Il digiuno degli ergastolani per l’abolizione della "pena di morte viva" di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 2 giugno 2016 "Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta". (Discorso di Papa Francesco alla Delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, 23 Ottobre 2014). Qualche mese fa dal carcere di Padova è partito un appello a tutti gli ergastolani in Italia di fare un giorno di digiuno per la festa della Repubblica del 2 giugno, per sensibilizzare e ricordare alla classe politica e all’opinione pubblica che in Italia esiste la "Pena di Morte Nascosta", come Papa Francesco ha definito la pena dell’ergastolo. Sono più di 864 gli ergastolani che ad oggi hanno risposto, ma le adesioni continuano ad arrivare (è difficile comunicare con i circuiti di alta sicurezza e ancor di più con coloro che sono sottoposti al regime di tortura del 41 bis) e sono stati consegnati alla Comunità Papa Giovanni XXIII che, dal lontano 2007, ha sempre sostenuto questa campagna contro il carcere a vita, mettendo al centro l’uomo e non il suo errore, secondo lo slogan del fondatore, Don Oreste Benzi. Perché il 2 giugno ben 864 ergastolani attueranno un giorno di digiuno? Perché con l’ergastolo non si vive ma si sopravvive. Si sopravvive con tristezza e malinconia, senza speranza e senza sogni. Si sopravvive come ombre che oscillano nel vento, come pesci in un acquario, con la differenza che non siamo pesci. Si vive una vita che non ti appartiene più, una vita riflessa, una vita rubata alla vita. Il carcere per l’ergastolano è un cimitero, ma invece che da morto è seppellito da vivo. Perché bisogna abolire l’ergastolo? Perché è una pena inutile e anche stupida. Per quelli che pensano che la pena dell’ergastolo sia un deterrente, rispondo che chi è mentalmente malato (pedofili e simili), chi è in astinenza da droga, chi si sente in guerra contro il mondo per motivi religiosi o politici, non ha assolutamente paura di una pena come l’ergastolo. Infatti alcuni non hanno neppure paura di farsi saltare in aria nel nome del Dio di turno. Una pena come l’ergastolo non fa paura neppure ad uno che ha fame e molti ergastolani provengono da situazioni di degrado, emarginazione, povertà e altro. Molti ergastolani si sentivano in guerra verso la povertà, coltivavano un sogno di ricchezza, verso una ambizione, un progetto, una vita diversa, un destino migliore: tante cose che a suo tempo ci facevano rischiare di ammazzare o essere ammazzati. Con il passare del tempo e l’idea di dover vivere fino alla morte in carcere, la pena dell’ergastolo ci fa sentire vittime del reato, anche se il reato è il nostro. Molti sono contrari alla pena di morte per motivi religiosi, etici ecc. e invece non lo sono per la pena dell’ergastolo e non si capisce bene il perché. Le possibilità sono due: o pensano che l’ergastolo sia meno doloroso della pena di morte, o può essere anche il contrario, che con la pena di morte cessa la sofferenza della pena e quindi la vendetta. Premetto che la vendetta soggettiva, per esempio di un padre a cui è stata uccisa una figlia, va compresa e capita, ma certamente non può essere capita la vendetta di Stato o della moltitudine di una società moderna. Non è giustizia una vita per una vita perché tenere una persona dentro una cella una vita non serve a nessuno e molti ergastolani preferirebbero prendere il posto nell’aldilà delle loro vittime. Oggi nessuna delle nostre azioni può cambiare il nostro passato, ma oggi voi potete cambiare il nostro futuro, guardate e giudicateci con il nostro presente e non più con il nostro passato. Lo spirito di vendetta dopo tanti anni è ingiustificato nei confronti di persone che hanno cambiato interiormente. Continua la ridda di parole a vuoto e spesso profane sulla dismissione di storiche carceri di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 2 giugno 2016 Continua la ridda di parole a vuoto e spesso profane sulla dismissione di storiche carceri urbane e la costruzione di nuove strutture penitenziarie in periferia. Nessuno ha ancora detto che dal 1975 ad oggi non si è attuata la riforma dell’ordinamento penitenziario non certo per colpa delle strutture edilizie. Nessuno ha detto che per costruire un carcere in Italia ad essere ottimisti ci vogliono 10 anni, nessuno ha detto che la manutenzione ordinaria dei 203 istituti in funzione richiede un fabbisogno di 50.000.000 di € annui a fronte di una disponibilità di 3.000.000 di €, nessuno ha detto per questo che in media sino al 30% degli spazi esistenti negli istituti sono inutilizzati, nessuno ha detto che non disponiamo di strumenti tecnico finanziari come esistono all’estero per il finanziamento della costruzione e manutenzione di carceri, nessuno ha detto che non possediamo un modello architettonico adeguato e coerente con le finalità della pena e che per realizzarlo dobbiamo superare la condizione autarchica della progettazione ministeriale penitenziaria, nessuno ha detto che la quotidianità detentiva nelle nostre carceri continua ad essere in generale quella di sempre: 20 ore chiusi in due in una cella di poco più di 8 mq, nessuno ha detto che la "sorveglianza dinamica" richiede spazi adeguati a prescindere dalla localizzazione degli istituti, nessuno ha detto che si continuano a realizzare cortili per l’aria come scatoloni di cemento senza coperchio e che in molti casi le sale colloqui sono prive di aria e luce naturale. Altro che dismissioni si dismissioni no e ideologici timori di adottare soluzioni che possano pregiudicare la dimensione pubblica del carcere peraltro ampiamente fallimentare. Nessuno ha detto, io lo dico da tempo e lo ridico ora. Intervista a Andrea Orlando "la Costituzione va rinnovata, non c’è un rischio autoritario" di Francesco Grignetti La Stampa, 2 giugno 2016 Alla vigilia del 2 giugno il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, non ha dubbi: cambiare la Costituzione si deve. "Senza esitazioni. Proprio il 2 giugno, quando festeggiamo la scelta della Repubblica, a noi si pone il tema di come consolidarla, innovando la Costituzione e adeguandone la funzionalità rispetto ai tempi". Molti, però, a sinistra, vedono un pericoloso accentramento di poteri. "In quasi tutti i Paesi europei già accade che la fiducia al governo sia espressa da una sola Camera. Anche il combinato disposto tra riforma costituzionale e riforma elettorale non può essere considerato un accentramento eccessivo di poteri, altrimenti che dovremmo dire della Gran Bretagna?". Quindi, anche secondo lei l’urgenza è ormai quella di una democrazia che decide. "Credo che per ragioni polemiche si evochi il rischio di un’involuzione autoritaria, e si sottovaluti quello di uno svuotamento della democrazia a fronte della rapidità con la quale i poteri di fatto privi di qualsiasi legittimazione sono in grado di incidere sulla vita di tutti. La caduta di credibilità della politica è anche la conseguenza del fatto che molte decisioni pubbliche sono la mera ratifica di processi già compiuti, soprattutto sotto l’impulso dell’economia e della finanza". Visto che sta girando l’Italia per la campagna elettorale, in che stato è il Pd? "Vedo grandi sforzi e significative difficoltà nell’unica formazione che cerca di essere un partito. Mi preoccupa che complessivamente le forze politiche abbiano un ruolo sempre più marginale". Colpa di Renzi premiere segretario di partito? La vostra minoranza dice che le due cariche vanno separate. "Non mi pare il problema. Resto dell’opinione che era di molti dell’attuale minoranza quando scrivemmo lo statuto. Il partito, cosi com’è rischierebbe di avvilupparsi in una dimensione ancor più autoreferenziale e finirebbe solo per star è a dare le pagelle al governo". Però il Pd non funziona. "Ha difficoltà ma il problema è irrisolto da molto tempo, ma mi pare che nessuno abbia la ricetta intasca. Non possiamo rassegnarci ai comitati elettorali, ma neppure riproporre modelli del Novecento. C’è una domanda di partecipazione alla quale dobbiamo rispondere". Insomma, per lei la riforma costituzionale è ottima e indifferibile. Ma fa bene il governo a minacciare di andarsene a casa se perde? "Guardi, non si tratta di minacce. Evitiamo che il referendum sulla Costituzione sia un referendum sul governo. Mi sembrerebbe strambo, però, di fronte a una sconfitta del genere, che un governo nato per fare le riforme si mettesse a fischiettare". Siamo anche alla vigilia di elezioni amministrative. La sua previsione? "Il Pd ha messo in campo ottime candidature, evitiamo però di trasformare il voto alle Amministrative in un anticipo del referendum o peggio di usare le città come campo di battaglia per una sfida nazionale". A proposito di riforme, a che punto è la "sua" riforma del processo penale? Un emendamento dei relatori sembra rimettere tutto in discussione, quantomeno sulla prescrizione. "Vorrei sottolineare innanzitutto che la prescrizione è solo un punto di una riforma più complessiva. Aggiungo che se si perdesse questa occasione di riforma, non affrontando alcuni colli di bottiglia che strozzano il processo, le prescrizioni inevitabilmente aumenterebbero". Già, ma i relatori non sembrano affatto convinti. "Voglio prendere per buone le loro parole: è un contributo alla riflessione. Devo però anche dire che la riflessione va avanti da due anni, che entrambi vi avevano partecipato, e sapevano quali sono le posizioni in campo. Sono sicuro che ne terranno conto". Sulla prescrizione come finirà? "Il punto di caduta dev’essere tra il testo licenziato dal consiglio dei ministri e il testo votato dalla Camera, tenendo conto della specificità di alcuni reati. Se si pensa di uscire da questo perimetro, legittimamente per carità, si deve mettere in conto un ulteriore stallo. E mi sembra che la riforma sia stata ferma già abbastanza". Diffamazione: il governo annuncia una legge per togliere il carcere ai giornalisti, poi al Senato raddoppiano le pene se diffami un politico o un magistrato. "Mi pare di aver capito che quelle norme sono per alcuni casi specifici, a tutela di amministratori locali, vittime di ritorsione. Dopodiché è auspicabile che tra le norme che sfiorano la libertà di espressione ci sia armonizzazione". Legge sull’omicidio stradale: è