Un detenuto su quattro in cella per droga Il Dubbio, 29 giugno 2016 Presentato il settimo Libro Bianco diffuso dall’Associazione Antigone. Un detenuto su quattro nel 2015 è entrato in carcere perché condannato o accusato di produrre, vendere o detenere droghe proibite. Lo dice il settimo Libro Bianco sulle droghe diffuso dall’Associazione Antigone, con l’adesione di Cgil, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, Lega Coop Sociali, Lila, Associazione Luca Coscioni. Ben 12.284 dei 45.823 ingressi in carcere durante il 2015 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’articolo 73 del Testo unico sulle sostanze stupefacenti che punisce la produzione, il traffico e la detenzione di droghe illecite. Si tratta del 26,80%. Il documento evidenzia il trend discendente attivo dal 2012, dall’adozione della famosa sentenza Torreggiani e dall’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Il 12 febbraio 2014 la Corte costituzionale ha abolito la legge Fini-Giovanardi, sancendo il ritorno alla legge Iervolino-Vassalli con le modifiche introdotte con il referendum del 1993 e quelle successive introdotte dal decreto Lorenzin. Il settimo Libro Bianco indaga le conseguenze di questo cambiamento normativo, dopo 8 anni di applicazione della legge rivelatasi incostituzionale. Nella passata edizione era stato rilevato come la diminuzione di 9.000 detenuti avvenuta nel corso del 2014 fosse stata determinata dal calo dei detenuti per detenzione e spaccio di stupefacenti di circa 5.500 unità. Questo dato, seppur parziale, confermato anche dai dati 2015, evidenzia il peso sulla giustizia e sul carcere della legislazione antidroga e rende urgente la modifica radicale del Dpr 309/90 per una completa depenalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti compresa la coltivazione domestica di canapa, di misure alternative alla detenzione e di programmi di riduzione del danno. Oltre sedicimila detenuti, 16.712 per l’esattezza, presenti in carcere al 31 dicembre 2015 lo erano a causa dell’articolo 73 del Testo unico sulle sostanze stupefacenti. Si tratta del 32,03% del totale: un detenuto su tre è imputato o condannato sulla base di quell’articolo della legislazione sulle droghe. I dati confermano il ruolo determinante della legislazione sulla droga nelle dinamiche della demografia penitenziaria: quando cresce la popolazione detenuta, è la legge sulla droga che guida le incarcerazioni; quando essa diminuisce è sempre la legge sulla droga che trascina al ribasso le incarcerazioni. Da quando è iniziato il trend discendente delle presenze in carcere (2010), la popolazione detenuta è diminuita del 23,24% grazie alla diminuzione del 38,77% dei detenuti per articolo 73 del DPR 309/90. Tra il 2014 e il 2015 la riduzione di 1.459 unità della popolazione detenuta corrisponde quasi perfettamente alla diminuzione di 1.283 detenuti per articolo 73. Anche per questo preoccupa la crescita della popolazione detenuta nei primi cinque mesi di quest’anno (1.709 detenuti in più), cui potrebbe corrispondere un aumento delle incarcerazioni per fatti di droga. Sono state 27.718 le persone segnalate alle prefetture per mero consumo di sostanze stupefacenti, il risultato più basso degli ultimi 9 anni, in ulteriore calo rispetto alle 31.272 del 2014. Ben 26.403 segnalazioni, pari al 78,99% del totale, sono dovute a consumo personale di cannabinoidi. A partire dall’entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli 1.107.051 persone sono state segnalate al prefetto come consumatrici di sostanze stupefacenti illegali, il 72,23% dei quali (quasi 800mila persone) per detenzione di cannabinoidi. Le segnalazioni al prefetto hanno dato luogo a 13.509 sanzioni amministrative e a 151 richieste di sottoposizione a programma terapeutico-riabilitativo, confermando la natura principalmente sanzionatoria della segnalazione al prefetto dei consumatori di sostanze stupefacenti. Negli ultimi tre anni, le misure alternative alla detenzione si sono assestate intorno ai 22.200 casi seguiti al 31.12 di ciascun anno (22.285 nel 2015). Le misure alternative speciali per tossico/alcoldipendenti in corso al 31.12.2015 ammontavano a 3.053, un quarto dei 12.096 affidamenti in prova e poco più di un decimo del totale delle misure alternative in corso. Tra il 2014 il 2015, registriamo un lieve calo delle misure per tossico/alcoldipendenti, nella misura del 6,32%, però assai più sensibile tra gli affidamenti disposti dal carcere (- 14,93%). Nel corso dell’ultimo triennio, le misure alternative alla detenzione si sono assestate intorno ai 22.200 casi seguiti al 31.12 di ciascun anno (22.285 nel 2015). Le misure alternative speciali per tossico/alcoldipendenti in corso al 31.12.2015 ammontavano a 3.053, un quarto dei 12.096 affidamenti in prova e poco più di un decimo del totale delle misure alternative in corso. Mattarella in pressing per la riforma della giustizia di Liana Milella La Repubblica, 29 giugno 2016 Intervengono Mattarella e Grasso. Chiedono un’accelerazione secca del disegno di legge Orlando sul processo penale che contiene nuove regole sulla prescrizione, la famosa delega sulla riforma delle intercettazioni e una stretta sui ricorsi in Appello e in Cassazione. Molto di più di una moral suasion quella del capo dello Stato e del presidente del Senato. Una richiesta netta e non derogabile. Mattarella - sensibile al dramma degli uffici senza personale e gravati di arretrato, in particolare la Suprema Corte - chiama Grasso a metà pomeriggio. Gli esprime la preoccupazione che i tempi lunghi del ddl, fermo in commissione ormai da oltre un anno, rischino di far slittare tutto all’autunno. Una prospettiva pessima, che Piero Grasso condivide, convinto com’è che le regole della prescrizione vadano cambiate al più presto per evitare un’inutile moria di processi. Tant’è che, nel suo ddl presentato nel suo primo e unico giorno di legislatura da semplice senatore, c’era anche l’articolo che bloccava la prescrizione dopo il primo grado. Nella giornata seguono conversazioni riservate con il Guardasigilli Andrea Orlando, che la settimana scorsa aveva già incontrato il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda per verificare i margini di una possibile intesa sulla prescrizione - di certo il tema più controverso di tutto il ddl - e soprattutto la tenuta della maggioranza al Senato, con gli alfaniani di Ncd che hanno fatto proprio della prescrizione una sorta di trincea irrinunciabile e che già alla Camera si erano astenuti. Ieri, dopo il colloquio con Mattarella, Grasso ha personalmente chiamato i due relatori del ddl sul processo penale, Felice Casson e Giuseppe Cucca, entrambi Pd, chiedendo una forte accelerazione che consenta di chiudere al più presto i lavori in commissione per essere in aula alla fine di luglio. La settimana buona sarebbe quella del 25, in modo da andare in vacanza con il testo approvato, pronto solo per l’ultimo passaggio della Camera. Grasso ha avuto anche un lungo colloquio telefonico con il presidente della commissione Giustizia, l’Ncd Nico DAscola, per chiedergli di concludere al più presto i lavori. Come tutti sanno al Senato, in realtà D’Ascola, che ha di fronte a sé ben 800 emendamenti da discutere e votare, preferirebbe prima chiudere l’accordo sulla prescrizione. Ma adesso, dopo l’intervento di Mattarella, la parola d’ordine è comunque andare avanti al più presto. Dice a sera Casson: "Hanno calendarizzato per fine luglio? Evviva, finalmente. Io ho proposto da tempo di fare sedute notturne e sono disponibile a votare gli emendamenti per tutta la notte". Casson interpreta la linea dura pure sulla prescrizione. Suo l’emendamento che ne vuole bloccare definitivamente il corso dopo la sentenza di primo grado e quello che la vuole ancorare alla data in cui viene scoperto il reato (non quando è stato commesso). Ma il Guardasigilli Orlando ha messo in guardia sia Casson che Zanda dal rischio che proprio la linea dura finisca per far saltare la prescrizione facendola "uscire" dal ddl. Sul quale - alla fine - il governo sarà costretto a mettere la fiducia visti i numeri risicati del Senato e soprattutto per garantirsi una sostanziale presa d’atto della Camera. I contatti di questa settimana tra Pd e Ncd lasciano trapelare anche un possibile compromesso. Il seguente. Sulla prescrizione resta fermo il principio che si sospende soltanto dopo la sentenza di primo grado. Per la corruzione ci sarà un aumento ad hoc, il massimo della pena più un terzo (oggi un quarto, il lodo Ferranti votato alla Camera prevedeva il massimo della pena più la metà). In Appello e in Cassazione la prescrizione guadagna un bonus di 18 mesi, anziché di 2 anni in Appello e uno in Cassazione. Ncd, con D’Ascola, propone anche di far perdere il bonus se i tempi dell’Appello dovessero sforare i 18 mesi. Invece dovrebbe restare identica al testo della Camera la delega sulle intercettazioni, anche se Casson la giudica troppo generica e preme per dettagliarla meglio. Davigo: "Italia paese sicuro, non date retta alla tv" di Errico Novi Il Dubbio, 29 giugno 2016 Il capo dell’Anm "quasi garantista" a sorpresa: la criminalità è in diminuzione. Tutto si può dire di Piercamillo Davigo ma non che falsifichi le prove. Non lo ha mai fatto nella sua brillante carriera di magistrato inquirente, non deraglia dal principio di onestà neppure ora che guida l’Associazione nazionale magistrati. Dà anzi dimostrazione di sapersi attenere ai fatti su un terreno tutt’altro che neutro per un conservatore "legge e ordine" come lui: la sicurezza. "Gli italiani sono convinti di vivere in un Paese insicuro", dice a una tavola rotonda sulla legalità. "ma in Italia abbiamo meno omicidi di Francia e Germania, che sono considerati Paesi abbastanza sicuri". Dà forza con le statistiche al suo ragionamento: "Noi siamo passati da circa 1700 omicidi volontari all’anno a una media di circa 650". E si concede una battuta: a ben guardare i dati "oltre la metà dei delitti avviene in un contesto familiare, il che autorizza a considerare più pericoloso stare a casa che uscire". E giù le risate dell’uditorio, composto da studenti e insegnanti del Piemonte e della Lombardia. Davigo prende la parola alla tavola rotonda "Italia, quale legalità?" organizzata a Milano dalla Fondazione Cirgis. E fa partire il proprio ragionamento da una diagnosi criminologica. L’?oggetto è una categoria per la quale Davigo non è uso ricorrere a perifrasi, la classe dirigente. Sposta l’asticella ancora più su rispetto a recenti attacchi e, a proposito dei "problemi di legalità" dell’Italia parla di "devianza" della classe dirigente. Il leader dell’Anm parte da un’affermazione molto generica: "Questo Paese ha problemi di legalità" che andrebbero affrontati con una seria "battaglia culturale". Poi piazza l’ennesima bordata: dobbiamo fare i conti con una "anomalia tutta italiana: la devianza della classe dirigente", appunto, "che fa guasti gravissimi". All’estero non è che manchino questi "episodi di devianza" ma negli altri Paesi "i colpevoli si dimettono". E giù con la citazione di quello che è ormai un caso di scuola, ossia "l’importante ministro che aveva copiato un pezzo della tesi di dottorato e si è dovuto dimettere". In Italia le cose non vanno così, da noi "la devianza fa danni grandissimi". Nel caso dell’Italia infatti il paradigma è piuttosto quello del processo Parmalat, con le sue 45mila vittime in attesa di risarcimento. "Sono numeri da stadio", fa notare Davigo, che poi si chiede: "Quanto ci impiega uno scippatore per fare 45 mila vittime? Una vita. Quanto può avere una persona nella borsetta? Al massimo la pensione". E invece la classe dirigente deviante "non solo fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato rispetto a un delinquente da strada, ma fa anche danni molto più grandi". Da qui Davigo si aggancia al tema dello scarto tra sicurezza reale sicurezza percepita: "Gli italiani sono convinti di vivere in un Paese insicuro", dice, ma si tratta di una "insicurezza indotta". Chi nei sondaggi si mostra allarmato in realtà "non ha mai visto un reato: pensa di vivere in un Paese insicuro perché lo dice la tv". Potrebbe aggiungere che le nostre carceri risultano sì affollate ma soprattutto di tossicodipendenti: che sono il 25% dei detenuti totali, come ricorda Antigone. Anche in virtù delle fuorvianti suggestioni sull’insicurezza il leader del sindacato dei giudici si schiera in modo non scontato sulla questione della legittima difesa, a cui