L’inferno del 41 bis è di casa a L’Aquila di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2016 Su 131 detenuti sottoposti al regime duro, sette sono donne. Le loro celle si trovano alla fine di un lungo tunnel sotterraneo, sono grandi due metri per due e si affacciano sul nulla. Parliamo del carcere de L’Aquila destinato al 41 bis nel quale su 131 detenuti sottoposti al regime duro, sette sono donne. Tra di loro c’è l’unica detenuta al 41 bis non appartenente alla criminalità organizzata. Parliamo di Nadia Desdemona Lioce, la leader delle ex nuove Brigate Rosse - Partito Comunista Combattente, condannata a tre ergastoli per gli omicidi, commessi con finalità di terrorismo, dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri. Parliamo di una organizzazione brigatista che è stata completamente smantellata nel 2003 con gli arresti. Ed è dal 2005 che il 41 Bis venne applicato ai prigionieri politici arrestati nel 2003 e successivamente condannati per appartenenza alle Nuove Brigate Rosse. Nadia Lioce detenuta a L’Aquila, Marco Mezzasalma detenuto a Parma, Roberto Morandi detenuto a Terni. Il 29 novembre 2014, il personale di Polizia penitenziaria della casa circondariale dell’Aquila, sottrasse alla disponibilità di Nadia Lioce materiale di cancelleria, libri e quaderni, condannandola al silenzio, a una condizione d’isolamento totale e perenne, all’inaccettabile limitazione della naturale estrinsecazione della personalità umana, con conseguente cancellazione dei più basilari e inviolabili diritti umani. La Lioce, di proroga in proroga, è condannata a rimanere al regime duro. Se ufficialmente la finalità del 41 bis sarebbe quella di recidere i rapporti con le organizzazioni di appartenenza, non si capisce che senso abbia la carcerazione dura nei suoi confronti visto che le cosiddette Nuove Brigate Rosse sono state smantellate nel 2003. Il ministero di Giustizia, che aveva rinnovato il regime del 41 bis sulla base di vecchie sentenze, giustificò la sua decisione spiegando che "non ha mutato posizioni ideologiche, mantiene la leadership dell’organizzazione terroristica e c’è il pericolo concreto che riprenda contatti con altri militanti che potrebbero avere la disponibilità dell’arsenale dell’organizzazione, non ancora localizzato". Per gli esperti dell’Ucigos - l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali - Nadia Lioce, se detenuta in regime ordinario, potrebbe riallacciare i rapporti non solo col cosiddetto fronte carcerario, cioè con gli altri terroristi in prigione, ma anche con i brigatisti non ancora individuati e tutt’ora a piede libero. Erano di diverso avviso, invece, i giudici del tribunale di Sorveglianza di Roma e de l’Aquila che criticarono il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per la "lesione di diritti inviolabili" e "l’inaccettabile sacrificio della dignità umana". Per l’avvocato Carla Serra sono in gioco alcuni diritti fondamentali, compressi da un provvedimento - il 41bis - che dovrebbe essere transitorio che invece "mira ad annientare l’identità stessa dell’individuo detenuto". L’altra detenuta a cui è stato applicato il 41 bis per parecchi anni era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse. In una lettera scritta dal 13 al 23 maggio del 2009, in cui si susseguono frasi deliranti di ogni tipo, la Blefari diceva: "Se vogliono che mi cucia la bocca, me la cucio. Se vogliono che parlo, dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non posso più stare così. Io non so proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pietà. Basta, basta, basta! Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco e mi ammazzo e vi libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne posso più". Gli inquirenti - spinti probabilmente da quel retro-pensiero che si insinua pericolosamente in ogni dove - hanno interpretato queste parole come un messaggio verso l’esterno, rivolto a presunti referenti che avrebbero dovuto dare indicazioni sul suo modo di comportarsi. In realtà la Blefari nel suo fare ondivago e schizofrenico - attestato dalle perizie mediche- meditava altro. Infatti si suicidò il 31 ottobre del 2009 nel carcere di Rebibbia. Quel fuoco amico dei magistrati sull’anticorruzione di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2016 Ha mille volte ragione Piercamillo Davigo a scagliare le sue brillanti folgori sui politici, sui disastri provocati dai reati economici, sugli indagati per pedofilia cui nessuno affiderebbe i figli in attesa della Cassazione. Davigo è proprio così, anche a telecamere spente: spiritoso, puntuto, veloce. Infatti la politica si arrabbia quando ne evoca lo smarrito senso di vergogna e l’immobilismo sui rimedi urgenti da adottare perché la giustizia funzioni meglio. Ma ha mille volte torto il presidente dell’Anm quando dirige tanta energia mediatica - inedita per il sindacato delle toghe - contro le fragili difese fin qui faticosamente allestite per arginare la corruzione, irridendone il senso e sminuendone l’efficacia. Pochi giorni fa, l’editorialista Moisés Naìm elencava i Paesi sudamericani che stanno iniziando a combattere la corruzione, diffusa ed endemica a quelle latitudini. "Giudici e procuratori coraggiosi - scrive Naìm - combattono con successo i corrotti, anche quelli che sembravano intoccabili. Ma la lotta alla corruzione non deve dipendere dalla buona volontà o dal coraggio degli individui, bensì dalle regole che la disincentivino, eliminino l’impunità, aumentino la trasparenza". L’azione repressiva di per sé è la fase primordiale, necessaria e insufficiente per sconfiggere il fenomeno. Così è stato per Tangentopoli, non seguita da un utile cambio di regole. Perché l’ambiente sociale non migliora con un processo via l’altro, ma solo con nuovi assetti che, muovendo dalle inchieste, le superino in visione strategica. È come se i magistrati, per bocca del loro leader sindacale esprimessero fastidio e sfiducia per l’Autorità anticorruzione, la quale tuttavia non nega l’utilità dell’azione penale, ma cerca di prevenirla. Ma se l’Anac è inutile, quale dovrebbe essere il passo successivo? Scioglierla e affidare solo alle toghe il controllo di legalità? Tutto si può discutere, ma resta che, sbeffeggiando il codice appalti, il whistle-blowing, i piani anticorruzione di enti e amministrazioni, l’ombra dell’inutilità e dell’azione di facciata si allunga a tutte le esperienze di antimafia partecipata, antesignane della vigilanza civica che contribuisce a contrastare la corruzione e ne denuncia gli episodi. Tutte infrastrutture istituzionali e sociali ben sperimentate nei Paesi spesso citati come esempi da imitare. Un simile fuoco amico sugli alleati soddisfa certamente i palati togati, tanto golosi di autoreferenzialità ("Siamo l’unica garanzia di onestà") quanto rigidamente corporativi, ma i cui limiti e inadeguatezze Davigo conosce a fondo anche perché - date le sue doti tecniche e personali - è tra i nomi più gettonati per difendere i colleghi sottoposti alla sezione disciplinare del Csm. Eppure insiste nel calamitare ogni compito verso la categoria: se non si intercetta, non si arresta, non si condanna, tutto il resto è inutile. E anche se è ovvio che l’azione repressiva si può attivare solo dopo che un reato è avvenuto, non si comprende in che modo lo sforzo diffuso di prevenzione stimolato dall’Anac possa ostacolare le indagini, tanto da provocare la sarcastica e dannosa reazione dei titolari dei processi. Forse la magistratura associata ritiene che la via giusta sia quella indicata dai sindaci eletti per il Movimento 5 Stelle, cioè quella di portare in procura ogni atto che desti i loro sospetti. Ma anche qui le conseguenze sono ovvie e controproducenti: stante l’obbligo di azione penale, i pubblici ministeri diventerebbero i consulenti-supplenti delle giunte comunali, mentre sarebbe, piuttosto, l’ora che anche la politica si assumesse le proprie responsabilità, come hanno fatto (o tentano di fare) le imprese con i loro protocolli, i codici etici, le white list, il rating di legalità. Tutto fumo negli occhi, pensano Davigo e i suoi, almeno quanto le segnalazioni di operazioni sospette o i modelli della legge 231. Che sono, invece, i passaggi giusti per raggiungere l’obiettivo finale: ridurre la corruzione modificando alla radice i comportamenti delle persone, anche giuridiche. La paura del teste, ultimo giallo di Mafia Capitale di Errico Novi Il Dubbio, 28 giugno 2016 Tra pm e avvocati lite sui "timori" di Roberto Grilli. Un anno fa il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone spiegava nelle interviste perché fosse legittimo considerare effettivamente "mafiosi" gli imputati del maxiprocesso Mafia Capitale. Perché la rete di traffici e corruttele per la quale sono tuttora a giudizio 46 persone (senza considerare gli imputati dei procedimenti minori) ricadesse senz’altro nel 416 bis. Quattro giorni fa a Palermo il capo dei pm romani, in un dibattito su mafia e corruzione a Palazzo di Giustizia, non si è sbilanciato sull’effettiva natura dei reati contestati a Salvatore Buzzi e ai suoi collaboratori: "Ci sono processi in corso: saranno i giudici, dal primo grado alla Cassazione, ad affermare se si tratta di associazione mafiosa o meno". Una comprensibile strategia "difensiva". Sul fatto che bastasse il rapporto con una figura dello spessore di Carminati a qualificare le gesta di Buzzi ed altri come assimilabili a quelle di una cosca, su questo snodo decisivo di Mafia Capitale si sono consumate le discussioni più aspre tra pm e difensori. La contesa tra pm e avvocati - Meglio sospendere la contesa mediatica su un terreno che sembra scivoloso quanto meno per entrambe le parti. Il punto è che lo scontro continua in aula. Davanti al collegio della decima sezione penale del Tribunale di Roma, presieduto da Rosanna Ianniello. Scontro che ora si è ravvivato attorno alla deposizione di uno dei teste chiave, Roberto Grilli, lo "skipper" della barca sequestrata nel 2011 al largo della Sardegna con mezza tonnellata di cocaina purissima a bordo. Grilli avrebbe voluto avvalersi della facoltà di non rispondere, cosa impossibile vista la sua posizione di testimone assistito, poi il 21 giugno ha preso la parola ma ha parzialmente ridimensionato le ricostruzioni fatte in sede di indagini preliminari. Le affermazioni pronunciate in udienza sembrano difficilmente compatibili con l’idea che su Roma insistesse una cupola mafiosa. Ma più di quanto detto da Grilli in aula peserebbe la carta messa sul tavolo dalla Procura, che è riuscita a far acquisire - per ora - agli atti la registrazione del colloquio avuto da Grilli con i carabinieri del Ros quando questi ultimi, lo scorso 10 giugno, gli notificarono la convocazione. È lì che lo "skipper" ha confessato i propri timori di subire rappresaglie da parte di persone vicine al "cecato" Carminati qualora avesse ribadito nel processo quanto detto nella fase delle indagini. Nel cd la "paura" del testimone - Ma appunto nonostante l’asso calato dai pm Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini, da Grilli sono usciti elementi non di straordinario rilievo processuale. "La mia vicinanza a Carminati era un’idea che altri avevano e che io non negavo perché mi consentiva di guadagnare rispetto in certi ambienti, di essere trattato in un certo modo". Grilli ha anche negato di aver mai avuto traffici con il clan camorristico di Michele Senese. Ha detto di essere stato sì avvicinato da un affiliato del boss, ma di aver poi "lasciato cadere la cosa: mi sono ben guardato dal lasciarmi coinvolgere in una situazione di quel tipo". Resta in ballo il cd dei Ros con quelle sue imprecazioni, cose del tipo "dopo questa botta data da me che magari è l’ultimo chiodo per attaccare Carminati, che faccio? Torno per le strade di Roma, così duro una settimana?". Pesa questo, la sua paura. Sta di fatto che sull’utilizzabilità della registrazione gli avvocati della difesa hanno sollevato eccezioni tutt’altro che infondate. E che neppure nell’udienza di ieri la presidente Ianniello ha sciolto la riserva sui punti sollevati dai legali. Sentenze della Corte di Cassazione e della Consulta affermano l’impossibilità di acquisire agli atti "emergenze d’indagine" raccolte con modalità che, di fatto, aggirano la normativa sulle intercettazioni. Inoltre l’uso nel fascicolo processuale di affermazioni che il testimone non ha ripetuto davanti alla Corte sarebbe precluso: la Procura ha ottenuto dai giudici l’acquisizione di questi atti in virtù dell’articolo 500 quarto comma del codice di procedura penale, secondo cui "le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone sono acquisite" se "vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a minaccia". Ma in aula è stato espressamente chiesto a Grilli se avesse subito minacce e lui ha negato. Nella stessa registrazione dei Ros lo "skipper" non parla mai di pressioni effettivamente ricevute, fa solo emergere il proprio generico timore di subire ritorsioni. Secondo i legali insomma quel cd non andava acquisito. Lo ha sostenuto Valerio Spigarelli, difensore di Agostino Gaglianone, anche per conto di altri avvocati, in una delle udienze successive a quella in cui ha deposto Grilli. E su tali eccezioni appunto la presidente Ianniello ieri avrebbe potuto sciogliere la riserva e non lo ha fatto. Segno che un margine di dubbio sulla correttezza delle procedure seguite dagli inquirenti effettivamente esiste. In aula Roberto Grilli, che pure sarebbe un teste chiave, non ha offerto spunti decisivi. Ha descritto un’ambientazione della "cerchia" di Carminati, ha indicato l’ormai famigerata stazione Eni di corso Francia come un snodo chiave, sì, ma soprattutto per i traffici di usurai e persone dedite, come lo stesso Grilli, a traffici illeciti, che ai gestori chiedevano di continuo di cambiare assegni. Lo "skipper" ridimensiona peraltro il peso criminale di figure come Matteo Calvio, il cosiddetto "spezzapollici" di Carminati: "Mi è venuto da sorridere nel vederlo chiamare così sui giornali: mi era sempre sembrato niente più che un fanfarone". Sulla testimonianza di Grilli pesa quanto da lui affermato a inizio deposizione, e cioè che è stato l’avvocato Alessandro Capograssi a suggerirgli di dare una rappresentazione "ingigantita" dei suoi rapporti con Carminati. Le valutazioni su questi ultimi sviluppi possono essere due e di segno opposto. La prima, che la Procura cerchi di ricorrere anche a qualche forzatura procedurale pur di dare sostanza a un’accusa di mafia vacillante; che debba inseguire l’ "incidente", senza il quale si dissolverebbe tutta la scenografia mediatica delle indagini. Ma passaggi come quello della testimonianza di Grilli potrebbero prestarsi anche a una lettura opposta, e cioè avvalorare l’idea di un persistente clima di intimidazione, in grado di materializzarsi in sanguinose ritorsioni anche ora che il presunto mandante di ogni nefandezza, Carminati, è al 41 bis. Si tratta in ogni caso di una strada che l’accusa è costretta a percorrere con grande affanno. Anche attraverso carte a sorpresa come quella della registrazione effettuata dal Ros all’insaputa di Grilli e che neppure può essere considerata definitivamente acquisita al processo. Revoca della condanna se l’indagato non ha firmato per l’avvocato d’ufficio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza del 27 giugno 2016 n. 26631. Può essere un boomerang per la polizia giudiziaria assegnare comunque un avvocato d’ufficio allo straniero che si rifiuti di firmare il verbale contenente l’elezione di domicilio. L’assenza della