bullismo legislativo di Marino Longoni Italia Oggi, 2 giugno 2016 Ieri un mio amico, facendo retromarcia con l’autovettura in un vicolo stretto, ha inavvertitamente toccato un’anziana signora, che ha perso l’equilibrio e, cadendo, ha riportato la frattura del bacino. Andava a passo d’uomo, non aveva bevuto e non era alterato. La polizia stradale lo ha sottoposto ai controlli obbligatori per alcol e droga (con esito negativo), e poi lo ha informato che con la riforma dell’omicidio stradale, oltre al procedimento penale, inevitabile, arriverà anche la sospensione della patente per cinque anni. Per cinque lunghissimi anni non potrà portare l’anziano padre a fare la dialisi, dovrà andare a prendere i figli a scuola in bicicletta, con il sole e con la pioggia, e dovrà perdere almeno tre ore al giorno per recarsi al lavoro (in auto basta poco più di mezz’ora). Inoltre dovrà affrontare un processo penale, con i rischi e i costi che questo comporta per chi vive con uno stipendio di un impiegato pubblico. Non vorrei essere nei suoi panni. E in quelli di tutti coloro che, come lui, per un errore, una disattenzione, una fatalità, devono sopportare conseguenze pesantissime, vittime sacrificali di un rigorismo che rischia di produrre più danni di quanti ne riesca a evitare. Avevo scritto il 30 marzo, all’indomani dell’approvazione della legge sull’omicidio stradale, che si trattava del "classico esempio di bullismo legislativo che causerà centinaia, forse migliaia di tragedie familiari, prima di essere dichiarata incostituzionale o di essere riformata in senso meno celodurista". Con questa legge si è voluto rispondere alle critiche che si levavano tutte le volte che, dopo un incidente mortale provocato da un guidatore ubriaco o drogato, questi veniva rimandato a casa senza magari nemmeno un giorno di detenzione. Ma si è passato il segno. Il desiderio di compiacere la brama di vendetta sociale ha prodotto un delirio legislativo che ora sta producendo frutti velenosi. Infatti, trattando tutti gli automobilisti come potenziali criminali, da terrorizzare con l’applicazione di sanzioni draconiane, non si ridurrà il numero degli incidenti stradali, ma aumenterà quello dei pirati stradali: cioè di coloro che abbandonano la persona investita sul ciglio della strada senza fermarsi a prestargli soccorso. Prescrizione eterna, persino i giudici dicono di no di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 giugno 2016 La protesta del procuratore di Viterbo Paolo Auriemma. "Restringere la libertà di colui che oggi ha un lavoro e una famiglia per fargli patire una pena per fatti remoti sembra, in tanti casi, illogico ed inumano". A dirlo non è un avvocato penalista o uno dei rari esponenti dell’accademia schierati pubblicamente sul fronte garantista. Si tratta di un magistrato, precisamente del procuratore della Repubblica di Viterbo Paolo Auriemma. Le considerazioni riguardano evidentemente la prescrizione, e in particolare il rischio che allungarne eccessivamente i termini abbia appunto conseguenze disumane: far scontare una pena per reati commessi decenni addietro. La posizione del procuratore Auriemma non è isolata: ce ne sono diverse vicine alla sua, nel dibattito in corso nell’Anm e attestato anche dai post sulla mailing list riservata delle toghe. L’emendamento Casson, dunque, non ha fatto scattare alcuna "hola", tra i magistrati. In attesa che, dopo lo stop per le elezioni amministrative, riprenda in Senato il confronto sulla riforma della prescrizione, un interessante dibattito sul punto si è aperto in questi giorni all’interno della magistratura associata. La discussione, veicolata al momento anche attraverso la mailing list dell’Anm, ha messo in luce posizioni alquanto diverse fra loro. Segno evidente che l’emendamento presentato dal senatore Dem e già pubblico ministero Felice Casson non ha raccolto, come invece ci si sarebbe aspettato, unanimi consensi fra le toghe. Prevedere il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, dando vita di fatto al processo penale senza fine, non è per molti magistrati la soluzione migliore ai mali della giustizia. Fra gli interventi più apprezzati va segnalato quello del procuratore di Viterbo Paolo Auriemma. In un lungo post, Auriemma ha voluto sottolineare come l’istituto della prescrizione sia uno dei pilastri del sistema giudiziario italiano "perché pone l’uomo al centro, un uomo che cambia e che non è più lo stesso a distanza di anni". Forte della sua esperienza nel settore dell’esecuzione penale, Auriemma ha evidenziato quanto sia "doloroso emettere ordini di carcerazione nei confronti di soggetti che hanno radicalmente cambiato la propria vita e che, anni prima, erano dediti a reati". Ma non solo, continua il procuratore, "restringere la libertà di colui che oggi ha un lavoro e una famiglia per fargli patire una pena per fatti remoti sembra, in tanti casi, illogico ed inumano". Parole che suonano come musica per chiunque abbia ancora ben a mente l’art. 27 della Costituzione. Ma il procuratore Auriemma si spinge oltre. Mettendo in luce quelle che potrebbero essere le conseguenze del processo sine die sulla magistratura. Se infatti "ciò che serve alla giustizia penale è di funzionare e giungere ad eque sentenze e non di dilatare ancor i tempi della risposta", nel caso entrasse in vigore questa riforma della prescrizione, iniziando "oggi un processo si avrà il cinquanta per cento delle possibilità che il magistrato che lo gestirà andrà in pensione prima che sia terminato". Concetto riassumibile nell’efficace slogan "la tua corruzione manda in pensione il tuo giudice". Anche l’ex Presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli è voluto intervenire nella discussione affermando che "il dibattito pubblico sulla riforma del processo penale è alquanto deprimente. Concentrare l’attenzione sulla prescrizione del reato di corruzione, che oltretutto oggi prevede pene che hanno aumentato non poco quel termine, è un modo furbo per eludere i problemi generali del processo penale". Condividendo in larga parte le opinioni di Auriemma, Sabelli ha posto l’accento sul fatto che "l’attuale disciplina della prescrizione, venuta fuori dal pasticcio della ex Cirielli, vada modificata" attraverso robuste riforme processuali, "perché il principio della ragionevole durata del processo - di rilievo costituzionale al pari del principio del contraddittorio - non resti una vana enunciazione, da invocare solo ai fini della responsabilità del magistrato". Tranchant la risposta del Giudice del Tribunale di Roma Nicola Saracino ai sostenitori dell’emendamento Casson: "Auguro ai sostenitori dell’allungamento della prescrizione di patire un ergastolino processuale. La vita umana deve essere rispettata, anche e soprattutto nei confronti del potere statuale. L’unico effetto positivo dell’imprescrittibilità e che molta fuffa che si agita nei tribunali si rivelerebbe per quello che è". Con la proposta di "accompagnare questa innovazione con la retrocessione in carriera dei pm da conferenza stampa balneare". Più chiaro di cosi. Prescrizione: ti ricordi che cosa facevi il 30 maggio 2006? di Rocco Buttiglione Il Dubbio, 2 giugno 2016 L’istituto della prescrizione ha una sua ragion d’essere che non è difficile da capire: quanto più ci allontaniamo nel tempo da un evento criminoso tanto più difficile diventa ricostruire esattamente come sono andate le cose. I testimoni non si ricordano più esattamente questo o quel dettaglio decisivo, alcuni magari sono morti o se ne sono perse le tracce, documenti rilevanti sono andati smarriti e non si ritrovano più. Immaginate di essere arrestati con l’accusa di aver commesso un reato e che vi si domandi dove eravate e cosa facevate il 16 maggio 2016. È probabile che consultando la vostra agenda e con l’aiuto dei familiari e degli amici siate in grado di ricostruire i vostri movimenti nel corso delle ultime settimane. Siete in grado di farlo anche per gli ultimi mesi? E per gli ultimi anni? E per quanti anni? Alzi la mano chi ha ancora le sue agende di cinque anni fa. E quelle di dieci anno fa? E come faccio a difendermi se mi accusano di un reato commesso quindici anni fa? La prescrizione è un istituto posto a difesa della persona che non è in grado di difendersi se accusata di reati commessi molto tempo fa. È posto anche a difesa della giustizia. Processi su eventi accaduti molto tempo fa possono troppo facilmente condurre a sentenze sbagliate. Gli uomini, inoltre, cambiano nel tempo. È giusto processare una persona per una colpa commessa venti anni fa? C’è tempo per cambiare molte volte in venti anni, per comprendere ed espiare i propri errori, per diventare un’altra persona. Ogni regola, naturalmente, conosce le sue eccezioni. Un colpevole di genocidio viene giustamente perseguito anche a distanza di cento anni dal fatto (sempre che sia sopravvissuto per tanto tempo). L’eccesso dell’orrore prevale in questo caso sulle buone ragioni della prescrizione. Per le ragioni che abbiamo detto in quasi tutti i paesi europei si hanno termini di prescrizione ragionevolmente brevi, inferiori a quelli italiani. I sostenitori della prescrizione lunga fanno valere due ragioni. La prima è che in Italia abbiamo però una anomalia. Negli altri paesi la prescrizione si sospende quando inizia il procedimento penale o almeno con la condanna di primo grado. La condanna di primo grado, certo, non è definitiva. Essa non ci da una presunzione di colpevolezza ma sì la presunzione che valga la pena di condurre a termine il processo. Se il processo si è instaurato ed ha condotto ad una prima condanna vuol dire che probabilmente, nonostante il decorso del tempo, si sono trovati elementi di prova che meritano di essere valutati. La seconda obiezione dei sostenitori della prescrizione lunga è che alcuni reati (i reati di corruzione) sono particolarmente difficili da scoprire perché si reggono su di un patto fra corruttore e corrotto che ambedue hanno interesse a tenere nascosto. Vediamo di esaminare le due obiezioni. Cominciamo dalla seconda. È vero che il patto di corruzione può ritardare lo scoprimento del reato. È però anche vero che in genere la corruzione è un reato continuativo. C’è un sistema della corruzione per cui il corrotto