non ci si può appellare, spiega, se si spara "a una persona in fuga". Il suo è un no piuttosto chiaro alle ipotesi di "allargamento della legittima difesa" avanzate anche attraverso proposte di legge d’iniziativa popolare. "L’aggressione non c’è più se uno fugge: se fossero approvate quelle modifiche l’Italia sarebbe condannata" a livello europeo. Secondo il presidente dell’Anm "sarebbe meglio che la nostra protezione venisse lasciata alle forze dell’ordine che sanno come usare le armi". Intercettazioni, l’allarme del Garante della privacy di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 29 giugno 2016 Le intercettazioni che toccano la vita privata delle persone restino fuori dal processo e lontane dai media. È la linea del garante della privacy Antonello Soro, accompagnata dall’invito a intervenire per evitare abusi o forzature. "Nel rispetto dei diritti della difesa e della libertà di stampa - scrive nella sua relazione annuale destinata alle Camere - è auspicabile che negli atti processuali e nella cronaca giudiziaria non siano riportati interi spaccati di vita privata privi di reale rilevanza pubblica". Un appello al legislatore, contenuto in un focus più ampio dedicato alla tutela dei dati personali in tempi difficili di terrorismo e strapotere delle tecnologie. Al centro del dibattito, come sempre, c’è il dossier degli ascolti. Il garante ricorda le recenti direttive di alcune procure, utili a contenere le trascrizioni su aspetti "irrilevanti" ai fini delle indagini. Si tratta in particolare di quei "dati personali non strettamente pertinenti al reato contestato, relativi a terzi o, comunque, dei quali si possa fare a meno senza per questo nuocere alle indagini". Una barriera che ridurrebbe di gran lunga il rischio di "una loro indebita divulgazione sulla stampa". Proprio ai mezzi di comunicazione è richiesta un "supplemento di responsabilità", utile a dribblare "l’accanimento informativo" che sfocia in "sensazionalismo". Ma c’è molto altro, in una relazione dedicata alle sfide dei prossimi anni. A partire dalla minaccia del terrorismo: "La reazione deve essere efficace, ma rispettosa dei diritti e delle libertà fondamentali, anche perché non tutte le limitazioni sono utili nella prevenzione". Un principio centrale anche rispetto all’azione dell’intelligence: "Servono cautele rigorose per impedire che funzioni volte a garantire la democrazia, finiscano per violarla". Un esempio? Il caso dei software-spia per le intercettazioni ambientali, che possono trasformare "un mezzo investigativo circoscrivibile in uno strumento di sorveglianza totale". Terrorismo, ma naturalmente anche criminalità informatica: "Ha assunto dimensioni inquietanti - ricorda l’autorità - e potrà arrivare a compromettere la sicurezza fisica delle persone". Una "minaccia reale", così la giudica Soro, con un peso sull’economia mondiale di 500 miliardi di euro all’anno, a un passo dal volume di affari illeciti del narcotraffico. Nell’immediato, intanto, l’obiettivo è coordinare in chiave comunitaria le tutele dei dati di privacy, soprattutto "nel momento in cui si fanno più forti le spinte anacronistiche a creare barriere nella libera circolazione". Il confine tra esigenze contrapposte è spesso molto labile, ricorda il garante. Ad esempio nel caso che ha coinvolto Whatsapp e la procura di Milano in un’inchiesta sul terrorismo. La società di messaggistica è tenuta a collaborare con gli inquirenti, sostiene Soro, e non è possibile opporre "un’invocazione meramente strumentale della privacy. Ma insieme occorre difendere il sistema di criptazione". L’ultima panoramica parte dal settore del telemarketing, dove "si continua a registrare un’incontenibile aggressività degli operatori che arriva a compromettere la tranquillità individuale e familiare". E passa per il rapporto con i colossi social: il confronto positivo con Google, "che ha dato piena attuazione alle prescrizioni finora impartite", e l’intervento sul tema all’accesso ai dati pubblicati con falso account, con cui l’Autorità ha riaffermato la sua competenza anche verso Facebook. Infine i controlli dei datori di lavoro previsti dal Jobs act, "ammissibili soltanto se strettamente proporzionati, mai massivi e fondati su precisi presupposti". E il mondo della sanità: "La carente sicurezza dei dati e dei sistemi può rappresentare una causa di malasanità". Chiamare di continuo l’ex per i soldi ai figli non è molestia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2016 Corte di cassazione, sentenza 28 giugno 2016, n. 26776. Nessuna condanna per molestie alla ex moglie che telefona in modo insistente e invia sms all’ex marito anche di notte, se il suo scopo è parlare dei figli e ottenere il rispetto degli obblighi di mantenimento. La Cassazione (sentenza 26776) accoglie il ricorso della signora contro la condanna, inflitta dal Tribunale, per molestia e disturbo. Il consorte separato aveva querelato la ex, che per oltre un mese lo aveva raggiunto ad ogni ora, malgrado l’uomo avesse più volte cambiato il numero di telefono. Secondo i giudici di merito il mezzo telefonico non era stato usato come strumento normale di comunicazione ma per molestare (articolo 660 del codice penale). La ricorrente porta però in Cassazione le sue giustificazioni. Intanto la parte "lesa" nella vicenda era stata condannata per violazione degli obblighi di assistenza familiare. La signora, che era stata sfrattata per morosità e aveva difficoltà a gestire i figli, non chiamava e inviava sms per disturbare l’ex ma per cercare un contatto nell’interesse dei figli. Per la Cassazione sono delle buone ragioni per derogare al "galateo" sull’ora e sul numero delle telefonate. I giudici ricordano che anche gli sms rientrano nel raggio d’azione dell’articolo 660 del codice penale, perché ad essi, a differenza dei messaggi epistolari, non ci si può sottrarre. I giudici precisano anche che l’elemento soggettivo del reato e dunque la consapevolezza di mettere in atto una condotta petulante, scatta anche quando l’agente esercita, o crede di esercitare un suo diritto. Detto questo però la Cassazione esclude che la ricorrente possa essere considerata una molestatrice. Il marito interrompeva le telefonate sgradite che avevano come tema fisso, al pari dei messaggi, i figli e le questioni economiche. Per la Cassazione definendo le chiamate fonti di disturbo si finisce per giustificare il comportamento del genitore che per sottrarsi agli obblighi taglia i contatti. Ma chiudere il telefono non serve. Avvocati, turbativa d’asta: il ruolo esecutivo non attenua le esigenze cautelari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 28 giugno 2016 n. 26638. No alla attenuazione della misura cautelare - dai domiciliari all’obbligo di firma - per due avvocati amministrativisti accusati di concorso - insieme ad alcuni dirigenti di un Consorzio veneto per la fornitura di energia ai comuni - in tre episodi di turbativa d’asta. Per la Corte di cassazione, sentenza 28 giugno 2016 n. 26638, che ha accolto sotto questo profilo il ricorso della Procura, il ruolo specificamente "esecutivo" attribuito agli avvocati, non è per questo meno rilevante, essendosi al contrario rivelato, come del resto ricostruito nelle fasi di merito, "assolutamente necessario" per la riuscita dell’operazione. Nel ricorso il procuratore della repubblica di Venezia aveva infatti evidenziato, per un verso, "l’incongruenza fra la "parte motivazionale, scrupolosa e ben articolata", dedicata all’illustrazione dei gravi indizi di colpevolezza, e la successiva attribuzione di "un mero ruolo esecutivo nella commissione dei reati" ai due prevenuti", che si sottolinea essere ""due avvocati, professionisti del settore, inseriti nel più importante studio di diritto amministrativo di Verona", dai quali non sarebbe provenuto alcun segno di resipiscenza". Per l’altro, "l’inidoneità della misura alternativa imposta dal Tribunale "a tutelare alcuna esigenza cautelare". Secondo la Suprema corte non si può che partire dalla gravità indiziaria così come ricostruita dal giudice del riesame. Risulta dunque che i due legali hanno partecipato alla "consapevole manipolazione di tre gare d’appalto (art. 353 e 353 bis c.p.), perché stabilmente inseriti, per diversi mesi, in un’organizzazione criminosa che delle turbative d’asta aveva fatto una ragione sociale (art. 416 c.p.)". Operando con ruoli ben definiti, commissario l’uno, responsabile unico del procedimento l’altro, "assolutamente necessari per la riuscita delle operazioni". Non solo, essi "hanno continuato a dimostrare fedeltà, anche dopo aver saputo che il loro "istruttore" era stato denunciato alla Procura di Vicenza ed hanno cercato di manipolare le carte anche dopo l’intervento della GdF. Così ricostruita la vicenda, non trova ascolto la doglianza dei legali secondo cui erano trascorsi diversi mesi dall’adozione del primo provvedimento restrittivo, tradendo il requisito dell’"attualità" introdotto dalla legge 47/2015 per le misure cautelari. Per i giudici di Piazza Cavour, infatti, l’intervento del Legislatore è "significativo essenzialmente del più pregnante obbligo motivazionale che si è voluto imporre al giudice" a seguito del trascorrere del tempo dalla commissione del reato, "senza che ciò debba far perdere di vista la distinzione tra "attualità" ed "immediatezza" delle esigenze medesime", "nella sostanza esplicitando e dando veste normativa ad un dato già enucleabile dal precedente assetto". In questo senso il riferimento, compiuto dal Tribunale di Venezia, "alla gravità dei fatti ed alla messa a disposizione, da parte dei due indagati, delle funzioni professionali loro proprie al servizio di operazioni chiaramente connotate in senso illecito non costituiscono affatto espressioni di stile" ma anzi "costituiscono i parametri di riferimento che il testo vigente dell’art. 274 del codice di rito indica ai fini della formulazione di una corretta prognosi di recidiva". Infine, l’affermazione del Tribunale, che fa discendere il "ruolo prevalentemente esecutivo" dal fatto di essersi occupati delle "funzioni che altri [...] avevano loro assegnato" è, in sé corretta, ma, "non è affatto equipollente di ruolo scarsamente significativo" proprio alla luce "delle competenze tecniche di cui sono in possesso, quali avvocati specializzati in ambito amministrativo". "Le considerazioni che precedono - conclude la sentenza - valgono a significare l’indubbia fondatezza delle doglianze del p.m., quanto alla cesura logica che inficia il ragionamento del Tribunale, relativamente all’equazione: ruolo esecutivo dei due indagati in questione = affievolimento delle cautele necessarie". Reati contro l’amministrazione della giustizia, allontanamento dagli arresti domiciliari Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2016 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Evasione - Allontanamento dagli arresti domiciliari - Presentazione presso Forze di polizia per farsi condurre in carcere. Integra il reato di evasione la condotta di volontario allontanamento dal luogo di restrizione domiciliare e di presentazione presso la stazione dei Carabinieri ancorché per chiedere di essere ricondotto in carcere. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 2 marzo 2016 n. 8614. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Evasione - Arresti domiciliari - Allontanamento. Integra il reato di evasione dagli arresti domiciliari, qualsiasi allontanamento dal luogo indicato, quindi anche la presenza in parti condominiali dello stabile, in cui sia consentito l’accesso a terzi: onde, a maggior ragione, il reato è ravvisabile nella condotta del soggetto che si sia recato in un bar anche se vicino all’abitazione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 3 novembre 2014 n. 45257. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Evasione - Allontanamento dagli arresti domiciliari - Allontanamento dagli arresti domiciliari - Presentazione presso forze di polizia per ottenere un colloquio con il magistrato di sorveglianza. Non integra il delitto di evasione la condotta di volontario allontanamento dal luogo di restrizione domiciliare e di presentazione presso l’autorità di polizia per poter ottenere un colloquio con il magistrato di sorveglianza. • Corte cassazione, sezine VI, sentenza 25 ottobre 2013 n. 43791. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari - Rilevanza ai fini della configurabilità del reato - Esclusione. Integra il reato di evasione qualsiasi allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari senza autorizzazione, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la sua durata, la distanza dello spostamento, ovvero i motivi che inducono il soggetto ad eludere la vigilanza sullo stato custodiale. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 27 marzo 2012 n. 11679. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Evasione - Persona agli arresti domiciliare - Allontanamento - Immediata costituzione presso la locale stazione dei carabinieri per essere nuovamente tradotto in carcere - Configurabilità del reato - Esclusione. Non integra il delitto di evasione di cui all’articolo 385 cod. pen. la condotta di colui che, trovandosi presso la propria abitazione in stato di detenzione domiciliare, se ne allontani per costituirsi immediatamente dopo alla locale stazione dei carabinieri ed essere quindi ricondotto presso un istituto di pena. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 3 settembre 2010 n. 32668. La bellezza salverà il carcere di Antonella Tuoni Ristretti Orizzonti, 29 giugno 2016 Un paradosso? Un ossimoro? Un aforisma di eco dostoevskiana? In tempi in cui si parla di dismissione di strutture penitenziarie storiche, Poggio Reale, San Vittore, Regina Coeli e l’opinione pubblica si divide fra i pro ed i contro la riconversione dell’OPG di Aversa in carcere tout court, il tema delle strutture carcerarie e della loro collocazione è di grande attualità. Ma cosa centra la bellezza? C’entra eccome! Perché il carcere è deturpante. Significativo un passo della risposta del Ministero della Giustizia ad una interpellanza rispetto al futuro destino di una struttura penitenziaria in fase di dismissione "il particolare pregio storico artistico della villa mal si concilia con la sua destinazione a struttura detentiva". Giustappunto: le carceri mal si conciliano con il bello, le carceri non sono belle. Il carcere è luogo di pena, ci sono persone cattive e la cattiveria, lo impariamo da piccoli, dalle fiabe di Perrault e dei fratelli Grimm, va a braccetto con la bruttezza: il lupo di Cappuccetto Rosso, le sorelle di Cenerentola, Malefica… Come possiamo accettare che un carcere sia bello? Ontologicamente il carcere è brutto. Figurarsi poi un carcere ospitato in una villa di particolare pregio storico artistico. Proprio no, sarebbe uno scialo o comunque una inaccettabile asimmetria rispetto alla logica retributiva che da sempre accompagna l ‘idea di carcere nell’immaginario collettivo. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità ma, evidentemente, il senso di umanità verso un carcerato non contempla il bello o perlomeno, secondo il comune sentire, non può spingersi fino a tal punto, mal si concilia. "Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui in gabbia; e se io nascevo dov’è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato ed ero pure bravo. Frase pronunciata da un giovane boss condannato all’ergastolo al magistrato giudicante. I luoghi sono importanti, condizionano i nostri destini fino al punto di distorcerli; i luoghi delle istituzioni poi sono carichi di significati che trascendono l’individualità, raccontano come sono quelle istituzioni e qual è l’ idea di mondo che le ispira, sono specchio dell’etica di chi sta dietro a quelle istituzioni, ci dicono se ad occuparli è una persona importante o meno, di potere o no, orientano le condotte. I luoghi sono importanti e se riteniamo che il bello mal si concili con i luoghi che devono essere occupati da chi già ai ceppi di partenza è azzoppato rinunciamo a rimuovere gli ostacoli al pieno godimento dei diritti civili e sociali all’interno delle strutture restrittive della libertà personale. Continuare a dispensare briciole di bello (musica, teatro, letteratura, scuola …) in un carcere che si ritiene inconciliabile con l’idea di bellezza è sicuramente buona cosa che rasserena le coscienze ed appaga il debito di solidarietà che abbiamo nei confronti di chi è svantaggiato ma il "macigno" sarà sempre lì, ad aspettarci, ai piedi della montagna poiché continueremo a cercare di rattoppare una cosa che continueremo a vedere bucata. Sicilia: carceri sovraffollate; è allarme suicidi, sono già tre da gennaio di Claudio Reale La Repubblica, 29 giugno 2016 Di uno di loro non c’è neanche il nome. Era rumeno, aveva 25 anni, aspettava il giudizio nel carcere di Siracusa e una notte di fine inverno ha appeso la propria esistenza a un lenzuolo fissato contro le sbarre. Era il primo di quest’anno, quel detenuto senza nome: il primo dei tre carcerati che secondo il dossier "Morire di carcere" dell’associazione "Ristretti Orizzonti" si è suicidato in questo scorcio di 2016 nei penitenziari siciliani. Gli altri due appartengono alle cronache recenti: Sebastiano Curello, 40 anni, che la settimana scorsa si è tolto la vita a Barcellona, e appunto Carlo Gregoli, morto in custodia cautelare a 52 anni al Pagliarelli. Le fredde statistiche dicono poco: tre suicidi fin qui quest’anno, sei nel 2015, due l’anno prima, quattro nel 2013. A volerle investigare, però, dietro quei numeri ci sono delle storie. Dei disagi. Dei problemi. Quei problemi, nelle carceri, si chiamano assistenza psicologica. Si chiamano acqua. Si chiamano caldo, che in un penitenziario è ancora più caldo. Il referente siciliano dell’associazione Antigone, l’ex deputato Pino Apprendi, era stato al Pagliarelli poche ore prima del suicidio di Gregoli, e quei problemi li ha visti tutti: ieri mattina, l’ex parlamentare ha scritto all’assessore regionale alla Salute Baldo Gucciardi per chiedere un incontro urgente. "Al Pagliarelli - spiega - l’assistenza psicologica viene garantita per circa 20 ore al mese. I detenuti sono 1.200. Ciascuno di loro ha diritto a un minuto di ascolto al mese". La settimana scorsa, nel carcere palermitano, c’è stato uno sciopero della fame. Il sistema idrico è molto vecchio: l’acqua non arriva ai piani alti, fare la doccia diventa proibitivo. "Quando fu progettato il carcere - dice Apprendi - la portata idrica fu sottodimensionata. Adesso il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha deciso di realizzare mini-impianti settore per settore". Saranno pronti in autunno: fino ad allora, per tutta l’estate, si abbozza. "I detenuti - osserva Apprendi - possono fare la doccia solo tre volte alla settimana". E dire che Pagliarelli non è neanche il penitenziario più sovraffollato dell’Isola. Si fa di peggio, ad esempio, al "Petrusa" di Agrigento: secondo il Dap, il 31 maggio la struttura ospitava 394 persone, mentre la capienza teorica è di 276. Anche qui statistiche contro vita reale: la capienza teorica viene calcolata su una media di 9 metri quadrati per detenuto, che visto il sovraffollamento a Petrusa diventano poco più di 6. "Ad Agrigento - prosegue Apprendi - sono stato un mese fa. Nel reparto "protetti", quello cioè che ospita collaboratori di giustizia, pedofili, ex uomini delle forze dell’ordine, insomma i detenuti che potrebbero essere aggrediti, le celle che dovrebbero ospitare una persona ne accolgono tre". Sovraffollamento, quindi caldo. Ad Agrigento e Pagliarelli come in tutte le carceri che custodiscono più detenuti di quanti dovrebbero ospitarne: un elenco del quale, secondo il ministero della Giustizia, fanno parte anche Caltanissetta, Gela, "Bicocca" e "Piazza Lanza" a Catania, Giarre, Piazza Armerina, Termini Imerese, Augusta, Siracusa e Castelvetrano. Così, gli agenti penitenziari si attrezzano. A Petrusa, ad esempio, per evitare il caldo si lasciano aperti i "blindi", le strutture che coprono le inferriate, fino alle 2 di notte: "Se li si chiudesse a mezzanotte - commenta il segretario regionale del Sappe, Calogero Navarra - il caldo sarebbe insopportabile. Il carcere è molto umido e in inverno piove al suo interno, mentre in estate arrivano le zanzare". La tensione, così, va alle stelle: il sindacato denuncia un aumento delle aggressioni in tutta la Sicilia, con un fenomeno che secondo Navarra "si verifica sempre più spesso". Oggi gli agenti penitenziari di stanza in Sicilia sono circa 3.700, inclusi quelli distaccati alle scorte, contro i circa 4.200 previsti sulla carta. "Da quando c’è il blocco dei concorsi - accusa Navarra - siamo costantemente sotto organico, perché nel frattempo ovviamente i colleghi vanno in pensione. Diventa sempre più difficile effettuare i controlli e tutelare i carcerati". Tanto più che spesso i detenuti non possono neanche tenersi impegnati. "I fondi per farli lavorare - osserva Navarra - sono diminuiti". Anche su questo fronte la Sicilia ha una nota dolente: a Enna lavora solo 15 per cento dei detenuti, secondo Antigone il peggior dato in Italia. "E un’occupazione - fa notare Navarra - è un modo per scaricare la tensione. Che altrimenti monta". E poi, a volte, esplode. Liguria: legittima difesa, la Regione pagherà l’avvocato a chi spara ai ladri di Emanuele Rossi Il Secolo XIX, 29 giugno 2016 Per gli esponenti della Lega Nord è un successo da festeggiare con maglietta celebrativa. Per le opposizioni una aberrazione giuridica. Oggetto della polemica la legge approvata ieri dal consiglio regionale che prevede lo stanziamento di ventimila euro per assistere in tribunale chi - vittima di delitti contro il patrimonio o contro la persona - si ritrova ad essere indagato per "eccesso colposo di legittima difesa". L’esempio tipico è chi spara al ladro in casa. Ventimila euro. Poco per gli effetti concreti, ma abbastanza per il segnale: chi spara - per difendersi - ai ladri in casa propria può essere tutelato. Sono i soldi che la regione Liguria stanzia per assistere in tribunale chi - vittima di delitti contro il patrimonio o contro la persona - si ritrova ad essere indagato per "eccesso colposo di legittima difesa". Il consiglio regionale della Liguria ha votato ieri per il provvedimento fortemente voluto dalla Lega Nord che istituisce il patrocinio legale non solo per chi viene assolto, ma anche per chi è semplicemente indagato (quindi potenzialmente colpevole) di quello che, per la legge italiana, è un reato. Una "aberrazione giuridica" secondo le opposizioni, festeggiata dai leghisti con una foto di gruppo con lo slogan "la difesa è sempre legittima" scritto sulle magliette. La norma non è un "copyright" di Sonia Viale, Edoardo Rixi e soci: prima della Liguria infatti articoli analoghi erano stati inseriti nelle leggi anti-criminalità votate da Lombardia e Veneto. Nel primo caso, la norma è stata finanziata con un fondo da 50mila euro ed è entrata in vigore dal febbraio di quest’anno. Nel secondo, invece, il governo l’ha impugnata per profili di incostituzionalità e il ricorso è pendente. Sonia Viale si è studiata bene le due norme e il testo di quella ligure ricalca quasi in toto quello della Lombardia, mentre quello del Veneto prevede il patrocinio legale esteso solo ai residenti in Veneto "da almeno 15 anni" e lo estende anche all’omicidio colposo. Il patrocinio a spese della Regione si applica ai cittadini nei cui confronti l’azione penale è esercitata a decorrere dall’entrata in vigore della legge. Ci sarà un provvedimento della Giunta con la definizione dei criteri e le modalità per l’applicazione delle disposizioni "dando priorità ai soggetti di età superiore ai 65 anni". L’associazione Libera ha criticato la legge perché "le coperture finanziarie derivano proprio da una riduzione dei fondi destinati all’Osservatorio per la sicurezza, che negli anni ha garantito all’Amministrazione e alla cittadinanza una lettura attenta e puntuale del territorio". Ma la Regione replica che l’Osservatorio è stato finanziato nell’ambito di una convenzione con l’Università. "L’eccesso colposo di legittima difesa non esiste - sostengono i consiglieri leghisti - poiché, come sostiene Matteo Salvini, non può essere il cittadino a valutare alle tre di notte con un incappucciato in casa, se la pistola è carica o se il coltello è affilato. Per noi della Lega Nord, chi vede violato il proprio domicilio è innocente, fino a prova contraria". Dura la replica del Movimento 5 stelle: "una legge prima di tutto inutile, essendo già previsto nel nostro ordinamento il diritto alla legittima difesa. Ma, soprattutto, incostituzionale e che incita al Far west". Per Gianni Pastorino di Rete a sinistra "non c’è coerenza giuridica e non c’è lettura del territorio, ma solo afflato ideologico" e il Pd attacca "Un inutile e pericoloso spot elettorale della Lega". Che adesso è legge. Palermo: il legale del detenuto suicida