sottoscrizione dell’indagato, infatti, dà luogo alla rescissione del giudicato per "incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza del 27 giugno 2016 n. 26631, accogliendo il ricorso di un cittadino rumeno condannato per resistenza a pubblico ufficiale. Il ricorrente, infatti, a mezzo di un legale munito di procura speciale, ha chiesto la rescissione del giudicato ai sensi dell’articolo 625-ter del Cppin quanto era venuto a conoscenza della sentenza di condanna "solo casualmente", quando "in occasione di un controllo effettuato presso l’ufficio esecuzioni penali, aveva appreso dell’emissione del provvedimento di cumulo, non ancora notificatogli". Il condannato aveva così dedotto di non aver avuto neppure notizia dell’avvio del procedimento né tantomeno della sentenza di condanna, in quanto le notifiche erano state effettuate presso il difensore d’ufficio, "sebbene non avesse mai dichiarato di voler eleggere domicilio presso detto difensore". Non solo, egli non aveva "mai avuto contatti con il difensore d’ufficio" e "il verbale di elezione di domicilio non era redatto nella sua lingua né egli lo aveva sottoscritto". Doglianza accolta dalla Suprema corte secondo cui l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non è scaturita "in alcun modo dalla espressa volontà dell’indagato, che ha rifiutato di sottoscrivere il verbale e, comunque, non ne ha convalidato il contenuto dichiarativo". Per cui "la ritenuta elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio assegnatogli dalla polizia giudiziaria deve ritenersi tamquam non esset, in quanto non esplicitamente proveniente dall’indagato e non effettuata con le modalità stabilite dall’art. 162 cod. proc. pen.". Spiega più avanti la Cassazione che l’elezione di domicilio è un "atto personalissimo dell’indagato, che non ammette equipollenti", per cui "deve essere integrata da una consapevole ed esplicita manifestazione di volontà della persona che la effettua: volontà, il cui primo e rilevante indice dimostrativo non può che essere costituito dalla sottoscrizione del documento che tale volontà contiene ed esteriorizza". In questo senso, prosegue la sentenza, "il rifiuto della sottoscrizione del verbale implica il rifiuto di eleggere domicilio e la conseguente nullità delle notificazioni eseguite in un luogo non scelto né approvato dall’imputato (n. 43796/2014)". Ne discende, conclude la Corte, che l’imputato non ha avuto conoscenza del processo "non per sua colpa cosicché la sentenza di condanna deve essere revocata con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale di Torino, e contestualmente va accolta l’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza revocata. Sì alla custodia in carcere per chi viola i domiciliari di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 12 ottobre 2015 n. 40994. La Cassazione (n. 40994/2015) fa chiarezza sulla disciplina delle misure cautelari applicabili nel caso di evasione (articolo 385 del Cp), approfondendo le diverse ipotesi del procedimento per il reato di evasione e del procedimento "principale" nel cui ambito è stata disposta la misura trasgredita. Arresto per evasione: l’applicabilità del carcere - Nel primo caso, oggetto della questione devoluta alla Corte di legittimità, la disciplina è rinvenibile nell’articolo 391, comma 5, del Cpp, che riguarda l’ipotesi dell’arresto per il reato di evasione, consentito anche fuori dei casi di flagranza ex articolo 3 della legge n. 203 del 1991. In tale evenienza, secondo la Corte, è previsto che il giudice, nella ricorrenza del compendio indiziario e delle esigenze cautelari, possa disporre la misura della custodia in carcere anche fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c ), e280 del Cpp. L’articolo 391, comma 5, del Cpp, quindi, fonda l’applicabilità della custodia carceraria nell’ambito del procedimento per il reato di evasione, svolgendo il ruolo di "titolo" legittimante tale più grave misura, altrimenti non applicabile in ragione del principio generale posto dall’articolo 280, comma 2, del Cpp (in termini, Sezione VI, 5 novembre 2013, Sanna). Erronea era stata allora, nel caso di specie, la decisione del tribunale del riesame che, mancando di considerare il disposto di tale disposizione, aveva esclusa la possibilità di applicare la misura della custodia in carcere nell’ambito del procedimento per il reato di evasione, ritenendo che tale misura potesse essere disposta, in sostituzione dell’originaria misura degli arresti domiciliari, solo nell’ambito del procedimento "principale" nel quale, cioè, tale più gradata misura era stata adottata e violata, ai sensi dell’articolo 276, comma 1 ter, del Cpp. La prognosi sulla pena irrogabile - Volendo approfondire il portato della decisione, può sostenersi che all’ applicabilità della misura carceraria non osta il disposto dell’articolo 275, comma 2 bis, del Cpp, secondo cui la misura carceraria non può (potrebbe) essere disposta se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni (ipotesi di evidente ricorrenza nel caso di specie ove si considerino i limiti edittali dell’ipotesi base dell’evasione: da uno a tre anni di reclusione). In realtà, la regola stabilita nell’articolo 275, comma 2 bis, del Cpp non appare qui utilmente invocabile, per una serie convergente di considerazioni. Intanto, perché, proprio seguendo e sviluppando il ragionamento della Corte, è l’articolo 391, comma 5, del Cpp che legittima di per sé l’applicazione della misura carceraria, con la conseguenza che non assumono rilievo, in senso contrario, non solo il disposto dell’articolo 280, comma 2, del Cpp, sui limiti edittali in generale previsti per l’applicazione del carcere, ma anche quello dell’articolo 275, comma 2 bis del Cpp, sul giudizio prognostico che il giudice deve formulare rispetto alla pena cui il soggetto potrebbe essere condannato. In secondo luogo, perché lo stesso articolo 275, comma 2 bis, del Cpp, attraverso il richiamo alle ipotesi di cui agli articoli 276, comma 1 ter, e280, comma 3, del Cpp, esclude che il limite di applicabilità della custodia carceraria basato sul giudizio prognostico relativo alla pena irrogabile con la condanna possa applicarsi nelle ipotesi ivi previste di trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare: tra le quali ipotesi, indubitabilmente, rientra l’evasione, che costituisce una evidente trasgressione alle prescrizioni della misura cautelare (cfr. Sezione V, 18 aprile 2008, Mannino). Il procedimento "principale": le misure applicabili - La Corte dopo avere stabilito l’erroneità della decisione intervenuta nell’ambito di procedimento per il reato di evasione, ha però opportunamente colto l’occasione anche di inquadrare il tema delle misure cautelari applicabili nell’ambito del procedimento "principale", quello, cioè, nel cui ambito era stata applicata e trasgredita la misura degli arresti domiciliari originariamente applicata all’evaso. La norma di riferimento viene individuata stavolta nell’articolo 280, comma 3, del Cpp, che assolve la stessa funzione svolta dall’articolo 391, comma 5, del Cpp, legittimando l’applicazione della custodia carceraria anche in situazioni in cui questa non sarebbe applicabile secondo le regole generali. Tale disposizione, infatti, deroga ai limiti di applicabilità della custodia cautelare in carcere stabiliti in linea generale dal comma 2 dello stesso articolo (secondo cui la misura carceraria è applicabile solo per i delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti: ergo, in astratto, non sarebbe applicabile all’evasione, siccome punita, nell’ipotesi base, con la reclusione da uno a tre anni) quando la misura debba essere applicata nei confronti di colui che abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare (ergo, per quanto interesse, alle prescrizioni ed ai limiti degli arresti domiciliari). L’articolo 280, comma 3, del Cpp è quindi la norma che deve trovare applicazione nell’ambito del procedimento nel quale è stata applicata la misura "trasgredita", legittimando appunto il giudice ad applicare anche la misura carceraria allorquando la ritenga la più adeguata a soddisfare le esigenze di cautela. Si tratta di una disposizione che è però correlata sistematicamente al disposto dell’articolo 276, comma 1 ter, del Cpp, laddove si introduce una specifica "sotto disciplina" per il caso in cui la misura cautelare "trasgredita" sia, appunto, quella degli arresti domiciliari. Ciò nel senso che, mentre l’articolo 280, comma 3, del Cpp attribuisce al giudice che proceda per delitti per i quali sia prevista una pena inferiore ai cinque anni (o di finanziamento illecito) la "facoltà" di applicare la custodia cautelare carceraria nel caso di trasgressione delle prescrizioni di qualsiasi misura cautelare, l’articolo 276, comma 1 ter, del Cpp, prevede che, se la misura violata è quella degli arresti domiciliari, il giudice è "obbligato" a revocare gli arresti domiciliari e ad applicare la custodia in carcere; salva, però, l’ipotesi in cui il fatto sia di ritenuto di lieve entità [in questo senso è il testo della modifica introdotta con la legge 16 aprile 2015 n. 47]. Al giudice si attribuisce quindi un potere di apprezzamento discrezionale sulla valenza della violazione e sugli effetti che ne devono conseguire, nel senso che ove la violazione degli arresti domiciliari sia di lieve entità non ne deriva automaticamente l’applicazione della misura carceraria. La rilevanza del giudizio prognostico.- Va soggiunto che, anche in questo caso, l’applicabilità, nell’ambito del procedimento principale, della misura carceraria nei confronti di chi sia evaso dagli arresti domiciliari, non trova ostacolo nel già richiamato disposto dell’articolo 275, comma 2 bis, del Cpp, giacché tale disposizione è espressamente dichiarata inapplicabile allorquando ricorrano le condizioni di cui agli articoli 276, comma 1 ter, e 280, comma 3, del Cpp, ossia nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti una misura cautelare. Valgono le considerazioni sul punto già sviluppate sopra. La massima. Procedimento penale - Indagini preliminari - Arresto - Arresto per il reato di evasione- Convalida - Applicabilità della misura cautelare carceraria - Ragione - Fattispecie (Cpp, articoli 273, 274, 280, 391, comma 5; cp, articolo 385). A seguito della convalida dell’arresto per il reato di evasione (consentito anche fuori dei casi di flagranza ex articolo 3 della legge n. 203 del 1991), il giudice, in applicazione dell’articolo 391, comma 5, del Cpp, quando ricorrono le condizioni di applicabilità previste dall’articolo 273 del Cpp e taluna delle esigenze cautelari previste dall’articolo 274 del Cpp, può disporre la misura della custodia in carcere anche fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c), e 280 del Cpp (da queste premesse, la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il giudice del riesame, nell’ambito di un procedimento per il reato di evasione, chiamato a giudicare sulla misura della custodia in carcere che il tribunale aveva applicato all’indagato dopo la convalida dell’arresto, l’aveva annullata sostenendo l’illegittimità dell’applicazione originaria della custodia in carcere per il reato di evasione, e ciò, secondo la Corte, sulla base dell’erroneo rilievo che questa non potesse essere adottata nel procedimento avente ad oggetto il reato di evasione, ma solo, semmai, in sostituzione dell’originaria misura degli arresti domiciliari nel procedimento nel quale tale misura era stata applicata e violata e, quindi, ai sensi dell’articolo 276, comma 1 ter, del Cpp). Il precedente. Procedimento penale - Indagini preliminari - Arresto - Arresto per il reato di evasione- Convalida - Applicabilità della misura cautelare carceraria - Ragione (Cpp, articoli 273, 274, 280, 391, comma 5; cp, articolo 385). A seguito di convalida dell’arresto per il delitto di evasione il giudice può disporre, una volta riscontrate le esigenze cautelari, la misura della custodia in carcere anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 274, comma 1, lettera c ), oltre che a quelli fissati dall’articolo 280 del Cpp, in applicazione dell’articolo 391, comma 5, del Cpp. (Cassazione - Sezione VI, 5 novembre 2013- 15 gennaio 2014 n. 1680; Pres. Agrò; Rel. Paternò Raddusa; Pm (diff.) Selvaggi; Ric. Sanna). Servizi sociali alla stalker se lavora e inizia una "cura" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2016 Corte di cassazione - Sentenza 26687/2016. La prospettiva di un lavoro e l’inizio di un percorso terapeutico possono consentire alla stalker di lasciare il carcere per scontare il resto della pena ai domiciliari o affidamento ai servizi sociali. La Corte di cassazione, con la sentenza 26687 depositata ieri, annulla l’ordinanza con la quale il tribunale di sorveglianza aveva respinto la richiesta di una misura alternativa in favore della ricorrente che doveva ancora scontare circa 10 mesi per atti persecutori nei confronti del suo ex fidanzato. A supporto della domanda la donna aveva prodotto una certificazione della Asl per dimostrare l’esito positivo del percorso riabilitativo intrapreso. Nella memoria si indicavano i buoni risultati raggiunti: presa di coscienza degli errori commessi, chiusura dei contatti con l’ex compagno e inizio di una nuova relazione sentimentale. Il Tribunale di sorveglianza aveva dato però un maggior peso a una segnalazione della Questura di Roma, dalla quale risultava che l’ex fidanzato aveva denunciato la ricorrente per una nuova telefonata fatta in epoca successiva alla condanna. Un’informativa della polizia che al giudice era bastata per affermare che la persecutrice era ancora socialmente pericolosa. Per la Cassazione, che annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per un nuovo esame, si è trattato di una scelta sbagliata. La Suprema corte ricorda che, certamente, nel giudizio sulla concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali devono essere valutati anche i procedimenti penali passati e pendenti, un lavoro che serve a capire se attraverso l’istituto sia possibile fronteggiare un’eventuale residua pericolosità sociale. E visto che non esiste una presunzione generale di affidabilità di ciascuno al servizio sociale il rigetto della domanda si può basare anche sulle informazioni fornite dalla polizia o dai servizi sociali, nel caso queste dimostrino la personalità negativa dell’imputato. Insieme a questi elementi vanno però valutati anche altri fattori. Nel caso esaminato ad esempio il "mea culpa" e la buona prospettiva risocializzante grazie al lavoro. Per quanto riguarda i domiciliari la Cassazione sottolinea come il potere discrezionale del giudice di sorveglianza sia eccezionalmente ampio e, in assenza di parametri di legge predeterminati, devono fare da guida le caratteristiche del reo e le sue condizioni personali e familiari. Per la Suprema corte il giudice ha sbagliato - anche alla luce delle recenti riforme che lasciano come ultima la scelta del carcere - a valorizzare una sola telefonata molesta dopo la condanna, senza fare attenzione alla documentazione che evidenziava un’evoluzione positiva della personalità della stalker. Cassazione, non va espulso chi ha problemi di salute La Repubblica, 28 giugno 2016 Annullato l’allontanamento di una donna peruviana: il diritto alle cure - hanno stabilito i giudici - va sempre garantito. Un immigrato senza permesso di soggiorno non può essere espulso dal nostro Paese se ha seri problemi di salute. È quanto previsto da una sentenza in cui la sesta sezione civile della Cassazione