continua nel tempo con la sua azione criminale e in continuazione di reato la prescrizione non scatta. Più credibile è un argomento a partire dal rilevante allarme sociale che desta oggi il reato di corruzione a causa della convinzione diffusa che esso inquini buona parte della pubblica amministrazione e della politica. Questo può giustificare una certa (non illimitata) estensione dei termini di prescrizione per questi reati. Più giustificata è la prima obiezione: il processo, una volta iniziato, va finito. È giusto ma. Il processo appunto va finito e non trascinato per un tempo indefinito. In Italia, purtroppo, i processi tendono a non finire mai e l’estendere i termini di prescrizione oltre l’inizio dell’azione penale ed anche oltre la condanna di primo grado è l’unico rimedio che il sistema offre contro il rischio del processo infinito. Se si potesse ricominciare oggi la discussione sulla prescrizione sarebbe ragionevole distinguere due cose che adesso vengono confuse fra loro: la prescrizione e la ragionevole durata del processo. Potremmo adottare una prescrizione che si interrompe con il rinvio a giudizio (o con la condanna di primo grado). Sarebbe però necessario stabilire il principio della ragionevole durata del processo. Il processo è infatti in se stesso una pena. La onorabilità dell’accusato è messa pubblicamente in discussione. La sua carriera può essere interrotta, i suoi conti bancari congelati, la sua azienda spinta verso il fallimento... Tutto questo non può durare il tempo di una vita. La Pubblica Accusa deve avere un tempo definito entro il quale deve dare le prove a sostegno della sua pretesa punitiva ed il giudice a quel punto deve decidere. Al momento in cui si instaura il processo dovrebbe essere sospesa la prescrizione del reato ma dovrebbero scattare i termini della ragionevole durata del processo. Purtroppo la discussione si è a tal punto incancrenita che è assai difficile che questa ragionevole ipotesi di soluzione possa essere presa seriamente in considerazione. Qualcuno risponderà per quell’interrogatorio ad Amanda Knox? di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 2 giugno 2016 Amanda Knox accusa pubblicamente l’Italia davanti ad appositi organismi internazionali del più odioso abuso possa essere commesso da uno Stato che si dice essere di diritto: averla interrogata, quando si trovò indagata per l’omicidio di Meredith, non solo in modo inquisitoriale e sopra le righe, ma soprattutto senza che fosse presente il suo avvocato di fiducia; e neppure un difensore d’ufficio. Qui, purtroppo, non si tratta di opinioni o di valutazioni più o meno condivisibili, ma di un fatto che sembra pacifico: la giovane è stata interrogata senza la presenza di un difensore. In proposito, basta un pò di memoria storica per intendere come l’interrogatorio dell’imputato per il reato di cui è accusato senza la presenza del difensore, appartenga all’iconografia più triste e risaputa in relazione alla affermazione degli Stati dittatoriali, di destra o di sinistra non importa. Infatti, quando una tirannide - come una volta veniva chiamata - intende davvero istituirsi, allora uno dei primi passi sarà appunto quello di perseguire i reati - tanto più se gravi, come l’omicidio - senza andare tanto per il sottile. E per non andare tanto per il sottile, si comincia proprio dal privare del difensore la persona di volta in volta accusata. Per chi non lo sapesse, la presenza del difensore è la vera cartina di tornasole della rispondenza di un sistema processuale ai principi propri dello Stato di diritto, ben prima di altri che potrebbero sembrare di pari importanza, ma non lo sono (per es. la regolarità delle notifiche o la definizione dell’accusa). Infatti, che il difensore sia presente all’interrogatorio garantisce alcune dimensioni irrinunciabili in termini di elementare giustizia. Innanzitutto, garantisce che l’interrogatorio si svolga in termini del tutto legali e di correttezza; poi che non vengano fatte domande trabocchetto; infine che la persona indagata possa usufruire del diritto di tacere o di non rispondere comunque alle domande poste. Ne viene, che l’assenza del difensore è illecito di tale gravità da privare di legittimità l’intero procedimento. Orbene, se una cosa del genere fosse stata accertata in un paese anglosassone, i responsabili sarebbero stati subito allontanati dalle loro funzioni di investigazione e perseguiti in termini di legge. E in Italia? Nulla di nulla. Certo, la stampa ne parla e le televisioni pure; ma più come una notizia di sapore scandalistico o esotico che come un fatto davvero preoccupante. E invece bisognerebbe preoccuparsi molto, perché se davvero ciò è avvenuto, bisognerebbe intervenire subito con assoluta decisione. Ma tutto tace, come sempre; Il Csm, il ministro della Giustizia, gli organi competenti brillano per il loro assordante silenzio. Come nulla fosse accaduto. Questa è la situazione della giustizia in Italia. Come disse qualcuno, in quella Italia che purtroppo sembra essere divenuta "patria del diritto, ma tomba della giustizia". Cosentino ai domiciliari dopo mille giorni in carcere di Simone Di Meo Il Giornale, 2 giugno 2016 Alla sbarra in quattro processi, ma senza sentenze. Allo scoccare dei mille giorni di custodia cautelare e senza una condanna, Nicola Cosentino lascia il carcere di Terni per spostarsi ai domiciliari in una villa di famiglia a Venafro, in provincia di Isernia. A circa un mese dalla precedente richiesta di liberazione bocciata dai giudici, l’ex coordinatore campano del Pdl (assistito dagli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro) ha ottenuto l’autorizzazione alla detenzione casalinga fuori regione. Una decisione assunta dalla corte davanti alla quale si sta svolgendo l’ultimo dei processi in cui è imputato; quello sugli affari di famiglia nel ramo dei carburanti. Cosentino è alla sbarra in quattro diversi filoni giudiziari che si trascinano da circa cinque anni. Il primo per concorso esterno in associazione mafiosa per la sua presunta ingerenza nella gestione del consorzio Eco4 per la raccolta rifiuti in provincia di Caserta. Consorzio infiltrato, secondo la Procura, dal clan dei Casalesi con l’avallo della politica locale. Il secondo riguarda un’ipotesi di riciclaggio di capitali sporchi nella costruzione (mai avvenuta) di un centro commerciale in Campania. Il terzo è la presunta concorrenza sleale da parte della famiglia Cosentino nei riguardi di un rivale per l’apertura di distributori di benzina nel Casertano. Il quarto e ultimo processo è per la corruzione di due guardie carcerarie del penitenziario di Secondigliano, dov’era precedentemente detenuto, per ottenere in cella mozzarelle di bufala e dolci. Guardie che, al momento dell’arresto bis del parlamentare, dicevano di "avere il porco per le orecchie". Le prove contro Cosentino sono circoscritte, quasi esclusivamente, all’ambito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ex killer e affiliati dei Casalesi che hanno parlato, non senza contraddizioni, del suo ruolo di parlamentare "a disposizione della cosca". Cosentino si è sempre difeso sostenendo di non essere mai stato candidato nelle zone direttamente controllate dal gruppo Schiavone, e di aver addirittura perso le elezioni per la presidenza della Provincia di Caserta contro il candidato Udeur. Lo stesso super boss Antonio Iovine, che ha circa due anni ha iniziato a collaborare con l’autorità giudiziaria, non ha mai fatto riferimento specifico a Cosentino. I verbali di Iovine hanno anzi portato all’incriminazione di uno dei testimoni d’accusa dell’ex politico casertano, l’ex senatore diessino Lorenzo Diana. Oggi indagato per concorso esterno in relazione ai presunti appalti pilotati con la cosca di Sandokan per la metanizzazione dell’agro-aversano con la coop rossa Cpl Concordia. Sospensione della pena anche per gli scippi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2016 Corte costituzionale, sentenza 1° giugno 2016 n. 125. Sospensione dall’esecuzione della pena anche per l’autore di uno scippo. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 125 scritta da Giorgio Lattanzi e depositata ieri, ha giudicato illegittima l’esclusione a carico dei condannati per il delitto di furto con strappo (articolo 656, comma 9, lettera a, del Codice di procedura penale, come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera m, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125). A sollevare la questione era stato il Gup di Napoli, che aveva messo in evidenza la violazione dei princìpi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità sanciti dall’articolo 3 della Costituzione, perché il divieto di sospensione era da una parte previsto per lo scippo e dall’altro escluso per la rapina semplice. Una previsione frutto della paradossale scelta legislativa di introdurre una modalità esecutiva più gravosa nei confronti del condannato per furto con strappo. Con la conseguenza per cui "l’eventuale condotta ulteriore di minaccia o violenza rispetto a due fattispecie identiche consentirebbe a chi l’ha commessa di poter beneficiare, in fase di esecuzione, del decreto di sospensione dell’esecuzione, diversamente da colui che si sia limitato a commettere un’azione volta all’impossessamento, con violenza sulla cosa, e tuttavia priva di violenza o minaccia alla persona". Inoltre l’irragionevolezza emergerebbe anche dal fatto che è considerato pericoloso, tanto da rendere necessaria la detenzione, chi ha commesso un reato di modesta gravità e ha riportato una condanna lieve rispetto a chi ha commesso un reato più grave con conseguente sanzione detentiva più elevata "tenuto conto che il limite di 3 anni, previsto dall’articolo 656, comma 5, del Codice procedura penale, ai fini della sospensione dell’esecuzione, trova applicazione anche con riguardo alle pene residue". Per la Consulta i dubbi sono fondati. Inizialmente, ricorda la sentenza, va tenuta presente la distinzione tra furto con strappo e rapina. Differenza da trovare nella diversa direzione della violenza. Si configura così un furto con strappo quando la violenza è immediatamente rivolta verso la cosa, e solo indirettamente verso la persona che la detiene; costituisce invece una rapina