denuncia "una morte annunciata" di Salvo Palazzolo La Repubblica, 29 giugno 2016 Venerdì scorso, aveva chiesto al figlio di poter salutare al più presto le due sorelle più grandi. L’appuntamento in carcere era per ieri mattina. Ma Carlo Gregoli si è ucciso lunedì, poco dopo le 16, impiccandosi in una cella dell’infermeria di Pagliarelli, mezz’ora dopo aver parlato con un educatore. Ora, ci sono due inchieste sulla morte del geometra accusato di aver ucciso, con la moglie, Vincenzo Bontà e Giuseppe Vela, il 3 marzo. Un’inchiesta della procura, per l’ipotesi di istigazione al suicidio. Un’altra, condotta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I primi accertamenti condotti dalla squadra mobile e dalla scientifica hanno però già allontanato l’ombra più grande. È stato un suicidio, non c’è alcun mistero attorno alla morte del geometra Gregoli. "Ma è una morte che si poteva evitare", dice l’avvocato Paolo Grillo, che assiste i coniugi Gregoli assieme al collega Aldo Caruso. "La famiglia presenterà un esposto alla procura, perché si faccia chiarezza su quanto accaduto". Lunedì, il gip Lorenzo Iannelli aveva inviato una nota al carcere, per raccomandare la massima vigilanza attorno a Gregoli. Il tono del saluto al figlio più piccolo aveva infatti preoccupato la famiglia, i legali avevano subito inviato una segnalazione al giudice. "Il carcere si era attivato per tenere sotto controllo un soggetto a rischio come Gregoli?", si chiede l’avvocato Grillo. Dice Francesca Vazzana, la direttrice di Pagliarelli: "In questi mesi, non era stata registrata alcuna forma di disagio particolare da parte del detenuto. Mezz’ora prima di suicidarsi, Gregoli aveva incontrato un educatore. Era stata la famiglia a chiederci questo tipo di osservazione visto che in passato l’uomo aveva sofferto di depressione". La direttrice di Pagliarelli spiega che "l’indagine del Dap è prassi in questi casi. E per prassi - prosegue Francesca Vazzana - noi siamo tenuti a seguire i soggetti che in qualche modo rivelano un momentaneo disagio psicologo, sono visitati quotidianamente dallo psichiatra, dallo psicologo e da un educatore. Anche il detenuto Gregoli era stato seguito". Ma il legale insiste, ed è polemica: "Quella morte si poteva evitare, Gregoli doveva essere tenuto sotto controllo". Ieri, i legali hanno presentato al gip Iannelli una richiesta di scarcerazione per la moglie del geometra. Quasi certo il no della procura, che sta ancora svolgendo altri accertamenti sulla dinamica e sul movente del delitto. La prova più importante riguardava proprio l’uomo che si è suicidato: il suo Dna è stato trovato su un bossolo. La difesa riparte dalla relazione del medico legale Nunzia Albano per provare a contestare le accuse contro la moglie. Uno dei consulenti della difesa, il criminologo Francesco Matranga, dice: "L’autopsia evidenzia un colpo di grazia, ma non su Bontà, bensì su Vela". Per la difesa è una "conferma ai sospetti sempre avanzati; secondo noi, l’obiettivo dell’esecuzione non era il proprietario terriero, per quei presunti contrasti fra vicini di casa attorno alla gestione dell’acqua, come sostiene l’accusa". Una pista alternativa che rimane però al momento abbastanza confusa. Quale altro movente per questo delitto? Reggio Calabria: il Consigliere Castorina (Pd) visita le carceri di Laureana di Borrello cmnews.it, 29 giugno 2016 Il Consigliere Comunale del Partito Democratico, Antonino Castorina, nella qualità di componente del gruppo carceri del Forum Nazionale dei Giovani, ha incontrato la direttrice dell’Istituto penitenziario di Laureana di Borrello, Angela Marcello. Nel corso del cordiale colloquio, Castorina ha avuto anche modo di visitare la struttura carceraria, prendere concreta visione dello stato di detenzione dei detenuti e constatare le attività svolte all’interno della struttura dove opera un nutrito gruppo di giovani volontari. Castorina, ha avuto modo di dialogare con i detenuti e di apprezzare molto la realizzazione, all’interno della struttura carceraria, di un progetto pilota, in fase di approvazione da parte del competente Ministero, per rendere più agevoli e funzionali alla detenzione le modalità di arredo delle celle. All’interno della struttura, secondo la delegazione composta anche dall’avvocato Giuliana Barberi, dell’Associazione Nazionale Forense di Reggio Calabria e dall’avvocato Giampaolo Catanzariti, diventa necessario definire e programmare meglio il servizio sanitario con l’ASP con l’obiettivo di offrire maggiori garanzie per la tutela della salute dei detenuti oltre all’auspicio di avere quanto prima, all’interno della struttura di Laureana, la presenza di un mediatore culturale. "Si tratta - dichiara Castorina - di una struttura che denota una buona gestione per avere affermato interventi e progetti indirizzati a privilegiare il recupero alla vita sociale del detenuto e, in coerenza con questa impostazione, alla direttrice Marcello l’intera delegazione ha formulato l’idea di organizzare una partita di calcio per inaugurare il campo i cui lavori si trovano oramai in fase di ultimazione". "Se il vero scopo della detenzione e anche quello di rieducare e recuperare il detenuto, il sistema carcerario Italiano - conclude Castorina - nonostante le positive novità, necessita ancora non solo di importanti interventi strutturali per evitare il dramma del sovraffollamento, ma necessita pure di gestioni interne più attente e oculate per garantire, ai medesimi detenuti, sistemi di permanenza adeguati e dignitosi anche al fine di poter restituire alla società, una volta scontata la pena, una persona in grado di potersi reinserire, nel contesto civile, sociale e lavorativo, senza dovere affrontare nuovi disagi e difficoltà". Cassino (Fr): la cella è troppo piccola, il detenuto vince il ricorso di Carmela Di Domenico ciociariaoggi.it, 29 giugno 2016 Trecentoquaranta giorni di detenzione trascorsi in condizioni ben lontane da quanto disposto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Quasi un anno, dunque, passato dietro le sbarre del San Domenico per un cumulo delle pene in evidente violazione con quanto riconosciuto dalla Corte di Strasburgo come rispetto della dignità umana. Tanto che il Tribunale di Frosinone ha accolto le istanze di un detenuto della struttura carceraria di Cassino (ora tornato in libertà), condannando il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno. Che quella di Cassino rientrasse tra le strutture detentive finite sotto la lente dei sindacati per un problema di sovraffollamento non è una novità. Solo all’inizio del mese la Cisl aveva lanciato un grido d’allarme (per la presenza di 280 ospiti rispetto ai 208 posti previsti) che richiamava alla mente le parole del Sappe: un +35% di detenuti rispetto al limite massimo. Ora questi dati si sono tradotti in sentenza, grazie all’impegno dell’avvocato Gabriele Leone (molto soddisfatto) che ha dimostrato le ragioni del suo assistito, ottenendo un pieno accoglimento del tribunale di Frosinone. Una sentenza "pilota", quasi come quella Torreggiani (visto l’argomento), destinata a fare giurisprudenza. Facendo finire Cassino, che invece è sempre balzata agli onori delle cronache per la tempestività degli agenti della Penitenziaria pronti a sequestrare droga e salvare vite, nell’elenco degli istituti - come Busto Arsizio e Piacenza - in cui i ricorsi per violazione dei diritti umani sono stati accolti. Il detenuto ha presentato ricorso attraverso l’avvocato Gabriele Leone del Foro di Cassino per chiedere di accertare "che durante il periodo di detenzione dei propri diritti, in violazione di quanto previsto dall’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa dell’inosservanza delle disposizioni di legge (la numero 354 del ‘75 e del relativo regolamento del 2000). E di condannare il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno subito in conseguenza della violazione denunciata". Il Ministero della Giustizia si è costituito in giudizio. Per tutto il periodo di detenzione a Cassino e sino al 7 marzo 2014 (data in cui sono stati concessi al ricorrente i domiciliari) l’uomo era stato detenuto dapprima "in una stanza di 10,33 metri quadrati - calpestabili 9,48 - sino al 2013, ospitante due detenuti. E poi in una stanza di 24,16 metri quadrati ospitanti 6 detenuti e per brevi periodi anche 7, con due letti a castello lunghi 2 metri per 0,90 di larghezza; sei armadietti di 40 centimetri di profondità e 50 di larghezza". "Lo stesso detenuto ha anche sostenuto di aver condiviso la stanza con altre 5 persone" si legge ancora nella sentenza che, ripercorrendo tutti i riferimenti normativi del caso, ha affermato: "La detenzione del ricorrente si è svolta in una cella nella quale era al medesimo assicurato uno spazio mai superiore ai 5 metri quadrati, inferiori a quanto disposto dal Ctp, per tollerare le precarie condizioni di convivenza". Il ricorso pertanto è stato accolto, come le richieste dell’avvocato Leone (di risarcimento pari ad 8 euro al giorno per il pregiudizio sofferto) con il riconoscimento di 2.752 euro, oltre agli interessi, a carico del Ministero. Ragusa: progetto del Rotary, in carcere si produce il formaggio ragusanews.com, 29 giugno 2016 È stato inaugurato lunedì 27 all’interno della casa Circondariale di Ragusa il Caseificio realizzato dal Rotary Hybla Herea, in collaborazione con le Autorità carcerarie e alcune aziende private, e con il supporto finanziario anche del Rotary International. L’iniziativa del Club ragusano è stata compartecipata dai club di Modica/Scicli, Pozzallo/Ispica, Comiso e Vittoria, realizzando una sinergia vincente e foriera di ulteriori e comuni progetti di solidarietà. L’unione fa la forza, recita un vecchio adagio, e mai come in questo caso ha trovato riscontro nei fatti. La cerimonia di inaugurazione è stata seguita da una folta rappresentanza dei media della carta stampata e delle Tv, che hanno rilanciato nel territorio il felice esito di un progetto nato alcuni anni fa per iniziativa dei precedenti direttivi e in particolare di Giorgio Lo Magno, veterinario con la passione della caseificazione, che già aveva promosso presso la casa circondariale alcuni corsi di formazione a beneficio dei detenuti. L’inaugurazione è stata benedetta dal Vescovo della Diocesi Mons. Carmelo Cuttitta, alla presenza del Prefetto Maria Carmela Librizzi, del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Gianfranco De Gesu, della Direttrice del Carcere Giovanna Maltese, del Governatore del Distretto 2110 Francesco Milazzo, e di altre Autorità Civili e Rotariane . Presente anche Giovanni Tumminello, in rappresentanza della ditta Bubalus che ha contribuito alla realizzazione del caseificio tramite la formazione in particolare del personale interno addetto alla produzione. A tenere il filo conduttore della partecipata Conferenza stampa e della cerimonia di inaugurazione è stata Rosetta Di Noto, responsabile dell’area trattamentale del programma di recupero dei detenuti presso il Carcere di Ragusa, ed ovviamente il presidente dell’Hybla Herea Maurizio Gianni, che ad esito del suo impegno di presidenza ha realizzato un traguardo che da particolare lustro al suo mandato annuale. A tenere le fila del progetto, che in una seconda prossima fase passerà alla produzione e commercializzazione di prodotti caseari tipici dell’area iblea, sarà adesso la neo presidente Giovannella Tumino, che avrà modo di qualificare ulteriormente l’azione sociale del club in collaborazione con gli altri Rotary iblei. Il Progetto si inquadra nelle iniziative carcerarie di recupero sociale dei detenuti, stimolando il sorgere di professionalità che possano poi favorire il loro reintegro nella società civile; il tutto si inquadra nel dettame costituzionale secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità ma devono al contrario tendere alla rieducazione del condannato. Particolarmente significativa e taccante in tal senso la diretta testimonianza di un detenuto nel corso della cerimonia, Filippo Assenza , che ha sottolineato la valenza e il concreto valore rieducativo di simili iniziative. Treviso: accordo con il Comune di Arcade, due detenuti puliranno strade e fossati La Tribuna, 29 giugno 2016 Sfalcio dell’erba e manutenzioni stradali: ad Arcade ci pensano due detenuti. In tempi di patti di stabilità e blocco alle assunzioni, i sindaci sono costretti ad aguzzare l’ingegno per garantire servizi che fino a qualche anno fa erano il minimo sindacale. E Domenica Presti