sottolinea che "la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero, che comunque si trovi nel territorio nazionale, impedisce l’espulsione nei confronti di colui che dall’immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio". Tale garanzia, si legge nella sentenza depositata oggi, deve "comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita". Al centro del processo, il caso di una cittadina peruviana che si era vista respingere dal giudice di pace di Roma il ricorso presentato contro il decreto di espulsione emesso nei suoi confronti dal prefetto della capitale: la donna si era quindi rivolta alla suprema corte lamentando il fatto che il giudice di pace - nonostante ostacoli all’espulsione legati a un rigido protocollo postoperatorio per un intervento chirurgico di asportazione di ovaie, tuba, utero a causa di un tumore - si era "limitato a precisare: "la ricorrente non ha chiesto alcun permesso in merito". I giudici hanno dichiarato fondato il ricorso della donna e annullato la sentenza con rinvio: il giudice di pace dovrà quindi riesaminare il caso tenendo conto del principio di diritto enunciato dalla Cassazione. Toga omofoba e machista? Si può dire di Parizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2016 Corte di cassazione - Sentenza 26745/2016. Definire un magistrato omofobo non è diffamatorio, perché il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti delle toghe deve essere il più ampio possibile. La Corte di cassazione (sentenza 26745depositata ieri) accoglie il ricorso di un componente del direttivo di un’associazione di cultura gay e lesbica, condannato dai giudici di merito per aver diffamato un magistrato, con l’aggravante di aver usato Internet come mezzo per pubblicizzare il suo scritto. Alla base dell’articolo considerato diffamatorio c’era il comportamento del magistrato, accusato di "grettezza machista, omofobia e misoginia", perché aveva chiesto in appello la condanna di una professoressa, che era stata assolta in primo grado per aver imposto ad uno studente che aveva dato del gay a un compagno, di scrivere cento volte "sono un deficiente". Secondo il magistrato, l’insegnante aveva usato un metodo educativo paragonabile a quelli della rivoluzione culturale maoista del 1966, del tutto inappropriato visto che era abitudine dei ragazzi apostrofarsi, spesso per scherzo, con espressioni omofobiche, abitudine considerata "commendevole ma largamente diffusa e anche largamente tollerata dalla società". L’arringa non era piaciuta al movimento gay e lesbiche, che aveva reagito con lo scritto incriminato attribuito al ricorrente. La Cassazione però, dopo aver rilevato la prescrizione, annulla la condanna anche agli effetti civili, rinviando sul punto al giudice competente. I giudici sottolineano che il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto, come da indicazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel modo più ampio. Non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, "quanto più alta è la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che può adottare". Ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata "come è bene ricordare in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia e indipendenza". Per questo, via libera alla critica del magistrato che, paragonando la professoressa a Mao, sembrava giustificare l’uso di espressioni omofobe. Troppi magistrati fuori ruolo, così collassa la giustizia di Francesco Petrelli (Segretario Unione Camere penali) Il Tempo, 28 giugno 2016 Tutti all’improvviso sembrano scoprire con stupore quel che da almeno dieci anni l’Ucpi ripete con convinzione e sulla base di dati offerti da una accurata rilevazione scientifica: i problemi della giustizia sono quasi interamente ascrivibili alla mancata organizzazione degli uffici e alla carente razionalizzazione delle risorse. Non sono i troppi avvocati o le "ridondanti garanzie" a ingolfare il sistema, né i termini di prescrizione a essere troppo brevi e a impedire che i processi facciano il loro corso. Ora si è aperta una gara che vede in concorso il governo, gli uffici giudiziari (da Napoli a Torino), l’Anm e da ultimo il Csm, a denunciare questa ovvia verità: troppi posti vacanti, troppi magistrati fuori ruolo e organici al collasso. Eppure, sino a pochi giorni fa, tenevano campo, nel silenzio della Politica, le tesi di chi, per abbreviare il processo, vorrebbe eliminare l’appello, come il dott. Caselli, o, come l’Anm, renderlo infinitamente lungo dilatando i termini di prescrizione. Ora qualcuno si avvede che i problemi - come ricordato anche dal Ministro Orlando - sono di natura organizzativa e che prima di tagliare garanzie fondamentali sarebbe meglio ripristinare una macchina efficiente e adeguata alle esigenze di un paese civile. Eppure c’è ancora chi stenta a prendere atto di questa banale verità e continua a vedere la responsabilità dei mali della giustizia solo e soltanto fuori dalla Magistratura. In Italia il motore dei processi sono le Procure che sono presidiate e dirette da magistrati (e non da manager corrotti). Magistrati esercitano l’azione penale e dispongono delle indagini. Magistrati distribuiscono incarichi, regolano carriere, concorsi e formazione, somministrano promozioni e disciplina, esercitando di fatto una autonomia e una indipendenza, prive di responsabilità, che non hanno eguali al mondo. Ma non è mai troppo tardi. Qualcuno, prima o poi, si accorgerà di quanto sia ingiusto far pagare le inefficienze del sistema ai cittadini indagati, alle persone offese e alla società, rendendo eterni i processi, e tagliando via le impugnazioni, che costituiscono una garanzia, come continua ad insegnarci il caso di Enzo Tortora. Palermo: suicidio in carcere, detenuto si toglie la vita al Pagliarelli di Francesco Patanè La Repubblica, 28 giugno 2016 Carlo Gregoli si è ucciso nella sua cella del carcere Pagliarelli dove era rinchiuso dal 5 marzo scorso con l’accusa di omicidio premeditato per aver ucciso due giorni prima assieme alla moglie Adele Velardo il vicino di casa Vincenzo Bontà e il suo giardiniere Giuseppe Vela in via Falsomiele. Carlo Gregoli, geometra del Comune con la passione per le armi, è stato trovato impiccato dagli agenti penitenziari ieri pomeriggio intorno alle 17. Gregoli si è sempre detto innocente e non è mai crollato nemmeno di fronte alle prove scientifiche che gli inquirenti gli hanno messo davanti. Ieri pomeriggio al carcere Pagliarelli sono intervenuti gli agenti della squadra mobile che stanno ricostruendo la dinamica del suicidio. Con loro anche gli uomini della scientifica per capire come il presunto omicida di Villagrazia abbia potuto impiccarsi. "Una vicenda che ci lascia l’amaro in bocca, è una situazione che era del tutto prevedibile - commenta profondamente turbato il difensore di Gregoli, l’avvocato Aldo Caruso - Già la settimana scorsa avevamo chiesto la sostituzione della misura cautelare in carcere per la forte depressione che affliggeva nelle ultime settimane Carlo Gregoli. Il mio assistito era ricaduto in quella grave forma di depressione che lo aveva colpito già in passato". Per i difensore del dipendente comunale i segnali di pericolo erano molto evidenti, soprattutto alla luce delle patologie pregresse del suo assistito che in passato era stato in cura da uno psichiatra e faceva uso di psicofarmaci. "Il giudice aveva nominato un perito che però ha stabilito - continua Caruso - che non c’erano ragioni di incompatibilità con il regime carcerario, per cui Gregoli è rimasto in cella. Non ci siamo arresi, abbiamo fatto una seconda istanza insistendo nel perorare le nostre ragioni, era evidente che fosse a rischio. Il Gip aveva segnalato al carcere di vigilare ma evidentemente questo non è stato fatto". Ad incastrare Carlo Gregoli per il duplice omicidio di Villagrazia secondo l’accusa c’era una traccia di sudore su un bossolo rinvenuto sulla scena del crimine. C’era il suo Dna su quel reperto ritrovato dalla polizia in via Falsomiele, la mattina del 3 marzo. I biologi della Scientifica non hanno dubbi. E per il procuratore aggiunto Agueci e i sostituti Demontis e Camilleri è la chiusura del cerchio delle indagini già messe sulla buona strada dalle immagini di una telecamera e poi dal racconto di un testimone che aveva visto un uomo con i capelli brizzolati sparare contro Vincenzo Bontà e il suo giardiniere, Giuseppe Vela. Una tesi che la difesa ha sempre contestato, sostenendo la stranezza che sul bossolo ci fosse Dna e non un’impronta. Altro punto irrisolto sono i bossoli mancanti dalla scena del crimine, come emerso dagli esami del medico legale. Scena che forse è stata ripulita. È un’ipotesi. A sparare è stata una sola pistola o due? Nel video in possesso della polizia si vede la moglie di Gregoli (detenuta sempre al Pagliarelli, nell’ala femminile) che dopo il delitto sistema qualcosa sotto il sedile dell’auto e mima con le mani lo sparo di un’arma. È il giallo che resta. I due indagati non hanno mai aperto bocca dopo il primo interrogatorio in cui hanno negato tutto. Mentre la difesa avanza l’ipotesi che quel silenzio sia indotto dalla paura, per aver visto i veri assassini, magari assassini di mafia. Fin qui la tesi dell’avvocato Aldo Caruso. Ma il buco più significativo è la mancanza di un movente certo. Di fatto, nonostante il lavoro senza sosta della squadra mobile di Rodolfo Ruperti, è caduta l’ipotesi della lite tra confinanti, la prima avanzata dagli investigatori. Non è stata confermata dai vicini. E sembra essersi indebolita la pista dei furti d’acqua, il sospetto che avrebbe fatto andare su tutte le furie Vincenzo Bontà. L’Amap, dopo un giorno di rilievi, non ha evidenziato alcuna anomalia negli allacci. Anche il contesto in cui vive la famiglia Gregoli sembrerebbe non potere sposare l’ipotesi dei due freddi assassini. Anche se poi salta all’occhio quella frequentazione assidua del poligono da parte della casalinga Angela Velardo. I Gregoli sono descritti come una famiglia affiatata. Una figlia è iscritta alla facoltà di Medicina, l’altra frequenta il liceo classico, il piccolo è studente del liceo scientifico. Brescia: donne e violenza; il carcere insegna, drappi rossi a Canton Mombello di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 28 giugno 2016 Si tratta di una iniziativa che intende dare visibilità alla posizione affermata da alcuni detenuti a seguito dei drammatici e ricorrenti fatti di cronaca inerenti il tema della violenza di genere e dei femminicidi. Chi dovesse passare accanto al perimetro di Canton Mombello in questi giorni potrebbe scorgere dei drappi di colore rosso appesi ad alcune finestre del carcere. Si tratta di una iniziativa che intende dare visibilità alla posizione affermata da alcuni detenuti a seguito dei drammatici e ricorrenti fatti di cronaca inerenti il tema della violenza di genere e dei femminicidi. Non è frequente che siano uomini a voler avviare una riflessione su questi temi, ancor meno che siano detenuti ed è quindi con sincera condivisione che vogliamo dare voce a tale posizione simbolica, testimone di una attenzione e sensibilità genuinamente espresse dalla popolazione detenuta, tutt’altro che distante dai temi che preoccupano e allarmano la nostra società. Nella casa circondariale di Brescia il problema è sentito, al punto da aver generato una proposta di riflessione e approfondimento sul fenomeno. Tale richiesta, fortemente sostenuta dalla Direttrice, Francesca Gioieni e prontamente accolta dalla Garante dei Detenuti del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani, è nata all’interno del gruppo degli studenti dell’Istituto Tartaglia-Fortuny, coadiuvati dalla docente Antonella Tonoli, ma il percorso sarà offerto a tutti i detenuti il cui pensiero è ben rappresentato dalla parole che essi stessi hanno scritto: "Vorremmo esprimere la nostra vicinanza a tutte le donne vittime di odio, rabbia e disamore. La donna ci dà la vita, ci cresce, ci cura e ci protegge, senza una donna vicino non può esistere l’amore". Gli stessi studenti detenuti hanno pensato di rendere visibile all’esterno delle mura il loro convincimento appendendo, per qualche giorno, dei fazzoletti rossi alle finestre del quarto e terzo piano dell’ala nord e sud. L’iniziativa va a situarsi in un articolato percorso di incontri e approfondimenti che prenderà il via nei prossimi giorni e vedrà il coinvolgimento di diversi esperti psicologi e criminologi e di realtà che da tempo si occupano di questo problema, anche dal punto di vista maschile, come il Cerchio degli Uomini, rappresentata dal suo presidente, Aldo Braga. Appare facilmente comprensibile il valore intrinseco del progetto, in chiave rieducativa e di contenimento della recidiva, e il fatto che la richiesta si sia generata autonomamente fra i detenuti, contribuisce a rafforzarne il significato positivo. Auspichiamo quindi che possa essere recepita e accolta con attenzione anche dalla comunità esterna, affinché il comprensibile ma sterile sentimento di diffidenza verso il mondo carcerario, per una volta, possa essere sostituito dalla consapevolezza che il percorso di risocializzazione passa anche e soprattutto dal cambiamento culturale. Torino: l’accusa del Garante dei detenuti "il Cie di corso Brunelleschi è invivibile" La Repubblica, 28 giugno 2016 Mellano in visita alla struttura, teatro sempre più spesso di rivolte e incendi. "Situazione sanitaria drammatica". "I Cie non possono più essere luoghi dove non esiste rispetto dei diritti umani e delle libertà. Nel compito del Garante regionale dei detenuti c’è il monitoraggio di queste strutture, nella nostra ultima visita del 23 giugno al Cie di corso Brunelleschi abbiamo trovato una situazione se possibile ancora peggiore di marzo. Dobbiamo intervenire su una detenzione amministrativa di dubbia valenza costituzionale, anche costruendo buoni rapporti con la Questura e la Prefettura". Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano, ha aperto la conferenza stampa sul Cie di corso Brunelleschi organizzata in collaborazione con il Garante del Comune di Torino, con Medici per i Diritti Umani (Medu) e associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (Asgi). Attualmente nella struttura, inizialmente progettata per 200 posti, sono rinchiuse 43 persone (il massimo possibile dopo incendi e danneggiamenti) in prevalenza provenienti dal Nord Africa, di cui 37 con precedenti penali. "Durante la visita abbiamo trovato unità abitative fatiscenti - ha spiegato Monica Cristina Gallo, Garante dei detenuti per il Comune di Torino - la mia intenzione è, subito dopo le visite di monitoraggio, approfondire obiettivi a partire dall’assistenza legale e altre tutele, anche in mediazione con il carcere". Per Marco Zanchetta di Medu "corso Brunelleschi rispecchia il panorama nazionale. In Italia ci sono 4 Cie attivi sui 13 previsti. A Torino si verificano continue sommosse a causa della situazione invivibile, il clima di tensione è filo conduttore, non esiste forma di ricreazione o impegno culturale. Anche la situazione sanitaria è drammatica, non c’è più la convenzione con l’AslTo1 per le visite mediche, non c’è assistenza psicologica per le persone che hanno subito tortura o violenze. Insomma, i Cie sono centri inefficaci dal punto di vista degli obiettivi preposti, cioè identificazione ed espulsione". Torino: "chiudiamo il Cie di corso Brunelleschi", il Comune e la Regione si alleano La Stampa, 28 giugno 2016 "Il Cie di corso Brunelleschi va chiuso, è disumano come un centro di internamento. Il Comune non può fare nulla da sé, ma eserciteremo una pressione come ente locale sul governo. Su questo, siamo totalmente in linea con il pensiero della Regione". Se di politica dell’immigrazione Chiara Appendino finora poco ha parlato, su una questione il suo pensiero è sempre stato netto. L’ha espresso a febbraio, quando già era candidata e consigliera comunale in Sala Rossa. L’ha ribadito ieri, dimostrando di condividere nei fatti il pensiero del governo di piazza Castello e di essere disponibile a un asse con la Regione sui diritti degli immigrati. Appendino sul Cie ha la stessa posizione di Monica Cerutti, assessora della Regione guidata dal centrosinistra. Ieri era il giorno in cui i Garanti per i Detenuti Bruno Mellano e Monica Gallo e i Medici per i Diritti Umani (Medu) presentavano i dati sull’ospitalità dei centri di identificazione ed espulsione, chiedendo con forza la loro abolizione. Perché "sono inefficaci dal punto di vista degli obiettivi che si prefiggono - dichiara Marco Zanchetta di Medu - e sono critici dal punto di vista dei diritti. Ci allarmano le notizie su possibili reinvestimenti su queste strutture". Torino, dei sei in Italia, è il Centro di identificazione di riferimento per tutto il Nord. Da una capienza teorica di 180 persone ora, dopo i continui danneggiamenti, ospita 43 immigrati, in particolare tunisini e marocchini, su 44 posti disponibili. "Si capisce facilmente - commenta l’assessore Cerutti - sono numeri che non giustificano la permanenza in vita di queste strutture. Se le carceri funzionassero come punti di identificazione, i Cie si potrebbero chiudere dopodomani". Appendino condivide: "Il tema dell’immigrazione e dell’accoglienza è molto delicato, facilmente strumentalizzabile e difficile da fronteggiare, sovente perché a priori, forse anche solo per paura, l’immigrato viene visto come una minaccia sociale". Un problema da non considerare solo a livello di politica locale, ma "nazionale ed europea". Tanto che la neo sindaca vuole il "superamento delle leggi Bossi-Fini e Turco-Napolitano" e a febbraio plaudeva all’abolizione del reato di clandestinità, trasformato da reato penale a illecito amministrativo. "Ma è solo un primo passo", dice Appendino, che riporta l’indagine di Medu: "La struttura dei Cie è simile a quella dei centri di internamento. Vi è la poca accessibilità alle cure e più in Tensioni e scontri Il Cie di corso Brunelleschi è stato spesso al centro di tensioni, scontri e manifestazioni di protesta generale ai servizi delle strutture ospedaliere". Di strutture abitative "fatiscenti" e del fatto che siano "ignorati i diritti umani" parlano i due garanti dei detenuti Mellano e Gallo. Ma sulla linea della sindaca grillina e contro la posizione della Cerutti in Regione parte a orologeria la polemica politica. L’offensiva contro "l’asse Sel-5 Stelle" la lancia l’ex consigliere comunale (oggi solo più regionale) di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, che tira in mezzo Appendino sollevando "tutte le contraddizioni del Movimento - dice Marrone, che prima prende i voti dalla Lega Nord, poi vota in Parlamento il superamento della Bossi-Fini e però ha in Consiglio comunale una eletta del mondo dei centri sociali, del Gabrio". Per lui Regione e Comune ora grillino sono la stessa cosa, "sinistre istituzionali che portano avanti una manovra a tenaglia e cercano di forzare la mano con il governo". Palermo: "Cotti in fragranza", i biscotti prodotti dai giovani detenuti dell’Ipm Redattore Sociale, 28 giugno 2016 L’iniziativa del carcere minorile Malaspina di Palermo si intitola "Cotti in fragranza". Sono 5 i partecipanti coinvolti in tutte le fasi del progetto, dalla produzione alla scelta del nome, dalla vendita alla comunicazione. Formazione affidata allo chef Giovanni Catalano. Con "Cotti in fragranza - se non li gusti non li puoi giudicare" nasce il biscottificio all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni di Palermo Malaspina realizzato dalla cooperativa Rigener-Azioni in collaborazione con istituto Don Calabria e grazie al sostegno di Associazione Nazionale Magistrati e Fondazione San Zeno. Si tratta del primo progetto di questo tipo nel sud d’Italia che ha coinvolto 5 ragazzi dell’Ipm. L’inaugurazione è avvenuta questa mattina in presenza del direttore dell’Ipm Michelangelo Capitano e del direttore regionale del centro giustizia minorile della Sicilia Angelo Meli. Il laboratorio che si trova all’interno del complesso Malaspina è munito di tre forni uno dei quali è stato donato dall’associazione nazionale magistrati minorili. Presente per l’occasione anche la delegazione della Federazione Italiana Pasticceri Sicilia. I 5 ragazzi sono stati coinvolti in tutte le fasi del progetto, sia nel forno che per la scelta del nome, partecipando attivamente anche alla definizione del packaging, proponendo idee per la vendita e per la comunicazione. "Vogliamo solo dire che adesso ci siamo anche noi - dicono insieme due dei ragazzi che hanno partecipato al progetto. Siamo contenti e non ci sono parole per potere fare capire quanto siamo emozionati. Speriamo di ricostruire il nostro futuro proprio a partire da questa esperienza". "Siamo certi che la persona che prende coscienza delle responsabilità verso se stesso - afferma Michelangelo Capitano, direttore dell’Istituto - gli altri ed il mondo acquisisce di pari grado la consapevolezza di essere l’artefice della storia, avendo chiaro che ciò che farà avrà effetto su se stesso e su gli altri". Il progetto è finalizzato a creare un laboratorio per la produzione di prodotti da forno, insegnando un mestiere e promuovendo la vendita dei prodotti. Il laboratorio dispone di tutte le attrezzature necessarie per una produzione, per il momento, di circa 300 chili di biscotti alla settimana. La scelta è stata quella di cominciare creando un solo tipo di biscotto fortemente legato alla tradizione siciliana, che utilizzasse materie prime locali, preferibilmente biologiche, e che fosse unico nel suo genere. Giovanni Catalano, ritenuto uno tra i migliori chef pasticceri della Sicilia, ha curato la formazione ai cinque giovani detenuti, creando insieme a loro la ricetta del primo biscotto: un frollino secco al mandarino tardivo di Ciaculli, detto anche "Marzuddu", proprio per la caratteristica maturazione in Marzo. Tra coloro che si sono messi a disposizione per la formazione culinaria di questi ragazzi c’è stato anche l’infortunato dell’Inail Nicola Cinà. "Cotti in Fragranza vuole essere anche un percorso di riparazione del danno facendo cose ‘buonè. Siamo abituati sempre a lavorare a progetti per i ragazzi - sottolinea Lucia Lauro di Don Calabria - ma questa è invece un ‘iniziativa nata e sviluppata con i giovani che può considerarsi un esempio di laboratorio condiviso e partecipato. Promuoveremo una vendita commerciale dei prodotti perché ci sono accordi per inserirli nei supermercati affiliati a Legacoop. L’idea è quella di garantire ai ragazzi un periodo di lavoro nella fase di transito nell’Ipm. È chiaro che la cooperativa nasce anche per dare un opportunità di lavoro stabile. Naturalmente quale sarà la modalità di lavoro la valuteremo in itinere". "La partecipazione dei ragazzi, fin dalle prime fasi, è stata il presupposto fondamentale con cui abbiamo scelto di operare - sostiene Nadia Lodato dell’equipe che coordina il progetto -. I ragazzi vogliono diventare insieme persone competenti, capaci di operare scelte precise per il proprio benessere e quello altrui, capaci di cogliere il significato delle cose. Capaci, insieme, di valutare e decidere. In grado di utilizzare strategie adeguate nei diversi contesti per trovare nuovi adattamenti e soluzioni creative. I ragazzi hanno reagito agli stimoli con interesse e creatività e per noi operatori è un continuo confronto in cui ognuno mette in gioco le sue idee, le sue esperienze e la sua visione". La prima realizzazione dei biscotti è avvenuta con la raccolta di 400 chili di mandarini presso un frutteto messo a disposizione dell’associazione Jus Vitae, su un terreno confiscato alla mafia dove l’associazione ha realizzato una fattoria didattica. Inoltre dopo avere sbucciato, tritato le bucce, conservate e congelate a riserva per tutto l’anno, i ragazzi hanno deciso di portare i frutti - non utilizzabili come ingredienti per il biscotto che richiede solo le bucce - agli ospiti di una comunità terapeutica per tossicodipendenti gestita dall’istituto Don Calabria e al centro Caritas che gestisce una mensa per i senza dimora e migranti. Taranto: il giardino creato dai detenuti, progetto dell’Asl nel carcere tarantosera.it, 28 giugno 2016 Un giardino sinergico nel carcere di Taranto. La Asl continua di avvalersi dell’agricoltura sociale quale strumento per svolgere attività di prevenzione, inclusione, terapeutico-riabilitativa e pre-formativa. Nasce così il progetto denominato "Il Giardino sinergico-terapeutico quale strumento di prevenzione", rivolto ad alcuni detenuti della casa circondariale di Taranto. Il programma di fattibilità, realizzato grazie al Distretto socio sanitario cittadino, rappresenta il primo intervento nella storia della Asl di Taranto, in favore della popolazione ristretta. La sanità penitenziaria è passata dalla competenza del Ministero della Giustizia, alla competenza del Ssn che opera ed interviene attraverso le macrostrutture territoriali competenti (a Taranto attraverso il Distretto S.S. Unico Cittadino). L’intervento sperimentale è circoscritto nel tempo, ma è da considerarsi un importante banco di prova per progetti più articolati e duraturi che la stessa Asl auspica per il futuro, confidando nella stessa sensibilità e fattiva collaborazione dimostrate per la realizzazione del Giardino Sinergico dal Direttore della Casa Circondariale, Stefania Baldassari. Obiettivo del Giardino Sinergico è quello di coinvolgere alcuni detenuti in attività di agricoltura sociale che, sollecitando la voglia di riscatto e riabilitazione, apra agli stessi detenuti migliori scenari di vita, sia all’interno dell’istituto di pena, che all’esterno, dove le attività e le metodologie apprese potranno essere utilizzate per un reinserimento lavorativo. Attuatore dell’intervento l’associazione Masserie Didattiche Grande Salento che, all’interno della casa circondariale, trasformerà uno spazio incolto ed inutilizzato, messo a disposizione dal direttore, in una grande aiuola dedicata alla coltivazione sia di piante officinali (origano, lavanda, maggiorana, ecc.), che di ortaggi, attraverso una sapiente sinergia tra operatori agricoli e detenuti. Il progetto, già attivato, conterà anche sul "lavorare assieme" non solo di enti pubblici/privati ma anche e, soprattutto, di coloro che li esprimono, ossia gli operatori della Asl, quelli della casa circondariale (polizia penitenziaria) e quelli del mondo rurale (imprenditori agricoli, agronomi, ecc.), insieme ai detenuti. Reggio Emilia: dal carcere all’ospedale, è un boom di ricoveri di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 28 giugno 2016 Picco di atti autolesionistici tra giovedì e venerdì in via Settembrini alla Pulce Il sindacato degli agenti: "Promesse disattese, sciopero domani a Bologna". Quattro detenuti finiti all’ospedale, nel giro di due giorni, per atti autolesionistici. Èdi nuovo emergenza alla Pulce di via Settembrini e la polizia penitenziaria torna all’attacco chiedendo più personale e proclamando una giornata di sciopero in tutte le carceri, da Piacenza a Rimini, per domani. "Dopo un periodo di miglioramento negli istituti penali di Reggio Emilia sono ripresi gli eventi critici", affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale. "Giovedì scorso un detenuto si è procurato lesioni ed è stato curato in infermeria. Ieri un altro detenuto di origine tunisina, dopo aver ricevuto le prime cure in carcere, è stato visto in ospedale. Sempre ieri altri due invii d’urgenza in ospedale". "Venerdì non riuscivamo nemmeno a cambiare il turno, a causa delle continue emergenze - spiega Michele Malorni, segretario provinciale del Sappe Reggio Emilia - purtroppo, con il tramonto dell’Opg, si verifica che i soggetti detenuti con turbe psichiche vengono ristretti e custoditi nei reparti detentivi ordinari, mentre a nostro avviso questi pazienti psichiatrici andrebbero isolati e dovrebbero essere gestiti con trattamenti farmacologici dall’Ausl". È un effetto del superamento della legge Basaglia e del relativo travaso dei pazienti dagli Opg alle Rems. Un problema che si aggiunge all’annosa carenza di personale della polizia penitenziaria, che in primavera aveva già manifestato due volte davanti al carcere di via Settembrini per lanciare l’allarme sulle necessità scaturite dalla celebrazione del maxiprocesso Aemilia, sia per i detenuti di ‘ndrangheta ristretti (una ventina) sia soprattutto per gli accompagnamenti alle udienze. "La nostra protesta di maggio aveva sortito un effetto: il Ministero aveva inviato un comandante di reparto da Bologna per quattro mesi, e gli eventi critici si sono ridotti, ma ora il comandante è stato riassegnato e siamo tornati da capo - spiega Malorni. Per Aemilia avevamo chiesto, solo a Reggio, almeno 37 nuovi agenti per i servizi ordinari, senza contare i funzionari e gli ispettori mancanti; ne sono arrivati 12. Il carcere reggiano ora conta ben 270 reclusi, stiamo facendo un eccessivo ricorso agli straordinari e il piano ferie è a rischio". Secondo i rappresentanti del Sappe "servono almeno 300 agenti in più in regione, mezzi nuovi (quelli attuali hanno più di 400.000 km), un ricambio dei vertici a Piacenza e Modena e un dirigente in pianta stabile a Ferrara e Rimini. Perciò domani alle 10 protesteremo davanti al Provveditorato a Bologna". Rimini: incontro col Garante dei diritti dei detenuti, Ilaria Pruccoli newsrimini.it, 28 giugno 2016 Alcuni esponenti di associazioni riminesi hanno avuto lo scorso mercoledì 22 giugno un incontro col nuovo garante delle persone private della libertà del Comune di Rimini Ilaria Pruccoli per confrontarsi sulle problematiche e sul da farsi. All’incontro erano presenti Ivan Innocenti Associazione Iniziativa Radicale, Anna Papa Associazione Luca Coscioni, Sara Visintin Rimini in Comune - Diritti a Sinistra, Anna Maria Stabile Comitato parenti detenuti, Francesco Bragagni Segretario provinciale PSI Lista Futura, Alice Casadei Giovani Democratici Lista Futura. "La Garante - si legge nella relazione conclusiva delle associazioni - ha relazionato sulle attività svolte dal suo insediamento. Si è recata subito in visita al Carcere dopo la nomina, partendo dalla lettera che i detenuti avevano inviato alla stampa nel mese di marzo 2016". Secondo le associazioni, tra i problemi principali c’è il comportamento del Magistrato di Sorveglianza Raffa, che non risponde alle domande dei detenuti e qualora queste risposte dovessero arrivare sono sempre troppo tardive, perché incaricato di seguire tre istituti penitenziari: Rimini, Ravenna e Forlì. "La Garante ha confermato di avere avuto segnalazioni dai detenuti delle difficolta con il Magistrato di Sorveglianza. Da parte nostra e del Comitato parenti detenuti c’è stata disponibilità a documentare ulteriormente con osservazioni dei parenti e dei detenuti". L’altro problema evidenziato dai detenuti riguardava le zanzariere, decisamente necessarie soprattutto ora che le zanzare aumentano e ora che non viene più acquistabile nel sopravvitto l’antizanzare. Mancando i soldi all’istituto penitenziario si sono trovati fondi per l’acquisto delle zanzariere grazie alle associazioni Papillon e Madonna della carità. Prossimamente