l’impossessamento della cosa mobile altrui mediante una violenza diretta sulla persona. Nel furto con strappo, chiarisce la Corte, la vittima può risentire della violenza solamente in modo riflesso, come effetto della violenza impiegata sulla cosa per strapparla di mano o di dosso alla persona, mentre nella rapina la violenza alla persona costituisce il mezzo attraverso il quale avviene la sottrazione. Così, se lo strappo non basta per ottenere l’impossessamento e viene di conseguenza esercitata una violenza sulla persona, si può individuare una rapina. "Non sono rari i casi in cui - ricorda la Consulta, nel progredire dell’azione delittuosa, il furto con strappo si trasforma in una rapina, per la necessità di vincere la resistenza della vittima, o anche in una rapina impropria, per la necessità di contrastare la reazione della vittima dopo la sottrazione della cosa. In questi casi, tra il furto con strappo e la rapina si verifica una progressione nell’offesa, in quanto la lesione si estende dal patrimonio alla persona, giungendo a metterne in pericolo anche l’integrità fisica, ed è incongrua la normativa che, pur prevedendo per la rapina una pena assai più grave, riconosce a chi ne è autore un trattamento più vantaggioso in sede di esecuzione della pena". La diversità di trattamento allora, conclude la pronuncia, non si giustifica, non tanto per la maggiore gravità della rapina rispetto al furto con strappo, quanto per le caratteristiche dei due reati, che non permettono di attribuire all’autore di un furto con strappo una pericolosità maggiore di quella dell’autore di una rapina attuata mediante violenza alla persona. Concorso formale di reati, inoperatività del divieto del ne bis in idem Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2016 Giudicato - Penale - Preclusione del ne bis in idem - Concorso formale di reati - Operatività del divieto - Esclusione. La preclusione del "ne bis in indem" non opera ove tra i fatti già irrevocabilmente giudicati e quelli ancora da giudicare sia configurabile un’ipotesi di concorso formale di reati, potendo in tal caso la stessa fattispecie essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge, salvo che nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 31 marzo 2016 n. 11918. Giudicato - Penale - Preclusione del ne bis in idem - Concorso formale di reati - Giudizio per una violazione di legge diversa da quella già giudicata derivante dallo stesso fatto - Inoperatività del divieto. La preclusione del "ne bis in idem" non opera ove tra i fatti già irrevocabilmente giudicati e quelli ancora da giudicare sia configurabile un’ipotesi di "concorso formale di reati", potendo in tal caso la stessa fattispecie essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge, fatta salva l’ipotesi in cui nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato, poiché in questo caso l’evento giuridico considerato successivamente si pone in rapporto di inconciliabilità logica con il fatto già giudicato. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 2 dicembre 2014 n. 50310. Giudicato - Penale - Preclusione del ne bis in idem - Concorso formale di reati - Giudizio per reato diverso da quello già giudicato derivante dallo stesso fatto - Applicabilità del divieto - Esclusione. La preclusione di cui all’articolo 649 cod. proc. Pen. - "ne bis in idem" - non può essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un’ipotesi di "concorso formale di reati", in quanto la fattispecie può essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge derivante dallo stesso fatto, con l’unico, ragionevole, limite che il secondo giudizio non si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo: ciò che potrebbe verificarsi allorché nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 7 giugno 2014 n. 25305. Concorso formale di reati - Giudicato formatosi su uno o più reati - Esercizio dell’azione penale per gli altri - Possibilità - Casi eccettuati. Nel concorso formale di reati, in cui con un’unica azione si cagionano più eventi giuridici, il giudicato formatosi con riguardo a uno di tali eventi non impedisce l’esercizio dell’azione penale in relazione a un altro, sempre che il secondo giudizio non si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo, in quanto l’evento giuridico considerato successivamente sia incompatibile con quanto deciso in seguito al procedimento vertente sul reato formalmente concorrente con quello poi preso in esame. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 8 giugno 1999 n. 7262. No alla cessione delle quote di maggioranza per evitare gli arresti domiciliari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2016 Va bene la misura cautelare. Ma che non diventi un esproprio dell’imprenditore solo sospettato di turbativa d’asta. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 23258 della Sesta sezione penale, depositata ieri, ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame di Roma con la quale venivano disposti gli arresti domiciliari nei confronti di un imprenditore per fatti di corruzione e turbativa d’asta. Tra i motivi di ricorso fatti valere dalla difesa, aveva trovato posto la contestazione della conservazione delle esigenze cautelari, malgrado il pericolo di inquinamento delle prove dovesse essere escluso dalla natura delle fonti di prova raccolte (documenti e intercettazioni) e malgrado, quanto al pericolo di reiterazione del reato, non ci fossero precedenti penali e l’interessato non ricoprisse più la carica di amministratore della società nel cui ambito si sarebbero realizzate le condotte oggetto dell’imputazione. E la Cassazione proprio su quest’ultimo punto ha accolto le perplessità della difesa. La Corte sottolinea la necessità di un’adeguata motivazione sul rischio della commissione di ulteriori reati del tipo di quelli già contestati. Un rischio a elevato tasso di probabilità, se devono essere confermati gli arresti domiciliari, determinato dalla permanenza di una posizione soggettiva dell’imputato che gli consenta di continuare a mantenere condotte antigiuridiche di una certa rilevanza. Un obbligo di motivazione che per la Cassazione è però assente nell’ordinanza impugnata. Infatti, se è vero che si dà atto delle dimissioni dell’imprenditore dalla sua carica di amministratore della società e, nello stesso tempo, si riconosce lo stato di detenzione del suo principale riferimento all’interno della pubblica amministrazione (un dirigente dell’Anas), nello stesso tempo non si andava al di là di un generico riferimento all’eccezionale gravità delle vicende oggetto dell’indagine e alle modalità di commissione del reato. La stessa conservazione di un (teorico) potere decisionale o, comunque, di influenza sulle decisioni dell’azienda da parte dell’imprenditore interessato non può essere considerato sufficiente. Le dimissioni dalla carica di amministratore non è stata accompagnata, si riconosce, dalla contestuale cessione anche delle quote di maggioranza della società. Ma non si può certo "pretendere che l’emissione di una misura cautelare determini, al fine qui considerato, la necessità di rinunciare al diritto di proprietà". A corroborare ulteriormente il verdetto di annullamento dell’ordinanza c’è poi la riforma della disciplina della custodia cautelare, in base alla quale, il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, "non va equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta invece ad indicare la continuità del "periculum libertatis" nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato". Quelle pene anticipate ma senza sentenze di Massimo Adinolfi Il Mattino, 2 giugno 2016 Tra storia giudiziaria "pubblica" di Nicola Cosentino è cominciata sette anni fa. E non finisce certo con la concessione degli arresti domiciliari disposta dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Siamo anzi ancora lontani dal primo round, cioè dalla celebrazione del processo di primo grado. Eppure, dopo il primo lancio di agenzia, sul sito di un importante quotidiano nazionale si poteva leggere: "Cosentino lascia il carcere di Terni: Il resto della pena ai domiciliari". E più sotto: "Dovrà scontare il resto della condanna fuori dalla Campania". L’infortunio si spiega facilmente: se uno trascorre in cercare più di mille giorni, è naturale pensare che stia scontando una pena a seguito di una condanna definitiva. Invece la condanna non c’è, e i mille giorni e più sono stati per Cosentino soltanto un acconto sulla condanna, un sostanzioso assaggio, posto però che una condanna gli verrà comminata. Cosa che ovviamente nessuno sa. Ma chi allora ha il potere di porre o presupporre ciò? Nella stessa giornata di ieri, la Corte Costituzionale ha stabilito che è possibile sospendere la pena detentiva per il reato di furto con strappo, cioè per uno scippo. La Corte ha rilevato infatti che la semplice rapina prevede la possibilità della sospensione, ed è dunque contrario al principio di uguaglianza che al rapinatore sia offerta questa possibilità, mentre allo scippatore no. La questione è insomma di quelle che vanno affrontate in punta di diritto, ed è bello che la Corte abbia deciso senza avvertire la pressione di un’opinione pubblica che trova odiosi e intollerabili aggressioni e borseggi per strada. Per la gente comune, infatti, altro che sospensione eventuale: aggressori, scippatori e borseggiatori dovrebbero finire tutti in carcere e restarci il più a lungo possibile. Di ciò che pensa la gente comune la Corte però non deve tenere conto e non ha, in effetti, fatto alcun conto. Il giudizio della Corte si basa sui principi costituzionali, che per il bene di tutti sono sottratti all’indignazione popolare, agli sbalzi d’umore o alle pulsioni demagogiche della politica. Non solo, mal’ istituto della sospensione della pena offre in genere un beneficio a chi non ha una storia criminale alle spalle, a chi non ha commesso un reato particolarmente grave, o a chi ha riparato interamente al danno arrecato. Il che, oltre ad essere rispondente al senso di umanità, è del tutto ragionevole, se si considera per di più che il soggiorno in un istituto penitenziario aumenta e non diminuisce la probabilità che si torni a delinquere. Resta però il fatto che la Corte ha deciso a