commento può essere inopportuno quando a giudicare è uno straniero e ad essere giudicato un Paese appena uscito da mezzo secolo di dittatura e varie guerre delle quali almeno tre ancora in corso. Ma non quando una ultima palese ingiustizia mette in ombra l’inizio della nuova democrazia birmana, a 100 giorni dall’insediamento del governo. Da sette mesi l’ex monaco a capo della Rivoluzione di Zafferano del 2007 contro l’aumento dei prezzi imposti dalla ex giunta militare, giace in una prigione per aver valicato "illegalmente" come tanti il confine con la Tailandia, dove da decenni vivono milioni di migranti con o senza documenti, ma tutti per lavorare e sfamare le famiglie a casa dove non c’è occupazione. Gambira, dopo la sua liberazione, uscì perché non si sentiva ancora al sicuro, e aveva bisogno di cure mediche speciali impossibili in Birmania. Forse usci senza permesso, come sostengono i giudici, ma tutti sanno che i passaporti per i migranti costano centinaia di dollari e si ottengono solo grazie a persone corrotte nei ministeri e alle frontiere. Poco sorprende che Gambira fosse rimasto fuori del Paese anche dopo la liberazione di Aung San Suu Kyi, visto che i generali e i loro uomini sono ancora al comando di ogni organo di sicurezza, guidano i ministeri dell’Interno e delle Frontiere oltre alla Difesa e controllano il clero attraverso abati compiacenti o timorosi. Nemmeno la Nobel della Pace, all’epoca ancora all’opposizione, era sicura che i militari fossero davvero cambiati come dicevano. Almeno così mi aveva riferito durante un’intervista, poco dopo aver riconquistato la libertà. Dunque Gambira conosceva i suoi ex nemici diventati amici della Nobel e dei nuovi governanti, ma anche se non si fidava come ha confessato ai giornalisti, ha deciso all’inizio di quest’anno di compiere un gesto di fiducia verso la nuova leadership dell’eroina per la quale aveva affrontato carcere e torture. Ma tornato a casa dalla Tailandia e giunto a Mandalay per ottenere un regolare passaporto e viaggiare con la sua moglie straniera Marie, lo hanno subito arrestato. Infine ieri al danno la beffa. Quando stava per scadere il termine della carcerazione dopo sette mesi, lo hanno trasferito a Rangoon per un altro processo e forse altre detenzioni. Da anni andava avanti con antidepressivi che è costretto a prendere per sopire gli incubi delle torture subite dopo il 2007 in varie carceri dell’Unione del Myanmar, prima di venire liberato cinque anni fa sull’onda del nuovo corso democratico. Inizialmente venne trattato da eroe e un film di cui era uno dei protagonisti principali stava quasi per vincere un Oscar. Tutti conoscevano il suo ruolo alla guida di molti monaci della rivoluzione di zafferano quando i generali - ancora saldamente al potere - aumentarono da un giorno all’altro di parecchi kyat la benzina e i generi alimentari tra una popolazione già alla fame. Si diede da fare incurante delle conseguenze per sé stesso, con ritorsioni effettivamente ancora subite. Solo le medicine per la schizofrenia e il bipolarismo assieme alla meditazione lo aiutano a sopportare il flash back, il colpo indietro della memoria a quei giorni di violenze, di umiliazioni. Al tempo delle rivolte non c’erano monasteri disposti ad ospitare Gambira e i suoi compagni di una battaglia che pure non solo era stata pacifica, ma religiosamente basata su canti e preghiere buddhiste lungo il cammino, con l’immagine del maestro comune a tutti i contendenti a mò di vessillo. Oggi che la storia ha dato ragione a quei monaci, Gambira è accusato di un secondo reato legato a quelle stesse lotte e per niente violento. Una Corte di Rangoon gli contesta la rottura dei sigilli messi dall’esercito ai conventi che si ribellarono, un fatto commesso nel 2012 quando la memoria stessa della rivoluzione di zafferano era quasi sbiadita tra le luci della ribalta, che mostravano al mondo solo Lady Suu Kyi e la sua gente finalmente felice. La detenzione kafkiana di Gambira urta contro il sentimento di milioni di persone che conoscono il suo contributo alla causa della Birmania libera anche se a qualcuno potevano non piacere i metodi. Il motivo della sua battaglia lo conoscono tutti coloro che si occupano di tanto in tanto di questa parte del mondo solo apparentemente lontana da news globali come le competizioni Usa per la presidenza. Viene da pensare con amarezza alle immagini di Gambira con Barak Obama, che appena pochi anni fa lo fece sedere in prima fila davanti a sé durante la sua visita birmana, indicandolo come un eroe della democrazia. Non è il solo paradosso. Migliaia di detenuti politici sono stati rilasciati recentemente con accuse anche gravi come