si monta lo scheletro per le zanzariere sulle finestre. "Per quanto riguarda la vita dentro l’istituto penitenziario, si riscontra la presenza di corsi per passare il tempo, mentre i corsi di formazione sono meno presenti. A breve partirà il corso di panificazione che si svolgerà a Poggio Berni e sarà gestito dall’Enaip. Ci sono 8 posti complessivi il corso di teoria e di pratica (circa due mesi). Il magistrato di sorveglianza, ha autorizzato 8 posti per la teoria, ma solo 4 per la pratica. Ora si sta cercando di ottenere gli altri quattro. Per il corso è previsto un piccolo compenso e gli spostamenti dalla struttura penitenziaria sono coperti dall’Enaip". Altro problema sollecitato dalle associazioni è la presenza saltuaria del direttore che fa mancare una visione d’insieme e "delega di fatto agli ispettori del carcere le decisioni sulle attività interne e sulla gestione quotidiana. "Abbiamo sottolineato che la sezione 1 andrebbe ristrutturata completamente e su questo punto concorda anche la Garante. Vanno recuperati spazi per le attività, spazi che spesso diventano magazzini del carcere. Si è portata alla attenzione del Garante la situazione della vecchia cucina inagibile in quanto usata come magazzino per suppellettili. Spazio ottimale invece per attiva corsi di cuoco. Si è richiesta l’attivazione del progetto Raee e di potenziare i progetti relativi all’orto interno, oltre all’esistente progetto di Andromeda "l’Orto Disinvolto". "Grave è la situazione della sezione 6 dedicata ai transessuali. Si è condivisa tra i presenti la situazione di emergenza. Sono 6 posti ove sono presenti attualmente 4 detenuti. La Garante ha confermato la situazione che abbiamo riscontrato a marzo. Ha rilevato situazioni di pessima condizione della struttura e una condizione di isolamento dei detenuti presenti che portano a socializzazione ridotta e accesso difficoltoso e limitato a corsi e percorsi riabilitativi. Abbiamo sottolineato la grave violazione dei diritti umani e violazione della dignità. Vera e propria emergenza nel carcere riminese che non può essere ulteriormente tollerata". "In chiusura di incontro la rappresentante delle famiglie dei detenuti Maria Luisa Stabile ha evidenziato che nelle ultime due settimane sono stati trasferiti dal carcere di Rimini 30 detenuti senza alcuna comunicazione alle famiglie e senza alcuna motivazione fornita a famiglie e detenuti. Si segnala che dopo i primi 5 trasferiti in un’unica giornata, ne sono stati trasferiti altri 25 sempre in un’unica giornata. La Garante, che non era a conoscenza dell’accaduto, si è impegnata a richiedere spiegazioni in merito a tale scelta". Varese: imam di detenuto ingiustamente, no al risarcimento affaritaliani.it, 28 giugno 2016 No al risarcimento per ingiusta detenzione per l’ex imam di Varese Abdelmajid Zergout, arrestato nel maggio 2005 per "partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale denominata "Gruppo Islamico Combattente Marocchino" e poi assolto da tale accusa dalla Corte d’assise di Milano due anni dopo (sentenza passata in giudicato dopo la rinuncia all’appello da parte del pm). La quarta sezione penale della Cassazione ha rigettato il ricorso della difesa dell’ex imam contro l’ordinanza con cui la Corte d’appello milanese, nel marzo 2015, aveva respinto l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione. I giudici di piazza Cavour, con una sentenza depositata oggi, ricordano che la Corte d’assise aveva assolto l’uomo "per ritenuta mancanza di riscontri circa l’esistenza di un’associazione con finalità terroristiche nel territorio dello Stato, in difetto di una struttura stabile, idonea a realizzare una serie indeterminata di reati, dotata necessariamente di una corposità sociale indipendente rispetto alle persone e all’attività dei suoi membri, con ripartizione dei ruoli tra gli associati, vincoli gerarchici e regole di condotta da osservare". Catanzaro: bimbo disabile di 4 anni potrà incontrare il padre in carcere quicosenza.it, 28 giugno 2016 La decisione del Tribunale di Reggio Calabria. Il giovane detenuto vedrà suo figlio ogni 15 giorni. Il bambino calabrese disabile di 4 anni che ha il giovane padre detenuto nel carcere di Terni, potrà incontrare il genitore ogni 15 giorni. Lo hanno deciso i giudici del Tribunale di Reggio Calabria, "preparando di fatto, in questo modo, il prossimo trasferimento del detenuto in un carcere calabrese vicino al suo comune di residenza, che è in provincia di Reggio". Lo comunica Franco Corbelli, del Movimento Diritti Civili. "Esattamente - spiega - quello che quest’uomo chiedeva e aspettava da quando era stato arrestato e trasferito a Terni. Nell’ultimo anno e mezzo questo giovane detenuto ha potuto incontrare il suo bambino solo quattro volte, tre volte, a casa, in Calabria, in provincia di Reggio, accompagnato dalla scorta penitenziaria, per un permesso di tre ore, e in un’altra occasione in ospedale a Roma, dove il bambino viene periodicamente portato per le visite e le cure. L’ultima volta che l’ha potuto vedere è stato nel mese di aprile, per l’aggravamento delle condizioni di salute del piccolo. Quest’uomo ha anche un’altra bambina di due anni anche lei malata. Anche sua moglie - spiega corbelli - ha problemi di salute. Disperato, dopo aver avuto rigettata, il 24 maggio scorso, la sua istanza, con la quale chiedeva di poter vedere una volta al mese il suo bambino, il giovane detenuto un mese fa aveva scritto più volte al leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, supplicandolo di aiutarlo". Palermo: proiezione nelle carceri del film che racconta Montante, poeta recluso di Adriana Falsone La Repubblica, 28 giugno 2016 Viaggio mentale nella Sicilia poetica e cruda, il nomadismo esistenziale di Antonino Montante. È un racconto biografico di Antonino Montante, poeta, recluso, asceta. Una storia sul confronto con l’altro, e dunque con se stesso, sul senso di libertà o di prigionia, sulla nostalgia e la solitudine. Lunedì 27 giugno e martedì 28 giugno sarà proiettato presso i teatri della Casa di Reclusione Ucciardone e della Casa Circondariale Pagliarelli il nuovo film di Joshua Wahlen e Alessandro Seidita "Corrispondenze", un poema sul concetto di libertà. "L’idea del film nasce dall’incontro con il poeta Sebastiano Burgaretta durante la postproduzione del nostro ultimo lavoro Viaggio a Sud. Colpiti dal singolare rapporto che egli intrattiene quotidianamente con la nostra isola, la Sicilia, e in particolar modo dall’attività di sostegno che svolge all’interno delle carceri di Noto, ci siamo lasciati ispirare per lo sviluppo di un racconto filmico. Abbiamo così creato il personaggio di Antonino Montante attingendo dalla vita di Burgaretta e arricchendola di contenuti di fantasia - spiegano i registi - Sebastiano è in questo racconto voce di una sua autobiografia e interprete di una trasposizione romanzata della sua stessa vita. L’opera oscilla infatti tra finzione e realtà con l’intento di aprire a vari orizzonti di senso e coinvolgimento". La galera diventa una rappresentazione non solo fisica e reale ma anche mentale: la storia ha inizio con la crisi esistenziale del protagonista, in una fuga da un mondo percepito come estraneo. Cerca coloro che vivono in una galera fisica - riflesso della sua condizione psicologica - e parla loro come se parlasse a se stesso. "In un progetto che affronta il tema della libertà ritenevamo doveroso partire da una reclusione reale, fisica, quella forse che più di ogni altra incarna l’essenza della privazione: la detenzione carceraria - aggiungono i registi - Il carcere è un luogo in cui le regole basilari del vivere, quelle che noi esperiamo quotidianamente, vengono sovvertite. Non vi è libertà di azione, di espressione, di relazione. Tutto è scandito da un ritmo imposto, razionato e ordinato in rigide strutture. Eppure la vita scorre anche lì. Siamo entrati in carcere con una sincera propensione all’ascolto. Ed è stato sorprendente scoprire come un’azione così semplice abbia avuto la capacità di scardinare riluttanze e chiusure che sembravano cronicizzate. Fuori da ogni previsione, le parole dei detenuti sono riuscite a evocare storie di autentica emancipazione. I loro pensieri sono la viva testimonianza della possibilità, racchiusa in ogni uomo, di raggiungere le profondità dell’animo umano e il senso dell’esistere, e di compiere una totale rivalutazione dei valori ordinari. In questo nostro lavoro, la storia dei detenuti si è intrecciata con quella del poeta, diventandone il riflesso speculare. Corrispondenza che si è poi estesa alla condizione di un popolo, di un’Isola, dell’uomo in generale". Il documentario vanta, tra gli altri, la partecipazione amichevole di Franco Battiato, Mimmo Cuticchio e Aida Satta Flores. Forti emozioni da "Cent’anni di memoria", scritto dall’ergastolano Mario Trudu Ristretti Orizzonti, 28 giugno 2016 "L’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza in terra d’Ogliastra negli anni Sessanta ricostruite da chi è stato sottratto al loro ordinario svolgersi nel tempo. Un racconto che diventa carico di emozioni per le presenze vivaci di figure ormai scomparse e per le sensazioni vissute dal narratore capace di unire realtà e fantasia in una felice sintesi. Quella che Mario Trudu, ergastolano da 37 anni, regala ai lettori con "Cent’anni di memoria", è la ricostruzione del suo mondo, del suo paese Arzana, delle famiglie come la sua, dei suoi grandi vecchi. Un lavoro certosino, impreziosito da poesie, disegni, mappe e ricostruzione di giochi antichi e giocattoli tradizionali, che illustra con precisione fotografica il passato senza trascurare riflessioni e pensieri sull’oggi. Una pubblicazione che merita di essere apprezzata anche dagli alunni della Scuola Primaria di Arzana per conoscere qualche inedito tratto della storia della comunità del paese sardo con il più alto indice di centenari". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che ha partecipato a Nuoro nella Biblioteca dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico (Isre), alla presentazione della pubblicazione, edita da Stampa Alternativa. Inserito negli appuntamenti del Festival Entula promosso dall’associazione culturale "Liberos", l’appuntamento ha visto la partecipazione di un folto pubblico. Dopo i saluti di Pierfranco Fadda, responsabile di "Liberos", sono intervenuti Natalino Piras, autore della prefazione, Francesca De Carolis, giornalista, curatrice della pubblicazione che svolge costanti colloqui con Mario Trudu, e l’avv. Monica Murru, del Foro di Nuoro. "Questo libro - ha sottolineato, tra l’altro, Natalino Piras - racconta con occhi da bambino l’infanzia contadina e pastorale di Mario Trudu. Gli occhi da bambino sono quelli di un ergastolano, fine pena mai, capaci di immettere il remoto dentro una più vasta latitudine. Tale l’effetto che questa narrazione suscita nel lettore. Il racconto procede per intersechi, per flashback, per catalogazioni di tempi, luoghi, spazi. Il paese dell’infanzia diventa così il proprio mondo, dove altri si riconoscono. Anch’io so cosa significa l’incanto delle stagioni, il rosseggiare de sa mela de lidone, le bacche del corbezzolo, in autunno. Parlo sardo-italiano come Trudu pure se la variante arzanese dà più sul campidanese del mio bittese-logudorese. Quante infanzie contadine e pastorali in questo libro, quanta capacità di narrazione della storia dei poveri e dei dimenticati. Il racconto di Trudu è rivelatore di umanità". "Quando si incontra qualcuno in carcere, difficile che poi la tua vita - ha evidenziato Francesca De Carolis - scorra come prima. Quando poi quel qualcuno ha trascorso quasi tutta la sua, di vita, dentro quattro mura, e in regime di Alta Sicurezza, e per di più con una pena che non finirà mai, quando conosci di cosa è fatto il cammino del suo tempo, e chi non è entrato in un carcere non può immaginare, allora è davvero difficile, anche solo per poco, scrollarsene di dosso il pensiero. Così ho continuato a seguire la vita prigioniera di Mario Trudu, mese dopo mese, prendendo ogni volta che è stato possibile la via che porta al carcere di San Gimignano. Dopo 37 anni di carcerazione per il nostro sistema giudiziario Mario Trudu, che in carcere è entrato giovane, ha trascorso la maturità, e ora sempre lì si avvia alla vecchiaia, è ancora l’uomo del sequestro di oltre sette lustri fa". Ad illustrare la norma giuridica dell’ergastolo ostativo (‘l’ergastolo nell’ergastolò) è stato l’avv. Monica Murru. "È una condizione che secondo il legislatore esclude - ha precisato Murru - qualunque beneficio a meno che non ci sia da parte del colpevole una collaborazione in grado di fornire alle forze dell’ordine elementi per individuare altri responsabili del reato. Una possibilità impraticabile nei casi in cui il fatto criminoso risalga a tempi lontanissimi e/o quando il processo si è concluso con l’individuazione dei componenti dell’organizzazione. Esiste tuttavia qualche percorso per permettere a un ergastolano come Mario Trudu di poter fruire dell’opportunità di partecipare a un incontro pubblico per la presentazione dei suoi libri. È la strada della giustizia riparativa a cui stiamo lavorando con la Magistratura di Sorveglianza. Trudu si trova attualmente nel carcere di Oristano-Massama e nutriamo la speranza che nei prossimi mesi possa almeno per qualche ora rivedere quei luoghi dell’infanzia e quelle persone - ha concluso - che ha descritto in "Cent’anni di memoria". Ciò significherebbe non contravvenire alla norma ma trovare un’occasione per ristabilire una positiva relazione con la comunità d’origine da cui si è staccato in modo violento 37 anni fa". Nato a Arzana nel 1950, Mario Trudu nel 1979 viene arrestato con l’accusa di sequestro di persona a scopo di estorsione. Condannato per un delitto del quale da sempre si dichiara innocente, durante una breve latitanza è responsabile del sequestro dell’ing. Gazzotti. Condannato all’ergastolo ostativo, mentre è ristretto a Spoleto si diploma all’Istituto d’Arte. Attualmente si trova a Massama per poter effettuare colloqui con una sorella in gravi condizioni di salute. Lo stupro di gruppo non è una ragazzata di Michela Marzano La Repubblica, 28 giugno 2016 Quando una ragazza viene stuprata da un gruppo di coetanei - come accaduto nel Salernitano - in Francia si utilizza il termine tournante che, letteralmente, significa "far girare". Espressione forse brutale per designare uno stupro, ma anche molto efficace. Visto che ciò che accade quando un branco di maschi violentano a turno una ragazza è proprio questo: la si fa "girare" tra amici come se fosse una sigaretta o una lattina di birra. La si condivide e ce la si spartisce come se si trattasse di un semplice oggetto; la si utilizza e la si butta via come se fosse solo una cosa che appartiene a tutti e che quindi, di fatto, non appartiene a nessuno. Che problema c’è mai, sembrano pensare questi ragazzi convinti di non far altro che divertirsi tra compagni, nel "servirsi" di una donna-oggetto? Chi lo dice che una ragazza che viene "fatta girare" soffre? "Che c’è di male?", si chiedeva già il Marchese de Sade accusato di aver violentato una prostituta. "Non è lì per questo?" La filosofa statunitense Susan Brison, raccontando la violenza sessuale di cui lei stessa era stata vittima da giovane, definisce lo stupro come un "assassinio senza cadavere". Una violenza devastante che distrugge ogni riferimento logico e da cui è estremamente difficile riprendersi anche dopo molti anni; anche quando le tracce esterne sono ormai quasi del tutto