sindaco di Arcade ha pensato di affidarsi ai detenuti. La scorsa settimana ha firmato una convenzione con il direttore del carcere di Santa Bona Francesco Massimo per impiegare due detenuti in municipio. Un accordo che sarà valido intanto per un anno, e poi potrà essere prorogato in base a come andrà. Per il Comune la spesa è quasi zero. I detenuti faranno il lavoro a titolo volontario, al municipio spetterà pagare solo il pranzo e il trasporto per complessivi 5,50 al giorno ognuno. Insomma un bel risparmio, se si considera quante miglia di euro vengono utilizzati ogni anno per lo sfalcio dell’erba. Non potranno certo far tutto loro, ma potranno sgravare il Comune di molti lavori. "Raggiungiamo nel contempi due obiettivi", sostiene Presti. "Da una parte riusciamo a fare lavori che rischieremmo di dovere accantonare, o che comunque comporterebbe una spesa per le casse comunali, dall’altra cerchiamo di aiutare nel recuperare di queste persone. L’unico modo per dare una seconda chance ai detenuti è dargli un lavoro. Inoltre in questo modo ripagano almeno in parte il loro debito con la società". Ad Arcade il primo detenuto arriverà nei prossimi giorni, poi dopo alcune settimane se il sindaco lo riterrà opportuno potrà chiedere l’aiuto di un’altra persona. Altri Comuni negli ultimi anni hanno siglato convenzione con il carcere di Santa Bona, proprio perché in questo modo si riesce ad ottemperare a due necessità, quella di fare piccole manutenzioni altrimenti troppo costose. Trapani: corso di "Artigianato Artistico" alla Casa circondariale San Giuliano lagazzettatrapanese.it, 29 giugno 2016 Nella giornata di ieri si è concluso il Corso di Formazione denominato "Artigianato Artistico" al quale hanno partecipato detenuti ristretti presso la Sezione Alta Sicurezza. Il corso organizzato dall’Ente di Formazione Euro è tenuto dalle insegnanti Nadia Brucia ed Enza Milazzo. Il Direttore della casa Circondariale San Giuliano, dott. Renato Persico, ribadisce che: "I corsi di formazione professionali sono di vitale importanza per l’attuazione del dettato costituzionale, ovvero la rieducazione e il reinserimento del detenuto nella società, in quanto forniscono gli strumenti ai detenuti facendo loro acquisire professionalità e un attestato spendibile nel mondo del lavoro". Tutto il materiale realizzato dai detenuti: quadri, oggetti in ceramica ecc. andrà ad abbellire le stanze degli uffici ed i corridoi dell’istituto. Napoli: "Diamo un calcio all’indifferenza", seconda edizione a Poggioreale iamcalcio.it, 29 giugno 2016 Riceviamo e pubblichiamo un comunicato stampa inerente l’importante iniziativa dell’associazione La Mansarda, domani 29 Giugno presso il carcere di Poggioreale avrà luogo un triangolare tra giornalisti sportivi campani e detenuti per sensibilizzare la cittadinanza verso le tematiche dell’inclusione sociale. Ecco il comunicato. L’Associazione "La Mansarda", presieduta da Samuele Ciambriello e la Cooperativa sociale Aleph, Service, presieduta da Luca Sorrentino, organizzano la seconda edizione di: "Diamo un calcio all’indifferenza-triangolare di calcetto", nel carcere di Poggioreale, iniziativa finalizzata all’inclusione sociale dei detenuti, che si inserisce all’interno di altre attività già presentate dall’Associazione "La Mansarda" volte ad accendere i riflettori sul tema delle carceri. Il primo triangolare si terrà il giorno mercoledì 29 giugno 2016 alle ore 10. A sfidarsi due squadre di detenuti e una rappresentativa di giornalisti sportivi campani, L’iniziativa proseguirà con altri incontri calcistici che si terranno nel mese di luglio e di settembre. "Attribuiamo allo sport - dichiara il giornalista Samuele Ciambriello - una valenza pedagogica importante, è per questo motivo, che siamo decisi a non abbandonare progetti come questi. Il calcio, nella fattispecie, può essere una componente fondamentale nel percorso di crescita e di rieducazione dei detenuti, giacché, rappresenta un veicolo di valori educativi fondamentali quali tolleranza, spirito di squadra, lealtà. Il triangolare è un’occasione per andare oltre le mura dell’indifferenza sul tema del carcere e più in generale su quello della giustizia". "Corrispondenze": la Sicilia intima e profonda di un poeta raccontata a un detenuto siracusatimes.it, 29 giugno 2016 "Corrispondenze" è il nome di un docufilm che racconta la reclusione nelle carceri in Sicilia. Un profondo e intenso esperimento visivo, un progetto importante, made in sicily, filmato da Joshua Wahlen e Alessandro Seidita, realizzato con il sostegno della Regione Siciliana, Assessorato Turismo Sport e Spettacolo - Sicilia Film Commission, la collaborazione del Comune di Palermo e il patrocinio della Fondazione con il Sud. "Immagini e visioni che prende forma a partire dall’incontro tra Antonino Montante, poeta di Avola, e Diego Pappalardo, detenuto nel carcere di Noto. Diego confida al poeta il senso di solitudine provato, il desiderio di vivere una vita normale. Chiede così al letterato di raccontargli della terra che ha lasciato e di come la ritroverà non appena sarà in libertà. La richiesta diventa, per il poeta, l’occasione per tracciare un panorama emotivo della Sicilia, un racconto visivo che punta a catturare l’aspetto intimo e umano dell’Isola". "Corrispondenze" vanta la preziosa partecipazione di Franco Battiato, Mimmo Cuticchio e Aida Satta Flores. Il documentario è nato grazie alla collaborazione con i detenuti della Casa di Reclusione di Noto e del poeta Sebastiano Burgaretta e non è un caso se la sua anteprima nazionale si svolge. tra il 27 e il 28 giugno, nei teatri della Casa di Reclusione Ucciardione e della Casa Circondariale Pagliarelli. Le proiezioni, infatti, sono prima di tutto rivolte ai detenuti degli istituti penitenziari, sono loro i primi critici di questa opera cinematografica, i primi testimoni del risultato del documentario. "Corrispondenze" è un viaggio mentale nella Sicilia poetica e cruda, il nomadismo esistenziale di Antonino Montante. Racconto biografico del poeta, del recluso, dell’asceta, del mercante, carteggio interiore di figure picaresche che svelano la labilità dell’io, inciso sulla sabbia, fischiato dal vento. Questa è la storia del confronto con l’altro, e dunque del confronto con sé, ritrovato oltre le insidie del mondo contemporaneo. La vendetta degli sconfitti di Rita Di Leo Il Manifesto, 29 giugno 2016 Nelle democrazie consolidate "il popolo" e cioè i disoccupati, i precari, le periferie hanno usato il voto per vendicarsi. La vendetta riguarda le sconfitte economiche/politiche e l’emarginazione sociale subite senza potersi difendere. Per difendersi avevano bisogno di rappresentanti all’altezza dei loro bisogni sotto scacco e che avessero un’alternativa alla crescente deindustrializzazione, alla flessibilità del lavoro, alla ghettizzazione urbana. Rappresentanti che nei governi locali, nelle istituzioni nazionali e transnazionali avessero una politica contrapposta all’altra in corso. E cioè alla politica che ha abdicato al suo ruolo e si fa suggerire dall’economia come democraticamente realizzare le esigenze dell’economia. Esigenze di valore universale: meno lavoro operaio significa un minor prezzo del bene prodotto e dunque un vantaggio anche per l’operaio che ha perso il lavoro. Il mercato unico e l’appuntamento elettorale son divenute una sorta di brevetto di legittimazione di come si deve stare nel mondo. È poi quel mondo in cui il dito viola dell’elettore analfabeta e il degrado di città come Detroit o Manchester o Bagnoli testimoniano la guerra combattuta, vinta dagli uni e persa dagli altri. Coloro che l’hanno vinta si son resi conto che potevano vincerla quando hanno capito di non avere più avversari. E anzi che il loro governo del mondo era accettato da chi nel passato lo combatteva in campo opposto. The unipolar moment è stato giustamente esaltato dai neo-conservatori di George Bush come la fine di una cogestione dello stato delle cose nel mondo. L’esaltazione conseguiva dalla dissoluzione dell’avversario, dalla sua sparizione non solo dal terreno geopolitico ma anche dal cielo teorico. Le idee "contro" sono state le prime a sparire, sostituite da proposte "per" che nel breve periodo si sono adeguate alle strategie di potere di chi aveva in mano le carte vincenti. E la partita si avvaleva di sofisticati mezzi di comunicazione politica che la identificava come la partita di tutti per il progresso e la libertà politica per tutti. È stata la partita che gli avversari di ieri hanno fatto vincere senza combattere. E l’hanno fatta vincere perché avevano smarrito le coordinate di ieri: era meglio difendere il lavoro dell’operaio o il diritto del consumatore? L’interrogativo avendo a che fare con l’economia, è stato di per sé una messa in non cale della politica. Della politica progetto con programmi per i rappresentati e percorsi di realizzazione dei programmi per i loro rappresentanti. Difatti quell’interrogativo era già oltre le coordinate di ieri, non vi erano più due campi concorrenti, avversari, nemici. Sull’unico campo visibile vi era l’interesse comune per il bene comune, identificabile con etichette da considerare sacre come globalizzazione e democrazia. Guai ad avere dubbi sulle conseguenze dell’una o sulla praticabilità dell’altra. Il rischio minimo è l’accusa di non saper accettare la morte delle ideologie, la fine dei partiti di massa, il superamento delle lotta di classe, anzi delle classi. Rimane consentito - seriosissimamente - indagare sulle diseguaglianze di reddito, su ricchi e poveri, sul ritorno da protagoniste delle èlite, sul loro rapporto con le masse. Un rapporto che ridà consistenza alla democrazia plebiscitaria, a quella diretta, a quella referendaria. Un rapporto che nessuno si azzarda a riconoscere (ed averne paura) come il principale effetto della sconfitta subita allorché si è rimasti senza più idee "contro". Nessuno più si aspetta che esistano ancora idee differenti da quelle messe sugli altari dagli uomini del potere economico transnazionale. È in questo spazio che va inserito il voto di vendetta espresso in diverse occasioni e luoghi. La vendetta ha a che vedere con la solitudine in cui si trovano coloro che hanno perso con il lavoro un ruolo sociale e un peso politico e i giovani, lasciati allo sbaraglio dal venir meno di tutto ciò che i padri avevano conquistato. Per i giovani è un voto contro i padri che si sono arresi e per chi si è arreso è un voto contro chi non li ha fatti lottare. P.S. Le disquisizioni sul populismo di destra e di sinistra sono per coloro che lo studiano. Brexit, una lezione per l’Italia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 29 giugno 2016 Su consultazioni così importanti è meglio non aggiungere un carico politico. "L’Europa vive di crisi", disse il cancelliere tedesco Helmut Schmidt in una conferenza tenuta a Londra nel 1974. Ora alle crisi in corso (quella economica e quella migratoria) si aggiunge l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, dettata da tre motivi: la percezione di esser invasi da stranieri (ma sono solo il decimo della popolazione, contro il sesto di Austria, Svezia e Belgio); l’antico senso di superiorità, alimentato dall’ammirazione francese per la civiltà inglese (si pensi a Montesquieu e a Voltaire) e dalla critica britannica della rivoluzione francese (si pensi a Burke); l’orgoglio della piccola nazione che per lungo tempo ha dominato il mondo. Il Regno Unito, entrato nell’Unione Europea un quindicennio dopo la sua istituzione, da un lato è stato sempre sulla porta, chiedendo continue clausole di esonero, dall’altro ha influenzato fortemente la costruzione europea con la sua prevalente ideologia liberista e l’amore per la regolazione e le autorità indipendenti. Ora cade l’accordo raggiunto il febbraio scorso per la permanenza del Regno Unito nell’Unione e inizia un negoziato molto complesso. Le linee guida del negoziato saranno definite all’unanimità dal Consiglio europeo, in cui siedono i 27 governi. Sarà scelto un negoziatore. Alla fine, l’accordo dovrà essere approvato prima dal Consiglio con una maggioranza del 72% rappresentativa del 65% della popolazione europea, poi dal Parlamento europeo con una maggioranza semplice . Alla fine, senza drammatizzare e senza tergiversare, 73 componenti del Parlamento europeo, 24 membri del Comitato delle regioni, 25 membri del Comitato economico e sociale dovranno prendere la strada di casa, mentre è probabile che i quasi 1.500 funzionari