proposito dell’eventuale sospensione di una pena in presenza di un giudicato. C’è un sistema di diritti e di garanzie, evidentemente, che vale anche per chi ha subito una condanna definitiva. Per fortuna, si deve aggiungere. Com’è possibile allora che gli arresti domiciliari di Nicola Cosentino siano durati così a lungo? Che Cosentino non si sia meritato alcuna "sospensione", fino a ieri? Non finisce con l’essere sempre più vero, agli occhi almeno dell’uomo della strada, che la pena non segue ma precede la condanna? E non c’è il rischio che persino tra gli operatori del diritto si insinui la tentazione di infliggere robusti anticipi di pena, nell’incertezza su come andranno le cose dopo, quando dovesse venire per davvero il momento di scontare la pena? Ora, non vorrei che si sommassero le mele e le pere. E soprattutto non vorrei che si pensasse che la cosa migliore sarebbe allora dare certezza di pena "a prescindere", come direbbe Totò: la si sconti prima o dopo, l’importante è tenere in carcere i delinquenti. Perché il prima e il dopo non sono affatto sullo stesso piano, e protezioni e garanzie dovrebbero essere mille volte più robuste prima, per chi attende un processo, che dopo, a processo celebrato. Il caso di Cosentino è eclatante. La prima custodia cautelare è di sette anni fa, e le condotte contestate risalgono a diversi anni prima. Eppure per i magistrati Cosentino non poteva fino a ieri affrontare il processo da uomo libero, e anzi neppure ai domiciliari. Ogni caso fa storia a sé, si dirà, ed è certamente vero. Ma riflettete: se proprio non riuscite a mettervi nei panni dell’ex potente sottosegretario all’Economia, o proprio non avete voglia di rallegrarvi con lui per l’avvenuta scarcerazione, mettetevi almeno nei panni del legislatore, dell’oikistès, del "fondatore di uno Stato", e ditemi: vi convince davvero l’idea che nel vostro Stato si possa rimanere in carcere per più di due anni di fila, prima ancora di sapere se in carcere ci sia un colpevole o un innocente? Cosa e quanto siete disposti a sacrificare, in nome della sicurezza? E soprattutto: qualunque sia l’entità del sacrificio, davvero c’è da sentirsi più sicuri, o non piuttosto massimamente insicuri tutti, di fronte alla possibilità che si verifichino eventualità di questo tipo? Amnistia e indulto sono provvedimenti criminogeni di Bruno Tinti (ex magistrato) Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2016 Lo Stato chiede a Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza di prevenire e reprimere reati; anche altro in verità (sorveglianza stradale, ordine pubblico, verifiche fiscali etc.), ma prevenzione e repressione costituiscono l’obiettivo primario. Da un punto di vista logico dovrebbe dirsi repressione e prevenzione: perché nessuna prevenzione è possibile se chi non rispetta la legge sa che non gliene deriverà alcuna conseguenza. La repressione deve essere concreta: se un rapinatore sapesse che, compiuta la rapina e occultato il bottino, tutto si risolverebbe in poche ore di camera di sicurezza, giusto il tempo di acquisire fotografie, generalità e impronte digitali, non c’è dubbio che - appena liberato - si precipiterebbe a commetterne un’altra. Dunque al reato deve corrispondere una pena. E per questo le forze dell’ordine denunciano alla Procura chi ritengono ne abbia commessi; compiute le indagini, l’imputato ritenuto colpevole verrà giudicato da 13 giudici (1 Gip, 1 Gup, 3 in Tribunale, 3 in Appello e 5 in Cassazione) con l’intervento di almeno 3 pm, uno (ma anche più nei casi complessi) per ogni grado di giudizio; in molti casi interverranno (spesso più volte) anche i 3 giudici del Tribunale della Libertà. Se condannato a pene superiori a 3 anni, finirà in prigione; in alcuni casi ci finirà anche se condannato a pene inferiori. Dunque danaro, tempo, uomini e mezzi; il costo complessivo è così elevato da non essere quantificabile. Eppure è necessario: senza questo apparato la criminalità (di ogni tipo, da quella comune a quella sanguinaria a quella economica) sconvolgerebbe il vivere civile. Una volta compreso tutto ciò, quale ragione può motivare un provvedimento di amnistia o di condono? Perché impiegare queste costosissime risorse per annullarne il prodotto? Poiché i reati sotto i tre anni (ma nulla vieta che il Parlamento decida che il limite sia portato a 4 o 5 anni) sono estinti dall’amnistia e dunque non si può pronunciare sentenza di condanna; e poiché un condono che abbuoni 3 anni (anche in questo caso potrebbero essere di più) azzera di fatto pene fino a 6 anni; cioè il 99% delle condanne pronunciate nel nostro Paese. Né si tratta di semplice irrazionalità. Perdoni così generalizzati sono un insulto etico: si può perdonare uno o più Jean Valjean e per questo esiste un istituto apposito, la grazia; ma non la comunità criminale. Altrimenti le norme morali perdono ogni significato. Nella rubrica della scorsa settimana ho identificato la ragione della proposta di amnistia e condono nella predisposizione di un’uscita di sicurezza per i molti politici dediti al malaffare, già perseguiti o che lo saranno in futuro. Il che ha suscitato sdegnate quanto settoriali reazioni. La vera ragione, mi è stato spiegato, consiste nella necessità di svuotare le carceri: non c’è posto per tutti. In verità questo obiettivo è più sciocco e immorale dell’al - tro. Si spiega alla società criminale che il limite della popolazione carceraria coincide con il limite della punibilità: superati i 60.000 detenuti, se ne scarcererà periodicamente quanti bastano per incarcerarne altri, a loro volta da scarcerare dopo breve periodo, a seconda della generosità dell’amnistia e del condono. Questo è il vero contenuto della battaglia libertaria degli epigoni di Pannella; che bene avrebbe fatto, 50 anni or sono, a sollevare il problema dell’edilizia carceraria, vera sfida di civiltà, ben diversa dall’anarchia libertaria promossa da gente che - nella migliore delle ipotesi - non sa quello che dice. Cagliari: Caligaris (Sdr); in condizioni gravissime Stefania Malu, detenuta 83enne Ristretti Orizzonti, 2 giugno 2016 "Sono ulteriormente peggiorate e destano preoccupazione le condizioni di salute di Stefania Malu, la donna di 83 anni, che dalla Casa Circondariale di Cagliari-Uta lo scorso 26 aprile era finita in Ospedale per la terza volta in pochi giorni. La donna, che non è piantonata, è stata trasferita dal nosocomio San Giovanni di Dio al Policlinico Universitario di Monserrato. I familiari nel frattempo hanno ritirato gli effetti personali dell’anziana detenuta dal carcere". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "le istanze del legale avv. Marco Lisu per permettere alla donna di continuare a scontare la pena ai domiciliari non avevano avuto alcun esito così come l’appello per un atto umanitario da parte della Magistratura di Sorveglianza in considerazione delle oggettive difficoltà a gestire in una struttura penitenziaria una persona con diversi gravi disturbi". "La speranza - rileva la presidente di Sdr - è che, nonostante la gravità della situazione, l’anziana detenuta possa riprendersi e ottenere di poter andare a vivere con una figlia o essere curata in una Rsa. Non si può tuttavia negare che talvolta la burocrazia, ritardando il percorso per una soluzione razionale dei problemi, rischia di complicarli allungando i tempi e facendo emergere il lato peggiore della giustizia". Frattanto il Tribunale di Sorveglianza ha fissato l’udienza per l’esame dell’istanza sulla reclusione domiciliare o in una Residenza Sanitaria Assistenziale al 18 agosto prossimo. Cuneo: i detenuti regalano alla città due mosaici sulla Costituzione targatocn.it, 2 giugno 2016 Le opere saranno esposte il 2 giugno in piazza della Costituzione a Cuneo. A realizzarle i 42 detenuti che hanno frequentato i corsi organizzati dalla Scuola Edile. È un bellissimo ed interessantissimo progetto condiviso tra l’Amministrazione Comunale, la Casa Circondariale e la Scuola Edile di Cuneo. Vuole essere un "ponte" di solidarietà tra le persone che vivono all’interno della casa circondariale e la città di Cuneo. È anche un ponte tra 2 mondi della formazione organizzata dalla Scuola Edile: quella per "Tecnici di Impresa Edile" (14 allievi coinvolti), che hanno sviluppato 4 idee progettuali che saranno esposte in piazza Costituzione il 2 di giugno e le attività formative realizzate in carcere dai 28 allievi dei corsi per la qualifica di "addetto alle muratore" e di "addetto agli stucchi ed ai decori", che hanno realizzato le opere che saranno inaugurate in occasione della festa della repubblica. Si tratta di due opere molto importanti e significative da ricordare: la prima raffigurante la fotografia della firma della Costituzione italiana ad opera di alcuni importanti padri fondatori (Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi, Enrico De Nicola), composta da 30.000 tesserine comprese in un mosaico delle dimensioni di 207 cm per 140 e la seconda è una riproduzione della bellissima e significativa frase pronunciata da Pietro Calamandrei nel discorso fatto ai giovani alla Società Umanitaria di Milano il 26 gennaio 1955, composta da ben 80.000 tesserine di mosaico. La frase: "Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione". Il luogo individuato dall’amministrazione comunale, la casa circondariale e la scuola edile è piazza "Costituzione", che speriamo possa rappresentare in futuro un luogo di incontro, di socializzazione e di confronto per aiutarci a non dimenticare la nostra storia ed i suoi "testimoni" che si sono battuti per la libertà e la giustizia. Le "idee progettuali" sono state sviluppate dagli allievi del corso post-diploma "Tecnico di Impresa Edile" dopo aver effettuato il sopralluogo della piazza, rilevato misure, scattato fotografie, analizzato il "contesto" territoriale e previa acquisizione presso l’ufficio tecnico comunale della documentazione e le indicazioni necessarie. All’interno della casa circondariale, gli allievi detenuti dei corsi organizzati dalla Scuola Edile, nell’ambito delle attività formativa sulla "cittadinanza attiva" hanno analizzato la costituzione italiana, confrontandola anche con le norme costituzionali dei 5 diversi paesi di origine degli allievi-detenuti. Il lavoro