scomparse. Quando si viene violentate, spiega Susan Brison, l’abisso della disintegrazione interna resta talvolta per sempre. Esattamente come restano la paura e la sensazione di impotenza, la difficoltà di incollare i cocci di un’integrità sbriciolata e l’impossibilità di raccontare agli altri quello che si è veramente vissuto. Ci vogliono anni per poter riuscire a integrare questo "pezzo di vita" all’interno di una narrazione coerente. E, per poterlo veramente fare, c’è bisogno che qualcuno ascolti, anche quando i ricordi sembrano incongrui; che qualcuno accompagni, senza domandare nulla. Anche perché l’umiliazione subita viene spesso rinforzata dal sentimento di impunità di quegli aggressori che faticano a rendersi conto della gravità del proprio gesto. Se l’uomo, "per natura", penetra, perché la donna dovrebbe soffrire nell’essere penetrata? Se l’uomo, "per natura", è predatore, perché la donna si dovrebbe rifiutare di essere trattata come una preda? Tanto più che, quando ci si ritrova in gruppo, sembra evidente seguire il movimento collettivo e comportarsi come gli altri: se lo fai tu, allora lo posso fare anch’io; se lo facciamo tutti, non c’è niente di male. E poi non si tratta, in fondo, di una semplice ragazzata? Non è un solo un gioco? Perché non ci si dovrebbe poter divertire almeno quando si è giovani? E allora, ancora una volta, si spalanca il capitolo della prevenzione e della decostruzione degli stereotipi di genere, dell’educazione all’affettività e della cultura del rispetto. Gli stupri continueranno ad esserci non solo finché non sarà chiaro a tutti che il corpo della donna non è a disposizione di chiunque e che ogni atto sessuale si giustifica e si fonda sempre e solo sul reciproco consenso, ma anche fino a quando ci sarà chi continuerà a banalizzare questi episodi di violenza estrema parlando di "ragazzate" o di "momenti di debolezza", come purtroppo accade ancora oggi, giustificando così l’ingiustificabile. Il sesso non è un gioco. Cioè sì, è anche un gioco. Ma solo se a giocare non sono solamente alcuni; solo se tutti sono d’accordo sulle regole; solo se una ragazza può divertirsi esattamente come si diverte un ragazzo. Altrimenti il gioco cessa, e si tratta solo di violenza e di brutalità, di dominio e di prevaricazione. Una violenza e una brutalità che non rispettano la persona che si ha di fronte, riducendola a mero oggetto. Un dominio e una prevaricazione che possono cessare solo a patto che si capisca che nessuno è a disposizione di nessuno e che ogni azione che si compie ha delle conseguenze sulla vita degli altri. Soprattutto quando si parla della violenza sessuale perpetrata su una ragazza che si "fa girare" tra amici come se si trattasse di una sigaretta o di una lattina di birra pensando che non si stia facendo niente di male. Dimenticando (o non avendo mai imparato) che le frontiere del corpo sono le frontiere dell’io. E che l’io è sempre inviolabile. A meno di non cancellarne per sempre l’irriducibile umanità. L’Ue prova a mantenersi unita sui migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 28 giugno 2016 Bruxelles. Guarda di frontiera europea, ampliamento della missione Ue nel Mediterraneo e Turchia al vertice di oggi. Se non ci fosse stata la Brexit sarebbe stato l’argomento principale del Consiglio europeo che comincia oggi pomeriggio a Bruxelles, ma seppure in tono minore la crisi dei migranti continuerà a tenere banco al vertice dei capi di stato e di governo europei, anche in vista dell’imminente avvio, il primo luglio prossimo, del semestre di presidenza slovacca. Il primo per Bratislava, che da qui alla fine dell’anno dovrà gestire dossier delicati come l’avvio delle procedure per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, ma anche la revisione del regolamento di Dublino e del sistema europeo di asilo, insieme alla gestione delle frontiere esterne. Non poco per un paese che, insieme a Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, nell’ultimo anno è stato tra i maggiori sostenitori di una linea dura nei confronti di migranti e rifugiati. Tutti temi delicati, come del resto lo sono anche quelli in agenda oggi. A partire da un aggiornamento dell’accordo sui migranti siglato con la Turchia. Dal 20 marzo scorso, giorno di avvio dell’intesa, gli arrivi sulle isole greche si sono pressoché azzerati. Il che permette ad Ankara di reclamare, oltre ai 6 miliardi di euro promessi, anche la contropartita politica prevista, soprattutto per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi. Una richiesta sulla quale potrebbero crearsi crepe profonde tra Ue e Turchia. L’Europa chiede infatti ad Ankara l’adempimento di tutti e 72 i criteri ritenuti indispensabili per poter procedere, ma anche una modifica della legge antiterrorismo voluta dal presidente Erdogan. Da parte sia Ankara, intenzionata a non cedere, replica sostenendo l’inesistenza di un collegamento tra la legge in questione e l’accordo sui migranti. Bisognerà vedere chi la spunterà. Decisamente meno problematico è il secondo punto sul tavolo, che riguarda il varo della guardia costiera e di frontiera europea, punto che fa parte anche di un piano per rafforzare l’Europa messo a punto da Parigi e Berlino. Il compromesso che mette fine a mesi di discussioni è stato raggiunto una settimana fa e prevede la creazione di una nuova agenzia che potrà contare su 1.500 uomini messi a disposizione dagli Stati membri (l’Italia contribuirà con 125 persone) dislocati nei paesi di appartenenza ma pronti a intervenire in caso di emergenze che possano mettere a rischio l’area Schengen. Particolare importante: è stato stabilito che la decisione di far intervenire la guardia di frontiera spetta a Bruxelles su proposta della Commissione e dopo decisione del Consiglio (con maggioranza qualificata). Se il governo ai cui confini si è creata la crisi non dovesse collaborare, l’Ue può far ricorso all’articolo 29 del codice di Schengen che prevede la chiusura delle frontiere dei paesi confinanti fino a un massimo di due anni. Il terzo punto sul piatto riguarda la stipula di nuovi accordi con i paesi africani di origine e di transito dei migranti al fine di bloccare le partenze e favorire i rimpatri, sulla base di quanto previsto dalla migration compact proposta dalla Commissione europea. L’Italia chiede anche un aumento di ulteriori 500 milioni di euro del fondo per l’Africa. Infine, dopo la risoluzione del consiglio di sicurezza Onu, dal vertice dovrebbe arrivare anche il via libera politico all’ampliamento della missione europea EuNavFor Med-Sophia nel Mediterraneo centrale. Va detto che mentre Bruxelles discute di migration compact, un nutrito numero di associazioni chiede all’Unione europea di fare un passo indietro proprio rispetto al piano messo a punto da Jean Claude Juncker. "Così com’è i piano aumenterà le violazioni di diritti umani, produrrà respingimenti, creerà condizioni per cui gli aiuti allo sviluppo diventeranno aiuti alla repressione", ha spiegato ieri il presidente di Amnesty international Italia Riccardo Noury in una conferenza stampa alla quale hanno preso parte anche Caritas, Medici senza frontiere, Concord Italia e Arci. "Vogliamo che venga chiusa questa stagione di iniziative europee che non hanno funzionato" ha detto il vicepresidente dell’Arci, Filippo Miraglia. "In Turchia stiamo dando soldi e rafforziamo un dittatore, aumentando il numero dei turchi e degli oppositori che cercherà di arrivare in Europa". Quei muri antistorici destinati a sgretolarsi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 28 giugno 2016 Nel tempo della crisi galoppante, nel tempo dei barconi che attraversano ogni giorno il Mediterraneo per approdare sulle spiagge dell’Europa più esposta, nel tempo in cui si assiste con sgomento alla morte per annegamento di tanti che fuggono da guerre e fame, nel tempo in cui le nostre scuole si stanno riempiendo di bambini nati da genitori stranieri e diventeranno presto italiani, la paura sta montando come un lievito che fa maturare il pane. Solo che quando il lievito è troppo, il pane esplode e non rimane nulla da mangiare. La Storia non sta ferma, come non stanno ferme le cellule del nostro corpo che muoiono e rinascono in continuazione. Ma le cellule non le vediamo e quindi non ce ne occupiamo, mentre i mutamenti visibili ci terrorizzano. Ma chi pensa di fermare la storia fa come lo struzzo che caccia la testa sotto la sabbia, rimanendo ridicolmente esposto dal collo in su. La logica, la saggezza, l’interesse comune vogliono che i cambiamenti si affrontino, anche quando sono dolorosi. Chi si oppone alle trasformazioni storiche è destinato a soccombere, come uno che, nella voglia di rimanere sempre giovane, decida di fermare la morte delle cellule. Un corpo che non lascia libera la metamorfosi delle unità biologiche, è un corpo imbalsamato che cadrà a pezzi, sgretolato. In tempo di globalizzazione le piccole patrie non possono sopravvivere. Vengono fagocitate dalle grandi patrie. Anziché isolarsi bisogna allearsi. Pur mantenendo la propria identità. Prendiamo esempio dalla Svizzera, che è una e tante nello stesso tempo, ha una moneta unica e un unico parlamento che però tiene conto della volontà dei cantoni e ciascun cantone parla la sua lingua. Chiudersi dentro un muro che isola e consola è la cosa più antistorica che esista. Non ci sono muri che fermino il movimento dei popoli. Solo costruendo cammini, facendo progetti comuni a lunga scadenza, si può governare il futuro. E su questo dovrebbe ingegnarsi l’Europa. Che ha già dato tanto: settanta anni di pace, la libertà di movimento, la libertà di studio e di ricerca, una moneta solida con cui si sono costruite città intere. Ha peccato di burocrazia? Ha sbagliato strategie? Certo e anche spesso. Ma non per questo la si butta via. La si aggiusta, come si aggiustano le cose buone e importanti che abbiamo conquistato con tanta fatica. Costruire argini politici al dilagare del populismo di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 28 giugno 2016 La funzione dei partiti deve essere quella di assorbire la protesta prima che degeneri. Boris Johnson, battutista antieuropeista, nella carica di primo ministro che fu di un conservatore di stampo diverso, lo statista Winston Churchill. Donald Trump, miliardario insofferente, presidente negli Stati Uniti che vennero guidati da John Kennedy. Marine Le Pen, estremista di destra, alla testa della Repubblica francese rimodellata da Charles de Gaulle, generale della destra antifascista. In Italia, Repubblica governata decenni da un partito con una croce nel simbolo, nella prossima legislatura un presidente del Consiglio di "5 Stelle", formazione vittoriosa nelle elezioni locali il nome della quale coincide con la categoria di lusso degli alberghi. Non è detto che questi pronostici su Downing street, Casa Bianca, Eliseo e Palazzo Chigi si avverino. Di certo il novero delle ipotesi realizzabili si è allargato a quanto poco tempo fa sembrava inimmaginabile. La vittoria del distacco dall’Unione Europea nel referendum britannico potrebbe essere l’inizio di una serie di scosse ad assetti che davamo per scontati. Quelle elencate sono soltanto quattro delle possibilità di nuovi ingressi in centri di potere statale nei prossimi anni. Che nella brevità di un tweet anche il capo di gabinetto del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker abbia tratteggiato un panorama del genere, prendendo di mira il populismo, non deve indurci a personalizzare il problema impedendoci di valutare un fenomeno più vasto. Si aprono scenari inesplorati mentre il ricambio generazionale negli elettorati e ramificate vie istantanee di comunicazione collettiva a distanza si combinano a un aumento del divario tra i ricchi e i poveri, accentuato dalla crisi economica cominciata nel 2008 e alto anche dove questa è stata superata. In un articolo intitolato "Come Internet sta distruggendo la politica", il sito statunitense Vox Technology ha osservato: vendendo libri sul web Amazon ha demolito librerie; per la musica i servizi online di iTunes e Pandora hanno sradicato la potenza di case discografiche; nel trasporto Uber ha colpito gli oligopoli di società di tassisti. "Adesso tocca al sistema politico", è la tesi dell’articolo. Nuove fonti di informazione in Rete erodono il potere delle "media élite" determinando una competizione elettorale "più aperta, e più caotica, che mai". Non è che le catene tradizionali per distribuire informazioni e raccogliere fondi non contino più. Entrano però in gioco, da posizioni meno subordinate, estranei ai circoli consolidati. Non soltanto Trump, negli Stati Uniti. Vox ha constatato che Paul Krugman e progressisti prestigiosi hanno definito irrealistica la politica del socialista Bernie Sanders e ciò non ha impedito al concorrente di Hillary Clinton per la candidatura presidenziale dei democratici di accrescere i consensi. Perché? "Una delle principali ragioni del fallimento di questi attacchi è che tanti sostenitori di Sanders non li hanno neppure visti". E come mai? Perché su Internet volevano leggere articoli pro Sanders, non su Sanders. Nell’analizzare comportamenti su Reddit, Facebook e Twitter, Vox ha dato una spiegazione a proposito dei siti basati su condivisioni con amici: "Dato che la gente tende ad avere politiche simili ai propri amici, significa che i social media tendono a rinforzare quanto la gente crede già". Globalizzazione e risurrezione di spiriti tribali appaiono antitetici, eppure coabitano in questa epoca. Lo si vede in Africa e Medio Oriente. Non è escluso che la seconda sia reazione alla prima. Non si abbia fretta di catalogare grossolanamente in un’unica categoria tutti i cambiamenti in corso senza avere l’umiltà di studiarli. In settori delle attuali classi dirigenti si spera in una soluzione austriaca: la probabilità di una presidenza dello xenofobo Norbert Hofer si è affacciata, poi in extremis è evaporata. In Austria però l’ecologista Alexander Van der Bellen, che ha vinto di misura, era un altro fuori dai giochi. E nulla garantisce automaticamente che il dilatarsi di pulsioni antisistema, all’estero anche antidemocratiche, resti sempre sotto le soglie necessarie per conquistare presidenze di Stati e governi. A mancare è una sufficiente capacità delle forze più collaudate di convogliare in circuiti democratici energie esterne, prive di innata familiarità con la democrazia occidentale. L’elezione di un musulmano a sindaco di Londra, Sadiq Kahn, nato a Tooting da famiglia pachistana, indica che nella capitale britannica il Partito laburista è riuscito a recepire esigenze di rappresentanza inimmaginabili prima, benché non tali da impedire poi su scala nazionale la sconfitta nel referendum. Occorrono strategie, lungimiranza. Va evitato che i partiti siano comitati elettorali di singoli rinunciando a essere reti utili per crescite collettive. L’intraprendenza dei giovani e la saggezza degli anziani si scambino reciproci stimoli. Perché se la velocità della circolazione di informazioni sembra proiettare in avanti, l’insicurezza incentiva ritorni all’indietro, a integralismi, velleità restauratrici. È nella confusione immemore, condizione di mercato ideale per incantatori e procacciatori di illusioni, che servono rotte e affidabili capacità di guida. Alle energie della protesta i sistemi politici offrano canali costruttivi, recependo in tempo istanze provenienti da fuori senza lasciarle degenerare. E chi ha responsabilità resista alle tentazioni della sondaggite, della politica usa e getta che, pur di piacere, non