della Commissione e di altri organi amministrativi possano restare a Bruxelles. Il Regno Unito spenderà meno (contribuisce all’Unione - grazie a un trattamento di favore rispetto agli altri Stati - con 11 miliardi, ne riceve 7), ma perderà molto (i benefici derivanti dal solo mercato unico sono equivalenti a una cifra oscillante tra 5 e 15 volte il contributo netto del Regno Unito all’Unione). La decisione suicida, raggiunta da una minoranza (ha optato per uscire il 37 per cento degli aventi diritto al voto), ha lasciato una larga parte della popolazione inglese in uno stato di choc non diverso - è stato notato da uno studioso britannico - da quello che seguì l’esecuzione di Carlo I nel 1649 o la dichiarazione di guerra nel 1939. Poiché il Regno Unito non può fare a meno dell’Unione, ad esso restano solo tre soluzioni. Una è quella della Svizzera, che ha circa 120 accordi con l’Unione europea. L’altra è quella di un accordo di associazione (l’Unione ne ha moltissimi, con Paesi che vanno dall’Egitto all’Ucraina). L’ultima è l’adesione allo Spazio economico europeo, una sorta di unione meno sviluppata. La conseguenza è che il Regno Unito prima stava nella "stanza dei bottoni", ora dovrà negoziare; le condizioni non saranno sempre quelle dettate dal suo esclusivo interesse; troverà lo scoglio della libertà di circolazione, uno dei quattro pilastri dell’Unione. L’altra parte, l’Unione esce da questa vicenda indebolita (perché perde uno dei 28 membri), ma anche rafforzata (mai come in questo caso sì è formata una opinione pubblica europea: basti pensare all’effetto di rimbalzo avuto dalla vicenda inglese sulle elezioni spagnole). Ora tutti chiederanno all’Unione più capacità di decisione. Ma questo vuol dire un ruolo minore per il Consiglio (dove siedono i governi), più forte per la Commissione (che rappresenta lo "spirito comunitario") e meno decisioni prese all’unanimità (dove tutti hanno un potere di veto), più decisioni adottate a maggioranza (dove gli Stati possono essere costretti a seguire scelte che non condividono). Ciò comporta un ulteriore passo indietro dei governi nazionali, che vogliono tenere al guinzaglio l’Unione, comportandosi come padri che impediscono al figlio di allontanarsi troppo da casa. Un atteggiamento condiviso dalla stessa Germania, che insiste perché gli Stati rimangano "padroni dei trattati". Un referendum come quello inglese non sarebbe stato possibile in Italia, dove saggiamente la Costituzione non l’ammette per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Dal referendum inglese c’è però una lezione che possiamo trarre per l’Italia. Il referendum è un esempio di "single issue politics". Con esso si chiede al popolo una cosa sola. Caricarlo di altri significati, facendolo diventare una decisione su problemi complessi, ne snatura la funzione e sottopone a sentimenti, umori, ideologie collettivi compiti che per le nostre democrazie spettano ai Parlamenti. Per l’Italia seggio all’Onu, dividerà il periodo nel Consiglio di sicurezza con l’Olanda di Paolo Mastrolilli La Stampa, 29 giugno 2016 Svezia eletta al Consiglio di Sicurezza, Roma a sorpresa resta lontano dal quorum Dopo la quinta votazione arriva l’intesa con L’Aja: un anno di mandato a testa. Thriller diplomatico all’Onu, che si conclude con una soluzione salomonica nella sfida tra Italia e Olanda per un posto nel Consiglio di Sicurezza: dimezzare il mandato, un anno per uno. La maratona diplomatica comincia alle dieci di mattina, quando ministri e ambasciatori si riuniscono nella sala dell’Assemblea Generale per il primo voto. L’Italia sa che la Svezia nelle ultime settimane ha recuperato molte posizioni, ma spera che abbia tolto voti soprattutto all’Olanda. Noi contiamo sull’appoggio del blocco africano, il Medio Oriente e l’America Latina. L’Europa si è divisa, appoggiando però in maggioranza i nostri avversari, mentre l’Asia e i caraibici ci hanno voltato in gran parte le spalle. Quando il presidente dell’Assemblea Generale, il danese Mogens Lykketoft, annuncia i risultati del primo scrutinio, c’è subito una sorpresa: la Svezia prende 135 voti e viene eletta. Alle sue spalle c’è l’Olanda con 125, vicina al quorum dei due terzi, e solo al terzo l’Italia, con 113 voti. Gli impegni che avevano raccolto alla vigilia erano superiori, almeno venti voti in più, e quindi qualcuno nel segreto della consultazione ci ha traditi. Il sacrificio per salvare i migranti, il lavoro nelle missioni di pace, e la competenza nell’area del Mediterraneo e Medio Oriente non sono bastati. Nel frattempo Bolivia ed Etiopia vengono elette per i posti riservati all’America latina e all’Africa. In queste situazioni si passa al ballottaggio a due, e se necessario al voto ad oltranza, fino a quando uno dei candidati rimasti non supera il quorum. Il ministro degli Esteri Gentiloni (che alla fine dirà: "È stata una dimostrazione di unità dell’Europa"), l’ambasciatore Cardi, il vice Lambertini e tutta la squadra dei diplomatici italiani passa tra i banchi a stringere mani, scambiare commenti, cercare di consolidare i nostri voti e conquistare altri. L’Olanda è più vicina al traguardo, ma nella seconda votazione nessuno raggiunge il quorum. Sono loro che perdono più consensi, scendendo da 125 a 99, mentre l’Italia cala da 113 a 92. Questo può essere un segnale incoraggiante: forse l’idea di mandare nel Consiglio due Paesi nordici sta frenando i sostenitori dell’Aja. Il Kazhakstan intanto batte la Thailandia e conquista il seggio asiatico. Si passa alla terza votazione, ma anche questa non dà risultati. Anzi, l’Italia recupera e quasi raggiunge l’Olanda: 96 voti per loro, 94 per noi. Il presidente dell’Assemblea allora sospende le votazioni per il pranzo: si continuerà ad oltranza, ma alle tre del pomeriggio, quando in Italia saranno le nove di sera. Gentiloni si chiude con i suoi collaboratori in un salottino dietro all’Assemblea Generale, e tutti si mobilitano per recuperare voti: telefonate alle capitali, contatti diretti al Palazzo di Vetro, strette di mano. Anche la mensa e la delegate lounge, dove si prende il caffè, diventano i luoghi per negoziati dell’ultima ora. Secondo le stime di una fonte italiana impegnata direttamente nelle trattative, noi abbiamo un blocco solido di circa 45 voti africani, 20 mediorientali e 20 sudamericani. L’Europa sta in larga parte con l’Olanda, facendoci forse pagare la decisione presa nel 2009 dall’allora ministro degli Esteri Frattini di inserirci nella competizione, dopo che Svezia e Olanda avevano già presentato la candidatura. L’Estremo Oriente sta con i nostri avversari, così come i Caraibi, legati all’Aja anche dalle relazioni seguite all’epoca coloniale. La strategia ora è conservare il blocco dei nostri voti, cercando di aumentarli lavorando sulle aree dove siamo più forti, che sono anche le regioni dove ci sarebbe più interesse geopolitico ad avere un paese del sud Europa in Consiglio. Neanche le concitate trattative dell’ora di pranzo, però, sbloccano lo stallo. Anzi: nella quarta votazione l’Olanda conserva i suoi 96 voti e l’Italia sale a 95. Si va al quinto scrutinio, dove possono presentarsi altri candidati, ma lo stallo si accentua. Parità: Olanda 95 voti, Italia 95. L’ambasciatore Cardi confabula col collega olandese, davanti al ministro Gentiloni, e poi vanno a braccetto fuori dall’aula. Nel nome dell’unità europea, all’opposto di quanto è successo con la "Brexit", dividono il mandato. Il premier Renzi e il collega olandese accettano il compromesso. L’Aja si ritira e Roma viene eletta, ma dopo un anno si dimette. A quel punto viene indetta una nuova elezione, con l’Olanda come unico candidato. Una delusione, certo. Ma anche una soluzione per salvare la faccia, e creare un embrione di seggio europeo. Anche alla quarta votazione c’è stata una fumata nera per Italia e Olanda. L’Italia ha ottenuto 95 voti e l’Olanda 96. Già al primo turno nella votazione per il seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu nessuno dei due Paesi aveva ottenuto il quorum per l’elezione come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza al secondo turno. L’Italia ha ottenuto 92 preferenze e l’Olanda 99. Al primo turno la Svezia era passata superando la soglia dei 128 voti necessari. L’Olanda è arrivata seconda, senza però superare il quorum, e l’Italia terza con 113 voti. Tra gli altri gruppi geografici, la Bolivia è stata eletta con 183 voti per l’America Latina e Caraibi, l’Etiopia con 185 voti per l’Africa. Oltre il secondo seggio per l’Europa Occidentale che vede in lizza Italia e Olanda rimane da assegnare anche il seggio per il gruppo Asia-Pacifico, che vede il ballottaggio tra Tailandia e Kazakistan. Dal 1 gennaio i cinque nuovi membri non permanenti sostituiranno gli uscenti Spagna, Nuova Zelanda, Angola, Venezuela e Malesia. Rimangono per il 2017 Egitto, Giappone, Ucraina, Senegal e Uruguay, oltre i cinque Paesi con un seggio permanente, ossia Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina. A Roma gli Stati Generali dell’Accoglienza ai migranti: che fare? di Francesco Moroni La Stampa, 29 giugno 2016 Si è parlato di "accoglienza emancipante" e dell’urgenza di cambiare prospettiva: "Le politiche di integrazione devono generare consenso, non nascere dal dissenso". Tutti i principali attori italiani impegnati nell’affrontare il fenomeno dell’emergenza migranti, si sono riuniti durante l’incontro "Accogliamoci tutti: nuove modalità e prospettive di accoglienza per i rifugiati". Quarantotto ore di interventi, tavole rotonde e dibattiti che dal 24 al 25 giugno hanno coinvolto i molti partecipanti alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma "La Sapienza". L’incontro è iniziato analizzando l’emblematico caso di Riace, piccolo comune calabrese dove l’economia locale è stata in grado di risollevarsi proprio grazie ai migranti, in grado di organizzare il lavoro in cooperative arrivando addirittura ad assumere lavoratori italiani. Il filo conduttore della tavola rotonda è stato la preponderante necessità di nuovi interventi governativi e strutturali che assicurino una continuità nel lavoro d’accoglienza, che non può fermarsi ad un livello preliminare. "Il nostro obiettivo immediato, una cura verso i problemi dei migranti, è quello di fornire "un’accoglienza emancipante", un’accoglienza che liberi dall’accoglienza - sostiene Maria Silvia Olivieri, Servizio centrale Sprar. Occorre superare l’idea che l’accoglienza debba fermarsi semplicemente ad un livello preliminare: è necessario accompagnare i migranti in un percorso di autonomia e reinserimento sociale, che vi sia un prima e un dopo. In 11 anni di attività, non si era mai registrato un così alto numero di nuovi soggetti pronti ad ospitare persone in difficoltà. Ma questo non può bastare. Anche se i centri arrivassero a 2 milioni di posti accoglienza, se mancano politiche integrative e interventi strutturati e continuativi, non ci potrà mai essere uno passo in avanti". Il problema principale sembra quindi essere quello di riuscire ad arginare le barriere imposte che oggi, sempre più, rendono difficile ipotizzare soluzioni e organizzare interventi umanitari, intralciando la già delicata gestione del tema. Risulta difficile inquadrare il fenomeno nella cornice di riferimento adatta, poiché in Italia si parla sempre più di "invasione" e si cercano soluzioni militarizzate, guardando esclusivamente alle conseguenze verso il welfare di un così alto numero di ingressi, senza capire la reale possibilità di trasformare una situazione di "rischio", in opportunità. "Serve assolutamente un cambio di prospettiva verso il fenomeno dell’immigrazione e operare una riforma strutturale del sistema - l’intervento di Enrico Borghi, deputato PD alla Camera e membro del Uncem - Inter-gruppo Parlamentare per lo sviluppo della Montagna -. La questione non può essere competenza esclusiva del Ministero degli Interni, che si occupa della pubblica sicurezza, perché non è esclusivamente un problema di ordine pubblico. Questo è il primo punto, ci stiamo battendo per questo. Bisogna inserire il fenomeno in una cornice d’analisi più ampia, partendo dal concetto di "ospitalità", che esiste se mettiamo in condizione lo straniero di costruire una propria identità, proprio perché non si tratta di un’invasione. Le politiche d’integrazione devono generare consenso, e non trarre la propria forza dal dissenso". L’evento è stato organizzato in collaborazione con la Regione Calabria e