e le opere progettate e costruite sono un dono che gli allievi della Scuola Edile, detenuti all’interno della casa circondariale offrono alla città. Un dono che rimarrà impresso ed indelebile e che sarà sicuramente seguito da altre iniziative e manufatti per arredare e rendere più "accogliente" la piazza, a partire dai 12 pannelli raffiguranti i principi fondamentali della costituzione, che saranno posati nei prossimi mesi. Insomma un grande, importante e a tratti commovente lavoro portato avanti con passione e determinazione dai 42 allievi coinvolti dalla Scuola Edile e dalla casa circondariale che con le loro 420 ore di formazione/lavoro, hanno reso possibile un risultato così importante. A loro, ai docenti/istruttori della Scuola Edile che con impegno e dedizione li hanno coordinati e formati, agli educatori ed a tutto il personale della casa circondariale che ha seguito il progetto con la massima sensibilità ed attenzione, va il grazie della città di Cuneo, consapevoli che il progetto di valorizzazione della piazza, continuerà nel tempo e che ci accompagnerà fino al 70° anniversario della costituzione italiana. Bologna: la giocoleria al Pratello è divertimento crescita e spettacolo di Veronica Dal Moro Ristretti Orizzonti, 2 giugno 2016 Spettacolo il 7 giugno all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Bologna, nell’ambito del progetto "Circostanza, il circo in una stanza per cambiare le circostanze della vita", realizzato dalla Fondazione Uniti per Crescere Insieme Onlus (unitipercrescereinsieme.it). Il 7 Giugno il Professore di Fisica, nonché giocoliere Federico Benuzzi si esibirà presso il Carcere Minorile di Bologna. Lo spettacolo sarà interamente dedicato agli ospiti della struttura e si svolgerà nell’ambito del progetto di giocoleria: "Circostanza, il circo in una stanza per cambiare le circostanze della vita". Il progetto, realizzato dalla Fondazione Uniti Per Crescere Insieme Onlus in collaborazione con il Centro Giustizia Minorile e L’Istituto Penale Minorenni di Bologna "P. Siciliani", prevede, dal 2009, la realizzazione di laboratori settimanali di circo sociale rivolti ai ragazzi ospiti della struttura. Le arti circensi sono lo strumento scelto dalla Fondazione "Uniti Per Crescere Insieme Onlus" per la loro efficacia nel coinvolgere e appassionare i giovani educandoli, nel contempo, alla disciplina, alla costanza, alla pazienza, alla concentrazione, all’integrazione sociale e a sviluppare un sano protagonismo giovanile. Il Professore, Federico Benuzzi, regalerà ai ragazzi dell’Istituto uno spettacolo ideato interamente per loro. Giocoliere professionista dal 1998, professore di matematica e fisica da 15 anni, diplomato attore professionista nel 2010, ha fuso le sue tre anime in una serie di conferenze-spettacolo di divulgazione che porta in giro per l’Italia e non solo da dieci anni. Il 7 giugno proporrà una performance di giocoleria tecnica e comica per arrivare a parlare di come una passione possa diventare, con dedizione, studio, allenamento, impegno e un pò di fortuna, lavoro, vita. Un’occasione quindi per confrontarsi su intelligenze, riscatto, cambiamento, possibilità, grazie al "cavallo di troia" dell’arte circense e del teatro (federicobenuzzi.com). Roma: doni ai figli dei detenuti di Rebibbia, l’iniziativa del Rotary Flaminia Romana viterbonews24.it, 2 giugno 2016 Scambio di doni alla manifestazione Supercar presso la Nuova Fiera di Roma. Il Rotary Club Flaminia Romana ha consegnato alla Polizia Penitenziaria una serie di doni per i bambini dei detenuti ristretti nel penitenziario di Rebibbia. I doni offerti dal Rotary sono stati consegnati presso gli stand promozionali della Polizia Penitenziaria e Club Passione Rossa della Ferrari, con il dott. Fabio Barone. Il Commissario Capo Giuseppe Agati dell’ufficio stampa del Dap ha consegnato a Stefano Piccioni, presidente del Rotary civitonico, il Crest del Corpo in segno di ringraziamento. I doni destinati ai piccoli saranno consegnati al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio che provvederà alla distribuzione. "Sono soddisfatto della donazione che siamo riusciti ad elargire ai bambini dei detenuti di Rebibbia - ha commentato con gioia Piccioni. Si tratta di capi di abbigliamento e giochi che spero siano di conforto a quanti sono costretti a vivere, loro malgrado, la detenzione dei propri genitori, in un contesto spesso difficile e traumatico. Anche questo, insieme al progetto "Io amo il mio ospedale" a Civita Castellana, rientra nel calendario delle attività di questa annata, che sono felice abbia ottenuto successo meritatamente agli sforzi congiunti dei nostri soci e della collettività tutta. Un doveroso ringraziamento - conclude - va infine a Metaltronica s.p.a. per aver reso possibile questa donazione". Cantone: la mia Napoli non è solo Gomorra, in quella fiction manca la speranza di Raffaele Cantone* La Repubblica, 2 giugno 2016 È con un certo stupore che noto come intorno a una serie televisiva si sia creato un clima di polemica che ha il sapore di uno scontro tra guelfi e ghibellini, una disputa a cui intendo sottrarmi. Non discuto l’importanza del libro di Roberto Saviano, un’opera che non mi stancherò mai di definire determinante, né il valore artistico di un prodotto che mi sembra decisamente ben fatto. Credo però che - a margine delle polemiche di questi giorni su Gomorra - ci sia un altro tema, duplice ma riconducibile a una radice comune, che è opportuno sottolineare. Anzitutto è innegabile il rischio che la serie televisiva con il suo successo internazionale trasmetta la convinzione che Napoli sia tutta come i vicoli senza speranza dove agiscono Genny e Ciro. Dovunque io vada, in Italia e all’estero, mi accorgo dalle domande che mi vengono rivolte come molti credano che quella sia l’unica realtà di Napoli. No, non è così. E lo posso sostenere non solo perché mi sono occupato di camorra per dieci anni come pubblico ministero ma soprattutto perché, a differenza di molte delle persone che sono intervenute nel dibattito su Gomorra, io continuo a vivere con la mia famiglia in quei territori, in una zona ad alto tasso di presenza criminale. È la mia esperienza diretta e quotidiana che mi permette di affermare che la Campania non è tutta Gomorra. Questo messaggio distorto non è certamente responsabilità diretta della serie tv. Il problema è un altro, sottinteso al titolo. Contrariamente alla natura del libro, che si basa su vicende reali, quella trasmessa su Sky è una fiction. Ma questa differenza non viene percepita. Le persone che vedono Scarface non credono che quello sia il volto di Miami e della Florida, perché sanno che è un’opera inventata. Invece nel caso di Gomorra c’è un corto circuito tra i fatti raccontati nel libro attraverso la mediazione letteraria di Saviano e la creazione verosimile ma fantasiosa della serie tv. Gli autori hanno fatto una scelta legittima, quella di prendere spunto da un pezzo della realtà napoletana e impostare una visione intrisa di verosimiglianza. Ma non viene mai sottolineata la distanza tra le pagine di Saviano, che dieci anni fa hanno dato un contributo importante e originale nel far conoscere le dinamiche della camorra campana, e la narrazione televisiva che va in onda oggi. La stessa ambiguità va tenuta presente nel momento in cui si valuta il rischio di emulazione verso i personaggi dello schermo. Io non ritengo che la serie tv spinga verso l’emulazione. Certo, non ci sono figure positive nella saga dei Savastano ma è una caratteristica comune ad altre fiction: ne esistono di molto più violente, con personaggi decisamente spietati. So che i ragazzi che tendono a identificarsi con i modelli di Genny e Ciro non hanno bisogno certo di ispirarsi a camorristi della televisione, perché crescono a contatto con la presenza criminale: è uno degli aspetti più drammatici della condizione giovanile in alcune zone della Campania, dove spesso mancano gli stimoli a crescere nella legalità e le alternative al richiamo dei clan sono rare. Allo stesso tempo, ritengo che tra le persone con una cultura media che vivono al Sud l’essere costretti a guardare in faccia la rappresentazioni di questo male assoluto rappresenti comunque uno stimolo positivo, che spinge a una reazione come sottolineato dall’intervento di Ilda Boccassini. Sotto questo profilo difendo la scelta degli autori: c’è una fascia di pubblico in cui la visione di Gomorra innesca una riflessione e contribuisce a scuotere le coscienze. C’è però un terzo soggetto che bisogna tenere in considerazione. E sono quegli spettatori, soprattutto giovani, che hanno fiducia in Roberto Saviano e lo ritengono autorevole. Saviano è diventato il promotore di una reazione contro la criminalità organizzata e con la sua popolarità ha avuto un ruolo chiave nel diffondere valori di legalità in tutto il Paese. Il fatto che la sua figura adesso venga associata al ritratto di una Napoli dove c’è soltanto il male, un male assoluto e senza un solo elemento positivo, può avere un effetto pericoloso: può diffondere l’idea che a Napoli il male sia incontrastato, senza speranza. Un effetto paradossalmente opposto a tutto quello che Saviano è riuscito a determinare con il suo impegno quotidiano contro le mafie e per il riscatto del Sud. * Già magistrato antimafia a Napoli, ora presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Quasi cinquanta milioni di schiavi nel mondo di Victor Castaldi Il Dubbio, 2 giugno 2016 Il rapporto della "Walk Free Foundation". Maglie nere India e Corea del Nord. La schiavitù sembra il retaggio di un mondo lontano, una piaga che dovrebbe appartenere al passato. Ma nel mondo contemporaneo, anche nei paesi cosiddetti civilizzati, ancora oggi milioni di persone vivono come schiavi privati di ogni diritto. Sono per l’esattezza 45,8 milioni di persone vive in stato di completa e prostrata schiavitù. Di queste, 1.243.400 (2,7%) si trovano in Europa (129.600 in Italia). Sono le conclusioni dell’ultimo rapporto della Walk Free Foundation: secondo l’Indice globale della schiavitù 2016, la stima del 28% rispetto all’ultimo rapporto, che tradotto vuol dire 10 milioni di persone in più negli ultimi due anni, una crescita che ha dell’inquietante. L’India resta il paese