omicidio grazie all’arrivo al potere di Aung San Suu Kyi e della sua Lega per la democrazia. Ma U Gambira e altri, come Harn Win Aung, che ha guidato la resistenza contro l’esproprio ai contadini dei terreni per una miniera di rame, sono ancora in cella. Non solo. Gambira è stato trasferito da Mandalay nella prigione di Insein, la più tristemente celebre tra i luoghi di tortura del vecchio regime, dove gli sono state contestate le nuove accuse per i monasteri disigillati. Possiamo solo immaginare l’effetto di tornare, con sintomi di schizofrenia, nei luoghi stessi dove carcerieri maneschi l’avevano pestato e ridotto al delirio. Proprio li, a Insein, la sua condizione medica non sarà certo migliorata nel sapere che non si tortura più come prima, ma solo psicologicamente quel tanto che basta a farti sentire sconfitto. Non lo aiuterà a sentirsi più fortunato il vedere attorno a sé gli effetti del nuovo clima politico nel regime carcerario, dove dominano adesso, assieme ai criminali comuni, quanti si sono opposti a qualche espropriazione per dare le terre a grandi compagnie. Sono tante in Birmania le storie di cause che sembrano perse vista la decisione di lasciare tutto nell’oblìo. Da tempo sostengo la pagina Facebook dove la moglie Marie Siochana racconta paure e speranze di ogni giorno e i fatti che allontanano il loro futuro insieme, oltre a rendere precario il corso della guarigione dell’ex monaco. La condizione generale di Gambira è infatti peggiorata, e forse l’essersi trovato al centro di un caso internazionale senza quasi sostegni di istituzioni politiche internazionali non ha giovato nemmeno alla sua posizione processuale. È un dibattimento surreale, e ieri per la prima volta Gambira era da solo in aula senza nemmeno l’avvocato e i familiari, forse perché c’è una scarsa consapevolezza dentro e fuori dal Myanmar dell’importanza di sostenere casi come il suo. Il più semplice dei motivi è che si tratta di una disuguaglianza palese tra il trattamento riservato a lui e la clemenza verso gli altri detenuti politici. Del resto di ben altre violazioni sono accusati gli stessi uomini che lo tengono in cella. Chissà, forse tra loro c’è anche un ex torturatore o assassino rimasto in servizio a Insein, magari oggi è un non violento, ma chi può garantire la sua simpatia verso persone come Gambira, che per giudicarli non deve far altro se non guardarli negli occhi?. Il solo motivo per cui i generali che davano ordini ai secondini non sono finiti dietro una sbarra come quelli cileni e africani, è solo il timore della forza del loro attuale potere, più che il cemento dell’etica non violenta buddhista tutt’al più usata a pretesto. Agli occhi degli ex dittatori sanguinari - ormai innocenti per i codici - Gambira commise un crimine penalmente perseguibile andandosene fuori dal Paese per togliersi al loro controllo e un altro moralmente esecrabile per l’abbandono degli abiti monastici senza contare il matrimonio con una straniera. Poco importa a giudici con la sentenza predisposta altrove - la Birmania non ha ancora nemmeno un ministero della Giustizia, - se con la tonaca di zafferano addosso Gambira fu rifiutato dai monasteri intimoriti di dare rifugio a un ribelle ricercato, e se l’imputato entrò in crisi quando la sua aura di eroe finì dimenticata durante la sua vita da profugo ed ex galeotto. I nuovi e vecchi governanti che praticano la via della riconciliazione e accordano un perdono generale per i crimini passati in nome della convivenza reciproca, celebrano i primi 100 giorni della nuova era, ma dopo mezzo secolo di dittatura è troppo poco per calcolare l’impatto del governo democratico sull’economia e la società. Eppure certe impronte rischiano di restare indelebili quando il terreno (della democrazia) è ancora fresco. Le sfide sono molte e complesse, e tutte hanno a che fare con i diritti umani, il primo dei motivi per il quale tanti birmani e stranieri si sono battuti al fianco di Suu Kyi. Ma le violazioni continuano come nell’Arakan tra la comunità buddhista e quella rohingya, nello Stato di Kachin e in certe aree dello Shan dove si combatte tra esercito birmano ed etnie locali, tra le vittime dell’occupazione di terre, dei veleni delle miniere, dei tagli di foreste e deviazioni dei fiumi. Qui non si tratta di I Like Gambira o dislike la giunta, ma di coscienze bloccate dalla distanza e dalla scarsa conoscenza dei fatti. Dove sono i milioni che firmavano petizioni per liberare Aung San Suu Kyi? Fatte le debite distanze di popolarità, forse ne basterebbe qualche decina di migliaia, se non per liberarlo, per fargli quantomeno sentire che qualcuno, qui fuori, non ha dimenticato e gli è riconoscente.