il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, con il patrocinio della Camera dei Deputati: ad incontrare professori, esperti universitari e alcuni psicoterapeuti, sono stati Maria Silvia Olivieri, del Servizio centrale Sprar (Sistema Protezione dei Richiedenti Asilo Rifugiati); Enrico Borghi, in rappresentanza dell’Inter-gruppo Parlamentare per lo sviluppo della Montagna; Giovanni Maiolo della Rete Comuni Solidali; Andrea Costa del centro "Baobab Experience"; Carlo Cottatellucci della Comunità di St. Egidio; Giuseppe Pugliese di SOS Rosarno e Alessandro La Grassa del Centro Ricerche Cresm. Droghe: il Libro Bianco spinge la riforma di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 29 giugno 2016 Abbiamo deciso di continuare la redazione dei Libri Bianchi sugli effetti collaterali della legislazione antidroga, anche dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale. Resta in piedi, infatti, la legge Iervolino-Vassalli che segnò la svolta proibizionista italiana. Il Libro Bianco promosso dalla Società della Ragione e condiviso da Forum Droghe, Antigone, Cnca e da numerose associazioni e movimenti raccolti nel Cartello di Genova, anticipa anche quest’anno la Relazione del Governo al Parlamento. Patrizia De Rose, che ha raccolto la difficile eredità di Serpelloni alla guida del Dipartimento delle politiche antidroga, ha il merito di avere riaperto un confronto non ideologico tra il Governo e le Ong, culminato, per ora, in seminari di preparazione e di valutazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dedicata alle politiche sulle droghe tenutasi in aprile a New York. Proprio in questi giorni è tornata a circolare la voce di un azzeramento del Dpa e dell’assorbimento nel Ministero della Salute. Non vogliamo ergerci a difensori di una struttura inventata dalla destra, ma vogliamo discutere pubblicamente delle scelte che riguardano la politica delle droghe che riguardano la politica internazionale, la giustizia, l’informazione, le città, la scuola, lo stato sociale, e dunque ci pare inadeguata una collocazione settoriale di una politica che, viceversa, deve coinvolgere diversi branche della compagine governativa. Piuttosto, quel Dipartimento dovrebbe dismettere quel nome battagliero ereditato dalla furia ideologica dei suoi inventori e meriterebbe un referente politico nella compagine di governo, tra i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Il Governo è invece ancora inadempiente nella convocazione della Conferenza nazionale triennale: l’ultima (finta) occasione di confronto risale al 2009 mentre l’ultima vera addirittura al 2001 a Genova. Recentemente la Consulta ha inferto un altro colpo alla Fini- Giovanardi, cassando l’art. 75bis che prevedeva l’aggravamento delle sanzioni amministrative che rimangono un buco nero dello stigma contro i giovani consumatori. Questa ulteriore decisione - cui si aggiungono alcune recenti sentenze sulla coltivazione della canapa dei tribunali di Ferrara e Firenze - aggrava il giudizio sulla latitanza della politica. Certo alcune novità sono state introdotte negli anni scorsi, soprattutto per rispondere alla situazione insostenibile del sovraffollamento delle carceri per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. E gli Stati generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando hanno dato utili indicazioni per incentivare le alternative al carcere per i tossicodipendenti e per migliorare il trattamento socio-sanitario dei detenuti con problemi di dipendenza. Sono indicazioni positive, ma non sufficienti. In parlamento, oltre alle proposte di legalizzazione della cannabis (ferme, purtroppo, allo stato delle audizioni, ma ora sostenute anche da una campagna di iniziativa popolare), sono state depositate in Parlamento (alla Camera da Fossati e altri, al Senato da Lo Giudice e altri) le nostre proposte per la riforma dell’intera parte sanzionatoria del testo unico 309 del 1990 e la ripresa di adeguate politiche socio-sanitarie per il trattamento delle dipendenze problematiche. Non solo: il Consiglio regionale del Friuli, primo - speriamo - tra altri, ha approvato una "legge voto" per la riforma del testo unico sulla base della nostra proposta. Il solco, dunque, è tracciato e speriamo che il Parlamento e la Conferenza nazionale sulle droghe possano discuterne senza pregiudizi. Turchia: kamikaze all’aeroporto di Istanbul. Il bilancio: 36 morti, 147 i feriti di Raffaella Cagnazzo e Marta Serafini Corriere della Sera, 29 giugno 2016 Nello scalo internazionale tre esplosioni: "È stato un attentato terroristico". I testimoni: "Spari sulla folla". Fonti di polizia: dietro c’è l’Isis. Avrebbe agito un commando composto da 7 persone: oltre ai tre kamikaze, tre sarebbero in fuga, uno arrestato. Attacco terroristico all’aeroporto di Istanbul poco dopo le 21 ora italiana di martedì. Almeno 36 i morti e 147 i feriti, secondo il bilancio diffuso dal primo ministro turco Binali Yildirim. Tra le vittime ci sono cittadini stranieri, un ucraino e un iraniano. Tre i kamikaze in azione. Secondo i testimoni, gli attentatori si sarebbero fatti esplodere all’ingresso del terminal dei voli internazionali. Secondo le prime ricostruzioni dell’attacco terroristico, ad accorgersi di due persone sospette è stato un poliziotto che ha tentato di fermarle e ha chiesto la loro identificazione. In quel momento gli attentatori hanno aperto il fuoco sulla folla. E l’agente di polizia ha ingaggiato un corpo a corpo con uno dei kamikaze che a quel punto ha azionato l’esplosivo. Le tre deflagrazioni sono avvenute nella zona antistante e appena dentro la hall del terminal dei voli internazionali. Molte delle vittime si trovavano vicino alla coda dei taxi, altre nell’area antistante i controlli di sicurezza. Gli attentatori sarebbero arrivati in aeroporto proprio a bordo di taxi. Secondo quanto riferito da fonti di polizia anonime, citate dai media locali, ad entrare in azione sarebbe stato un commando jihadista ispirato dall’Isis e composto da 7 persone. Oltre ai tre kamikaze, fattisi esplodere nell’attacco, ci sarebbero altri tre kamikaze in fuga. Il settimo componente del commando sarebbe stato arrestato e - secondo le prime informazioni trapelate dagli inquirenti - si tratterebbe di una donna. Numerose le ambulanze arrivate sul posto. Le prime immagini mostrate dalla Cnn hanno chiarito l’ingente numero di soccorsi in campo. E la frenesia e la paura dei viaggiatori che fuggivano all’esterno dello scalo, mentre gli agenti di polizia correvano per entrare all’interno dell’aeroporto e bonificare l’area. Le prime immagini pubblicate dai testimoni oculari dell’attacco e dalle persone presenti sul posto hanno mostrato persone ferite a terra all’interno e all’esterno del terminal colpito. Le autorità turche hanno fatto divieto di mostrare foto dalla scena dell’attacco terroristico: una misura che in Turchia è di routine in situazioni di emergenza. Gli ingressi e le uscite dell’aeroporto Ataturk sono stati chiusi, evacuato lo scalo (il terzo più trafficato d’Europa). I voli in arrivo o partenza dallo scalo della capitale turca sono stati sospesi o sono stati dirottati su altri aeroporti. L’aeroporto ha riaperto parzialmente dopo cinque ore di chiusura, un terzo dei voli è stato cancellato. Nessuna rivendicazione è ancora arrivata. E gli investigatori sono cauti sulla natura dell’attacco terroristico. Ma spunta l’ipotesi che dietro l’attentato possa esserci l’Isis. I media turchi parlano di sospetti della polizia turca. I social network funzionano a singhiozzo. Sia Facebook che Twitter risultano fortemente rallentati per gli utenti turchi, al punto da essere di fatto inaccessibili. Rallentamenti analoghi sul web sono avvenuti più volte anche in passato in occasioni di altre azioni terroristiche. L’obiettivo delle autorità di Ankara, tra l’altro, è quello di limitare la circolazioni di immagini e informazioni sull’attentato. La condanna di Erdogan: "Ora lotta comune al terrorismo" - Ferma condanna dal presidente turco Tayyip Erdogan che - in una nota scritta - ha parlato di un attacco terroristico con il chiaro intento di destabilizzare la Turchia, colpendo vite innocenti. Erdogan ha chiesto una "lotta comune" a livello internazionale dopo il triplice attentato suicida che ha colpito l’Ataturk International Airport a Istanbul: " Le bombe esplose oggi a Istanbul sarebbero potute esplodere in ogni aeroporto in ogni città del mondo. Spero fortemente che l’attacco all’aeroporto di Ataturk sia un punto di svolta contro le organizzazioni terroristiche". E quella internazionale: "Attacco atroce" - Ma la condanna per l’attacco terroristico all’aeroporto Ataturk di Istanbul è stato unanime. Gli Stati Uniti hanno definito l’attacco "atroce" e, in una dichiarazione della Casa Bianca, si legge: "L’aeroporto internazionale Ataturk, come l’aeroporto di Bruxelles che è stato attaccato all’inizio di quest’anno, è il simbolo di connessioni e legami internazionali che ci uniscono". "Condividiamo il dolore del popolo turco per le notizie tragiche che arrivano da Istanbul. Eventi di questo tipo a maggior ragione confermano la necessità di una risposta forte e coesa tutti insieme contro la minaccia del terrorismo" il commento del premier Matteo Renzi su Twitter e al termine del vertice Ue a Bruxelles. Il presidente francese Francois Hollande ha condannato "con forza" l’attacco e ha detto che è necessario fare "tutto il possibile per combattere il terrorismo", in particolare nella regione. "La barbarie non vincerà se restiamo uniti" scrive su Twitter il primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy condannando l’attentato. Attivata l’unità di crisi della Farnesina - L’unità di crisi della Farnesina è stata immediatamente attivata. "Si sono verificati spari ed esplosioni nelle aree parcheggio dell’aeroporto Ataturk di Istanbul. Si raccomanda di evitare la zona, esercitare massima cautela e seguire scrupolosamente le indicazioni delle autorità locali", si legge sul sito Viaggiare Sicuri. Per la Farnesina non risultano italiani tra le persone colpite. La Turchia è stata colpita in marzo da un attentato ad Ankara che ha causato 37 morti in marzo. E un altro a Istanbul sempre nello stesso mese che ha causato 19 morti. Turchia: la sinistra tedesca denuncia Erdogan per crimini di guerra di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 giugno 2016 La Linke, insieme ad artisti e attivisti, intenta causa contro i vertici di Ankara per gli abusi commessi nell’operazione contro il Kurdistan. Al centro i massacri di Cizre e la repressione dell’opposizione dell’Hdp. La Turchia alle prese con preoccupanti minacce di isolamento regionale lavora per ricucire gli strappi più rischiosi. Se dall’Unione Europa ha l’appoggio necessario a mantenere un sistema sempre più autoritario, ora il presidente Erdogan punta al pesce più grosso, la Russia, e a quelli importanti per il ruolo di leader regionale che da tempo prova a ritagliarsi. Così in pochi giorni ha mandato scuse ufficiali a Mosca per l’abbattimento del jet russo, ha firmato con Israele la riconciliazione e ha promesso la ripresa dei rapporti con l’Egitto, messi in discussione dal golpe contro i Fratelli Musulmani. Il Cairo si dice interessato in cambio del riconoscimento turco della legittimità del colpo di Stato. Per ogni pezza messa, però, si apre un altro squarcio che svela la vera faccia di Ankara. Apparentemente poca cosa rispetto all’impunità internazionale di cui Erdogan gode, ma importante a mantenere viva l’attenzione sulle politiche repressive: lunedì un gruppo di deputati, artisti e attivisti tedeschi ha intentato causa di fronte al procuratore federale di Berlino contro il presidente turco per "crimini di guerra". Nel mirino stanno gli abusi contro il partito di opposizione pro-kurdo Hdp e la brutale operazione militare in corso da un anno nel Kurdistan turco: oltre 100mila sfollati, centinaia se non migliaia di vittime civili, più di un milione e mezzo di persone colpite dai coprifuoco e dalle operazioni aeree e di terra, secondo i dati della Turkish Human Rights Foundation. In particolare, tra le questioni sollevate nelle 200 pagine di documenti presentati, c’è l’assedio della città di Cizre, teatro di stragi di civili: 178 solo quelli ammazzati mentre si nascondevano nei sotterranei di alcuni edifici della città. A Cizre i locali hanno raccontato di crimini vergognosi, spesso documentati da foto e video: civili in fuga centrati dai cecchini, giornalisti arrestati e colpiti dalle