con il più alto numero assoluto di persone in stato di schiavitù (18,3 milioni), ma la risposta del suo governo al problema va rafforzandosi rapidamente. La schiavitù moderna esiste in tutti i 167 paesi coperti dall’Indice. La Corea del Nord ha la più elevata percentuale di lavoro asservito (4,37% della popolazione). A seguire troviamo l’Uzbekistan (3,97%) e la Cambogia (1,65%). Le vittime sono recensite analizzando il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, la sottomissione per debiti, il matrimonio forzato o servile o lo sfruttamento sessuale a fini commerciali. In Europa, la Macedonia è il paese europeo con la più elevata prevalenza di schiavitù, con una stima dello 0,64% della sua popolazione intrappolata in forme di schiavitù moderna. Seguono la Turchia (0,626%), la Polonia e la Bosnia-Erzegovina (entrambe allo 0,476%), quindi Romania, Grecia, Repubblica Ceca, Bulgaria e Serbia, Croazia, Lituania, Lettonia, Estonia, Cipro, Montenegro (tutte allo 0,404%). E ancora, nell’ordine, Albania, Kosovo (0,295) Ungheria, Slovacchia, Slovenia (0,228). Poi c’è l’Italia (0,211, ossia 129.000 persone). I paesi che performano al meglio in Europa sono, rispettivamente, Lussemburgo, Irlanda, Norvegia, Danimarca, Svizzera, Austria, Belgio, Spagna, Regno Unito, Francia e Germania, tutti sullo 0,018%. I Paesi Bassi sono l’unico paese europeo a ottenere un Rating A in termini di risposta del governo alla schiavitù moderna. Seguono Regno Unito, Svezia, Portogallo, Croazia, Spagna, Belgio, Norvegia e Austria, che ricevono un Rating BBB. I Paesi Bassi e il Regno Unito sono stati i primi governi nel mondo ad adottare una nuova tecnica di misurazione che permette di avere una stima della schiavitù a livello nazionale. Anche se vanta la più bassa incidenza, l’Europa rimane una destinazione e, in misura minore, una regione di origine per lo sfruttamento di uomini, donne e bambini in lavori forzati e sfruttamento sessuale a fini commerciali. Stando ai più recenti riscontri Eurostat, i cittadini dell’Ue rappresentano il 65% delle vittime identificate del traffico di esseri umani in Europa. Questi soggetti provengono in gran parte dall’Europa dell’Est, principalmente da Romania, Bulgaria, Lituania e Slovacchia. Le vittime del traffico di esseri umani non residenti nell’Ue provengono in gran parte da Nigeria, Cina e Brasile. Il recente afflusso di rifugiati ha messo a dura prova le misure di protezione europee, creando scappatoie facilmente sfruttate dalle reti criminali europee. Si stima che almeno 10 mila bambini registrati come rifugiati sono ora dispersi, con 5 mila dispersi in Italia e mille in Svezia. Il rapporto è stato redatto con 42mila interviste condotte in 53 lingue, che coprono il 44% della popolazione mondiale. Migranti. Accoglierli tutti non è un’utopia di Luigi Manconi e Valentina Brinis Il Manifesto, 2 giugno 2016 L’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno dell’Italia. A mostrarlo con inequivocabile evidenza sono le categorie della demografia e dell’economia. Come del resto conferma lo stesso presidente dell’Inps Tito Boeri. E se avesse ragione Monsignor Nunzio Galantino, Segretario della Conferenza Episcopale Italiana? I progetti da lui tratteggiati nell’intervista di ieri a Repubblica, rivelano una lungimiranza tale da proporli come concretamente realizzabili. E poco importa se già gli ostili gli attribuiscono la perversa intenzione di "accoglierli tutti", i richiedenti asilo e i migranti economici. D’altra parte "Accogliamoli tutti" fu il titolo di una prima pagina del manifesto di qualche tempo fa e di un nostro libro del 2013. Quest’ultimo recava un sottotitolo ("Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati") che motivava la possibile combinazione virtuosa, in base a una sorta di "altruismo interessato", tra interessi dei residenti e interessi dei nuovi arrivati. Non vogliamo, certo, attribuire ad altri, tanto meno al segretario della Cei, capacissimo di parlare in prima persona e con argomenti ben torniti le nostre convinzioni: così come non vogliamo ricavare da quanto appena detto da Tito Boeri (che, fino a prova contraria, non è un volontario della Caritas) prove scientifiche di ciò che noi riteniamo utile, e non solamente giusto, per il nostro Paese. E, tuttavia, quando il presidente dell’Inps dice che i contributi previdenziali versati dagli immigrati, e di cui mai usufruiranno sotto forma di pensioni, rappresentano "quasi un punto di Pil", offre un’indicazione preziosa. In altre parole, l’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno dell’Italia: e sono le categorie della demografia e dell’economia a mostrarlo con inequivocabile evidenza. Questo significa, forse, che l’impresa non sia terribilmente ardua? Nient’affatto. In estrema sintesi, la convivenza è possibile, realizzabile, economicamente, socialmente e culturalmente proficua e, tuttavia, assai faticosa e spesso anche dolorosa. Gli ostacoli possono essere enormi, ma nessuno è insormontabile. E, soprattutto, il contrario di questa prospettiva è una utopia regressiva e torva, quella che porterebbe non alla Fortezza Europa - come si augurano i comici Amish padani (e chiediamo scusa agli Amish veri) - bensì a una sorta di "cronicario Europa", senescente e sterile, autarchico e reclinato su sé stesso. Non solo. Quel dato ricordato da Boeri ne richiama altri particolarmente istruttivi: i circa 2 milioni e 400mila lavoratori stranieri regolari producono oltre l’8,8% della ricchezza collettiva del nostro Paese. E si pensi a un altro fattore demografico inesorabile: tra non molto tempo, gli italiani della fascia di età oltre i 65 anni saranno 1 su 4. Con quali conseguenze rispetto al fabbisogno di assistenza e cura (solo in minima parte fornito da autoctoni), è facile da immaginare. Ed è solo un esempio. Tutto ciò in uno scenario dove, nel corso del 2015, hanno sì abbandonato il nostro Paese 91 mila cittadini italiani ma anche 48 mila stranieri già regolarmente residenti. Perché tutte queste cifre che, se analizzate con attenzione dovrebbero ridimensionare sensibilmente quell’immagine di "emergenza epocale" costantemente evocata, non sono sufficienti a rassicurarci? Per tante ragioni, e per una essenzialmente: perché la gestione, così spesso improvvisata e sgangherata dei flussi migratori e, in particolare, degli sbarchi, con l’immenso carico di sofferenza e di emozione che li accompagna, accredita una percezione grottescamente alterata di minaccia e di invasione. Al contrario, e senza alcuna tentazione provocatoria e tantomeno profetica, pensiamo proprio che "accoglierli tutti" (o quasi) sia possibile. Certo, attraverso una politica comune europea, che resta l’obiettivo più difficile da raggiungere; e una politica italiana dell’immigrazione e dell’asilo che si proietti su un arco di medio termine (cinque-dieci anni) con i relativi investimenti e l’adeguata mobilitazione di personale, strutture e servizi. E ancora: mutuando e moltiplicando quelle iniziative - oggi modeste nelle dimensioni, ma potenti per il messaggio trasmesso - capaci di realizzare canali legali e sicuri per l’accesso in Italia e in Europa, come il corridoio umanitario al quale lavorano la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane e la Tavola Valdese. D’altra parte, una semplificazione e una maggiore duttilità delle norme che amministrano gli ingressi regolari (oggi ridotti a ben poca cosa) e una più intelligente articolazione del mercato del lavoro in grado di accogliere e qualificare tanti lavoratori generici, sottraendoli all’illegalità, potrebbero consentire l’occupazione di settori di manodopera straniera, oggi marginalizzati. Tutto ciò non è una ricetta miracolosa, è un percorso lungo, dagli esisti incerti, ma costituisce la sola alternativa realistica e saggia all’esplosione di laceranti conflitti etnici e alla stessa disintegrazione dell’Europa. Richiede molto tempo e intelligenza politica e, soprattutto, la capacità di sottrarsi a quella sudditanza psicologica nei confronti degli imprenditori politici dell’intolleranza, che sembra paralizzare una parte estesa della classe politica. Sullo sfondo, un’antica lezione che - per quanto la storia l’abbia mille volte confermata - sembra, ancora una volta, restare inascoltata. Quando la sinistra fa la destra, è sempre la destra a vincere. Di fronte a una copia abborracciata è pressoché fatale che si finisca con lo scegliere l’originale. Grecia: Idomeni, dove non c’è più dio di Maurizio Franco Il Manifesto, 2 giugno 2016 Zona sconsacrata, nessuno può entrare. Ma volontari e attivisti sono ancora qui. Una presenza necessaria per denunciare bugie e mistificazioni. I rifugiati deportati nei dintorni ringraziano: "Senza i volontari, noi invisibili". Ad Idomeni non c’è più nessun dio. È zona sconsacrata. Nessuno può entrare. Un cimitero di tende e lamiere, raschiate dalle ruspe dello sgombero. Posti di blocco ovunque, la polizia presiede le strade, chiede i documenti, la nazionalità è fondamentale in questi casi. "Ma voi siete volontari?", è la domanda. Poi, lo sguardo fermo. "Cittadinanza italiana", si legge sulla carta d’identità. "Volontari sicuramente - dice Francesco Scardaccione, barese, 23 anni - ma prima di tutto siamo attivisti provenienti da tutto il mondo, completamente autonomi, slegati dalle organizzazioni governative e dalle Ong". Francesco è uno di quelli che ha visto intere famiglie sbarcare a Lesbo in fin di vita. Francesco è l’attivista che ha tirato su un forno con un gruppo di iraniani, dove si impastava il pane e la pizza. Francesco è uno dei tanti che ha vissuto per due mesi nel campo di Idomeni, i suoi vicini di tenda erano siriani. "Costruiamo insieme ai migranti la solidarietà, condividiamo mezzi, strumenti, problematiche e possibili soluzioni". Il mutuo soccorso, il piano è umanitario, l’esodo è costante e inarrestabile, "Scarpe rotte, pur bisogna andare, tutti insieme", indicando la Macedonia. Nonostante lo sgombero, gli attivisti sono sempre qui. In centinaia infatti sono rimasti, a decine ne stanno arrivando, per monitorare la situazione, per denunciare "le condizioni indegne dei campi militari nei dintorni di Salonicco", per fare informazione. Il sito di Melting pot Europe sforna resoconti costanti, giornalieri, la pagina Facebook di Communia.net carica le foto degli attivisti presenti, le immagini del calvario. Un mondo tranciato da muri e dalle bombe, spaccati generazionali e culturali a confronto. L’intento, mostrare le mistificazioni, rendere visibile ciò che è invisibile nella cortina di fumo e afa che circonda l’area che va da Policastro a Salonicco. Curdi, siriani e iracheni, migliaia di persone sono state deportate in questi centri. Syndos Frakapor ad esempio, un ex magazzino, un hangar gigantesco e fatiscente, riconvertito a campo militare. Il distretto industriale di Salonicco attorno, fabbriche dismesse e abbandonate, le insigne rosicchiate dalla crisi economica che ha sconvolto la Grecia. 