indirizza più l’evolversi dello stato delle cose. Una carta costituzionale europea per superare tutti i nuovi confini di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 28 giugno 2016 Con il risultato del referendum inglese il capitalismo finanziario che governa gran parte delle dinamiche mondiali ha ottenuto un’altra importante vittoria. Solo ad una lettura superficiale e di corto periodo dell’avvenimento si potrebbe credere il contrario, cioè che le forze antisistema, perlopiù di destra, ma anche qualche sprovveduto alter-mondialista, siano i veri trionfatori della Brexit. Se l’economia finanziarizzata è senza territorio, senza nazione, senza spazio, se ha progressivamente superato tutte le differenze di cultura e di clima tra le varie parti del globo rendendolo realmente ciò che è, un luogo senza inizio e senza fine in cui i confini sono retaggi del passato, ebbene l’ulteriore scomposizione europea risulta un tassello fondamentale nella sua strategia di globo-colonizzazione. Che senso ha oggi, infatti, pensare le Nazioni come spazio di governo reale delle dinamiche economiche? Quale modello è realmente e stabilmente sovrano nel mainstream dei flussi di capitale? Noi sappiamo, ma non riusciamo a pensare questo dato in termini politici, che ogni microsecondo miliardi vengono spostati da una parte all’altra del globo senza nessuna regolazione, mossi da algoritmi atti solo a guadagnare plusvalenze da qualunque cosa, dalle vite migranti alle armi, passando per consumi di lusso o cultura di massa. Su tutto questo, che influenza nella quotidianità la nostra vita spirituale, imaginale e materiale, che ci condizione nel profondo archetipico della nostra relazione con mondo dentro e fuori di noi, che potere hanno oggi gli Stati, le Nazioni? Estremamente residuale purtroppo, o per fortuna, se solo riuscissimo a pensare il globo per come lo ha reso uniforme questo flusso. Tutto scorre, diceva Eraclito di Efeso, riferendosi al fluire del tempo. Ma oggi che tempo e spazio sono la stessa cosa, o meglio che lo spazio non esiste più perché annullato, sussunto nel tempo degli scambi "in tempo reale", che senso ha questa verità? Evidentemente abbiamo bisogno di rivedere le nostre categorie e di adattare la nostra episteme a condizioni già da tempo mutate ma che non riusciamo a cogliere nelle loro implicazioni politiche. Gli "utili idioti" delle destre xenofobe, con la bava alla bocca per la Brexit sono dunque solo le teste di ariete per un ulteriore processo di sminuzzamento mucillaginoso delle società europee ridotte a meno dei loro individui, come proponeva la Thatcher quando fece entrare la Gran Bretagna nella Cee, e lo fece proprio perché in quel momento il significato della scelta non era affatto "europeista" ma strumentale alla decostruzione di una Europa che doveva così essere frenata e sottoposta ai diktat liberali che allora stavano divenendo liberisti: la reganomics. Infatti, l’effetto domino che probabilmente si attiverà, dato che i politici europei non hanno le circonvoluzioni celebrali per pensare se non in termini territoriali e di breve periodo, porterà ad un azzeramento radicale dell’ideale europeo come venne concepito da Spinelli, cioè uno spazio macroculturale, aperto e poroso, prima ancora che politico ed economico, nel quale i popoli mettevano da parte le diseguaglianze per costruire, attraverso le loro diversità, uno spazio comune. È evidente ad ogni ragazzino collegato al mondo attraverso il suo smartphone che lo spazio minimo per riacquistare diritti, partecipazione, governo dei territori, podestà sulla propria esistenza, è almeno continentale. E dunque da oggi il dibattito sulla costruzione di una sinistra all’altezza delle sfide deve decisamente prendere una piega di questa portata, mettere subito da parte i livelli nazionali, ricomporsi su scala europea, ripensarsi nell’internazionalismo che ci impongono le mutate condizioni. Questi mesi vedranno momenti difficili per le istituzioni democratiche nazionali ed internazionali: le ricette del rigorismo cercheranno di dare la spallata finale al progetto europeo, lasciando poi le destre amministrare la povertà e le diseguaglianze. È possibile che molti governi cadranno, incluso quello italiano, incapaci di ripensare l’Europa come rinascita culturale di una idea di eguaglianza, welfare, libertà di circolazione e solidarietà euro mediterranea. Bisogna cominciare da subito a mettersi insieme per attivare un progetto di inclusione culturale a sinistra, avendo come obiettivo una Carta Costituzionale Europea come programma fondamentale per superare confini che prima di noi sono stai abbattuti dal nostro avversario. La tratta delle nigeriane gestita in Italia: la metà delle ragazze dirottata verso Nord di Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 giugno 2016 Il numero di giovani africane portate in Italia dal racket della prostituzione è in costante aumento. Solo nei primi 5 mesi del 2016 ne sono arrivate duemila, confermando l’incremento del 300% registrato nel 2015. Allo stesso modo si abbassa sempre di più l’età delle vittime: una su cinque è minorenne. Il nostro paese è diventato la base di smistamento scelta dagli sfruttatori per distribuire le sue prede sul mercato internazionale, in particolare del Nord Europa. Le ultime cifre dicono che nei primi cinque mesi dell’anno siamo oltre quota 2000, in linea con il flusso dell’anno scorso, che aveva già fatto segnare un aumento del 300% negli arrivi di ragazze nigeriane sulle coste italiane. E l’80% di loro è nelle mani della tratta. Sono cifre drammatiche quelle che, incrociando i dati del Viminale sugli sbarchi di migranti nel nostro paese con quelli segnalati da organizzazioni come Oim e Save the children, disegnano un fenomeno in vertiginosa quanto tragica crescita: il racket delle sempre più giovani nigeriane che ogni anno vengono schiavizzate dalle organizzazioni internazionali e alimentano un fiorentissimo racket della prostituzione quasi sempre di strada che dall’Italia manda migliaia di ragazze in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Austria e persino in Finlandia come hanno documentato alcune recentissime inchieste di Procure italiane che hanno portato ad arresti di trafficanti e maman. Un esercito di minorenni. Erano poco più di 400 nel 2013, 1500 nel 2014 e 5000 lo scorso anno le ragazze nigeriane arrivate in Italia sui barconi già pronte ad essere recuperate dagli emissari del racket nei centri di accoglienza prima e addirittura negli "hotspot" adesso. E delle 5.000 approdate lo scorso anno, un migliaio almeno sono le minorenni. Con un’età media sempre più bassa, intorno ai 15 anni, visto che sempre più spesso gli uomini delle forze dell’ordine si ritrovano davanti tredicenni, poco più che bambine. I nigeriani, con oltre 22.000 persone, sono in testa nella speciale classifica delle nazionalità dei migranti in arrivo sui barconi che partono dalla Libia e le ragazze sono in percentuale sempre crescente. Violenze, riti voodoo e gravidanze indesiderate. La testimonianza di Irene Paola Martino, ostetrica imbarcata su una delle navi di Medici senza frontiere che pattugliano il Canale di Sicilia per le operazioni di soccorso, racconta meglio di ogni altra cosa il fenomeno sul quale ora le organizzazioni umanitarie chiedono un intervento forte dell’Europa. "In ogni sbarco c’è sempre un nutrito gruppo di ragazze nigeriane, moltissime delle quali minorenni - dice - le riconosci subito perché stanno sempre insieme e sono molto guardinghe. Quando le separi dagli altri migranti, pian piano riesci a parlare con loro e raccontano tutte storie di inaudita violenza, stupri di gruppo sotto la minaccia delle armi. Ho visto molte di loro con lesioni serie, alcune permanenti, moltissime sono incinte a seguito di queste violenze e infatti la prima cosa che fanno è chiedere un test di gravidanza, ma poi sono pochissime quelle che si affidano a noi e chiedono di abortire. La maggior parte, appena mette piede a terra, cambia subito atteggiamento: tengono gli occhi bassi, non rispondono più neanche ad una domanda, sono terrorizzate, sanno che c’è chi le attende e che se non obbediranno agli ordini i riti voodoo a cui sono state sottoposte prima della partenza porteranno il male nelle loro famiglie". La filiera dello sfruttamento. Ed effettivamente è cosi che funziona. Le ragazze vengono reclutate nei loro villaggi in Nigeria con il miraggio di arrivare in Europa e avere a portata di mano la possibilità di migliorare le loro condizioni di vita studiando o lavorando come baby sitter o badante. Le famiglie che hanno qualche soldo da parte pagano, ma la maggior parte contrae con l’organizzazione un debito da 30-40.000 euro che potrà ripagare solo in sette-dieci anni prostituendosi a cifre bassissime, anche venti euro a prestazione. A legarle a doppio filo all’organizzazione, che ne cura il trasferimento in Libia attraverso il Niger e poi in Italia sui barconi e il loro recupero una volta arrivate in Italia, c’è soprattutto il terrore per i riti voodoo a cui sono sottoposte, un taglio di ciocche di capelli, di peli di pube e di unghie che i reclutatori nigeriani tengono con loro insieme ad una foto delle ragazze, una sorta di pegno per il "patto di sangue". Un racket spietato. E poi finiscono sulla strada, costrette a prostituirsi per otto-dieci ore, giorno e notte, al soldo di maman che altro non sono che ragazze come loro, appena più grandi, che arrivate in Italia da qualche anno hanno accettato di affrancarsi dalla prostituzione e continuare a pagare il loro debito facendo da maitresse alle nuove arrivate. In Italia le zone dove il racket piazza il maggior numero di vittime sono il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, ma il "mercato" è in grande espansione soprattutto all’estero. Molte indagini hanno portato alla luce come almeno la meta delle ragazzine che arriva in Italia venga dirottato rapidamente all’estero, soprattutto in Francia, Gran Bretagna e Spagna, e piu di recente anche nei paesi nordici, su tutti la Finlandia. La protezione anti-tratta. In Italia, la cosiddetta legge anti-tratta prevede che le ragazze che decidano di sfuggire a questo destino e accettino di collaborare e indicare maman e trafficanti vengano ospitate in apposite comunità di accoglienza, seguite in un difficile percorso di affrancamento psicologico e indirizzate verso un’occupazione legale naturalmente potendo usufruire di un particolare permesso di soggiorno. L’anno scorso sono stati 915 i permessi di soggiorno per motivi umanitari rilasciati dalle questure italiane, 178 da gennaio a maggio 2016 stando ai dati forniti dalla Direzione centrale servizi civili dell’immigrazione e dell’asilo del Viminale. Ma i posti disponibili nelle residenze dedicate all’ospitalità di queste ragazze, soprattutto se minorenni, sono assolutamente insufficienti anche se proprio nei giorni scorsi è partito il primo bando per il finanziamento di progetti anti-tratta. Complessivamente sono 13 i milioni di euro messi a disposizione per i prossimi 15 mesi dal ministero delle Pari opportunità. La tratta delle nigeriane gestita in Italia: mesi di violenze, poi l’imbarco per la Sicilia di Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 giugno 2016 Ethis oggi lavora felice in una pizzeria del Ragusano. Ha 17 anni appena compiuti e, se non fosse stato per quella ragazza nigeriana come lei, solo un po’ più grande, arrivata come lei su un barcone e oggi diventata interprete nel "pool sbarchi" della polizia di Ragusa, oggi sarebbe per strada a prostituirsi. Come Precious, o Janet, due delle ragazzine tutte minorenni reclutate dagli uomini della tratta in uno sperduto villaggio della Nigeria, sottoposte a rito voodoo e a violenze di ogni genere e spedite su un barcone in Italia, pronte per entrare a far parte della grande "batteria" del racket della prostituzione. Quel giorno di luglio 2015, quando sbarcò a Pozzallo, Ethis invece decise di collaborare con la polizia, diede il numero di telefono della maman che avrebbe dovuto recuperarla in Sicilia e sparì in uno dei centri riservati in cui la legge anti-tratta garantisce protezione e accoglienza alle ragazze che denunciano i loro sfruttatori. Le false promesse. E così oggi che la sua testimonianza ha portato all’arresto di cinque dei suoi aguzzini, dopo un lungo viaggio che di certo non l’avrebbe portata in Europa a lavorare come baby sitter o badante come le avevano promesso ma su un marciapiede di una delle tante citta dove è attivo il racket, Ethis racconta la sua storia fatta di estrema povertà, violenza e di abusi sessuali subiti in casa sin dall’età di otto anni quando rimase orfana di entrambi i genitori. "Sono cresciuta in un poverissimo villaggio della Nigeria con mia nonna ed uno zio materno che mi violentava continuamente. Anche per questo, quando mi proposero di partire per l’Europa insieme ad un gruppo di altre ragazze, decisi di fuggire. Ovviamente non avevo soldi per pagare il viaggio, ma Ester, la donna nigeriana che ci ha reclutate, mi disse che avrebbe pagato lei per me e avrei potuto restituire il prestito dopo, una volta arrivata in Italia, dove avrei studiato e trovato lavoro con i bambini o gli anziani". Debiti e minacce. Trentamila euro. A tanto ammontava il debito che Ethis avrebbe dovuto restituire all’organizzazione. Sarebbe stata una schiava per dieci anni. Che le cose non stavano proprio come le avevano raccontato la ragazzina cominciò a capirlo quando la sottoposero al rito voodoo. "Un mese prima della partenza Ester e altri tre uomini mi portarono vicino Benin City e mi fecero il rito Ju ju. Mi tagliarono una ciocca di capelli e le unghie e mi dissero che era un patto di sangue, se non lo avessi rispettato avrei causato sciagure a me e alla mia famiglia, mi avrebbero liberato dal rito solo dopo aver estinto il debito". Giorni d’inferno. L’incubo di Ethis cominciò subito, durante il viaggio che dalla Nigeria l’avrebbe portata prima in Niger in bus e poi in macchina fino a Tripoli. "Steven, l’uomo che ci venne a prendere in Niger, era armato di fucile. Il viaggio in macchina verso la Libia durò una settimana e ogni sera ci costringeva a rapporti sessuali. Anche a Tripoli, nella connection house dove sono stata rinchiusa per quasi un mese insieme a decine di altre persone, noi ragazze nigeriane venivamo violentate continuamente". La scelta di denunciare. Poi finalmente, venne la sera del gommone. E la traversata conclusasi con il salvataggio da parte della nave Phoenix. Tra i 217 migranti portati a Pozzallo quel giorno le nigeriane erano 35. Ma solo Ethis, cogliendo al volo lo sguardo e le poche parole sussurratele all’orecchio da un’interprete, decise di non seguire le indicazioni che le erano state date. Avrebbe dovuto chiamare Ester, la donna che l’aveva reclutata in Nigeria, e comunicarle il centro di accoglienza in cui l’avevano portata. Poi avrebbe dovuto aspettare lì che la venissero a prendere per portarla alla sua destinazione finale. Francia o Finlandia, stando alle conversazioni tra i trafficanti intercettate dagli investigatori della squadra mobile di Ragusa che hanno salvato Ethis dal suo drammatico destino. La tratta delle nigeriane gestita in Italia: clan cauti e feroci che puntano in alto di Gianluca Di Feo La Repubblica, 28 giugno 2016 Per l’Fbi non ci sono dubbi: quella nigeriana è l’unica organizzazione criminale africana che sta diventando simile alla mafia. Ed infatti è il solo clan non europeo ad avere messo stabili radici nel Vecchio continente: sono attivi in Inghilterra, Francia, Italia, Belgio