pallottole dei militari turchi, incendi nelle case, uso di gas chimici. E, dopo la fine del coprifuoco durato oltre tre mesi, in primavera sono cominciate le demolizioni di interi edifici, grazie alla legge che ha garantito al governo l’espropriazione di terreni per ragioni militari. Il coprifuoco, spesso ufficioso, però continua in tante altre comunità. Come Sirnak, arrivata al suo 107esimo giorno, e dove ieri i carri armati turchi hanno preso di mira per ore due case. "Un obbligo etico": così le due avvocatesse che hanno intentato la causa, Britta Eder e Petra Dervishaj, definiscono l’iniziativa volta a "promuovere un’azione legale contro la Turchia in Germania, secondo quanto previsto dal diritto penale internazionale". E se Erdogan è la preda più agognata, tra i funzionari chiamati in causa ci sono anche l’ex premier Davutoglu (da poco licenziato dal presidente perché considerato troppo morbido e autonomo) e alti ufficiali di governo, polizia ed esercito. L’azione arriva a pochi giorni dall’approvazione da parte del parlamento turco del disegno di legge del Ministero della Difesa che riconosce piena immunità ai soldati e ai membri dei servizi segreti impegnati in "operazioni di controterrorismo", l’etichetta data da Ankara alla campagna contro il Pkk. Di certo l’iniziativa non aiuterà a rilassare i tesi rapporti tra Ankara e Berlino, messi a dura prova dal voto del Bundestag che riconosce il genocidio armeno. A muoversi, in questo caso, non è l’intero spettro politico né rappresentanti dell’esecutivo della cancelliera Merkel, ma il partito di sinistra Linke con il sostegno di attivisti, avvocati e artisti tra cui il cantautore Konstantin Wecker e l’attore Rolf Becker. Da parte loro i parlamentari della Linke puntano a fare pressione non solo su Erdogan ma anche sul governo tedesco, da tempo sotto accusa per l’estrema debolezza con cui condanna le violazioni strutturali dei diritti umani in Turchia in cambio dell’accordo sui rifugiati siriani. Egitto: la vita dei detenuti è ancora più dura durante il Ramadan di Haitham Gabr (traduzione di Bruna Tortorella) internazionale.it, 29 giugno 2016 Mentre i bambini erano occupati a preparare le decorazioni da mettere in strada per il Ramadan, e gli adulti ascoltavano le previsioni del tempo che consigliavano di non esporsi al sole perché le temperature avrebbero superato i 40 gradi, Heba Ghareeb si apprestava a incontrare il suo fidanzato per la seconda volta in due anni. Si era alzata alle tre di notte, aveva preparato qualcosa da mangiare e da bere, e si era avviata verso Il Cairo da Qanater, nel governatorato di Qalyubiya, alla periferia della capitale. Alle sette di mattina è arrivata a destinazione: la sezione di massima sicurezza di Aqrab, nel complesso carcerario di Tora. Il nome significa scorpione, ma spesso le famiglie dei detenuti la chiamano "la prigione degli spiriti maligni". Il suo fidanzato Ahmed Ali è detenuto lì con l’accusa di spionaggio a favore del Qatar insieme all’ex presidente Mohamed Morsi. La sua condanna a morte è stata confermata il 18 giugno. Ghareeb racconta di essere riuscita a vederlo solo una volta negli ultimi due anni, quando si è ammalato e hanno dovuto portarlo in ospedale. In seguito tutti i suoi tentativi di andarlo a trovare sono falliti. Ha sue notizie solo dai familiari di altri detenuti che riescono a visitare i loro cari. Quando l’8 maggio il fascicolo di Ahmed è stato mandato al gran muftì, Ghareeb ha capito che il suo fidanzato avrebbe passato il Ramadan, e forse molti altri mesi, nel reparto H4, le cui celle in origine erano gabinetti. L’amministrazione, spiega, ha deciso di usarli come luoghi di detenzione per i condannati a morte a causa del forte aumento delle esecuzioni capitali avvenuto negli ultimi tre anni. In una lettera che è riuscito a mandarle, Ahmed descrive così le sue condizioni di vita nel reparto H4: "Quando mi stendo a terra, tocco il gabinetto con i piedi. Non c’è nessuna finestra, solo una fessura nella porta della cella, che viene aperta e chiusa a capriccio dalla direzione del carcere. Non ci sono né lenzuola né coperte, i ventilatori sono vietati, non ci fanno mai uscire e il cibo è immangiabile. Le pareti sono piene di scritte, le storie di vita di tutti i detenuti che sono stati qui. Molti hanno pensato al suicidio perché non sopportavano questo isolamento". Ghareeb racconta di essersi messa in fila con più di duecento persone davanti ai cancelli della prigione. Quando è arrivata lì davanti, l’hanno informata, come molte volte negli ultimi due anni, che quel giorno non sarebbe potuta entrare. Questa volta, il motivo che ha addotto Mohamed Fawzy, il funzionario che si occupa di organizzare le visite, è stato che era arrivata in ritardo rispetto all’appuntamento delle sei. "Avevo prenotato la visita diversi giorni prima", dice. "Speravo di vedere Ahmed prima del Ramadan. Ero in ritardo solo di un’ora, mentre le volte precedenti eravamo arrivati alle cinque e avevamo aspettato quattro o cinque ore, senza sapere se avremmo avuto la possibilità di entrare. Vogliono solo tormentarci". La sofferenza di altre famiglie che arrivano da governatorati più lontani, continua Ghareeb, raddoppia durante il Ramadan. "Alcuni vivono nel Sinai, a Monufiya o Gharbiya. Devono venire due volte: una per prendere appuntamento e un’altra per la visita. E quello che è successo a me succede anche a molti di loro, vengono fino a qui e non possono vedere i loro parenti. Qualcuno passa la notte davanti ai cancelli della prigione per essere già pronto". Linea dura sul cibo - I funzionari della prigione si sono rifiutati di prendere il cibo che ha portato per Ahmed. "In genere non lo accettano", dice Ghareeb. "A volte ne fanno entrare un po’ e confiscano il resto. Una volta, una famiglia ha portato un pollo. Il funzionario ha ordinato che venisse tagliato in quattro, ne ha lasciato passare solo un quarto e si è preso quello che restava. Speravo che la direzione fosse un po’ più comprensiva durante il Ramadan", aggiunge mestamente. Ghareeb pensa che i funzionari di Aqrab adottino questa linea dura per costringere i detenuti a usare la mensa del carcere, dove un pasto costa da 70 a 100 lire egiziane (tra i sette e i dieci euro). Il ministero dell’interno sostiene che un decreto del 1998 ha stabilito quello che devono mangiare i detenuti "in base agli studi fatti dalle autorità carcerarie e dall’istituto nazionale per la nutrizione del ministero della salute. Questo provvedimento ha fatto raddoppiare il precedente costo dei pasti, rendendoli uguali a quelli consumati dalle famiglie della classe media. La legge prevede anche una dieta speciale per gli ammalati, le donne incinte o che allattano, i neonati e i bambini in fase di svezzamento". Nonostante questo, tutte le persone che abbiamo intervistato si sono lamentate della qualità dei pasti della prigione. La maggior parte dei detenuti dipende dal cibo portato da fuori, soprattutto durante il Ramadan. Le famiglie e i volontari hanno escogitato un sistema chiamato tableyya, che consiste nel preparare insieme i pasti di tutti i detenuti di una determinata cella e portarli alla prigione nei giorni di visita a turno, garantendo così l’arrivo regolare di cibo per tutta la settimana. Nella prigione centrale di Giza, i detenuti hanno diritto a un unico pasto freddo a base di pane, formaggio e marmellata, ci ha detto uno di loro in attesa di giudizio. Per mangiare qualcosa di diverso dipendono dal sistema della tableyya, dice, "grazie a cui arriva cibo in abbondanza, che spesso però si guasta a causa del caldo e della mancanza di frigoriferi". Hend al Qahwagy, sorella di Loai al Qahwagy e moglie di Amr Atef, entrambi detenuti nella prigione di Borg al Arab da due anni per aver partecipato a una manifestazione di protesta ad Alessandria, avverte: "Non credete ai giornali quando scrivono che Borg al Arab è un albergo a cinque stelle. Mio fratello e mio marito mi hanno detto che perfino i gatti si rifiutano di mangiare la carne che gli danno due volte a settimana. I pasti della prigione sono orribili. È per questo che le famiglie si sono organizzate per portare da mangiare ai detenuti ogni giorno". I detenuti in attesa di giudizio hanno diritto a una visita a settimana, mentre quelli che stanno scontando una pena possono riceverne una al mese. Durante il Ramadan sono concesse a tutti due visite in più. "Con altre famiglie abbiamo concordato di preparare i pasti per tutti i detenuti della cella - che sono circa 27 - e di portarli ogni giorno a turno", spiega Qahwagy. Da quando il prezzo dei generi alimentari è aumentato, calcola che le due visite settimanali al fratello e al marito le costano 500 lire egiziane ciascuna, per un totale di duemila al mese (duecento euro). "Se fosse solo per il costo dei pasti, non sarebbe un problema", dice. "Ma le condizioni di vita nelle celle sono terribili, soprattutto quando fa molto caldo. Mio fratello mi ha raccontato che per dormire c’è la seconda fila. Attaccano dei sacchi da una parete all’altra con le corde per dormirci sopra, perché il pavimento è troppo affollato. E comunque soffocano dal caldo, nonostante i ventilatori", spiega. Caldo asfissiante e sovraffollamento - Anche la direzione della prigione centrale di Giza ha permesso alle famiglie di portare i ventilatori, ma con il sovraffollamento, il caldo asfissiante e l’alto tasso di umidità non servono a molto. Un detenuto in attesa di giudizio, chiuso in una cella di dodici metri per sei con altre 34 persone, dice: "Vorremmo che i ventilatori funzionassero almeno per cambiare l’aria. La situazione è disastrosa, soprattutto durante il Ramadan, perché per la maggior parte del tempo non c’è acqua". Omar Hazek, che ha passato due anni nel carcere di Borg al Arab prima che gli fosse concessa la grazia dal presidente a settembre, dice che durante lo scorso Ramadan la direzione del carcere ha confiscato i ventilatori e li ha restituiti solo quando un detenuto è morto. Il sovraffollamento è uno dei problemi principali del sistema penitenziario egiziano. Con 62mila persone dietro le sbarre (dato del 2011), secondo un rapporto del Centro internazionale di studi sulle carceri, l’Egitto è al venticinquesimo posto su 223 paesi per il più alto numero di detenuti. Vari osservatori sostengono che adesso questo numero è ulteriormente salito, soprattutto a causa dell’aumento dei prigionieri politici a seguito degli arresti effettuati dopo la deposizione di Morsi del 2013. Sebbene il governo abbia promesso di costruire nove nuove prigioni, il problema sembra persistere. Abbiamo cercato di contattare Hassan al Sohagy, che dirige il dipartimento delle carceri, per chiedergli un commento sulle testimonianze dei detenuti e delle loro famiglie. Il suo ufficio ci ha detto che era in riunione e ci avrebbe richiamato appena finiva. Non lo abbiamo più sentito. Messico: "abusate per farci confessare" letteradonna.it, 29 giugno 2016 Amnesty International ha raccolto le testimonianze di 100 detenute delle carceri messicane, scoprendo che le violenze sono all’ordine del giorno. E sono probabilmente tollerate dallo Stato. La molestia sessuale e psicologica come pratica comune e sistematica per estorcere confessioni alle prigioniere. La denuncia su quanto accade nelle carceri femminili del Messico arriva da Amnesty International, che ha condotto un’inchiesta intervistando 100 carcerate. E se 72 di queste hanno rivelato di essere state molestate subito dopo l’arresto, ben 33 sostengono di essere state violentate. Anche scariche elettriche - Numeri raccapriccianti che svelano una realtà "paurosa", come la definisce Madeleine Penman, autrice del rapporto presentato martedì 28 giugno 2016. E la cosa fa ancora più orrore, se si pensa che, di fatto, si tratta di una vera e propria violenza di Stato. Secondo Amnesty, tra le varie molestie, ci sarebbero anche "palpeggiamenti, scariche elettriche, percosse", sia durante la prigionia che durante gli interrogatori. Inchieste che non portano a nulla - A peggiorare le cose, il dato che riguarda gran parte della popolazione carceraria femminile: si tratta quasi sempre di donne dalle origini umilissime, che non sono in grado di assicurarsi una difesa giudiziaria degna di questo nome. Così, si ritrovano costrette a subire, senza avere la possibilità di sporgere denuncia. E anche se in 22 casi sono state aperte delle inchieste, nessuna di queste si è mai conclusa con una condanna nei confronti dei poliziotti o dei funzionari delle carceri.