800, i curdi ammassati nella tendopoli. "Abbiamo poca acqua, il cibo scarseggia. Una ventina di bagni chimici per quanti ne siamo e nessuno viene a pulire da una settimana", racconta Imad, capelli bianchi, fuggito dalla Turchia di Erdogan, con il Buzouki sotto braccio. Imad aveva stretto amicizia con Francesco al campo di Idomeni. Si abbracciano, rievocano aneddoti, si prendono in giro. Imad aveva impacchettato, inforcando due pezzi di legno e uno straccio incerato di una tenda devastata dalla pioggia e dal vento, un aquilone su cui avevo scritto "Rojava, Kurdistan". L’aquilone svettava sulla tendopoli, lo ricordano tutti. La polizia puntella i cancelli del campo, gli attivisti fanno foto, prendono appunti. "Se non ci fossero i volontari, saremmo invisibili, nessuno parlerebbe di noi, tutti ci dimenticherebbero - continua poi, sorridendo al flash delle foto - a Idomeni si stava meglio, facevamo le nostre cose, vivevamo!" "Niente giornalisti", intima il militare all’entrata, quasi ad interrompere quel minimo di connubio umano raffazzonato in pochi minuti. "Il governo greco sembra che voglia nascondere l’emergenza umanitaria in un recinto di filo spinato e di ossequioso silenzio. Non è un caso che L’Europa abbia sbloccato la tranche da 11 miliardi lo stesso giorno in cui Idomeni veniva evacuata", dice Stefano, il quaderno in mano, trapiantato oramai in Grecia dalla lontana Bolzano, salutando Imad in lontananza. Azzittire, rendere invisibili, nascondere ovunque il tacito accordo con la Turchia. La firma è quella di Alexis Tsipras. I campi militari invece, 11 per l’esattezza, una corona di cemento e detenzione millantata ad asilo, alle porte della Macedonia, sono responsabilità della fortezza Europa. "Quanto resti?" Abud, siriano di Damasco, mentre sorseggia un bicchiere di Chai. "Non saprei dove andare", ironico, scrollando le spalle, Pigi, attivista italiano. Eko station, un campo informale, occupato da migliaia di migranti, non autorizzato, una distesa di tende e tendoni sull’asfalto della stazione di rifornimento. "Non abbiamo accettato di entrare nei campi militari per paura che il mondo ci dimenticasse, aspettiamo…", dice Abud, accendendosi una sigaretta. A giorni è previsto lo sgombero di tutti i campi "illegali". L’atmosfera è tesa. Più di quattro mila persone rischiano la prigionia e il rimpatrio forzato. Qui però gli attivisti si fanno sentire, possono entrare. Camuffati dal circo mediatico in un problema da estirpare, ovunque invisibili, a gran voce, una trentina di italiani della staffetta #overthefortress ha installato una radio, con casse musica e microfoni. La frequenza è 95.00, Radio No Borders. I siriani cantano, ballano. Le persone si accalcano. Abud studiava per diventare un veterinario e nel tempo libero si dilettava a strimpellare qualche canzone. Improvvisa, gorgheggiando, l’inno dell’esercito libero siriano. "Quando tornate, ve lo recito in italiano", con applauso finale, è ovvio. Polonia: Stato di diritto, ultimatum dell’Ue a Varsavia di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 2 giugno 2016 Avvertimento scritto sulla crisi costituzionale. Kaczynski: ricorreremo alla Corte europea. Questa volta è davvero l’ultimo avvertimento per Varsavia. La Commissione europea ha infatti deciso di inviare al governo "un’opinione scritta" sul rispetto dello stato di diritto in Polonia. Un parere vincolante che può essere considerato di fatto un preambolo alla procedura di infrazione. Adesso il governo della premier Beata Szydlo ha 15 giorni di tempo per rispondere alle raccomandazioni formulate da Bruxelles. A quel punto in caso di una mancata collaborazione da parte delle autorità polacche, l’arrivo di sanzioni diventerebbe inevitabile. L’Unione europea potrebbe ricorrere anche all’"opzione atomica", cioè a quel famigerato articolo 7 del Trattato di Lisbona che prevede anche l’eventuale sospensione dei diritti di voto di un Stato membro. Ma si tratta di un’extrema ratio che dovrebbe essere votata all’unanimità da tutti gli altri paesi: il premier ungherese Viktor Orban, ad esempio, ha ribadito più volte che metterà il proprio veto nel caso in cui Bruxelles dovesse spingere per questa soluzione. A nulla è valsa l’ennesima telefonata ieri tra la premier polacca e il Vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans che si era già recato due volte in Polonia per tentare di risolvere la crisi costituzionale. Probabile che il partito della destra populista Diritto e giustizia (PiS) proposto uno scambio di pedine dando il via libera all’insediamento dei giudici nominati dal precedente governo di centro-destra di Piattaforma civica (Po), sconfitto dal PiS alle urne lo scorso autunno. Ma a preoccupare Bruxelles non è la mancanza di buona volontà da parte della Polonia ma quella di proposte concrete che possano garantire il rispetto dei diritti e delle libertà dei polacchi: "Esiste la volontà di dialogo con le autorità polacche ma ancora non siamo riusciti a trovare una soluzione sulla tutela dello Stato di diritto. Pertanto abbiamo inviato un parere scritto in modo che Varsavia ha l’opportunità di rispondere", ha precisato Timmermans, durante una consultazione del Collegio dei Commissari riunitosi nella giornata di ieri. Una possibile chiave di volta della trattativa potrebbe essere rappresentata dalla pubblicazione di due sentenze del Tribunale costituzionale che non sono mai apparse sulla Gazzetta ufficiale polacca. In particolare, con il verdetto del 9 marzo scorso, il Tribunale aveva espresso un parere negativo sulla riforma del proprio organo che imporrebbe la presenza di almeno 13 membri su 15 e una maggioranza di due terzi per deliberare. Da un punto di vista formale, i magistrati hanno ravvisato anche l’assenza di una vacatio legis sul provvedimento che andrebbe a indebolire il ruolo istituzionale della corte nella vita politica del paese. L’opinione scritta di Bruxelles arriva al termine di un vero e proprio effetto domino in seguito alla bocciatura della riforma costituzionale da parte della Commissione di Venezia, di cui fanno parte anche gli Stati Uniti. All’inizio di quest’anno, una delegazione guidata da Gianni Buquicchio era stata invitata dello stesso PiS a esprimere in loco un parere sulle misure adottate dal governo polacco. A pochi mesi di distanza è arrivato anche un progetto di risoluzione simbolica in 12 punti, votato dal parlamento di Strasburgo, su proposta dal Partito Popolare Europeo (Ppe) e dal Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici. Scontata la reazione del PiS alle critiche di Bruxelles, che per bocca del suo numero uno Jaroslaw Kaczynski, ha minacciato di impugnare le decisioni di Bruxelles davanti alla Corte europea di giustizia. Nel corso di una recente intervista al settimanale conservatore Do Rzeczy, il leader del PiS anche dichiarato di voler ritirare ogni sostegno al rivale del Po Donald Tusk. Secondo Kaczynski, l’ex premier polacco che aspira a un nuovo mandato di due anni e mezzo alla Presidenza del Consiglio Europeo, si sarebbe reso colpevole di aver invitato a Bruxelles Mateusz Kijowski del Comitato in difesa della democrazia (Kod). Il movimento fondato dall’ex informatico e leader del Kod ha avuto un ruolo chiave nell’organizzazione delle proteste del mese scorso a Varsavia che hanno portato a sfilare nelle strade della capitale almeno 250.000 persone, una cifra record dai tempi di Solidarnosc. Iraq: "ventimila bimbi in trappola", allarme umanitario a Falluja di Francesca De Benedetti La Repubblica, 2 giugno 2016 Usati come scudo o come soldati, i bambini sono le prime vittime mentre i lealisti tentano di strappare all’Is la sua roccaforte. Cinquantamila civili a rischio. Iacomini, Unicef: "Urgente intervenire". Almeno cinquantamila civili sono intrappolati nella roccaforte irachena dell’Is, a Falluja. Tra questi, oltre ventimila sono bambini e molti vengono strappati ai genitori, costretti a imbracciare i fucili o persino utilizzati come scudi umani. Intanto, scarseggiano acqua, cibo e medicine. L’allarme arriva dalle Nazioni Unite nelle ore in cui l’esercito iracheno sta tentando la riconquista della città. Dall’inizio del 2014, Falluja è in mano all’Is, e il 23 maggio i lealisti hanno lanciato l’offensiva militare per liberarla. Oltre venti villaggi nell’area circostante sono ora di nuovo sotto il loro controllo e procede l’avanzata sulla città, aggredita su tre fronti, ma intanto i civili rimangono asserragliati e ben pochi riescono a fuggire. Meno di quattromila hanno potuto scappare negli ultimi giorni, mentre i cinquantamila affrontano una vera e propria emergenza umanitaria. "L’Is strappa i bambini alle madri e ai padri per usarli come soldati, li obbliga a combattere. Mentre i lealisti avanzano, li usa come scudi umani - spiega a Repubblica il portavoce dell’Unicef, Andrea Iacomini - e intanto vengono tagliati viveri, acqua, medicinali. Si va verso la catastrofe". I dati sono allarmanti: 11 milioni di persone, di cui ben la metà bambini, stanno affrontando in Iraq una vera e propria crisi umanitaria. La morsa che attanaglia Falluja rende la situazione ancora più estrema. "In uno scenario come questo - spiega Iacomini - è difficile pianificare corridoi umanitari come è successo invece in Siria, dove era possibile trattare con le forze filo Assad. Qui la speranza è che le forze lealiste facciano subito entrare le organizzazioni umanitarie non appena riescono a creare punti di accesso. Servono i varchi umanitari, prima che la situazione diventi ancor più esplosiva".