e Germania ma continuano ad espandersi. In realtà, non si tratta di un’unica mafia ma di una confederazione di gruppi spesso divisi in patria ma pronti a coalizzarsi per gestire traffici internazionali. A partire da quello della prostituzione, con proventi che vengono sempre più spesso investiti nel commercio della droga. La loro forza nasce da un duplice segreto. Il primo è la violenza innervata di significati magico-religiosi, una caratteristica comune a molte realtà criminali o eversive dell’Africa: il voodo abbinato all’efferatezza degli associati, che non esitano a commettere omicidi rituali con la mutilazione delle vittime, costruisce una profonda omertà all’interno dei clan. Non ci sono pentiti, raramente le indagini aperte in Europa vengono sostenute da rivelazioni di membri dei gruppi e persino le ragazze sfruttate sono così terrorizzate da rimanere fedeli ai loro aguzzini. C’è poi la flessibilità nell’inserimento sui mercati clandestini, evitando lo scontro con chi controlla il territorio: puntano sulla fascia più bassa della prostituzione, quella che non interessa ai mafiosi albanesi o alle bande dell’Europa orientale. Un settore dove le cosche italiane non sono più attive da decenni o - come nel caso di Cosa Nostra - per tradizione non hanno mai operato. La droga finora viene rivenduta all’interno della comunità, anche se da Londra arrivano segnali allarmanti su un ruolo dei nigeriani nell’importazione e nello spaccio di cocaina. L’Africa occidentale infatti sin dagli anni Novanta è diventata un terminal della "neve" prodotta in Colombia, che da lì poi viene smistata verso l’Europa e l’Asia: una rotta secondaria rispetto alla maggioranza dei flussi che attraversano l’Atlantico, perché se l’instabilità dei paesi di approdo facilita lo sbarco allo stesso tempo non offre garanzie sulla sicurezza dei carichi. In questo business i clan locali finora hanno avuto mansioni ancillari rispetto ai narcos, limitandosi a intascare mazzette o aiutarli nel trasferimento delle partite. Ma sono in aumento le informative di intelligence che pronosticano l’ingresso della mafia nigeriana nell’affare, unica formazione con risorse economiche e reti internazionali tali da permettergli di assumere una posizione da protagonista. Per questo i dati sull’aumento delle schiave nigeriane che sbarcano sulle coste europee richiedono una risposta rapida da parte delle autorità: ognuna di queste donne va ad aumentare il potere e la ricchezza di boss che stanno cercando nuovi spazi. Presto potrebbero diventare così forti da inserirsi in prima persona nella gestione delle attività criminali. Una minaccia che si può ancora prevenire, partendo dall’impegno per liberare queste ragazze senza futuro dal ricatto dei trafficanti. Alcuni esperti sostengono che il contrasto dovrebbe partire dal momento dello sbarco, isolando le ragazze nigeriane attraverso colloqui mirati condotti da un pool specializzato e inserendole in un percorso differenziato per la richiesta di asilo: un meccanismo che possa conquistarne la fiducia e spingerle a rompere il vincolo di terrore intriso di voodo che le imprigiona. Sarebbe una grande operazione umanitaria, capace di assestare un colpo micidiale alla nuova mafia africana. Libia: reportage nelle carceri "io, kamikaze dell’Isis… arriveremo a Roma" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 giugno 2016 Ciò che più colpisce è l’assoluta tranquillità con cui ammette il suo progetto di farsi saltare in aria in nome di Allah. "Le mie paure non contano. Faccio ciò che è giusto per la nostra religione. Morirò e andrò in paradiso, così è scritto, così vuole Dio e chiede il Corano", ripete con voce monotona. Carnagione scura delle popolazioni del Fezzan, magro, nervoso, forte, capelli nerissimi, lo sguardo fisso, determinato. Neppure un goccio di sudore imperla la sua fronte, seppure la stanza sia afosa. "Presto arriveremo a Roma. La città simbolo dell’Occidente infedele. E da lì prenderemo tutta l’Europa, dalla Libia è facile. Per i cristiani e gli infedeli resteranno solo tre alternative: convertirsi all’Islam, pagare la tassa prevista della nostra legge religiosa se non intendono farlo, oppure venire uccisi". Così, semplice. Lo abbiamo sentito molte volte, è diventato quasi un cliché. Però affermato in diretta da un aspirante kamikaze che voleva tra gli altri assassinare Paolo Serra - il generale italiano che è consigliere militare di Martin Kobler, l’inviato Onu per la Libia sostenitore del premier Fajez Sarraj - nel cuore di Tripoli torna a suonare sinistro e pericolosamente reale. Nella sede dei servizi segreti - Abbiamo incontrato Mahmud Ibrahim dall’una di notte alle cinque di mattina due giorni fa nella sede centrale dei servizi segreti libici. Una stanza disadorna, poltrone in finta pelle, luce al neon, soffitti alti, tappeti consumati e polverosi. Lui è appena stato arrestato e si trova ancora sotto interrogatorio. Ma il capo dei servizi, Mustafa Nuah, pare soddisfatto nel mostrarlo a un giornalista italiano. "I nostri due Paesi hanno una lunga tradizione di vicinanza. Oggi abbiano un nemico comune: l’Isis. Sappiamo che dalla Libia le sue cellule controllano il traffico dei migranti e lo utilizzano anche per inviare i loro militanti verso le vostre coste. A noi preme una cooperazione più stretta. Se non collaboriamo, la nostra sconfitta sarà anche la vostra", dice senza mezze parole, contento di enfatizzare il proprio ruolo. "Abbiamo in carcere o siamo sulle tracce di tanti terroristi e criminali che ai servizi segreti italiani interessano tantissimo. Gente che si muove senza troppi problemi tra Milano, Roma, Sabratha, Sirte e le oasi nel Fezzan". Il fratello nella sicurezza - Ibrahim è uno di loro. "Avrei dovuto eliminare Serra, Sarraj e Kobler. Con i miei due fratelli, Al Hassan che ha 30 anni e Abu Bakr di 32, c’eravamo quasi riusciti, era tutto pronto. Abu Bakr era stato assunto nel servizio di sicurezza del governo Sarraj, nella base della marina militare di Abu Sittah. Io e Al Hassan siamo invece in contatto con i nostri compagni dello Stato Islamico a Sirte e Sabah, che ci hanno fornito l’esplosivo. Il piano era che Abu Bakr ci avrebbe lasciato entrare con un auto-bomba e due cinture esplosive durante un incontro tra Serra, Kobler e Sarraj previsto nelle prossime settimane. Non avrebbero avuto scampo", spiega. Come siete stati fermati? "Sono andato a scattare alcune foto sul posto, ci servivano per la logistica. Forse allora mi hanno individuato", risponde. A detta di Nuah, sarebbe stato proprio Serra a fare assumere Abu Bakr. "L’italiano si è occupato di organizzare la sicurezza di Sarraj", sostiene. Ibrahim racconta quasi come se la cosa non lo riguardasse affatto. "Così doveva avvenire. Lo faranno altri al posto mio", aggiunge. "Non so se lo rifarei" - Ti sei pentito? Lo rifaresti? "Perché pentito? Sarebbe stato giusto, ma non so se lo rifarei", risponde. Dice di avere una moglie nella città costiera di Khusm, Besma, 29enne come lui, incinta al terzo mese. Sapeva Besna delle sue intenzioni? "Sì, non era s’accordo, ne abbiamo parlato, ma non si è mai opposta. Conosce le mie idee, i miei amici a Sabah. Sa che ho partecipato alla rivoluzione contro Gheddafi con le brigate islamiche nel 2011. Sa che poi a Nofilia nel 2014 sono stato allievo di Abu Abdallah, un imam 26enne legato al Califfato. Sa che in seguito ho combattuto in Iraq, Siria e infine a Sirte". Il ritmo quasi monotono della sua voce diventa acuto soltanto quando il nostro traduttore, personalmente offeso dalle sue dichiarazioni sull’Islam, lo accusa di non conoscere nulla del Corano. "Ma chi sei tu per palare a nome mio? Conosci i principi fondamentali della nostra fede?". Per un attimo lo scambio si fa dottrinale. Si parla di Zakkah, la carità religiosa, e dei precetti del Ramadan. Ibrahim si fa paonazzo, chiaramente è in difficolta quando si tratta di discutere. È l’unico momento in cui i due marcantoni armati che fanno da guardie del corpo controllano più attenti che non provi a togliersi le manette, paiono pronti ad intervenire. Ma lui si calma subito. "Quello che dico è giusto. Io difendo la mia religione, il mio popolo. Presto tutta l’Europa sarà musulmana", dice come parlasse a se stesso. La conversione degli italiani - Tutto diverso dal 34enne Atef al Duwadi, tunisino di Biserta, tre figli piccoli, accusato dai servizi d’informazione a Tunisi e Tripoli di essere uno dei leader di Isis, sospettato tra l’altro di aver ideato l’attentato al museo del Bardo l’anno scorso, costato la vita a tanti turisti italiani. Per ben tre ore ci ha parlato l’altra notte, senza però sostanzialmente ammettere nulla, se non il fatto di essere riuscito a convertire all’Islam due italiani (a suo dire entrambi di Milano). "Ci siamo parlati via internet per mesi. Alla fine li ho convinti. La cerimonia della loro conversione in Tunisia è stata commovente", si limita a dire, senza però rivelare nomi o altro dettaglio che possa portare alla loro identità. Per il resto, ammette di essere stato nella Sirte di Isis in guerra, ma quasi fosse un turista. "Ci sono andato con amici che mi passavano soldi, stavo in albergo, non ho visto nulla", aggiunge. Però quasi piange insistendo sulla sua completa innocenza, senza peraltro fornire alcuna spiegazione ragionevole alle sue frequentazioni con Isis. I legami con lo Stato islamico - "Uno dei suoi amici più stretti è Al Moaz Ben Abdelkader al Fizani, meglio noto come Abu Nasim, un militante pericolosissimo che ha avviato cellule di Isis in Italia, specie a Milano. Non è strano che sia in cima alla lista dei ricercati dei servizi italiani. Ha combattuto con le brigate islamiche in Bosnia e Afghanistan", rivelano gli agenti libici. Per loro l’assedio di Sirte si sta rivelando una miniera d’informazioni. A loro dire, sia il capo militare di Isis nell’enclave assediata, il saudita Abu Amer al Jazravi, che quello religioso, Hassan al Karami delle "montagne verdi" in Cirenaica, controllano da vicino il traffico dei migranti verso l’Italia. "Potremmo prenderli - spiegano. Ma necessitiamo di meccanismi per il monitoraggio elettronico dei cellulari, di radar, scambi d’informazioni". Stati Uniti: pronto lo sciopero contro i lavori forzati, sarà il 9 settembre prossimo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2016 Uno sciopero contro i lavori forzati nelle carceri americane. È quello che si appresteranno a fare i detenuti ristretti nei penitenziari americani il 9 settembre prossimo. Ad aprile lo sciopero era già stato attuato dai ristretti del Texas e lo rivendicarono tramite un volantino di cinque pagine redatto dagli stessi detenuti nonostante il rigido controllo del sistema penitenziario statunitense. "A partire dal 4 aprile 2016 - così iniziava il volantino - tutti i detenuti in tutto il Texas si asterranno dal lavoro al fine di ottenere attenzione da parte dei politici e della comunità del Texas". Le richieste erano ben articolate, partono dalla riforma del sistema della libertà condizionale, a quelle per rendere più umane le condizioni di detenzione, per ridurre e abolire la pratica dell’isolamento, fino a chiedere un credito di "buona condotta" per la riduzione della pena, per migliorare il sistema sanitario e per metter fine al contributo medico di 100 dollari, oltre a chiedere un drastico ridimensionamento della popolazione carceraria dello stato. La maggior parte dei prigionieri abili, presso le strutture federali, sono obbligati a lavorare gratuitamente e almeno 37 Stati permettono alle imprese private di far lavorare i prigionieri, anche se tali contratti rappresentano solo una piccola percentuale di lavoro carcerario. Judith Greene, un’analista di politica penale, ha detto al giornale on line Intercept: "Ironia della sorte, questi sono gli unici programmi di lavoro delle carceri dove i prigionieri prendono più di pochi centesimi all’ora". Nelle strutture visitate dalla Greene, i prigionieri lavorano tutto il giorno sotto il sole solo per tornare nelle celle e senza aria condizionata. "Le condizioni sono atroci, ed è giunto il momento che l’amministrazione penitenziaria del Texas ne prenda atto". Una situazione che è anche legata alla gestione privata delle carceri: più detenuti ci sono e più aumenta il giro d’affari. Un business che nei prossimi anni potrebbe moltiplicarsi ulteriormente. Dipenderà tutto da chi vincerà a novembre, visto che Hillary Clinton e Donald Trump hanno visioni diametralmente opposte. La Clinton è decisa a invertire la rotta delle incarcerazioni di massa riformando il sistema delle prigioni; mentre Trump vuole la deportazione di tutti i clandestini ed è pronto a finanziare (anche con soldi federali) i privati. Ed è proprio sugli immigrati irregolari che nel decennio 2000-2010 i privati hanno individuato in loro un terreno di caccia privilegiato: oggi gli "stranieri" detenuti sono circa 400mila e un quarto sono nelle mani dei privati. Le due più grandi società di "for-profit prison" (il Geo Group e Corrections Corporations of America) insieme hanno incassato nel 2015 la bellezza di 3,3 miliardi di dollari. A questo vanno aggiunte le piccole prigioni a condizione familiare e arriviamo attorno ai 5 miliardi di dollari. Nel budget federale le spese per il cosiddetto "criminal justice system" sono ormai seconde solo a quelle per la sanità. Le proteste nelle carceri americane, negli ultimi anni, si sono fatte sentire. L’ultima è avvenuta a Marzo quando almeno 100 detenuti hanno preso il controllo di una parte del carcere di massima sicurezza in Alabama. Lo sciopero indetto per il prossimo 9 settembre ha anche un forte connotato simbolico: il 9 settembre del 1971 ci fu una sommossa carceraria nel famigerato penitenziario statunitense di Attica per chiedere più diritti e miglioramenti della vita carceraria. Si concluse quattro giorni dopo, sotto i colpi delle armi da fuoco delle forze di polizia che uccisero 29 detenuti e 10 ostaggi e ferirono 89 persone. Ci sono voluti 29 anni affinché lo Stato di New York riconoscesse le proprie responsabilità e rimborsasse i detenuti sopravvissuti del carcere di Attica: otto milioni di dollari per compensare i 1.280 detenuti del braccio "D" attaccati dalla Guardia Nazionale e le loro famiglie. Messico: l’appello del vescovo di Tapachula "basta torture nelle carceri" radiovaticana.va, 28 giugno 2016 "Aumentare la consapevolezza e la preparazione professionale di quanti sono impegnati nelle indagini sui crimini che affliggono la nostra società per non fabbricare più colpevoli, ma arrivare alla verità dei fatti rispettando la dignità della persona umana". È questo l’appello lanciato ieri dal vescovo di Tapachula, Chiapas, Messico, mons. Leopoldo Gonzáles Gonzáles, durante l’omelia della Messa che ha celebrato ieri e in cui ha ricordato la Giornata internazionale di sostegno alle vittime della tortura. La tortura usata come mezzo per infliggere dolore. Come riporta l’agenzia Fides, il presule ha sottolineato che nel suo Paese la tortura non è "solo utilizzata come mezzo per estrarre una confessione o informazioni, ma anche per infliggere dolore, per far soffrire e per punire". Questo accade specialmente nelle carceri di massima sicurezza, in cui i detenuti vengono spesso tenuti in regime d’isolamento: "L’assenza di contatto umano - ha proseguito il vescovo - provoca grande sofferenza mentale e fisica e così si aggiunge dolore alla pena inflitta dalla sentenza". Secondo i dati, infine, nelle carceri messicane non accennano a diminuire i casi di violenza a opera delle autorità e dei responsabili della sicurezza.